Nuke Mapu, la Madre Terra mapuche
El Maiten, Patagonia - Il viaggiatore che percorre quel tratto della polverosa ed infinita Ruta Nacional 40 che, scendendo dal nord dell’Argentina, porta ad Esquel, nello stato del Chubut, non potrà fare a meno di sorprendersi nel trovarsi di fronte, nel bel mezzo di quello sterminato niente che è la pampa della Patagonia, ad un enorme cartellone pubblicitario.
Nelle ultime sette o otto ore di carreggiata, era già tanto se il nostro viaggiatore aveva incrociato un paio di gaucho a cavallo e tutt’al più una mezza dozzina di puzzolenti e solitari alpaca.
E adesso ecco spuntare all’orizzonte sconfinato della pampa quell’assurdo cartellone firmato niente meno che da Oliviero Toscani, che gli fa sgranare gli occhi increduli e dubitare di trovarsi di fronte ad uno di quei miraggi per i quali altri deserti sono famosi. A riportare il nostro viaggiatore alla realtà è il posto di blocco con autoblinde corazzate e militari in giubbotto antiproiettile che lo fanno scendere dal pick-up col mitra puntato, per controllargli carico e documenti. In sudamerica, non c’è niente di più efficace di un reparto dell’esercito in azione antiguerriglia per sgomberarti la mente dai sogni. Eppure, abbinato a tutto quello spiegamento di forze, quel cartellone che ostenta tutti quei toni spiccatamente mondialisti e pacifisti che contraddistinguono le opere del fotografo italiano, appare ancora più assurdo. Il grande manifesto ritrae il volto, saggio e tuttavia rassegnato, di un vecchio indigeno. A lato, una scritta sobria informa il viaggiatore che a quel punto delle carreggiata, una deviazione conduce a Leleque e al museo con cui l’azienda Benetton - che da queste parti si è comprata un territorio grande come tre provincie del Veneto - ha voluto commemorare la grande e triste storia dei mapuche, “el pueblo desaparecido”. Capirete che i mapuche, che non si sentono affatto “desaparecidos” - perlomeno non ancora - vedono come un calcio negli stinchi questo elegante museo che ha il solo scopo di mettere una pietra tombale sulle popolazioni indigene e sulle durissime lotte per continuare ad abitare quella terra che era loro da molto, molto prima che se la comprasse il signor Benetton. Da qui, si spiega anche il dispiegamento di poliziotti e militari incarogniti, costretti notte e giorno a far la tana sotto l’opera d’arte del maestro Oliviero Toscani.
Ma adesso un’altra storia. Continuiamo il nostro viaggio sulla Ruta 40 e scendiamo ancora più a sud di qualche decina di chilometri – che da queste parti è come, a Venezia, dire “un ponte e una calle”. Dietro una posticcia palizzata, attorno a una ventina di capanne di legno e di pelle, sventola la bandiera bianca e gialla del popolo mapuche. Qui vive, in terra mapuche “recuperata” la comunità indigena di Santa Rosa. Nel febbraio del 2007, questi mapuche hanno tagliato il filo spinato con il quale Benetton si è recintato mezza Patagonia come fosse il giardino della sua villa di Ponzano, e si sono ripresi 565 ettari di terra. Quel che per i mapuche è il “recupero” di Nuke Mapu, la Madre Terra grande e generosa che regala vita e ricchezza a tutti i suoi figli e che, in quanto Nuke Mapu, non può essere né comprata né venduta, per i legali dell’imprenditore trevigiano è “occupazione abusiva”. Ne è nata una dura lotta a colpi di carte bollate ma anche di manganelli, fucilate, case bruciate, persone bastonate.
