Sul Manifesto di oggi

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Buongiorno a tutti, un avviso importante (e non proprio tempestivo): c'è un mio pezzo sul Manifesto in edicola oggi, in una pagina che sembra essere la prima. Se non lo trovate più, la versione on line è qui. Mi sembra che non ci siano errori – a parte il nome, ma alla fine non è così importante come mi chiamo, no? E speriamo che ci sia tempo per correggersi da qui in poi. 

Posso dirlo? Sono emozionato.  

Il pezzo prima o poi lo metterò anche qui sopra, lo sapete che non butto via mai niente. Vi esorto comunque ad abbonarvi a un quotidiano on line che costa poco ed è rimasto in tanti anni un punto di riferimento importante. Per quanto possa averlo criticato tante volte, il Manifesto, alla fine ha dimostrato di avere ragione lui, sopravvivendo meglio di tante altre realtà che sembravano più solide. Come mi sembra di aver detto altre volte, la mia linea d'azione è scrivere in tutti i posti dove mi fanno scrivere (e resistere finché riesco a scrivere quello che voglio io), ma scrivere sul Manifesto mi sembra in questo momento più sensato che altrove – e comunque altrove non mi invitano. Può darsi davvero che io stia diventando più comunista con l'età, anche se alla maggior parte delle persone succede il contrario: non scherzo, più passa il tempo, più il Capitale si accumula e più i soggetti dei miei sogni a occhi aperti sono scioperi di massa, collettivizzazioni forzate, ghigliottine. Ma alla fine credo anche sia l'effetto di quel che succede quando un'intera cultura è sotto assedio da anni: i ranghi si riducono e chi sopravvive si ritrova in prima linea, che se lo meriti o no. Per adesso di sicuro non me lo merito, vediamo come va. 

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La Piagnona del Consiglio

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Va bene, presidente Meloni, le posso dire una cosa? 

Gliela dico comunque.

Non parlo da esperto di diritto, né internazionale né tennistico; non sono affatto sicuro che l'avviso di garanzia fosse un fatto dovuto, come ho letto un po' dappertutto, o se il giudice non avesse margini di discrezionalità – già mentre scrivo margini di discrezionalità mi vien da ridere, non sono neanche sicuro che significhi qualcosa. Perciò quello che le dico prescinde dalla mera questione giuridica, che lascio agli esperti; è più una cosa che ha a vedere con la comunicazione, e so che lei ci tiene molto alla comunicazione. Degna erede, anche in questo, di un movimento politico e sociale che nacque sui giornali e proseguì sui cinegiornali Luce, che credeva tantissimo nella comunicazione, anzi era pura comunicazione: non a caso, mentre in Germania costruivano panzer su panzer, il vostro capo lasciava scritto "LA CINEMATOGRAFIA È L'ARMA PIÙ FORTE", probabilmente perché i soldi per costruire panzer non c'erano, laddove con qualche centinaio di cinematografi e un po' di parate di balilla vi poteva convincere di essere una grande potenza. Ecco, le vorrei parlare di questo, presidente Meloni: del modo in cui lei comunica.

E quindi, insomma.

Presidente, lei è una frignona insopportabile.

Lo so che si potrebbe dire meglio (a proposito di comunicazione). Ma anche peggio di così, quindi si contenti. Lei è insopportabile. È sgradevole. Lei è il vicino di casa che augureremmo al nostro peggiore vicino di casa. Lei è quel tipo di persona che si fa strada nella vita lamentandosi sempre di tutto e di tutti, finché tutti e tutto non la lasciano passare per stanchezza. Lei ha ricevuto un avviso di garanzia perché i cialtroni che lei ha nominato qua e là hanno gestito un affare di Stato in un modo ridicolo, e invece di mordersi le labbra, mantenere compostezza e affettare fiducia nella magistratura, no, lei è già lì a calcolare quanti centimetri quadrati di consenso mediatico riuscirà a rosicchiare recitando l'unica parte che ha imparato a recitare: il piagnina rancoroso. Lei è quel tipo di persona che quando c'erano le file alla posta stava davanti alla fila a litigare con la cassiera per un bollettino postale – come fosse la cassiera responsabile delle multe che prende. Lei è quel tipo di studente che se lo interpelli anche solo per cognome, Ehi Meloni!, quel tipo di studente che ha già pronto il dito da puntare su qualche compagno perché sicuramente qualcuno gli sta dando la colpa di qualcosa, e lui non vede l'ora di scaricarla su qualcun altro, sui Magistrati Rossi della fila dietro che chissà che bigliettini stanno scrivendo, sicuramente è un complotto contro di lei. 


Qualsiasi cosa, quando ci entra lei, diventa un teatrino con lei protagonista, e posso dirlo? Si capisce benissimo che viene da una casta di scrittori e sceneggiatori; si capisce benissimo che se l'industria cinematografica italiana fosse ancora quella di una volta, lei avrebbe avuto una rispettabile carriera di caratterista e noi ci saremmo risparmiati la fastidiosa carriera di una piagnistoide nazionale. Però la politica non è solo una recita, o perlomeno non dovrebbe. Si è fatta beccare mentre liberava un criminale internazionale, non ha avuto i riflessi di coprire la cosa col segreto di Stato, e mò se la prende con magistrati e giornalisti che fanno il loro lavoro, ma lo sa cosa vuol dire fare il proprio lavoro? No che non lo sa, per lei tutto è teatro. Fosse almeno un teatro divertente. 

Berlusconi – eh lo so, si finisce sempre lì – Berlusconi faceva il pagliaccio, a volte esagerava ed era patetico, ma così allentava la tensione. Lei no, lei con le sue querule scenate riesce solo a infastidire e infastidire e infastidire e a un certo punto qualcuno deve avervi spiegato che infastidire il pubblico era un valore in sé, triggerare, fare impazzire, asfaltare, bla bla bla, tanti modi di dire che l'unico modo che avete di farvi notare è farvi detestare. Io la trovo una grave menomazione, questo almeno è il mio limitato parere. È pur vero che non ho mai fondato un partito e non ci ho neanche vinto le elezioni, per cui evidentemente la Storia sta dando ragione ai piagnina come lei.  

Può anche darsi che tra qualche generazione anche lei sarà protagonista di una saga a puntate in cui ogni tanto fora la quarta parete e spiega al pubblico di domani come si fotte il pubblico di oggi: magari ci sarà una puntata in cui ci spiega che la sciocchezza di cui si discute in questi giorni è solo un pretesto per mettere sotto scacco la magistratura e ottenere un po' di più potere che poi le servirà a... a lamentarsi più forte, immagino. Va bene, può darsi che vincerà lei anche sulla lunga distanza. Ma questo per ora non mi impedisce di scrivere ciò che penso, e quello che penso, è che lei è una frignona insopportabile che dovrebbe vergognarsi di tutte le figure che si autoinfligge, vergognarsi lei come ci vergogniamo noi che forse non ci vergogniamo abbastanza, anzi forse da qui in poi punterò la sveglia dieci minuti in anticipo per vergognarmi un po' di più. 

Mi scusi lo sfogo, di certo non all'altezza dei suoi. Sto ancora imparando, nella vita ho fatto altro. Lei forse no. 

