Gengis Khar: il fotolibro
25/10/2012Il manifesto ufficiale della terza edizione della Silk Road race, il rally sulla via della seta da Milano a Dushanbe, nel Tajikistan.
L'avventura è conclusa, ma restano i ricordi. E resta anche questo libro fotografico che potete scaricare liberamente a questo link
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Cronache dalla Via della Seta: finalmente Dushanbe
27/08/2012Ecco il nostro ultimo articolo per il sito di viaggi NoBorders Magazine che ci ha supportato per tutto il viaggio. Lo potete leggere a questo link.
L'importante è partire (se ci si riesce)
21/08/2012I guai non finiscono mai. L'intenzione era quella di chiudere i nostri post giornalieri con quello del nostro arrivo a Dushanbe. Cosa poteva mai capitarci sulla via del ritorno se non qualche noiosa ora di attesa nei vari aeroporti? Ed invece... mai dire mai.
E dire che tutto era pronto e sistemato da tempo. Biglietti acquistati, orari controllati, visti... vistati. La mattina lasciamo quella sottospecie di topaia dove alloggiavamo a Dushanbe e che ogni notte ci regalava qualche imprevisto sul genere di allagamenti, cessi che tracimavano, letti che si sfondavano sotto il nostro peso, cortocircuiti fiammeggianti, e simili meraviglie.
Siamo abbondantemente in orario e l'aeroporto non è distante. Ci arriviamo con buon anticipo. La struttura è di uno sgarruppato da dare i brividi (e non avevamo ancora visto gli aerei). Prima che l'edificio ci crolli in testa andiamo al check. E qui arriva la prima sorpresa. Un impiegato guarda i nostri biglietti e poi i nostri passaporti. Poi ancora i biglietti e i passaporti. Quindi chiama un superiore. La procedura si ripete per altre tre o quattro volte. Passaporti, biglietti, passaporti e poi un altro superiore. Intanto i tempi cominciano a farsi stretti. Possiamo imbarcare le valigie o no? Ci dirottano su uno sportello riservato. Ancora passaporti, biglietti e passaporti. Fino a che un funzionario che parla inglese come uno che ha seguito solo le prime due lezioni del corso ci dice "Nyet!". Voi rimanete qua. La discussione va avanti un'ora tra noi che protestiamo in tutte le lingue conosciute e loro che ci rispondono nell'unica che conoscono. Alla fine par di capire che non abbiamo il visto per la Russia. Eppure sia l'agenzia dove abbiamo acquistato i biglietti che l'ambasciata russa in Italia ci avevano assicurato che non serviva poiché siamo passeggeri in transito per Vienna. Loro rispondono che questo è vero per uno scalo. Ma nel nostro piano voli, gli scali in Russia sono due. Di conseguenza dovremmo fare un volo interno e in questo caso il visto è indispensabile. Per farla breve, non c'è verso di farci salire in aereo. Ma il problema non è solo questo. Domani ci scade il permesso di soggiorno in Tajikistan. Oggi è festa per la fine del Ramadan. Nessun ufficio è aperto per un rinnovo d'urgenza. Rischiamo di finire in un'altra caserma così come ci è successo in Kazakistan. Nessuno di noi ci tiene a ripetere quella brutta esperienza. E nel Paese non c'è neppure l'ambasciata italiana.
Intanto il nostri aereo è partito. Senza di noi. E sono già le due del pomeriggio. Mentre alcuni di noi rimangono a presidiare i bagagli all'aeroporto, gli altri tornano a Dushanbe per cercare un'agenzia di viaggi. Proprio vicino allo scalo ne troviamo una ancora aperta. Ci dicono che c'è un aereo che parte alle sette, fa tappa a Mosca (un solo scalo, quindi il visto non serve) e poi vola a Vienna da dove possiamo prendere un aereo per Milano.
Non abbiamo alternative. Entro mezzanotte dobbiamo uscire dal Tajikistan. Il problema a questo punto è come pagare. I biglietti costano 720 euro l'uno. In cassa comune abbiamo solo pochi somoni (la valuta locale) qualche dollaro e pochi biglietti da 50 euro. Siamo a fine viaggio e abbiamo raschiato il fondo del barile. Proponiamo le carte di credito. Niente da fare. In Tajikistan non si usano. Bancomat? Neppure. Assegni? Manco a parlarne. Bonifico tramite home banking? E che roba e? Per fortuna, un impiegato dell'agenzia si offre di scarrozzarci per tutta Dushanbe in cerca di quei pochi sportelli bancomat presenti. Un paio di noi si fa consegnare dagli amici tutte le carte con le relative pass, e parte all'avventura. Ma è proprio un'avventura. Gli sportelli sono pochi e pochi di questi funzionano. Comunicano in lingua locale ed inoltre non si possono prelevare che 800 somoni (più o meno 135 euro) alla volta. Facciamo quel che riusciamo sino al raggiungimento del tetto massimo delle carte accettate dagli sportelli. Come se non bastasse, questi erogano solo banconote di piccola taglia. Alla fine siamo tanto imbottiti di denaro in tutte le tasche che sembriamo degli zio Paperone. Ma non basta ancora. E tra un paio di ore parte l'ultimo aereo. L'ultima risorsa sono gli amici del Cesvi. Andiamo a casa loro. A Dushanbe non esistono i campanelli e ci tocca urlare davanti al loro portone. I vicini ci scambiano per dei pazzi ma riusciamo a farli uscire. Quando spieghiamo la nostra situazione, non esitano un momento ad aprirci la cassaforte dell'associazione per consegnarci i 5000 somoni che ancora ci mancavano. Da casa, salderemo il debito con un bonifico. Corriamo all'aeroporto giusto in tempo per il check in. Siamo felici. Pensiamo che il peggio sia alle spalle. Ma non abbiamo ancora visto l'aereo. Che baracca! E' un residuato dell'Aero Flot targato ancora Cccp! Ecco perché dall'Italia non potevano acquistare il biglietto! (Avevamo tentato inutilmente anche questa strada) La compagnia non è riconosciuta dall'Europa perché è - e di tanto! - al di fuori degli standard minimi di sicurezza.