Sono stati due anni duri, di assedio e di violenze a tutti i livelli, quelli sopportati dai mapuche di Santa Rosa. Un impero economico di statura mondiale che può permettersi di foraggiare plotoni di avvocati, contro un popolo che vive allevando pecore. Eppure, grazie anche all’aiuto di associazioni movimentiste come l‘italiana Ya Basta che, tra l’altro, ha un suo punto di forza proprio a Treviso, i mapuche hanno respinto tutti gli attacchi e continuano tutt’ora a fra sventolare la loro bandiera su Santa Rosa, riuscendo anche ad ingrandire la comunità iniziale. Ma la lotta continua. Se un giudice dà ragione ai mapuche, gli avvocati di Benetton non mollano e riaprono un’altra causa. L’ultima denuncia se la sono presa per un “abuso edilizio” in relazione alla costruzione di un ponte. Io l’ho visto quel “ponte”… quattro tronchi di legno legati insieme con una coda, lunghi due metri e 40 centimetri (misurati! Non sparo cifre a caso) per far passare le pecore al di là di un fossato…
Ma la seconda storia che ho promesso di raccontare la troviamo a qualche chilometro da Santa Rosa. Bisogna proprio che ci addentriamo ancor di più nella pampa patagonica. Tre o quattro ore di cammino senza alcun sentiero da seguire, attraversando luoghi che ti vien da pensare che doveva essere tutta così, la nostra Terra all’origine dei tempi, quando la specie dominante non era l’uomo ma i grandi sauri. All’orizzonte, al di là di laghi e foreste, si intravvedono le possenti propaggini della cordigliera andina. Ma quanto siano lontane, quanto siano immense, nessuno lo potrebbe dire. Ed è proprio qui che troviamo, solitaria, una capanna di legno. E’ il rifugio di un’anziana donna mapuche. Vedova da tanto tempo, cieca dalla nascita. Vive qui, dove ha sempre vissuto, e dove, nei giorni andati della sua lunga vita, sorgevano le capanne dei suoi figli e dei suoi nipoti. Mentre mi offre l‘inevitabile e amarissimo mate, e ci passiamo di mano in mano, la piccola zucca con la cannuccia di legno, mi chiede notizie dal mondo. I parenti che ancora vivono a Santa Rosa, la vanno a trovare spesso ma evitano di raccontarle tutti i guai che hanno con avvocati e, soprattutto, polizia ed esercito argentino. Non vogliono preoccuparla. Ma l’anziana mapuche ha capito che qualcosa è cambiato attorno a lei. Lo sente nel profumo dell’aria, nel sapore dell’acqua, nelle erbe che lei, nel buio della sua notte eterna, cerca a tastoni seguendo le radici degli immensi alberi. Erbe che bolliva in infusi per concedersi sollievo dai suoi acciacchi senili e che adesso non riesce più a riconoscere. La mia ospite è cieca. Non può vedere, non può sapere che lungo l’orizzonte che circonda la comunità di Santa Rosa, la pampa in cui vive non è più la pampa che l’ha vista nascere. Per migliaia e migliaia di ettari, sta crescendo un mare verde di pini ad alto rendimento economico, coltivati con tecniche intensive. Alberi le cui sementi vengono da lontano, alberi mai visti su queste latitudini e che consumano fiumi d’acqua, impoverendo la regione di quella che era la sua principale ricchezza. Alberi che, inevitabilmente ed irreparabilmente, stanno modificato il fragile equilibrio ecologico di questo angolo di mondo. Un mondo, mi ha raccontato l’anziana mapuche, che nel tempo antico era abitato da popolazioni di giganti che oggi sopravvivono solo nelle leggende. Sono scomparsi perché erano grossi ma sciocchi. Pensavano di poter crescere a dismisura, perché più crescevano e più credevano di diventare potenti. Si estinsero senza capire che Nuke Mapu, la madre terra, è generosa ma non è infinita.