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Nessuno è stato stronzo come Dylan (ma Chalamet s'impegna)

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(Premessa che non c'entra quasi nulla con A Complete Unknown e quindi si può allegramente saltare)

Qualche tempo fa, non sapendo cosa guardare ho visto The King, un film del 2019 in cui Chalamet, non sapendo chi interpretare, interpreta Enrico V d'Inghilterra. È un film curioso perché Shakespeare ha fornito il materiale per una saga in tre stagioni, mentre gli sceneggiatori hanno deciso di tenere soltanto qualche suggestione (l'idea che Enrico da principe passasse il tempo nelle bettole con Falstaff), e raccontare un'altra storia, che sostanzialmente è... Dune. E notate che è un film del 2019. Ma c'è quasi tutto: un erede un po' recalcitrante ma che a un certo punto accetta l'idea di essere l'Eletto, onde per cui si fa convincere a guidare un esercito nella battaglia definitiva, senonché verso la fine (spoiler) una donna gli fa venire il sospetto di essere stato manovrato come un pupazzo, e di non essere l'eletto di un bel niente. È un canovaccio che davvero somiglia più a Herbert che a Shakespeare, e non mi pare che fosse molto diffuso prima di Herbert; anzi ho la sensazione che stia diventando popolare adesso,  un altro film che ha un canovaccio simile ad esempio è il Blade Runner di Villeneuve; anche gli ultimi capitoli di Matrix e Joker se ho capito bene giocano sulla demistificazione dell'Eroe, insomma è una storia che fino a qualche anno fa non ci raccontavamo e di colpo ce la stiamo raccontando sempre più spesso. Forse ci dice qualcosa di noi, ma cosa? Che dovremmo smetterla di considerarci gli Eletti; che questa convinzione ci rende infelici oltre che pericolosi a noi e agli altri. Finirla con un certo calvinismo, finirla con un certo messianesimo troppo autoriferito. Se è la storia giusta al momento giusto, forse questo spiega il successo di Timothée Chalamet, un attore bravo e persino versatile, eppure sempre con l'aria di essere lì perché è l'amico di uno importante, una combinazione di ingenuità e arroganza che ti fa sempre istintivamente prendere le distanze. Chissà cosa avrebbe fatto con Dylan, mi sono domandato. E appena ho potuto sono andato a vedere A Complete Unknown.

(Se volete potete cominciare qui).

Forse davvero Bob Dylan contiene più moltitudini di ciascuno di noi. A questo punto Scorsese gli ha già dedicato due documentari, mentre di biopic ne abbiamo avuti altri due: fatevi venire in mente un altro artista vivente ispiratore di tanta produzione audiovisiva. E malgrado questo, ci sembra ancora di essere in superficie: i due film sembra che lo facciano apposta, uno si chiama Non sono qui e l'altro Un completo sconosciuto. Quest'ultimo si limita a inquadrare una brevissima stagione (il quinquennio 1961-1965), ma come ha osservato Alessandro Carrera (che su Dylan è autorità definitiva) lascia fuori talmente tante cose interessanti che potremmo farci un altro film. Sul serio: potremmo lasciar fuori Pete Seeger – tanto nessuno riuscirà mai a interpretarlo come Ed Norton – e metterci Dave Van Ronk, che in A Complete fa da tappezzeria: ma è stato lui a lasciare a Dylan uno spazio sul divano del suo appartamento nel Village, e uno slot di dieci minuti sul palco del Gaslight Café; è stato Van Ronk il primo a farsi fregare un pezzo da Dylan, il suo arrangiamento di The House of the Rising Sun. Potremmo mostrare un Dylan sconosciuto che guarda la Baez in tv cantare Silver Dagger, con i canini che brillano ai riflettori, cercando di restituire quel misto di invidia, di senso del pericolo e di attrazione che deve aver provato. La scena in cui finalmente la incontra di persona ma non se ne accorge perché ci sta provando con la sorellina Mimi, mentre Joan si domanda chi è quel campagnolo e perché puzza così tanto. Potremmo inserire il viaggio a Roma per fare una sorpresa a Suzie Rotolo che forse non lo voleva tra i piedi. Potremmo mostrare tutte le volte che è stata Suzie a dire no, non ci andiamo a vedere il solito film romantico in bianco e nero, invece andiamo a una mostra o a teatro perché è ora che impari due cose sul mondo. Potremmo mostrare un Bob terrorizzato dall'idea di passare due ore su una poltrona a guardare una cosa di Brecht, e poi rimane folgorato da Jenny dei Pirati e decide che questo bisogna fare: canzoni che avvisino il gentile pubblico che sarà giustiziato prima dell'alba. Potremmo mostrare un Dylan molto più sardonico, a patto di trovare un interprete che sappia cantare i talkin' blues che facevano scoppiare a ridere gli avventori del Gaslight: apparentemente Chalamet non ci è riuscito, ma chissà se gli hanno chiesto di provarci. Potremmo soffermarci un attimo su quanto fosse una iena Grossman, il suo agente, col quale poi sarebbe rimasto in causa per vent'anni. Potremmo mostrare Dylan in sala di registrazione che cerca subito di fare qualcosa di elettrico con Mixed Up Confusion, ma deve rinunciarci perché non è capace, non riesce a suonare a tempo, per cui da subito il folk è un ripiego. 

Potremmo togliere una Blowin' in the Wind, che nel film si sente tre volte, e aggiungere una Hattie Carrol. Potremmo mostrare davvero la scena del perfido Zantziger, sudista ubriaco che si mette a bastonare una povera cameriera afroamericana che muore di spavento, e se la cava col minimo della pena: e tutto questo all'indomani della Marcia su Washington, proprio quando Dylan ha deciso che è ora di cantare la rivoluzione sul serio. Potremmo mostrare Dylan coi capelli corti sul Mall di Washington, davanti a centinaia di migliaia di afroamericani che non giocano alla rivoluzione, che stanno davvero rischiando la vita (i razzisti li aspettavano agli incroci, tiravano alle corriere) – Dylan che sceglie con cura le canzoni meno adatte all'occasione, e anche in quel caso la Baez che ci mette una pezza. Potremmo inserire qualche pantera nera, Malcolm X, o anche solo Emmett Till (come in Ali di Michael Mann), perché a quel bambino linciato per un saluto Dylan dedicò delle sue canzoni più barricadere, e poi per qualche motivo si vergognò di avergliela dedicata. Sicuramente non dimenticheremmo quella volta che doveva ritirare un premio a una cena di liberal americani, ma arrivò ubriaco e si mise a raccontare che aveva tanti amici che andavano a Cuba, e che a volte si sentiva un po' l'assassino di Kennedy. E l'incontro coi Beatles, o quella volta che ascoltò The House of the Rising Sun rifatta dagli Animals e saltò sulla sedia: qualcuno aveva rubato la stessa canzone di Van Ronk e aveva cambiato la storia della musica, e non era lui, fuck fuck, fuck. Mostrare qualche seminterrato in cui "mescolavano le medicine" – affrontare con meno censure gli aspetti più sordidi del sottobosco di Manhattan, o almeno qualche canna ogni tanto, per il realismo. Perché questa cosa che fumassero tutti continuamente ma solo roba legale, come dire. 