Saliamo nella carlinga che cigola sotto i nostri passi attenti a non rompere niente. Il comandante è sorpreso nel vedere un gruppo di occidentali salire a bordo e ci sorride come per dire "Oggi non ne fanno più di aerei così, eh?"
La mia cintura di sicurezza non scatta e una hostess cazzuta mi ordina di annodarla. Sulle pareti ci sono quadri attaccati col chiodo che raffigurano tranquille scene campestri. Non c'è l'aria condizionata e si suda come in una sauna. Sempre l'hostess cazzuta mi spiega a gesti che l'impianto dovrebbe funzionare quando saliremo in quota. Si spera. E comunque se ci arriveremo, in quota.
Intanto la baracca si mette in moto piano piano. Il motore tossicchia e sputa fatica. Il decollo è di una lentezza esasperante. L'aereo dà l'impressione di voler arrivare sino a Mosca volando alla quota di 150 metri. Per fortuna le montagne sono lontane. Poi riesce ad alzare il muso. La baracca ce l'ha fatta anche stavolta.
Alla fine del viaggio, ce la caviamo con un danno tutto sommato minimo. La compagnia si è persa il mio bagaglio. Uno su cinque. Poteva andare peggio. Una assistente di terra mi assicura che "al 99,99%" mi sarà consegnato tutto a casa, a Venezia. Faccio finta di crederle. Intanto sono arrivato tutto intero e mi va bene così!
E dire che tutto era pronto e sistemato da tempo. Biglietti acquistati, orari controllati, visti... vistati. La mattina lasciamo quella sottospecie di topaia dove alloggiavamo a Dushanbe e che ogni notte ci regalava qualche imprevisto sul genere di allagamenti, cessi che tracimavano, letti che si sfondavano sotto il nostro peso, cortocircuiti fiammeggianti, e simili meraviglie.
Siamo abbondantemente in orario e l'aeroporto non è distante. Ci arriviamo con buon anticipo. La struttura è di uno sgarruppato da dare i brividi (e non avevamo ancora visto gli aerei). Prima che l'edificio ci crolli in testa andiamo al check. E qui arriva la prima sorpresa. Un impiegato guarda i nostri biglietti e poi i nostri passaporti. Poi ancora i biglietti e i passaporti. Quindi chiama un superiore. La procedura si ripete per altre tre o quattro volte. Passaporti, biglietti, passaporti e poi un altro superiore. Intanto i tempi cominciano a farsi stretti. Possiamo imbarcare le valigie o no? Ci dirottano su uno sportello riservato. Ancora passaporti, biglietti e passaporti. Fino a che un funzionario che parla inglese come uno che ha seguito solo le prime due lezioni del corso ci dice "Nyet!". Voi rimanete qua. La discussione va avanti un'ora tra noi che protestiamo in tutte le lingue conosciute e loro che ci rispondono nell'unica che conoscono. Alla fine par di capire che non abbiamo il visto per la Russia. Eppure sia l'agenzia dove abbiamo acquistato i biglietti che l'ambasciata russa in Italia ci avevano assicurato che non serviva poiché siamo passeggeri in transito per Vienna. Loro rispondono che questo è vero per uno scalo. Ma nel nostro piano voli, gli scali in Russia sono due. Di conseguenza dovremmo fare un volo interno e in questo caso il visto è indispensabile. Per farla breve, non c'è verso di farci salire in aereo. Ma il problema non è solo questo. Domani ci scade il permesso di soggiorno in Tajikistan. Oggi è festa per la fine del Ramadan. Nessun ufficio è aperto per un rinnovo d'urgenza. Rischiamo di finire in un'altra caserma così come ci è successo in Kazakistan. Nessuno di noi ci tiene a ripetere quella brutta esperienza. E nel Paese non c'è neppure l'ambasciata italiana.