Questa è l’altra faccia del museo Benetton. I “colori invisibili di Benetton” per scimmiottare uno degli slogan che hanno fatto la fortuna di questa azienda trevigiana, regina del contoterzismo in patria, e imperatrice del neo latifondismo in Argentina. L’avventura dei Benetton in terra patagonica cominciò negli anni della presidenza Menem, tra l’89 e il ’99, con l’acquisto per 50 milioni di dollari della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ricordate Carlos Menem? Gli argentini non se lo dimenticano più, uno così. Grande profeta del liberismo. Tanto da meritarsi in più occasioni il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Grande amico di Berlusconi che lo salutò come apostolo della pacificazione nazionale, in quanto aveva graziato tutti i militari riconosciuti colpevoli di omicidi e torture durante la dittatura, e come l’uomo che avrebbe portato l’economia argentina al passo con le potenze mondiali cavalcando il “rampante destriero della globalizzazione neo liberalista”, metafora sua. Menem, appena eletto, si preoccupò solo di privatizzare tutto quello che era privatizzabile e poi di privatizzare anche quello che non lo era. Svendette, a prezzi da liquidazione, tutte le aziende di base, tra cui le Poste e la Ypf, la compagnia petrolifera di stato, liquidando gran parte del patrimonio nazionale per una perdita stimata dalla stessa Banca Mondiale attorno ai 60 mila milioni di dollari.
Durante la presidenza Menem e del suo degno successore De La Rùa, il debito estero, l'inflazione, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la povertà crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. L’abolizione dei vincoli doganali, la coatta “dollarizzazione” dell’economia sino alla forzata parità del peso con il dollaro, furono il colpo finale che nel 2001 portarono l’Argentina sul baratro della più grave crisi economica che abbia mai investito un paese del Sud America. Il 2 gennaio del 2002, mentre Menem e la moglie Cecilia, ex miss Universo, riparavano in Cile inseguiti da una denuncia per vendita di armi all’estero e una lista di reati patrimoniali per elencare i quali non basterebbe il libro che avete tra le mani, il paese attraversò il suo periodo più nero e nel corso di quella sola settimana, il peso perse i due terzi del suo potere d’acquisto. Le banconote emesse dallo Repubblica d’Argentina valevano come carta straccia. Buenos Aires si riempiva di famiglie di cartoneros che ancor oggi vivono per strada e per sopravvivere frugano tra le immondizie in cerca di qualcosa da riciclare. Gli ex lavoratori andavano a rinfoltire le fila dei disoccupati e si trasferivano in massa nelle baraccopoli che cominciarono ad ingrandirsi a dismisura fino ad assediare l’intero perimetro di quell’oceano di case che è Buenos Aires. Attorno alla città, nasceva un’altra città di poveri ed emarginati.
Quei giorni di fame e miseria, li ho ritrovati egregiamente sintetizzati in un cartello di “bienvenido” ancor oggi appeso nell’entrata della baraccopoli bairense di Solano, quartiere in cui vi sconsiglio di passeggiare a tutte le ore del giorno a meno che non siate invitati. La scritta dice: “Benvenuta nella tua nuova dimora, classe media!”
Questi furono gli anni gloriosi della conquista di Benetton della Patagonia. Gli anni in cui si comprava tutto perché niente valeva. E pazienza se, in quella stessa terra che Benetton si preparava a recintare con chilometri e chilometri di filo spinato, le comunità mapuche, vivevano, per dirla col nome di una loro battagliera associazione di lotta, sin dall’Once de octubre. Cioè l’undici di ottobre, il giorno prima del giorno più infausto per i mapuche: quello della scoperta dell’America.
La brillante speculazione economica ebbe come apripista l’abolizione della proprietà collettiva e di tutte le strutture politiche, economiche e sociali del popolo mapuche avvenuta durante gli anni della dittatura militare. Anni di repressione, di violenze, sparizioni e di omicidi per tutto il popolo argentino ma in particolare per i mapuche, considerati de facto e senza distinzione oppositori al regime. Tra gli anni ‘70 e ’80, il numero della comunità mapuche si ridussero da più di 2 mila a 665. Il ritorno alla democrazia ha visto le comunità indigene della Patagonia – parliamo di quelle sopravissute – impegnarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità e difendere la propria terra. Una battaglia non solo durissima ma anche tutta da costruire, se teniamo conto che solo pochi anni fa, la Costituzione della Repubblica Argentina citava i popoli indigeni soltanto per ricordare che lo Stato aveva il dovere di convertirli al cattolicesimo.