Potremmo mostrare Phil Ochs, anche solo per allontanare il sospetto di una congiura del silenzio: nessuno parla mai di Phil Ochs (e Love Me I'm a Liberal sembra scritta ieri): potremmo mettere la scena in cui Dylan lo caccia dalla limousine, anche se forse era un semplice taxi. Forse non faremmo in tempo a mostrarlo scambiare frecciatine con Andy Warhol, forse nel 1965 ancora non aveva incrociato né la modella Edie Sedgwick né l'ex coniglietta Sara Lownds (dal 1966 Sara Dylan). Ma insomma il senso è che potremmo raccontare una storia completamente diversa. Potremmo addirittura evitare la battaglia di Newport, che sembra a tutti così fondamentale, ma in sostanza fu un set di venti minuti in cui qualcuno fischiò Dylan, forse perché si aspettava ancora canzoni folk e Dylan era stanco di suonarle: o forse perché il sound system non era adatto e quindi il pubblico sentiva soltanto un gran frastuono. Qualche fan se la prese male, ma non così tanti: e nel frattempo Like a Rolling Stone stava uscendo nei negozi e avrebbe venduto più di tutto quello che aveva pubblicato fino a quel momento, quindi davvero: perché ogni volta bisogna descrivere Newport come una battaglia campale? Cioè, sul serio Mangold ha girato un film su Dylan in cui il nemico numero uno di Dylan è... Alan Lomax? 

Trovatevi qualcuno che vi guardo come Suzie, sul serio.

Alan Lomax era uno studioso e appassionato di musica popolare che odiava le contaminazioni pop. Magari non il personaggio più simpatico della storia di Bob Dylan, anche se siamo tutti Lomax due o tre volte al giorno, quando alla radio sentiamo roba improponibile e malediciamo i gusti correnti e l'inevitabile decadimento di soluzioni che una generazione fa erano ancora arte popolare e adesso sono sottoprodotti industriali. Siamo tutti sempre più Lomax, man mano che invecchiamo; Dylan ad esempio a settant'anni incideva i pezzi di Sinatra, mica quelli di Lady Gaga: e se qualcuno gli facesse il tiro che lui fece a Newport, se invece di presentarsi sul suo palco con la batteria arrivasse con una drum machine, lui lo licenzierebbe senza battere un ciglio. Lomax è il bersaglio più facile del mondo, immagino che il recensore del Giornale lo abbia già definito radical chic e sono abbastanza sicuro che nella sua recensione Dylan abbia trionfato a Newport contro il Politically Correct che prevede che le canzoni dei neri le cantino i neri. Ecco perché deve avere tutto questo rilievo la più che comprensibile incazzatura di Lomax; ecco perché Newport deve essere il tempio da cui Dylan fu cacciato, quando è oggettivo che in quella situazione si comportò da stronzo. Era un festival folk, ma lui aveva un disco elettrico da promuovere e decise di fare casino. Fine. Qualcuno lo fischiò, ma nessuno lo crocefisse. Lui se la prese, e gli rimase una rogna per qualche anno, dopodiché non ne ha più parlato.

Mi dispiace doverlo scrivere, perché il film è ben fatto come sa ben farli Mangold, ma temo che questo Dylan Cacciato dal Tempio sia una pagina di vangelo calvinista: l'unico Dylan che può interessare alla sensibilità del tardo capitalismo. Non un rivoluzionario, non un un artista che cerca di evolversi, ma più concretamente un furbastro del Midwest che si prende gioco di tutti questi liberal newyorkesi, questi hobo-chic che giocano alla rivoluzione; Dylan fa il nido nei loro club, copia tutto quello che può servirgli, ma il suo destino è un altro: lui è un Predestinato al Successo. Tutti i comprimari esistono in relazione a lui, e soltanto finché servono a lui: Woody Guthrie è il profeta da cui ereditare la missione, Pete Seeger il padre da tradire, Lomax il censore da abbattere, Joan la rivale da sconfiggere e "Sylvie" la damigella che lo attende alla finestra, e che lo molla per una banale forma di gelosia – almeno hanno avuto il buon gusto di non chiamarla Suze, dato che non lo è. 

Ma insomma, esiste solo Dylan. Gli amici sono come le chitarre acustiche: utili e maneggevoli, finché non diventano ostacoli. Il prezzo della fama è scoprire negli occhi ammirati degli altri il verde dell'invidia. E basta, a parte il Successo non c'è nient'altro: l'amore è una parola di quattro lettere, le canzoni non fanno le rivoluzioni ma a dimostrare chi è il migliore: a quel punto si poteva davvero far partire i titoli di coda con Positively 4th Street, la canzone in cui Dylan di alta classifica non ha più niente da dire se non: ce l'ho fatta, sono il meglio, e chi non è con me è contro di me. È più o meno quello che ogni rapper deve ripetere oggi un paio di volte ad album; sono il migliore, sono l'Eletto, mangiate la polvere, voi non mi state criticando; mi state solo invidiando. Dylan non si è mai concesso un dissing ma con Positively ci è andato abbastanza vicino. 

Nel mio film (per fortuna non so scriverli), Dylan è un ragazzo in balia degli eventi, che vive in un mondo che può finire da un momento all'altro: nel suo Midwest i contadini costruiscono rifugi antinucleari. Anche la rivoluzione è un'opzione, e per qualche mese del 1963-1964 può veramente aver creduto di esserne l'araldo. Il suo terzo disco, The Times They Are A-Changin', è un monumento di realismo folk; la canzone che gli dà nome è un inno che dà i brividi – li avete sentiti al cinema, ed era la seconda volta, se avete già visto Watchmen. È l'annuncio di un mondo nuovo che farà a meno di tante persone inutili, proprio come Jenny dei Pirati. Dopodiché è successo qualcosa che nessuno ci ha raccontato. Forse, banalmente, Dylan ha avuto paura. Era solo un ragazzo, di mestiere scriveva canzoni e le cantava nei teatri, la rivoluzione avrebbe richiesto un impegno e un'attenzione che non erano alla sua portata. Signore, risparmiami questo calice. Nel giro di pochi giorni Kennedy è morto e negli USA sono arrivati i Beatles: una coincidenza che lo stesso Dylan ha ricordato in una delle sue ultime canzoni inedite, l'incredibile Murder Most Foul. Imbracciando una chitarra elettrica, Dylan ha scelto tra pop e Movimento per i diritti civili. Non se ne è mai pentito. Negli anni successivi, mentre i suoi connazionali scoprivano di essere impegnati direttamente in una sanguinosa guerra in Vietnam, Dylan non ha mai voluto scrivere una canzone sull'argomento. Nel mio film insomma Dylan sarebbe uno dei tanti che per un attimo crede di essere l'Eletto, ma poi cambia idea per un soprassalto di paura o di ragionevolezza. E a recitarlo chiamerei Timothée Chalamet, tra l'altro ho visto che se la cava anche a cantare. E per questi ruoli un po' stronzi è l'uomo giusto.

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Israele i problemi li bombarda

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Io vorrei anche cambiare argomento, ma.


Questa cosa è oggettivamente notevole.