Intanto il nostri aereo è partito. Senza di noi. E sono già le due del pomeriggio. Mentre alcuni di noi rimangono a presidiare i bagagli all'aeroporto, gli altri tornano a Dushanbe per cercare un'agenzia di viaggi. Proprio vicino allo scalo ne troviamo una ancora aperta. Ci dicono che c'è un aereo che parte alle sette, fa tappa a Mosca (un solo scalo, quindi il visto non serve) e poi vola a Vienna da dove possiamo prendere un aereo per Milano.
Non abbiamo alternative. Entro mezzanotte dobbiamo uscire dal Tajikistan. Il problema a questo punto è come pagare. I biglietti costano 720 euro l'uno. In cassa comune abbiamo solo pochi somoni (la valuta locale) qualche dollaro e pochi biglietti da 50 euro. Siamo a fine viaggio e abbiamo raschiato il fondo del barile. Proponiamo le carte di credito. Niente da fare. In Tajikistan non si usano. Bancomat? Neppure. Assegni? Manco a parlarne. Bonifico tramite home banking? E che roba e? Per fortuna, un impiegato dell'agenzia si offre di scarrozzarci per tutta Dushanbe in cerca di quei pochi sportelli bancomat presenti. Un paio di noi si fa consegnare dagli amici tutte le carte con le relative pass, e parte all'avventura. Ma è proprio un'avventura. Gli sportelli sono pochi e pochi di questi funzionano. Comunicano in lingua locale ed inoltre non si possono prelevare che 800 somoni (più o meno 135 euro) alla volta. Facciamo quel che riusciamo sino al raggiungimento del tetto massimo delle carte accettate dagli sportelli. Come se non bastasse, questi erogano solo banconote di piccola taglia. Alla fine siamo tanto imbottiti di denaro in tutte le tasche che sembriamo degli zio Paperone. Ma non basta ancora. E tra un paio di ore parte l'ultimo aereo. L'ultima risorsa sono gli amici del Cesvi. Andiamo a casa loro. A Dushanbe non esistono i campanelli e ci tocca urlare davanti al loro portone. I vicini ci scambiano per dei pazzi ma riusciamo a farli uscire. Quando spieghiamo la nostra situazione, non esitano un momento ad aprirci la cassaforte dell'associazione per consegnarci i 5000 somoni che ancora ci mancavano. Da casa, salderemo il debito con un bonifico. Corriamo all'aeroporto giusto in tempo per il check in. Siamo felici. Pensiamo che il peggio sia alle spalle. Ma non abbiamo ancora visto l'aereo. Che baracca! E' un residuato dell'Aero Flot targato ancora Cccp! Ecco perché dall'Italia non potevano acquistare il biglietto! (Avevamo tentato inutilmente anche questa strada) La compagnia non è riconosciuta dall'Europa perché è - e di tanto! - al di fuori degli standard minimi di sicurezza.
Saliamo nella carlinga che cigola sotto i nostri passi attenti a non rompere niente. Il comandante è sorpreso nel vedere un gruppo di occidentali salire a bordo e ci sorride come per dire "Oggi non ne fanno più di aerei così, eh?"
La mia cintura di sicurezza non scatta e una hostess cazzuta mi ordina di annodarla. Sulle pareti ci sono quadri attaccati col chiodo che raffigurano tranquille scene campestri. Non c'è l'aria condizionata e si suda come in una sauna. Sempre l'hostess cazzuta mi spiega a gesti che l'impianto dovrebbe funzionare quando saliremo in quota. Si spera. E comunque se ci arriveremo, in quota.
Intanto la baracca si mette in moto piano piano. Il motore tossicchia e sputa fatica. Il decollo è di una lentezza esasperante. L'aereo dà l'impressione di voler arrivare sino a Mosca volando alla quota di 150 metri. Per fortuna le montagne sono lontane. Poi riesce ad alzare il muso. La baracca ce l'ha fatta anche stavolta.
Alla fine del viaggio, ce la caviamo con un danno tutto sommato minimo. La compagnia si è persa il mio bagaglio. Uno su cinque. Poteva andare peggio. Una assistente di terra mi assicura che "al 99,99%" mi sarà consegnato tutto a casa, a Venezia. Faccio finta di crederle. Intanto sono arrivato tutto intero e mi va bene così!
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Dushanbe! Dushanbe!
18/08/2012Alle ore 19,35 di venerdì 17 agosto, la Gengis Khar col suo team al completo - Angelo, Paolo, Riccardo P., Grazia e Riccardo B. - ha raggiunto le porte di Dushanbe, la capitale del Tajikistan. Il nostro Rally sula Via della Seta si conclude qui. Siamo felici e, nello stesso tempo, anche un po' tristi. E' stata una grande avventura. Ma l'avventura finisce qui, a Dushanbe.