Oggi, il Wall Mapu, il territorio dei mapuche, sembra cucito col filo spinato. Qua e là, cartelloni avvertono i viaggiatori che per di qua è “prohibido pasar”. La mitica Ruta 40 dove si sono avventurate generazioni di viaggiatori sulle orme di Chatwin, di Coloane e di Sepulveda, oggi scorre in mezzo a proprietà private acquistate a prezzi di liquidazione da lupi dell’imprenditoria straniera che hanno rubato la terra ad un popolo libero e i sogni all’intera umanità.
I torrenti che un tempo ruggivano lungo la sterminata pianura trasportando vita e prosperità, sono stati deviati per portare le loro ricchezze d’acqua solo dove lo impone la legge dello “sviluppo” – termine che scriveremo sempre tra virgolette – neo liberista. Il grande rio Chubut che attraversa il latifondo Benetton è diventato proprietà privata e ai mapuche non è consentito neppure avvicinarsi. Adesso l’acqua del rio è riservata alle 300 mila pecore e ai 16 mila bovini da macellazione dell’azienda Benetton e i greggi mapuche, composti sì e no da una dozzina di pecore, devono abbeverarsi 40 chilometri più a est. “Ma non è l’acqua che è nostra – ha precisato Ronald MacDonald, il gringo norteamericano che i Benetton hanno messo a capo del latifondo Leleque –. Quella, per legge, è di tutti e non potremmo vietare nemmeno la pesca. E’ la terra attorno al fiume che dobbiamo tutelare come proprietà privata in quanto appartiene alla nostra azienda. E qui è prohibido pasar”.
Questa che si combatte in terra mapuche, è anch’essa una guerra per l’acqua. Per l’accesso all’acqua, al di là del filo spinato. Per l’uso dell’acqua: la Patagonia, è vero, è ricca di questo bene prezioso ma non tanto da consentire la crescita di foreste di legname pregiato e il mantenimento di centinaia di migliaia di capi di bestiame. Ma anche per la purezza e la potabilità dell’acqua. I fiumi che escono dalle grandi “estancias” sono irrimediabilmente inquinati. Nel 2005, una ong riuscì a documentare numerosi casi di indigeni, donne e bambini in particolare, intossicati per aver bevuto l’acqua del fiume che attraversa l’estancia El Maiten di Benetton, inquinata dai liquidi di scarico e dai residuali di lavorazioni del bestiame non depurati da nessun filtro. Quello che in Italia ti farebbe finire in galera, in Argentina è concesso.
Ma se Benetton è oggi il più grande latifondista d’Argentina, non è il solo ad aver investito capitali per “dare un futuro anche agli abitanti di queste terre sottosviluppate”, come ha affermato in un’intervista. Attori famosi come Richard Gere, calciatori come Oscar Batistuta, stelle della televisione e del cinema hanno investito i loro soldi facilmente guadagnati nell’acquisto di terre in Patagonia senza mai porsi troppe domande se nelle terre in questione vivessero dei popoli nativi e, nel caso, che ne pensassero della loro idea di “sviluppo”.
“L’idea di vendere la terra è totalmente estranea alla nostra cultura” mi ha spiegato Mauro Milian, portavoce dell’Once, che ho incontrato a El Maiten in occasione dell’inaugurazione di radio Petü Mogeleiñ, la prima radio in lingua mapuche della Patagonia, realizzata grazie all’aiuto dell’associazione Ya Basta. “Come si può vendere una cosa che appartiene a tutti e, soprattutto, che serve a tutti? E come si può pensare di comperarla? Ce n’è tanta, di terra, in tutta la Patagonia. Se qualcuno vuole costruirsi una casa e allevare il suo bestiame lo può fare senza chiedere niente a nessuno. E tutta la comunità è pronta ad aiutare chiunque voglia mettere su casa. Vendere la terra? Che idea! Sarebbe come pretendere di vendere l’acqua, l’aria… Ma già! Gli uomini bianchi fanno pure questo! Poi mandano la polizia e l’esercito. E dicono a noi, che abitiamo queste terre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, che dobbiamo fare le valigie. Dobbiamo andarcene via perché un ricco signore che abita in terre tanto lontane da fuggire alla nostra immaginazione, ha comperato tutto e ora afferma che è tutto suo. Ma noi non ce ne andiamo. Non ce ne andiamo perché questa terra è Nuke Mapu. E’ la nostra terra: è la madre di tutti i mapuche ed è la madre di tutto ciò che qui cresce. Senza di lei, potremmo forse continuare a chiamarci Mapuche? Potremmo continuare ad essere ciò che siamo?”