Si potrebbe anche derubricare a goliardata; in fondo capita a tanti di scrivere sciocchezze sui muri virtuali o meno. L'importante è che gli adulti ne prendano le distanze, come immaginavo facesse immediatamente l'Unione delle comunità ebraiche italiane. La quale invece attraverso la presidente Noemi Di Segni ha reagito così: «Credo che un dolore forte faccia scrivere determinate cose, è una risposta alla distorsione che subiamo ogni giorno». Ora. In un certo senso è vero. Non può che essere un bombardamento di informazioni distorte a convincere qualche attivista a strumentalizzare il Giorno della Memoria in questo modo. Con un solo cartello è riuscito a mettersi contro Amnesty, Emergency, Médecins Sans Frontières, la Croce Rossa e l'Anpi, e chiunque conservi un minimo di buon senso e buona educazione: d'altro canto, non c'è dubbio che un dolore forte e una distorsione quotidiana possono condurre a errori monumentali. 

Come tutte le gaffes, questo cartello è molto più rivelatore di quanto vorrebbe essere. Già in parecchi hanno notato la tortuosità del messaggio, che gli esecutori probabilmente ritenevano chiarissimo (è il destino di chi si rinchiude in una bolla mediatica: ma in generale i sionisti italiani hanno sempre avuto una certa difficoltà a farsi capire all'esterno). Se Israele avesse bombardato i treni per Auschwitz... chi ha scritto il messaggio lo ignora, ma una premessa del genere crea subito un corto circuito in chi legge e tenta di raffigurarsi la situazione: perché Israele al tempo non esisteva, mentre oggi sì: ma oggi i treni per Auschwitz partono per portare studenti e turisti al museo della Shoah, un sacco di gente li ha presi e questa idea di Israele che li bombarda è abbastanza inquietante. Israele non vuole che ricordiamo la Shoah? 

Oppure – ma bisogna fare uno sforzo ucronico, che non è alla portata di tutti quelli che passano e leggono distrattamente uno striscione – bisogna immaginare che Israele esistesse almeno nel 1942, e che bombardasse i treni pieni di... prigionieri ebrei. Comunque qualcosa di paradossale, che rivela un'idea molto infantile di come si risolvono le emergenze umanitarie: bombardandole. È purtroppo lo stesso approccio che ha reso Gaza l'incubo tossico che è diventato: un luogo che Israele ha reso invivibile e che adesso non avrebbe le risorse per bonificare. È bastato richiamare un po' di gamer dal mondo libero, metter loro a disposizione bulldozer e granate, e chiamare antisemita chi faceva notare l'assurdità della cosa. Magari avrebbero fatto la stessa cosa anche con Auschwitz, non lo so. Non ci avevo mai pensato fino a ieri, ed ecco che uno stupido striscione giallo mi ha messo in testa l'idea. In fondo cos'hanno fatto gli israeliani se non passare sedici mesi a bombardare le postazioni in cui erano nascosti centinaia di connazionali tenuti in ostaggio. L'idea di Israele che risolve Auschwitz bombardandola è la trasfigurazione leggendaria della Direttiva Annibale, niente di meno. 
 
È pur vero che a volte studiando quella fase molto concitata, si ha la sensazione che i leader del sionismo non abbiano fatto tutto quello che potevano per opporsi al nazismo e alla sua soluzione finale – vedi quell'imbarazzante Accordo dell'Havaara – ma più che intelligenza col nemico, credo che a innervosire i sionisti che ripassano quella pagina tragica sia il senso di impotenza: non tanto il fatto che non abbiano quel che potevano, ma che comunque non sarebbe servito a molto. Senza gli inglesi a far fronte a Rommel in Egitto, anche il Focolaio Ebraico in Palestina oggi sarebbe una curiosità nell'angolo di una pagina di un manuale di Storia. Persino i partigiani della tanto bistrattata Anpi, ai nazisti e fascisti che rastrellavano ebrei in Valpadana hanno dato parecchio filo da torcere. Israele invece non c'era... certo, la Brigata Ebraica, cinquemila effettivi, massimo rispetto, ma l'aviazione israeliana che distrugge i treni nazisti è una fantasia erotico-storica, non molto diversa da quella di Tarantino che riscrive la Storia per uccidere Hitler in un cinema. Noi esseri umani abbiamo inventato tanti trucchi per sentirci meno soli, impotenti e irrilevanti: abbiamo inventato l'arte, la solidarietà, la società, le nazioni, le comunità di nazioni... E certo, abbiamo anche inventato l'aviazione e i bombardamenti. Qualcuno deve avere concluso che bastano queste ultime due cose. È qualcuno che evidentemente arte non me produce, in società non riesce a viverci, e anche le nazioni non sa bene come funzionano. Magari non saranno tutti gamer, ma temo che la loro formazione ideologica parta da lì, più che da qualche libro sfogliato alla svelta. 

E comunque, lasciatemi completare la premessa: se Israele avesse bombardato i treni per Auschwitz... io avrei detto: macchecc... sono pieni di ebrei!, ma perché ce l'avete tanto con gli ebrei? Li bombardate di informazioni distorte per convincerli che il mondo li odia; gli mettete contro tutti gli arabi, che sono un miliardo; li invitate a vivere in una striscia di terra circondata da nemici, li costringete a difendersi da soli e quando non ci riescono e vengono catturati, li bombardate non metaforicamente. Senz'altro Hitler aveva un'idea diversa, è fuori discussione. Ma non provate a convincermi che la vostra sia una buona idea.
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La ragazza che gridava: "Via, giudei"

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(Comunque, davvero non c'è bisogno di spiegare perché non partecipate al Giorno della Memoria. Né di inventarsi pretesti o persecuzioni inesistenti, o di gridare al lupo o all'antisemitismo, che purtroppo ormai è lo stesso grido. Sappiamo perché la memoria vi dà fastidio; sappiamo perché non vorreste ricordare).


Uno dei tanti modi in cui le opere d'arte si rendono utili, è il fatto che restano a nostra disposizione, più o meno immutabili; così che ogni volta che torniamo a dare un'occhiata, possiamo misurare la nostra distanza tra loro e noi. Se ci sembra che la Gioconda sorrida in un modo diverso, siamo noi che abbiamo scoperto un nuovo significato in un sorriso. Detto questo, oggi purtroppo non ho avuto l'occasione di rivedere Schindler's List, un film che tanto so a memoria. Eppure ogni volta c'è sempre qualcosa di nuovo che attira la mia attenzione. Malgrado l'industria culturale si sia data molto da fare dal 1993 in poi sull'argomento, Schindler continua a sembrarmi il top di gamma, per tutta una serie di motivi che magari altre volte troverò il tempo di spiegare – nel frattempo però sarò cambiato, e Schindler mi dirà cose diverse. Per ora annoto un dettaglio che mi sembra importante.

La cosa che più mi impressionò, la prima volta che lo vidi, fu una ragazzina. Non la bambina col cappotto rosso (una delle migliori dimostrazioni del geniale cinismo di Spielberg), ma la ragazza polacca o tedesca che grida "Andate via giudei" agli ebrei di Cracovia che marciano per entrare nel ghetto. In tre ore di film credo sia l'unica manifestazione di antisemitismo a non provenire da militari, gerarchi o industriali. A metà Novanta mi lasciò atterrito: una ragazza che tirava fango agli ebrei, era successo davvero? Ecco.