Poco dopo essere rientrati in albergo (con la polizia alle calcagna per lo spettacolo non autorizzato dei Mattacchioni) abbiamo ricevuto un sms urgente dagli amici del Cesvi. La questione riguardava il passaggio di proprietà della nostra Ford, prassi indispensabile per poter lasciare il Paese via aereo. Il notaio sarebbe stato disponibile solo sabato (domani) mattina considerato che lunedì si festeggia la fine del ramadan e martedì abbiamo l’aereo. La nostra sola possibilità era raggiungere Dushanbe da Samarcanda in un solo giorno di viaggio. All'incirca 500 chilometri di distanza che nella nostra vecchia Europa sono copribili in 5 o 6 ore al massimo ma in Asia centrale si rivelano una vera e propria estrazione al lotto.
Abbandonando ogni speranza di spingerci sino a Bukara, al primo sorgere del sole lasciamo Samarcanda e ci dirigiamo a sud. A ovest teniamo il deserto mentre ad est cominciano ad apparire i primi contrafforti della catena montuosa del Trans - Alay dove si arrocca il Tajikistan. Il paesaggio varia da chilometro a chilometro. All'inizio saliamo su tortuosi sentieri di montagna brulla e franosa sino a vedere, in lontananza, il luccichio delle nevi perenni. Ma ben presto la strada torna a scendere lungo ampie vallate dove piccoli boschi e il verde dell'erba da pascolo si alternano a larghe regioni conquistate dalle sabbie del deserto. Nell'Uzbekistan orientale, la desertificazione causata dal Climate Change è una verità che si tocca con la mano. I piccoli campi coltivati a patate, a cotone, a vigne basse o a granturco sono solo gli ultimi presidi di un mondo agricolo la cui sorte è già segnata. Cosa accadrà allora alla gente che qui vive di ciò che gli dà la terra e che al nostro passare ci saluta sorridendo, chiedendoci chi siamo e da dove veniamo, sempre pronta a darci una mano ad ogni nostra difficoltà?
Ancora più a sud, sono gli effetti della guerra in Afghanistan a farsi sentire. I controlli e i presidi di polizia, di militari armati di mitra e di blindati dell'esercito sono pressoché continui. Saremo stati fermati perlomeno una dozzina di volte, anche a poche centinaia di metri da un controllo all'altro. Passaporto. Dove andate. Chi siete. Avete armi con voi?
La nostra meta, Dushanbe, è ad est ma la nostra strada va a sud, verso Termez e la frontiera con l'Afghanistan in guerra. Da qui, dovremmo risalire a nord per deviare infine ad est.
Su consiglio di un camionista, decidiamo di tentare la sorte e di prendere una via che la mappa segna col colore bianco di strada secondaria ma che "taglia" direttamente ad est. Ma in Uzbekistan la carreggiata è terrificante anche nelle strade "rosse". Cosa ci attenderà? E, soprattutto, la nostra Gengis ce la farà davanti a sterrati che non di rado si aprono in vere e proprie voragini?
La sorte, quella che aiuta gli audaci, stavolta ci è benigna. La strada non è certo bella ma risulta comunque percorribile e solo in poche occasioni ci costringe a scendere e a procedere a piedi per alleggerire l'auto. Alle 16 siamo già al confine. Stavolta ce la caviamo con solo un'oretta o poco più di inutili scartoffie e stupide burocrazie. I doganieri erano impegnati a fare un mazzo come un palazzo ad un piccolo gruppo di simpaticissimi ciclisti inglesi che, partiti dalla Tahilandia, stavano rientrando in Patria pedalando. Che vi devo dire? Non c'è niente che dia più fastidio a chi vive con la religione del Signorsì che trovarsi di fronte a gente felice che va dove gli pare, senza confini che non siano quelli dell'immaginazione. La libertà non te la perdona nessuno.
Salutati gli amici globetrotter (che secondo me sono ancora fermi alla frontiera), noi entriamo finalmente in Tajikistan. Adesso possiamo chiedere alla gente la strada per Dushanbe e non per città intermedie. Che soddisfazione! Mancano 66 chilometri alla metà. Ci impieghiamo solo due ore e mezza. Che è un tempo da olimpiade da queste parti. La strada che va dal confine alla capitale è larga come un'autostrada ma totalmente sterrata e piena di buche e di dossi da sembrare una pista da cross. Inoltre, non essendoci segnaletiche sul terreno, gli automobilisti superano anche a destra e procedono tenendo indifferentemente la destra o la sinistra, a seconda delle condizioni della carreggiata. Pare l'incubo di un vigile urbano! Ma noi teniamo duro, pur se guardiamo nervosamente l'orologio preoccupati dall'avanzare del buio. Ma è solo l'ultimo batticuore. Alle 19,35 precise appare dietro una curva la porta della città di Dushanbe. Siamo arrivati.
