Cronache dalla Via della Seta: finalmente Dushanbe

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Dushanbe, Tajikistan - Dushanbe è una strada. La capitale del Tajikistan è tutta su quella lunga arteria alberata che la attraversa da nord a sud e che qui chiamano Rudaki Avenue. Qui sorge il palazzo del presidentissimo, una copia esatta della Casa Bianca, solo un po’ più grande. Qui ci sono i ministeri con tanto di giganteschi murales che ritraggono sempre lui, l’amato padre della patria, mentre sorride benevolo circondato da campi di papaveri o intento a raccogliere, laborioso, messi di grano maturo. Sempre sulla Rudaki, si trovano tutte le principali ambasciate estere, da quella cinese e quella americana, che hanno occupato e rimodernato vecchi catafalchi targati Cccp. Ancora nella Rudaki, si trovano tutti gli hotel di lusso – la strada è fuori portata per chi non può far luccicare le 5 stelle -, i locali alla moda, i negozi di prodotti che arrivano direttamente dall’occidente, dai computer della Apple alla moda italiana.

Tutti i palazzi che si affacciano sulla Rudaki sono riconducibili a due categorie: o risalgono all’epoca sovietica con quella grigia pesantezza di regime, così simile ai nostri edifici costruiti durante il Ventennio, oppure sono veri e propri incubi architettonici, misti di finte colonne classiche, volte arabesche e slanci ipermodernisti. I più brutti e luccicanti appartengono alla figlia maggiore del presidentissimo, che compensa il suo cattivo gusto architettonico con una discreta vocazione di “palazzinara”. In mezzo a questi orrori, tra statue di eroi operai, e fontane che la sera si illuminano come arcobaleni, la Rudaki Avenue rimane l’unica strada con un asfalto appena decente di tutto il Tajikistan. Sembra fatta apposta per le lucenti auto di grossa cilindrata dei narcotrafficanti che la percorrono come fosse una pista di formula uno, bruciando le precedenze e sgommando a ogni semaforo a velocità impossibili, mentre i numerosi poliziotti che la presidiano girano la testa e fanno finta di non vedere.
La corruzione, qui, fa girare più soldi che il bazar. Gli automobilisti (narcotrafficanti a parte) sono fermati continuamente dai poliziotti, ma non viene mai staccata nessuna multa. E’ prassi, tanto comune da essere diventata praticamente lecita, aggiustare l’infrazione passando l’equivalente di 5 dollari al vigile. E la corruzione, man mano che ci si arrampica sulla piramide del potere, diventa sempre più pesante e mafiosa. In cima alla piramide c’è lui, il presidentissimo Emomali Sharifovich Rahmon e la sua famiglia. L’opinione che i tajiki hanno del loro leader maximo è improntata a un pragmatismo da sopravvivenza: “O lui o la guerra civile”.
Fatto sta che il Paese ha ereditato il peggio del sovietismo e il velo di democrazia sotto il quale si presenta al mondo è talmente trasparente che solo le multinazionali interessate all’unica ricchezza di questa terra – l’acqua – riescono a far finta di crederci. Ma i focolai di guerra che si sono accesi nel Pamir, a sud, e nel Gorno-Badahšan, a est, non sono quelle scaramucce con gruppuscoli di narcotrafficanti che il governo tajiko vorrebbe far credere. E, prima o poi, la guerra civile scenderà dal Tetto del Mondo sino alla Rudaki Avenue.
Noi delle Gengis Khar siamo arrivati a Dushanbe – ultima tappa del nostro Rally sulla Via della Seta – sul calare delle ombre della sera. Proprio in tempo per vedere le fontane dei grandi parchi fioriti illuminarsi e zampillare, mentre potenti riflettori coloravano d’arcobaleno la “copia più grande” della Casa Bianca.
“Tutta ‘sta strada per arrivare qua…” ci è venuto da pensare. Una sensazione tanto più forte se considerate che, dalla splendente Samarcanda in poi, abbiamo incontrato solo sabbia, piccoli appezzamenti coltivati a patate o a vigne basse, duramente strappati alla desertificazione, strade sterrate piene di dossi e di buche da farle sembrare piste di cross, villaggi desolati dove, per chi se lo può permettere, l’asino è ancora il mezzo di trasporto più idoneo. Questa è la strada che ci ha condotti a Dushanbe.
Ma in viaggio, ogni volta lo impariamo da capo, quello che più conta non è la meta, ma il viaggio in sé.
Cavalcando la nostra indimenticabile Gengis Khar per ventun giorni e 8 mila 642 chilometri, abbiamo toccato con mano che il mondo in cui viviamo è un mondo piccolo perché quando parti prima o poi, inevitabilmente, arrivi al limitare di un continente. Abbiamo imparato anche che il mondo è grande perché a ogni angolo del tuo cammino si aprono nuove strade, nuove prospettive, nuove esperienze da vivere.
Abbiamo imparato che la gente è diversa e abbiamo imparato anche quanto è grande la nostra ignoranza che tende a semplificare la diversità pur di farla rientrare in categorie rassicuranti e preconcette. Prima di questo viaggio, faticavamo a capire le differenze tra i tanti “Stan”, confondendo i kazaki dai tratti somatici orientaleggianti, costretti a rinunciare con la forza al loro nomadismo, con gli uzbeki, figli di Tamerlano, che usano caratteri latini o con i tajiki che parlano lo stesso farsi degli iraniani ma transiletterandolo in un alfabeto derivato dal cirillico. E ancora, abbiamo imparato che gli uomini sono uguali dappertutto e dappertutto (poliziotti a parte) non ci hanno fatto mancare aiuto, appoggio, sostegno, calore, conforto. Così come gli amici che da casa hanno seguito sul nostro blog le nostre avventure, commentandole e incoraggiandoci ad ogni puntata.
Davvero, anche nel deserto più deserto, anche dentro le caserme della milizia kasaka, noi della Gengis Khan, non ci siamo mai sentiti soli. Grazie a tutti voi.
E’ stata una bellissima piccola grande avventura in un bellissimo piccolo grande mondo.