Probabilmente questa è la principale differenza tra il me stesso di trent'anni fa: quella bambina, oggi, non mi sorprende più. Sono cresciuto, ho assistito a tante guerre: tutte da lontano, per fortuna. Il mondo è molto diverso – per lo più abitato da persone che nel 1993 non erano ancora nate. Per certi versi è un mondo migliore (alcune statistiche perlomeno direbbero questo) ma è un mondo in cui una bambina così non mi sorprende più. Quello che per me era il resoconto cinematografico di un orrore che la mia fantasia non era riuscita a immaginare, oggi è una scena di repertorio a portata di telecomando, di clic. Una volta non lo sapevo, ma c'è gente che odia senza vergognarsene, che odia volentieri, a voce alta: e anche quando non sono bambini, non fa più una grande differenza.

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Non vi si nota anche se non venite (alla Giornata della Memoria)

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Ma io me lo immagino, il povero giornalista (in questo caso Pierluigi Battista), che verso metà gennaio comincia a sfogliare speranzoso i quotidiani. Siccome la consegna è prendersela coi filopalestinesi, quando ci si avvicina al Giorno della Memoria, non resta che trovare qualche filopalestinese che vuole boicottare il Giorno della Memoria, e il pezzo si scrive da solo. Io me lo immagino, mentre ripassa mentalmente tutte le citazioni che gli faranno raggiungere le cinquemila battute. Chi non ha memoria non ha futuro! Meditate che questo è stato! Ecc. Me lo immagino mentre scrolla la testa sconsolato, per questi filopalestinesi che negano il valore della più sacra delle commemorazioni. Senonché.

Senonché passano i giorni, il 27 si avvicina, e il povero Battista questi filopalestinesi boicottanti la memoria non riesce a trovarli. Non fanno che parlare di Palestina, maledetti; non fanno che contemplare le rovine e documentare il disastro, e non ce n'è nessuno disposto a litigare sulla più sacra delle commemorazioni, il che è molto sleale da parte loro; anche perché Battista questo pezzo prima o poi deve consegnarlo. Cosicché.

Cosicché, quando arriva il 23, Battista scioglie gli indugi, siede alla scrivania e scrive un pezzo accorato per informare i tre lettori del Foglio che la Giornata della Memoria la boicotta lui. Perché anche l'antisemitismo a certi livelli è un lavoro, e quando vuoi fare un lavoro serio, devi fartelo da solo.

In questo articolo, tra le altre cose, Battista ci spiega che "Ad Amsterdam, la città di Anna Frank, hanno linciato gli ebrei strada per strada, albergo per albergo, con i taxi guidati da islamisti che coordinavano le aggressioni con le modalità del pogrom". A tutt'oggi la pagina di Wiki sui fatti di Amsterdam registra "5 hospitalized, 20–30 injured": una cifra non molto distante dalla media dei match UEFA. Viene il sospetto che se la partita non fosse caduta proprio nell'anniversario della Notte dei Cristalli – e se non avesse coinvolto tifosi israeliani – i tafferugli avrebbero ottenuto un decimo dell'attenzione internazionale che ottennero. Chiunque altro li paragonasse a un pogrom dovrebbe soltanto vergognarsi di strumentalizzare la tragedia dei pogrom per portare acqua al suo mulino, ma Battista è un editorialista italiano, ha il suo lavoro da fare. Scrive anche che "cacciano gli studenti ebrei dalle Università, da Harvard fino a Torino", una notizia che sinceramente mi era sfuggita (studenti ebrei espulsi dalle università?): a me sembrava di ricordare di una rettrice di Harvard costretta alle dimissioni perché aveva osato affermare che l'antisemitismo del coro "from the river to the sea" dipendeva dal contesto. Il che è discutibile, ma insomma, quando i sionisti dicono di voler unire la Terra Promessa dal Giordano (che è il "fiume") al Mediterraneo (che è un "mare") non saranno mica antisemiti anche loro? Dipenderà dal contesto, o no? Scrive: "Hanno boicottato una nota manifestazione canora perché tra i partecipanti c’era un’ebrea israeliana che cantava con animo straziato le vittime del pogrom di Hamas". Credo sia un riferimento all'Eurovision. Qualcuno ha boicottato l'Eurovision? Al massimo non l'avrà visto in televisione. Battista si è sentito in dovere di vederlo? Si è sentito in dovere di trovare "straziante" la canzone israeliana? Mi spiace tanto per lui, e capisco l'amarezza e persino il disgusto, ma non credo sia un buon motivo per non commemorare il 27 gennaio. 

Battista insomma ha strumentalizzato la ricorrenza del Giorno della Memoria per cucinare un pezzo di bassa propaganda imbottito di fake news: cosa di cui, non fosse un editorialista italiano, si dovrebbe tanto vergognare – e dei suoi gusti musicali. I filopalestinesi no: i filopalestinesi italiani per lo più si stanno comportando, in questi giorni, con una maturità sorprendente (perlomeno sorprende me), resistendo alle tentazioni di strumentalizzare la commemorazione ed evitando sciocchi paragoni tra la Shoah e la catastrofe di Gaza, di cui stiamo soltanto cominciando a misurare l'entità. Siccome questi paragoni erano, fino all'anno scorso, una trita consuetudine, mi viene da pensare che almeno qualcuno sta crescendo e sta capendo come evitare certi tranelli; oppure le immagini che ci arrivano da Gaza sono così terribili che non c'è più bisogno di paragoni storici per commentarli: la cronaca è decisamente più dettagliata della Storia, perlomeno finché qualche giornalista in zona sopravvive. 

Tutto questo dev'essere molto snervante per alcuni sionisti italiani, che per giustificare il loro boicottaggio del Giorno della Memoria non hanno trovato di meglio che lamentarsi perché sui social qualcuno insulta la Segre. Il che è senz'altro increscioso – la Segre merita rispetto in quanto reduce e testimone, al di là delle opinioni più o meno informate che esprime su altri argomenti – ma è veramente un po' poco: anche perché come ad Amsterdam, manca una riflessione quantitativa; quanta gente perde davvero tempo a scrivere brutte cose alla Segre su Facebook? Cento, duecento, mille, un milione? Farebbe una certa differenza. 

Dopodiché, amen. Mi dispiace se qualche ebreo italiano non partecipa alla commemorazione del 27 gennaio, ma spero capisca che il 27 gennaio è di tutti, o meglio: interpella tutti. E non solo in quanto potenziali vittime, ma soprattutto come potenziali carnefici o complici di carnefici. Statevene pure a casa se avete paura del confronto con chi ha opinioni diverse; ma spero che non vi siate davvero convinti che a voi non possa mai succedere questa cosa, di assistere a una carneficina senza muovere un dito, o addirittura di collaborare coi carnefici. Perché vi garantisco che può capitare a tutti; e in particolare a chi meno se l'aspetta. Meditate.