Ma c'è ancora un problema da affrontare. A Dushanbe una ordinanza comunale vieta alle auto sporche di entrare in città. Lo so che pare una scemenza, ma vi assicuro che è così. Troviamo infatti numerosi autolavaggi nella prima periferia della città. Che fare? Lavare la Gengis dopo tutto quello che abbiamo passato insieme? Ogni grammo (meglio, ogni chilo) di polvere che la copre, ogni striscio di sporco, ogni traccia di unto, racconta le avventure che abbiamo vissuto lungo la strada. Come possiamo dare un colpo di spugna saponata a tutto questo glorioso luridume? Come cancellare quei bei segni appiccicosi di colla che ricordano gli adesivi con i quali siamo partiti ma che i fan ci hanno rubato durante il viaggio? No, no. Ordinanza o no. Noi entriamo in città con tutto il nostro sporco orgogliosamente sparpagliato sulla carrozzeria della Gengis. Non possiamo fare un simile affronto proprio a lei, alla nostra mitica, indimenticabile Gengis Khar che ci ha portato da Lainate a Dushanbe attraverso impervie montagne, soffocanti deserti e grandi laghi salati.
Ventun giorni e 8 mila 642 chilometri dopo.
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Mattacchioni a Samarcanda
18/08/2012Il signor No Problem ci sveglia alle sette sparando a tutto volume dallo stereo del suo "ristorante" (il termine più efficace sarebbe "bettola") "I wish you a merry Christmas". Ancora mezzi addormentati, gli chiediamo come possa venire in mente ad un uzbeko musulmano di attaccare una melodia natalizia inglese. E in pieno Ferragosto, per di più. Lui sorride e ci risponde: "No problem!"
Abbiamo capito. E' il momento di levare le tende. Rimontiamo in sella alla nostra Gengis. Stavolta Samarcanda non ci scappa. Ed infatti la raggiungiamo che sono le nove del mattino, dopo solo qualche chilometro. Ieri sera, ci eravamo arrivati più vicini di quanto ci aspettassimo.
La città ci accoglie con le sue cupole di maiolica azzurra e i suoi ampi mercati all'aperto. I tempi delle carovane di seta sono oramai passati da un pezzo. Nelle grandi aree dove un tempo si commerciava il bestiame oggi ci vanno i privati a vendere le loro vetture usate. La foga delle contrattazioni che si concludono con un tè e una stretta di mano, però è rimasto lo stesso.
Entriamo in città passando proprio ai piedi del Cimitero dei Re dove sono sepolte i parenti stretti di Tamerlano. Il camposanto continua ad essere usato ancora oggi e si è esteso lungo tutte le colline che circondano la città dal lato nord. Samarcanda è una città assediata dai morti. Così come è assediata dal suo passato. Le aspettative dei viaggiatori sono destinate a venir deluse quando, entrando nelle grandi madrasse che per tanti secoli sono state un punto di riferimento della dottrina coranica, le trovano occupate da banchetti di souvenir e di paccottiglia Made in China. Ma questo è il destino di tutte le città che hanno fatto la storia. Samarcanda comunque rimane sempre Samarcanda. Come resistere ad improvvisare uno spettacolo dei Mattacchioni Volanti davanti alle scuole coraniche più grandi di tutto l'Islam? La curiosità di vedere come reagiranno gli uzbeki è fortissima. Già in mattinata, ad un commerciante che gli proponeva di assistere ad uno spettacolo di sufi rotanti, Riccardo aveva risposto "Sufi? I'm a sufi" e gli ha fatto vedere una foto in cui mattacchiona sospeso. L'uomo ha fatto la faccia di chi incontrato il messia e poi ha chiesto "meditazio?" "Sì, sì... meditazio col pifferazio!"
Attendiamo la sera per esibirci proprio nella piazza principale. Stavolta tocca a Grazia il compito di levitare magicamente. E gli tocca la piazza peggiore! Non perché venga meno l'entusiasmo della gente, anzi! Il problema è proprio il troppo entusiasmo. Nessuno rispetta la distanza minima. Tutti vogliono toccare, spingere, giocare, arrampicarsi. Non c'è verso di farli star fermi. I bambini poi, non si allontanano neppure se li prendi a pedate. Per loro è un gioco bellissimo ed inaspettato. Facciamo quadrato attorno alla nostra Grazia lievitante ma la resistenza è impossibile. Dopo una quindicina di minuti che oserei definire "eroici" siamo costretti a battere in ritirata. Purtroppo anche ritirarsi è difficile. La gente si prende a spintonate per alzare il telone sotto il quale Grazia sta cambiando e che nasconde il trucco. Se urli per allontanarli si avvicinano ancora di più perché pensano che faccia tutto parte dello spettacolo. Mentre badi agli adulti, i bambini sgattaiolano sotto la coperta che ti tocca tirarli fuori per i piedi. Una battaglia! L'assembramento non passa inosservato. Alla fine arrivano un paio di sbirri. Non hanno il muso contento. Anzi. Mentre cercano di capire cosa sta succedendo noi, armi e bagagli in mano, togliamo le tende in fretta e furia.