Cosa ne è di un mapuche senza la sua Nuke Mapu? domanda Mauro Milian. Qualcuno china la testa e accetta di lavorare proprio nelle grande “estancias” dei nuovi padroni, lasciandosi sfruttare dai latifondisti e dai loro sgherri come manodopera a basso costo e senza diritti sindacali. Altri prendono la strada delle grandi metropoli dove li attendono giorni di miseria e di discriminazione nelle baraccopoli dei bianchi.
E’ un genocidio anche questo. Un genocidio perpetuato senza camere a gas o stermini di massa ma perpetuato con la non meno efficace arma della globalizzazione. Salvo poi inscatolarne la memoria nelle vetrine di un museo e ricordare in qualche convegno quanto era nobile e saggio l’antico popolo dei mapuche. El pueblo desaparecido.
E adesso ecco spuntare all’orizzonte sconfinato della pampa quell’assurdo cartellone firmato niente meno che da Oliviero Toscani, che gli fa sgranare gli occhi increduli e dubitare di trovarsi di fronte ad uno di quei miraggi per i quali altri deserti sono famosi. A riportare il nostro viaggiatore alla realtà è il posto di blocco con autoblinde corazzate e militari in giubbotto antiproiettile che lo fanno scendere dal pick-up col mitra puntato, per controllargli carico e documenti. In sudamerica, non c’è niente di più efficace di un reparto dell’esercito in azione antiguerriglia per sgomberarti la mente dai sogni. Eppure, abbinato a tutto quello spiegamento di forze, quel cartellone che ostenta tutti quei toni spiccatamente mondialisti e pacifisti che contraddistinguono le opere del fotografo italiano, appare ancora più assurdo. Il grande manifesto ritrae il volto, saggio e tuttavia rassegnato, di un vecchio indigeno. A lato, una scritta sobria informa il viaggiatore che a quel punto delle carreggiata, una deviazione conduce a Leleque e al museo con cui l’azienda Benetton - che da queste parti si è comprata un territorio grande come tre provincie del Veneto - ha voluto commemorare la grande e triste storia dei mapuche, “el pueblo desaparecido”. Capirete che i mapuche, che non si sentono affatto “desaparecidos” - perlomeno non ancora - vedono come un calcio negli stinchi questo elegante museo che ha il solo scopo di mettere una pietra tombale sulle popolazioni indigene e sulle durissime lotte per continuare ad abitare quella terra che era loro da molto, molto prima che se la comprasse il signor Benetton. Da qui, si spiega anche il dispiegamento di poliziotti e militari incarogniti, costretti notte e giorno a far la tana sotto l’opera d’arte del maestro Oliviero Toscani.
Ma adesso un’altra storia. Continuiamo il nostro viaggio sulla Ruta 40 e scendiamo ancora più a sud di qualche decina di chilometri – che da queste parti è come, a Venezia, dire “un ponte e una calle”. Dietro una posticcia palizzata, attorno a una ventina di capanne di legno e di pelle, sventola la bandiera bianca e gialla del popolo mapuche. Qui vive, in terra mapuche “recuperata” la comunità indigena di Santa Rosa. Nel febbraio del 2007, questi mapuche hanno tagliato il filo spinato con il quale Benetton si è recintato mezza Patagonia come fosse il giardino della sua villa di Ponzano, e si sono ripresi 565 ettari di terra. Quel che per i mapuche è il “recupero” di Nuke Mapu, la Madre Terra grande e generosa che regala vita e ricchezza a tutti i suoi figli e che, in quanto Nuke Mapu, non può essere né comprata né venduta, per i legali dell’imprenditore trevigiano è “occupazione abusiva”. Ne è nata una dura lotta a colpi di carte bollate ma anche di manganelli, fucilate, case bruciate, persone bastonate.