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Dio è con noi (in mancanza di meglio)

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Quello di Musk potrebbe essere un gesto infelice che gli è sfuggito in una situazione di stress (o fattanza), ma anche la solita manifestazione di nazismo ironico. Sul nazismo ironico mi ritengo un'autorità perché insegno nella scuola media, dove la gente incide le svastiche sui banchi molto prima di associarle al nazismo; e le incide principalmente per dare fastidio a chi gli dice che è una cosa sbagliata; tutto qua, poi crescendo magari diventano anche razzisti e antisemiti, ma in principio c'è questa necessità di fare incazzare l'autorità, che non cessa nemmeno quando l'autorità diventano loro – anche in questo noi italiani siamo all'avanguardia, no? Con tutti i motivi che c'erano per intitolare un aeroporto a Silvio Berlusconi (è brutto, è lontano, è costato un fottio di soldi al contribuente, ha ingrassato tanta cricca disonesta) a un certo punto pareva che il motivo più importante fosse far arrabbiare la sinistra, ok, immagino che per alcuni sia meglio del sesso. Dopodiché Musk è inquietante per tantissimi altri motivi, e uno di questi motivi è che questa deriva, fino a qualche anno fa, era abbastanza inimmaginabile. Questo trumpismo di Musk (e di Zuckerberg, e di Bezos) ha tutta l'aria di un piano B, o comunque di una situazione in cui questi tycoon digitali si sono infilati perché evidentemente altre opzioni si erano esaurite. Altrimenti lo avrebbero fatto otto anni fa, e in teoria loro sono quelli rapidi e sul pezzo.

Otto anni fa può darsi che il piano A di Musk fosse davvero andare su Marte; dopodiché magari la realtà ha presentato il conto. Così come fino a qualche anno fa Zuckerberg era convinto che ci avrebbe portati tutti nella realtà virtuale: un altro pianeta che alla fine non si è rivelato accessibile. In ogni caso fino a qualche tempo fa questi erano progetti più interessanti che prendere il potere a Washington. Oggi no. Oggi sia Zuck sia Musk forse stanno picchiando la testa contro limiti strutturali: ad esempio la Tesla più di tanto non è competitiva e non lo sarà ancora per un pezzo, il che può portare anche il più turboliberista a lobbizzare Washington e a chiedere un po' di sano protezionismo contro l'elettronica cinese. Nel frattempo Musk si è ritrovato proprietario di Twitter, e non sapremo mai se è stato un capriccio, un tranello o la fase di un diabolico piano; ma a quel punto ha dovuto accettare anche lui la grande verità scomoda che con Twitter non si faranno mai i soldi – e in generale nessun social network è mai riuscito a trovare un modello di business che non conduca a un rapido immerdamento


Se volete è lo stesso equivoco per cui in Italia qualcuno fino a qualche anno fa era convinto che i giornali potessero stare sul mercato da soli, quando la realtà quotidiana ci dice che la maggior parte ricicla denaro del contribuente per amplificare le opinioni politiche del committente. Musk si è ritrovato subito nella stessa situazione: l'unico modo per cavare qualche utile da Twitter era darsi alla politica. Soldi con X non ne avrebbe mai fatti, laddove un po' di influenza politica sugli elettori poteva ricavarla, e quindi se anche il suo obiettivo iniziale non era diventare un demagogo, Musk lo è diventato. Ha comprato un social, era una sòla, l'unico modo per valorizzarla era trasformarla nella centrale della disinformazione occidentale, Musk è diventato il capo della disinformazione occidentale e ora si ritrova nella Sala Ovale della Casa Bianca a spiegare come si governa a gente che ne sa persino meno di lui. C'è di che emozionarsi e alzare braccia a caso.

Alla fine il capitalismo non è che possa fingersi diverso da quello che è: anche chi accumula con le migliori intenzioni si ritrova molto presto incastrato in meccanismi padronali, e non è neanche detto che Musk fosse partito con le migliori intenzioni. Siccome Marte non è terraformabile, le auto elettriche non salveranno il mondo, il metaverso non funziona e anche le AI cominciano a sembrare una bolla, non resta che darsi alla politica, che in effetti era un po' la Cenerentola, uno spazio che interessava sempre meno gente, popolato da personaggi facilmente rilevabili da chi in questi anni ha fatto i soldi veri. Musk li ha fatti, magari più con le crypto che lanciando razzi, vendendo automobili e inserzioni su X. Ma alla fine quando hai tanta liquidità, hai un problema di liquidità. Trump non è mai sembrato l'investimento più sicuro, ma a un certo punto non devono esserci più state molte alternative a comprarselo, e quindi Washington e il mondo – sempre in mancanza di meglio.    

Insomma, e sintetizzando: è come se Musk si fosse messo a giocare a Risiko perché si è accorto che Monopoli è un gioco di merda.

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Sotto scroscianti applausi

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Nel giorno dell'incoronazione, spendo un pensiero per la persona che più di tutte ha incarnato la sconfitta: l'ex vicepresidente Kamala Harris. Le sue responsabilità in questo disastro (che forse annuncia la fine della democrazia in Occidente) sono tante e tali che è difficile metterle in ordine dalla più grave. Come membro più prestigioso dello staff di Biden, Kamala Harris avrebbe potuto sollecitarlo molto prima a rinunciare a una candidatura insostenibile alla sua età e nella sua condizione; e non l'ha fatto. Il che ha privato i Democratici della possibilità di indire delle Primarie che forse avrebbero portato aria nuova, e messo sotto i riflettori almeno un candidato più interessante di Biden o di lei. Dopodiché Biden si è squagliato al primo confronto televisivo con Trump, così che la Harris si è trovata, senza un'investitura popolare, a interpretare il ruolo di contendente al titolo presidenziale; col senno del poi possiamo anche supporre che si sia sobbarcata di un ruolo di perdente cui nessun altro notabile democratico aspirava. Non è neanche escluso avesse qualche possibilità di vincere; nel caso, le ha bruciate. Come aveva annunciato già prima delle elezioni, in qualità di Vicepresidente avrebbe ratificato la sua sconfitta e la vittoria di Trump; cosa che ha fatto qualche settimana fa, e ad alcuni è sembrata una vittoria della democrazia. Non a me. 

Per me la democrazia finisce con Kamala Harris, che più di altre figure si è prestata a interpretare il ruolo di chi cede il potere perché avrebbe troppa paura di usarlo. Lo cede a un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, il che è vergognoso; ma d'altra parte se non lo cedesse dovrebbe richiedere l'uso della forza contro un conclamato golpista già condannato per aver falsificato documenti, e non ne ha evidentemente il coraggio. Una democrazia seria, e preoccupata della sua sopravvivenza, avrebbe identificato in Trump una minaccia almeno dal 6 gennaio 2020; e invece per tutto questo tempo la minaccia è stata lasciata in pace, forse nell'illusione che qualche processo penale avrebbe potuto alienargli la base e i finanziatori: uno dei tanti calcoli sballati dello staff di Biden. Quindi la democrazia finisce così? Perché non ha avuto il coraggio di difendersi?