(Nota: inseriremmo volentieri qualche immagine in più, ma le connessioni internet che troviamo in questo angolo di mondo sono veramente impossibili! Una volta tornati, realizzeremo comunque un album di foto e di testi sul nostro viaggio che potrete scaricare liberamente da questo blog)
Verso Samarcanda (col visa in tasca)
16/08/2012Una vera battaglia questa per il visto tajiko! Ma alla fine l'abbiamo spuntata, non senza qualche alterco con altri team che, arrivati per ultimi, si sono comportati in maniera davvero scorretta giungendo addirittura a farsi consegnare (a nostra insaputa) i nostri passaporti dal consolato per far inserire i loro nomi in una sorta di "visto collettivo". E rivolgendosi oltre a tutto a una agenzia private di dubbia - tanto dubbia - ufficialità. Stendiamo il classico velo pietoso sul comportamento di certa gente che ci auguriamo di non ritrovare più sul nostro cammino e riprendiamo il nostro viaggio. La prossima meta, più che una città, è un autentico mito: Samarcanda. Partiamo da Tashkent col passaporto vistato e pronto per il Tajikistan verso le 16,30. La strada per Samarcanda punta a sud. Il paesaggio si stende su valli d'erba verde dove gli alberi si fanno via via sempre più frequenti man mano che si procede. Ad est cominciano ad apparire all'orizzonte le prime sagome montuose. Non ne vedevano più dalla catena balcanica. Il deserto ora è davvero solo un ricordo.
La strada per Samarcanda ci appare buona e in noi prende corpo la speranza di riuscire a coprire i circa 270 chilometri in linea retta che separano le due città prima di sera. Ma dopo un centinaio di chilometri arriva il primo intoppo. La strada, costruita ai tempi dell'Unione Sovietica, passa per il territorio kasako e, sia pure per pochissimi chilometri, questi non hanno potuto fare a meno di piazzarci un confine. In pratica quindi, la strada muore là, perché nessuno, sano di mente, prenderebbe in considerazione l'ipotesi di entrare in Kasakistan e poi, dopo una ventina di minuti di strada dritta e senza possibili deviazioni, rifarsi un'altra dogana per ripassare in Uzbekistan. Vi ricordiamo che l'ultima volta noi ci abbiamo messo 14 ore a fare solo la metà di questo passaggio! Ed infatti tutte le auto deviano verso una carreggiata laterale che, ahimè, si presenta subito in pessime condizioni. Ora dobbiamo procedere a 30 o al massimo 40 all'ora. Quando scende il buio, ci appare evidente che continuare sarebbe troppo pericoloso. Rimandiamo Samarcanda a domani e troviamo rifugio in una sorta di - come definirlo? - spartano ristorante cui abbiamo fortunatamente incocciato cammin facendo e che mette a disposizione dei viaggiatori che vogliono passare là la notte delle camerate coperte di tappeti e cuscini. L'ambiente è simpatico. Il padrone del posto, il signor No Problem (lo abbiamo chiamato cos' perché queste erano le uniche parole inglesi che conosceva e le ripeteva continuamente, anche per dire buongiorno o per rispondere a domande del tipo "cosa c'è da mangiare?"), ci accoglie con la massima cortesia e alla fine finisce tutto a tarallucc... volevo dire, a vodka e pistacchi.
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Speranze di Visa
14/08/2012Ancora a Tashkent. Ancora in attesa del visto per poter entrare nel Tajikistan e chiudere il rally a Dushanbe, dove ci attendono gli amici del Cesvi ai quali dobbiamo donare la nostra Gengis Khar. Dopo le "due settimane di tempo" che ci sono state preventivate ieri e che ai nostri scopi equivalgono ad un "nyet", questa mattina si sono accese le luci della speranza. Il Cesvi ci ha inviato una lettera ufficiale (scritta in tajiko per cui non ci abbiamo capito una sola parola) con la quale venivamo invitati ufficialmente nel Paese. Ci siamo quindi ripresentati all'ambasciata - chi l'ha dura la vince - assieme alle quattro ragazza del Bugs Team arrivate ieri in città e che hanno lo stesso nostro problema. La lettera non è stata comunque sufficiente ad aprirci le porte del Tajikistan. Non è una frontiera facile questa, e lo sapevamo. Tra l'Uzbekistan e il Tajikistan è in atto una forte contesa per il possesso di Samarcanda, attualmente dentro i confini uzbeki ma abitata da una maggioranza di lingua tajika. Un altro punto a nostro sfavore è che i focolai di guerra a sud del Tajikistan si stanno ravvivando. Nella zona del Pamir, le scaramucce tra l'esercito regolare e i narcotrafficanti si sono trasformati in una vera e propria guerra. L'ambasciata tedesca in Tajikistan si sta incaricando di rimpatriare tutti gli europei che si trovano nel Pamir e nessuno vede di buon occhio l'ingresso di altri occidentali nel Paese.
Impossibile raggiungere Dushanbe quindi? Non è detto. Incassato con sportività l'ennesimo diniego ci siamo recati all'ambasciata italiana dove siamo stati accolti con molta disponibilità. C'è da dire che non vedono molti compatrioti da queste parti! Fatto sta che, in via eccezionale, il console ha accettato di protocollare al suo collega tajijko un richiesta ufficiale perché ci venga concesso un visto d'urgenza. Domani quindi, alla stessa ora di ieri, di oggi (e pure di domani e dopodomani, se sarà necessario) saremo ancora davanti all'ambasciata del Tajikistan a chiedere il nostro regolare permesso d'ingresso. Dopotutto, come ci hanno spiegato gli amici del Cesvi che ci attendono a Dushanbe, in queste faccende burocratiche dove la discrezionalità regna sovrana, l'unica cosa da fare e rompere le scatole sino a che non ottieni il tuo risultato. E a rompere le scatole, ve lo assicuro, è la cosa che a noi riesce meglio!