Sono stati due anni duri, di assedio e di violenze a tutti i livelli, quelli sopportati dai mapuche di Santa Rosa. Un impero economico di statura mondiale che può permettersi di foraggiare plotoni di avvocati, contro un popolo che vive allevando pecore. Eppure, grazie anche all’aiuto di associazioni movimentiste come l‘italiana Ya Basta che, tra l’altro, ha un suo punto di forza proprio a Treviso, i mapuche hanno respinto tutti gli attacchi e continuano tutt’ora a fra sventolare la loro bandiera su Santa Rosa, riuscendo anche ad ingrandire la comunità iniziale. Ma la lotta continua. Se un giudice dà ragione ai mapuche, gli avvocati di Benetton non mollano e riaprono un’altra causa. L’ultima denuncia se la sono presa per un “abuso edilizio” in relazione alla costruzione di un ponte. Io l’ho visto quel “ponte”… quattro tronchi di legno legati insieme con una coda, lunghi due metri e 40 centimetri (misurati! Non sparo cifre a caso) per far passare le pecore al di là di un fossato…
Ma la seconda storia che ho promesso di raccontare la troviamo a qualche chilometro da Santa Rosa. Bisogna proprio che ci addentriamo ancor di più nella pampa patagonica. Tre o quattro ore di cammino senza alcun sentiero da seguire, attraversando luoghi che ti vien da pensare che doveva essere tutta così, la nostra Terra all’origine dei tempi, quando la specie dominante non era l’uomo ma i grandi sauri. All’orizzonte, al di là di laghi e foreste, si intravvedono le possenti propaggini della cordigliera andina. Ma quanto siano lontane, quanto siano immense, nessuno lo potrebbe dire. Ed è proprio qui che troviamo, solitaria, una capanna di legno. E’ il rifugio di un’anziana donna mapuche. Vedova da tanto tempo, cieca dalla nascita. Vive qui, dove ha sempre vissuto, e dove, nei giorni andati della sua lunga vita, sorgevano le capanne dei suoi figli e dei suoi nipoti. Mentre mi offre l‘inevitabile e amarissimo mate, e ci passiamo di mano in mano, la piccola zucca con la cannuccia di legno, mi chiede notizie dal mondo. I parenti che ancora vivono a Santa Rosa, la vanno a trovare spesso ma evitano di raccontarle tutti i guai che hanno con avvocati e, soprattutto, polizia ed esercito argentino. Non vogliono preoccuparla. Ma l’anziana mapuche ha capito che qualcosa è cambiato attorno a lei. Lo sente nel profumo dell’aria, nel sapore dell’acqua, nelle erbe che lei, nel buio della sua notte eterna, cerca a tastoni seguendo le radici degli immensi alberi. Erbe che bolliva in infusi per concedersi sollievo dai suoi acciacchi senili e che adesso non riesce più a riconoscere. La mia ospite è cieca. Non può vedere, non può sapere che lungo l’orizzonte che circonda la comunità di Santa Rosa, la pampa in cui vive non è più la pampa che l’ha vista nascere. Per migliaia e migliaia di ettari, sta crescendo un mare verde di pini ad alto rendimento economico, coltivati con tecniche intensive. Alberi le cui sementi vengono da lontano, alberi mai visti su queste latitudini e che consumano fiumi d’acqua, impoverendo la regione di quella che era la sua principale ricchezza. Alberi che, inevitabilmente ed irreparabilmente, stanno modificato il fragile equilibrio ecologico di questo angolo di mondo. Un mondo, mi ha raccontato l’anziana mapuche, che nel tempo antico era abitato da popolazioni di giganti che oggi sopravvivono solo nelle leggende. Sono scomparsi perché erano grossi ma sciocchi. Pensavano di poter crescere a dismisura, perché più crescevano e più credevano di diventare potenti. Si estinsero senza capire che Nuke Mapu, la madre terra, è generosa ma non è infinita.