Noi italiani conosciamo il dilemma meglio di altri. Anni fa, Alberto Asor Rosa fu pubblicamente deriso per aver obiettato a quei politici, veramente poco avveduti, che continuavano a ripetere di voler e poter sconfiggere Berlusconi nelle urne (con che risorse? con che giornali? con che televisioni?): poiché lo stesso Berlusconi aveva già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di truccare la competizione elettorale, disponendo dei media ben oltre i termini di legge (che modificava a suo piacimento nei periodi in cui era al governo), poiché era evidente quanto il suo conflitto d'interessi fosse una minaccia alla democrazia, Berlusconi andava arrestato dalla forza pubblica, che anche a questo dovrebbe servire. Asor Rosa era molto ingenuo, ma secondo me aveva ragione, e Trump andrebbe arrestato. Qualcuno da fuori potrebbe considerarlo un colpo di Stato, ebbene esistono situazioni di emergenza in cui lo Stato deve difendersi da minacce concrete. Qualcuno all'interno potrebbe insorgere: è il rischio da correre. Se Trump deve trionfare, che almeno questo succeda perché i suoi sostenitori sono disposti a morire per lui. Se la democrazia deve cedere il passo, che almeno faccia resistenza. Armata. Quella che Kamala Harris non consentirebbe mai: suppongo che tra Trump e una guerra civile, lei veda in Trump il male minore. Neanche esattamente un male. Il suo partito continuerà a interpretare il ruolo dell'opposizione parlamentare, istituzionale, pacata, inutile; e a emarginare il dissenso a sinistra. Inoltre l'amministrazione Biden si era infilata in due gineprai così complicati – l'Ucraina e Gaza – che dev'essere un sollievo per i Democratici lasciare ai trumpiani la responsabilità di uscirne. 


In questi giorni sembra obbligatorio lasciare un'opinione sulla fiction di Joe Wright, M il figlio del secolo. A me il Mussolini grottesco di Marinelli tutto sommato sembra che funzioni. L'aspetto più discutibile, fino alla quarta puntata, mi sembra l'assenza degli industriali. In due ore si sono visti in scena per cinque secondi, in un siparietto brechtiano in cui coprono Mussolini e Cesare Rossi di banconote in cambio del loro sostegno contro i socialisti che insistevano a vincere le elezioni. Non sarò io a prendermela se per una volta gli autori televisivi si cimentano coi siparietti brechtiani, anzi ne vorrei più spesso: ma Mussolini era in buoni rapporti con Fiat e Ansaldo già da quando nel 1914 aveva cambiato idea sulla Grande Guerra, trascinando tanti socialisti come lui nella follia suicida dell'interventismo. Capisco che gli autori abbiano preferito scorciare, semplificare (la fiction comincia nel 1919), ma anche durante la marcia su Roma sembra che Mussolini sia un uomo solo tra gli esagitati in camicia nera e le istituzioni, un equilibrista che riesce a bleffare e ingannare un re che avrebbe potuto schiacciarlo con un tratto di penna. Sarà andata davvero così? Il re ne aveva paura, o preferiva davvero il buffone ai socialisti? E gli industriali, nel frattempo, non avevano dato qualche segnale? 

Forse qua sopra ho commesso un errore simile, attribuendo ai Democratici di Kamala Harris lo stesso ruolo tremebondo di re Vittorio, che avrebbe ceduto la nazione non perché tutto sommato gli conveniva, ma per paura. Come se non ci fossero interessi ben più potenti delle nostre paure. I democratici si sono arresi perché il Capitale aveva scelto Trump, e contro il Capitale non avevano nessuna intenzione di combattere. Vincere contro Trump avrebbe significato interpretare le necessità di gruppi sociali che vogliono un welfare state come ce l'hanno gli stati normali; che non capiscono la necessità apocalittica di sostenere Israele in un'operazione di pulizia etnica; che sanno di non poter vivere ancora di idrocarburi per un'altra generazione. Non ho idea di quanto queste istanze siano diffuse nel popolo americano (che per lo più non vota); ma di sicuro non erano istanze che i Democratici potevano difendere. Il loro programma era un blando capitalismo dal volto umano, ma per l'umanità c'è sempre meno mercato. La democrazia è una società aperta: si dovrebbe difendere mantenendo il pluralismo, combattendo chi sparge paure e ci specula sopra. Non è mai stato chiarito se sia compatibile col capitalismo: forse no, non a lungo perlomeno. In Italia è stata sconfitta vent'anni fa da Berlusconi; negli Usa forse oggi. 

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Ponziano l'antisismico

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19 gennaio – San Ponziano di Spoleto, protettore dei terremotati e martire (II secolo)


Metti che esistano davvero, i santi intendo. Tutti su radunati su una specie di piano astrale, o in tanti uffici come nel racconto di Buzzati, pronti a recepire le richieste di chi li invoca e a inviarle al piano superiore. In una situazione del genere, Ponziano di Spoleto dovrebbe aver passato secoli molto tranquilli, conosciuto com'era soltanto ai suoi concittadini e neanche tutti, al punto che lui stesso potrebbe essersi posto il problema: ma sarò esistito davvero? Perché di me sussistono notizie veramente molto vaghe. Dovrei essere il rampollo di una famiglia della Spoletium romana, ai tempi di Marco Aurelio. Quando un giudice mi arresta con l'accusa di cristianesimo, io avrei risposto sprezzante "mi chiamo Ponziano, ma puoi chiamarmi Cristiano". Vengo perciò condannato a essere divorato dalle bestie nell'anfiteatro locale, ma i leoni si limitano a leccarmi i piedi. Mi fanno camminare sulle braci, e non mi scotto; mi rinchiudono in una torre senza cibo, ma gli angeli mi portano pane e acqua; per cui quando mi portano sul ponte poi detto "Sanguinario" per tagliarmi la testa, chissà che sorpresa anche per me quando la testa mi è caduta davvero. Anche se invece di cadere nel fiume Tessino, la mia testa sarebbe rimbalzata fin sul colle Ciciano, dove avrebbe fatto sgorgare una fonte miracolosa e dove sarebbero poi sorti una chiesa romanica e un monastero a mio nome. Non fosse che ecco, tutte queste storie somigliano parecchio a tante altre leggende di santi medievali, specie in ambito umbro, dove a un certo punto un monaco deve averne scritte parecchie in serie, per giustificare tutta una serie di santuari di cui non si sapeva più molto. Tra cui il mio – e se fossi uno di quei santi inventati? Probabilmente no, perché quel tipo di santi di solito li inventano i vescovi della città per attirare i fedeli in una chiesa importante, e invece il mio santuario è già in collina. C'è chi dice che potrei essere lo stesso San Ponziano papa, ma perché mai gli spoletini mi festeggerebbero in gennaio, se la sua festa è in agosto? 

Forse sarebbe ancora immerso in dubbi del genere, San Ponziano, se nel gennaio 1703 l'Italia centrale non fosse stata sconvolta da uno degli sciami sismici più estesi e micidiali a memoria d'uomo. La prima scossa importante avviene il 14 gennaio, con epicentro a venti chilometri dall'Aquila. Per il capoluogo abruzzese è l'inizio di un vero bombardamento che culminerà con la scossa del giorno di Candalora (il due di febbraio), quando anche a Roma caddero due arcate del Colosseo; le scosse di assestamento proseguiranno per tutto febbraio, ma dell'Aquila ormai non resisteva pietra su pietra. Lo sciame aveva colpito anche a est dei monti Sibillini, causando più di un migliaio di morti tra Norcia e Cascia: invece Spoleto era stata risparmiata, e dando un'occhiata a una cartina moderna non è difficile capire il perché: la faglia passa da un'altra parte. Ma i folignati comunque per un mese continuano a sentire scosse molto forti e a udire notizie di città distrutte a poche miglia di distanza. Proprio in quell'occasione in città comincia a circolare una profezia che avrebbe pronunciato Ponziano, non si sa bene quando ("Spoleto tremerà ma non crollerà"), e alla sua leggenda viene aggiunta una scossa di terremoto che avrebbe salutato la decapitazione del santo. Che non è la storia più assurda che ci si possa inventare per confortarsi durante uno sciame sismico, ve lo posso testimoniare. Ponziano viene quindi acclamato santo protettore dai terremoti, e come tale non deve più avere avuto molto tempo libero lassù. Gli spoletini continuano a festeggiarlo il 14 gennaio, e per l'occasione evitano di tagliare il pane col coltello.