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Visa? Nyet
13/08/2012Stavolta siamo con le ruote per terra. Dopo una mattinata di battaglia, tra code, spintoni e moduli da riempire in lingue incomprensibili, l'ambasciata tajika ci ha fatto sapere che, prima di due settimane, ottenere il visto per Dushanbe è "assolutamente impossibile". Finisce qui l'avventura della Gengis Khar sulla via della seta? State certi che prima di gettare la spugna ci riproveremo in tutte le maniere possibili.
Stamattina ci siamo sistemati davanti all'ambasciata sin dalle sette di mattina, reduci dalla terrificante esperienza con la frontiera kasaka. Abbiamo passato quello che rimaneva della notte a cercare di chiudere un po' gli occhi dentro la nostra Ford, nel parcheggio di un distributore. Poi ci siamo gettati nella mischia. E stavolta non in senso metaforico. Davanti all'ambasciata, a Tashkent, a cercare di ottenere un visto di ingresso per il Tajikistan, ci saranno state due o trecento persone: pakistani in cerca di lavoro, uomini d'affari indiani, anziani uzbeki dalle barba bianche e dai lunghi pastrani grigio chiaro, donne tajike con i loro colorati abiti tradizionali. Un casotto che non vi dico. Dopo un paio di ore di spintonate, siamo stati letteralmente buttati dentro l'ambasciata dalla folla. Doveva essere arrivato il nostro turno (credo) e non ce ne eravamo accorti. Improvvisamente tutti si sono messi ad urlare "italian! Italian!" e ci hanno buttato di peso dentro il cancello. Qui le cose erano più ordinate pure se ugualmente incomprensibili. MA alla fine dell'ennesima fila l'ultimo funzionario - l'unico che masticasse un minimo di inglese - ci ha detto sgarbatamente che è "assolutamente impossibile" avere il visto prima di due settimane. Una ipotesi senza senso per noi che abbiamo l'aereo per l'Italia da Dushanbe il 20 agosto. Senza contare che la fine del rally e la donazione con atto notarile della Gengis sono previsti per il 16. Dopo una mezz'ora di pianti e suppliche siamo arrivati a "una settimana forse. Ma telefonate prima". Sempre impossibile per noi. Eppure, la mail che avevamo inviato prima di partire all'ambasciata ci assicurava che in un paio di giorni al massimo qui si poteva ottenere il visa.
Cosa faremo ora? Ci riproveremo, naturalmente. Domani mattina saremo ancora qui, magari assieme alle ragazze del Bugs Team che sono arrivate a Tashkent nel pomeriggio e che hanno il nostro stesso problema.
Vi confesso però che siamo un po' demoralizzati. Abbiamo viaggiato in deserti e steppe, siamo finiti in mezzo a piogge torrenziali ed a tempeste di sabbia, abbiamo scalato catene montuose e siamo scesi su depressioni geologiche come quelle del mar Caspio. Abbiamo attraversato laghi scomparsi, mari interni, fiumi esotici, valicato le porte di città entrate nella leggenda. Ma di fronte alla stupidità dell'uomo anche tutte le difficoltà che la natura ha messo sul nostro cammino ci sembrano poca cosa.
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Maledette frontiere!
13/08/2012Quattordici ore di dogana! Terrificante. E se non sono stato chiaro, ve lo ripeto scandendo pure le sillabe: ter-ri-fi-can-te! Dopo una esperienza del genere, sposterò "Il processo" di Franz Kafka nello scaffale dei neo realisti. La frontiera tra il Kasakistan e l'Uzbekistan si è rivelata un incubo degno di Josef K. E dire che la giornata era cominciata nel migliore dei modi. Eravamo pure convinti di essere in anticipo sui tempi e ce la siamo presa bella comoda. Sveglia alle 8, colazione, giretto per Shymkent in cerca di un caffè con internet point per postare le nostre disavventure sul deserto, e partenza verso il confine con l'Uzbekistan, a pochi chilometri di distanza, con l'intenzione di arrivare a Taskent nel primo pomeriggio. Il giorno dopo, lunedì mattina, vogliamo recarci di buon'ora all'ambasciata tajika a chiedere il visto di ingresso per Dushanbe, l'ultima tappa della Gengis Khar.
Shymkent è una città ai margini del deserto, con gli orizzonti perennemente offuscati dalla sua sabbia. E' caratterizzata da forti influssi cinesi. Non presenta attrattive particolari se non proprio quella di essere ai margini del deserto. Il che non è una cosa da poco, se siete prima passati per il deserto!
Verso est, verso il confine, il paesaggio è radicalmente diverso quello rivolto all'interno del Paese. Gli orizzonti sfumano in avvallamenti coperti di erba a chiazze verdi e brune. Durante la stagione delle piogge questo deve essere il posto più verde del mondo. C'è anche qualche fila di alberi piantati lungo una carreggiata che appare in buone condizioni. Due veri lussi da queste parti. Troviamo anche un po' di traffico, addirittura, anche se non mancano i consueti carretti stipati di fieno guidati da bambini e trainati da asini pazienti. Mandrie e greggi sorvegliati da pastori a cavallo, pascolano sullo sfondo e, non di rado, si piazzano sulla carreggiata costringendoti ad una gimkana tra mucche e vitelli.
Arriviamo alla frontiere alle tre del pomeriggio. Siamo a soli sette chilometri da Taskent e siamo convinti di avercela quasi fatta. Qui arriva la prima sorpresa. Il valico è chiuso alla auto. Dobbiamo scendere 100 chilometri più a sud e provare là. Pazienza, ci diciamo. Andiamo a sud. E qui comincia l'avventura da record (a quanto ci risulta sinora il team della Silk Road Race più sfigato ci ha impiegato "solo" 11 ore. Dilettanti!)
All'inizio tutto bene. Addirittura la procedura ci appare veloce. Casca l'asino quando un doganiere kasako si accorge che la nostra carta di immigrazione è scaduta di un giorno e non l'abbiamo fatta vidimare dalla questura. Immediatamente ci sequestrano i passaporti e ci portano in un ufficio dove un solerte - e piuttosto tardo - militare comincia a compilare un verbale. Ci impiega solo quattro ore. E noi là ad aspettare. Nessuno parla inglese. Qualche spiegazione ci viene da una guida locale che mastica un po' di francese. In Kasakistan, come in tutti i Paesi del mondo (anche se in Italia qualcuno ha cercato di cambiare le carte in tavola) l'irregolarità nel permesso di soggiorno - che gli incolti definiscono in modo erroneo "clandestinità" - è un reato civile e non penale. Basta pagare una multa di 100 dollari a testa e siamo a posto. Va bene, diciamo. Riconosciamo di aver sbagliato e siamo pronti a pagare. Ma non è mica così facile, eh? La multa va versata non in frontiera ma in un apposito ufficio che sta in una paese là vicino. Inutile supplicare che stiamo facendo un Charity Rally, che è già notte, che non sappiamo dove sia questo paese e questo ufficio. L'unica cosa che otteniamo è di farci accompagnare.
Sono le otto e mezza di sera quando saliamo su uno scassattissimo pulmino guidato da un soldato ragazzino che lo tira a manetta bruciando tutte le precedenze. Dentro non ci sono sedie. Ci tocca stare attaccati alle maniglie, chinati e tenere le ginocchia molleggiate per parare i salti e le buche. Sale anche un altro militare che si sistema nel posto davanti dopo aver buttato gli stivali dietro, dove stiamo noi. Ci dice che il paese è vicino. Una quarantina di chilometri appena. E' talmente vero che 50 chilometri dopo vediamo un cartello stradale che annuncia il paese a 26 chilometri. Un'ora e quaranta minuti dopo, il pulmino entra in una caserma militare. Non è mai un buon segno quando è l'esercito ad occuparsi dei problemi dell'immigrazione (come di qualsiasi altro problema). Ci scortano dentro una galera; sbarre, manganelli, catene, lucchetti e poveri disgraziati imprigionati. Un paio di militari, uguali a tutti i miliari del mondo, ci compila un altro verbale e alla fine ci tocca firmare una decina di documenti di cui non capiamo una sola parola. La cosa non è per niente legale ma vai a protestare! Alla fine paghiamo e salutiamo. Ci attendono altre due ore di sbattimento. E non è finita qui. Passata - se dio vuole!- la dogana kazaka, ci attende quella uzbeka. Un'altra collezione di rompimenti inutili e dannosi a tutti i fini civili. Ne usciamo alle tre e mezza di notte. Facciamo un centinaio di metri ancora intontiti per quello che abbiamo passato e... troviamo un'altra sbarra chiusa. Tre soldati ci chiedono ancora quegli stessi passaporti che abbiamo mostrato ad almeno dieci funzionari cento metri prima! Poi fanno uscire Angelo che guidava dalla macchina e lo portano in una garitta. Sollevare la sbarra, gli dicono, costa 10 dollari. E' ovvio che è una tangente. I tre soldati sono pure ubriachi puzzano di alcol come una distilleria clandestina ma sono armati di pistole e di kalashnikov. Sono le tre e quarantacinque di notte. Non ce la facciamo più. Paghiamo e la sbarra viene sollevata. Benvenuti in Uzbekistan.
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Cronache dalla Via della Seta: alle porte d’Oriente
13/08/2012Prosegue il racconto del viaggio della Gengis Khar sulle pagine del sito dei nostri amici di NoBorders Magazine. La seconda puntata del nostro Silk Road Race lo potete leggere collegandovi al seguente link: Alle porte d'Oriente.