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Non capiva una cosa

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Aveva notato che sempre più spesso, negli ultimi tempi, colleghe e superiori tendevano a interromperlo con l'espressione "Tu non hai capito una cosa".

La novità non era che lo interrompessero, anzi era una costante della sua vita professionale. Ma questa espressione gli sembrava relativamente nuova. Forse non ci aveva fatto caso. Forse l'avevano sempre usata, con lui, ma solo negli ultimi tempi se ne era reso conto: e se ne era reso conto perché gli dava fastidio. Quindi forse fino a un certo punto non gliene aveva dato, dopodiché sì.

"Senti, tu non capisci una cosa".

Il fastidio non era tanto causato dall'accusa implicita – di non essere svelto a capire, o non abbastanza sottile per capire "una cosa". E anche il fatto che la "cosa" che veniva accusato di non capire si rivelasse invariabilmente una "cosa" di cui era consapevole, a volte persino esperto. Il fastidio muoveva, come sempre nella sua vita, dalla reiterazione. Era come se tutte si fossero messe d'accordo per dire la stessa cosa, ovvero che lui non aveva capito una cosa. Come se si fossero accorte che il refrain lo innervosiva. Magari era il tormentone di qualche nuovo comico su qualche nuova piattaforma, va' a sapere. Magari era lui almeno una volta ad aver reagito in un modo comico, e le interlocutrici avevano registrato, anche solo inconsciamente, che se volevano gustarsi una reazione divertente dovevano ripetere la formula. In ogni caso era molto fastidioso e non c'era un vero modo per farle smettere. Se avesse iniziato a farlo notare, avrebbe rimarcato ancor di più che l'espressione lo innervosiva; e inoltre, come avrebbe potuto obiettare a un'accusa tanto vaga? Forse che sapeva tutte le cose? Certamente no; e quindi prima o poi chi lo accusava di "non aver capito una cosa" avrebbe avuto ragione.

Sto usando il genere femminile perché, in effetti, tutte quelle che lo rimproveravano di "non capire una cosa" erano donne. Il dato non aveva rilevanza statistica, dal momento che la maggior parte delle sue colleghe (e delle sue superiori) erano donne. Ciò non gli aveva mai dato fastidio, anzi, forse era lui stesso ad aver cercato sempre di trovarsi in ambiti del genere, sin dai tempi della scuola: contesti dove le donne non solo fossero la maggioranza, ma anche le responsabili e le organizzatrici. In ogni caso a volte si domandava come sarebbe andata a sessi inversi: non si sarebbe trattato di mansplaining? 

E se lo fosse stato, avrebbe avuto una ragione in più per innervosirsi (pensano che non capisca perché non ho il pene), o una ragione in meno (non ce l'hanno davvero con me come individuo, ma solo come categoria)? In altre parole: a cosa serviva davvero un'etichetta, come ad esempio mansplaining? A difenderti dal fastidio, a farti sentire meno sola ("tranquilla sorella, non ce l'hanno con te in quanto individuo, è solo un complotto delle persone col pene") o esacerbare lo stesso fastidio? Un nero, quando si rende conto che ce l'hanno con lui perché è nero, si consola o si incazza ancora di più? Bisognerebbe chiederlo ai neri, i quali tuttavia potrebbero incazzarsi per la domanda, e quindi non lo sapremo mai. Molto probabilmente dipenderà da caso a caso. Ci sarà la donna stupida che quando le dimostrano che è stupida (fornendo riscontri oggettivi) non ci crede perché lo scambia per mansplaining. E ci sarà la donna insicura che scambia il mansplaining per una critica oggettiva. La maggior parte delle donne oscillerà tra questi due poli ponendosi per tutta la vita il problema che lui si stava ponendo soltanto in quel momento, perché tanto alla fine lui non era una donna, e anche se avesse trovato una risposta definitiva, non gli sarebbe servita un granché. Lui aveva un altro problema. Non sopportava che le colleghe gli dicessero che "non capiva una cosa".

E se glielo avesse detto un uomo? 

Non gli sembrava che fosse mai successo; aveva la sensazione che un uomo non avrebbe osato dirglielo in faccia. Non sul luogo di lavoro, dove effettivamente gli uomini erano pochi e abituati a sviluppare una solidarietà cameratesca. Si dicevano ovviamente le peggio cose: essendo uomini non avevano difficoltà a salutarsi con un "non hai mai capito un cazzo" il cui tono scherzoso era chiaro sin dall'inizio, perché "non aver mai capito un cazzo" è un'adynaton, una cosa letteralmente impossibile. Invece "non aver capito una cosa" è possibilissimo, anzi inevitabile: nessuno capisce tutte le cose. Non c'è modo di dire "non hai capito una cosa" in senso scherzoso, è una frase repellente all'ironia: chi lo dice deve crederci veramente. Un uomo che ti dice "non hai capito una cosa", ti sta sfidando: e un uomo che ti sfida sul luogo di lavoro, di solito sceglie altri luoghi di lavoro. Perlomeno lui la pensava così. Ma forse non aveva capito. 

Ma insomma si trovava in una situazione senza apparente via d'uscita. Ogni tanto, quando finalmente toccava a lui parlare, e dire qualcosa di lungamente ponderato, di necessario, qualcuna lo avrebbe interrotto sostenendo di "non capire una cosa"; dopodiché lui avrebbe reagito con autoironica sopportazione: "eh, sapessi quante cose non capisco", soffocando un disagio crescente, che prima o poi non avrebbe saputo nascondere alle interlocutrici. Le quali da lì in poi sarebbero accorse ancora più numerose, come squali attirati da un filo di sangue, a rimarcare che lui "non aveva capito una cosa".

Ma cosa?

Ogni tanto ci rifletteva. Doveva trattarsi di un dettaglio apparentemente trascurabile, perché in effetti lui lo trascurava, e mai aveva capito quale fosse realmente "la cosa". Avendo ormai acquisito, con l'età, una certa ripugnanza per le polemiche sul luogo di lavoro, in tutte le discussioni cercava di intervenire soltanto quando lo riteneva necessario, e soltanto per esprimere opinioni costruttive o che perlomeno sbloccassero una situazione. Tanto più lo innervosiva l'idea che a questo insieme di opinioni mancasse un dettaglio, un quid, che doveva essere evidente a tutte tranne a lui, come la punta del proprio naso. Cosa gli mancava? Cosa impediva alle colleghe di tacere per più di dieci secondi, quando lui prendeva la parola? Finché un giorno realizzò, e fu un'illuminazione:

Questa cosa, che non sapeva cosa fosse, era comunque una cosa. 

Quindi era vero.

Non capiva una cosa.

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