Questa è l’altra faccia del museo Benetton. I “colori invisibili di Benetton” per scimmiottare uno degli slogan che hanno fatto la fortuna di questa azienda trevigiana, regina del contoterzismo in patria, e imperatrice del neo latifondismo in Argentina. L’avventura dei Benetton in terra patagonica cominciò negli anni della presidenza Menem, tra l’89 e il ’99, con l’acquisto per 50 milioni di dollari della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ricordate Carlos Menem? Gli argentini non se lo dimenticano più, uno così. Grande profeta del liberismo. Tanto da meritarsi in più occasioni il plauso del Fondo Monetario Internazionale. Grande amico di Berlusconi che lo salutò come apostolo della pacificazione nazionale, in quanto aveva graziato tutti i militari riconosciuti colpevoli di omicidi e torture durante la dittatura, e come l’uomo che avrebbe portato l’economia argentina al passo con le potenze mondiali cavalcando il “rampante destriero della globalizzazione neo liberalista”, metafora sua. Menem, appena eletto, si preoccupò solo di privatizzare tutto quello che era privatizzabile e poi di privatizzare anche quello che non lo era. Svendette, a prezzi da liquidazione, tutte le aziende di base, tra cui le Poste e la Ypf, la compagnia petrolifera di stato, liquidando gran parte del patrimonio nazionale per una perdita stimata dalla stessa Banca Mondiale attorno ai 60 mila milioni di dollari.
Durante la presidenza Menem e del suo degno successore De La Rùa, il debito estero, l'inflazione, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la povertà crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. L’abolizione dei vincoli doganali, la coatta “dollarizzazione” dell’economia sino alla forzata parità del peso con il dollaro, furono il colpo finale che nel 2001 portarono l’Argentina sul baratro della più grave crisi economica che abbia mai investito un paese del Sud America. Il 2 gennaio del 2002, mentre Menem e la moglie Cecilia, ex miss Universo, riparavano in Cile inseguiti da una denuncia per vendita di armi all’estero e una lista di reati patrimoniali per elencare i quali non basterebbe il libro che avete tra le mani, il paese attraversò il suo periodo più nero e nel corso di quella sola settimana, il peso perse i due terzi del suo potere d’acquisto. Le banconote emesse dallo Repubblica d’Argentina valevano come carta straccia. Buenos Aires si riempiva di famiglie di cartoneros che ancor oggi vivono per strada e per sopravvivere frugano tra le immondizie in cerca di qualcosa da riciclare. Gli ex lavoratori andavano a rinfoltire le fila dei disoccupati e si trasferivano in massa nelle baraccopoli che cominciarono ad ingrandirsi a dismisura fino ad assediare l’intero perimetro di quell’oceano di case che è Buenos Aires. Attorno alla città, nasceva un’altra città di poveri ed emarginati.
Quei giorni di fame e miseria, li ho ritrovati egregiamente sintetizzati in un cartello di “bienvenido” ancor oggi appeso nell’entrata della baraccopoli bairense di Solano, quartiere in cui vi sconsiglio di passeggiare a tutte le ore del giorno a meno che non siate invitati. La scritta dice: “Benvenuta nella tua nuova dimora, classe media!”
Questi furono gli anni gloriosi della conquista di Benetton della Patagonia. Gli anni in cui si comprava tutto perché niente valeva. E pazienza se, in quella stessa terra che Benetton si preparava a recintare con chilometri e chilometri di filo spinato, le comunità mapuche, vivevano, per dirla col nome di una loro battagliera associazione di lotta, sin dall’Once de octubre. Cioè l’undici di ottobre, il giorno prima del giorno più infausto per i mapuche: quello della scoperta dell’America.
La brillante speculazione economica ebbe come apripista l’abolizione della proprietà collettiva e di tutte le strutture politiche, economiche e sociali del popolo mapuche avvenuta durante gli anni della dittatura militare. Anni di repressione, di violenze, sparizioni e di omicidi per tutto il popolo argentino ma in particolare per i mapuche, considerati de facto e senza distinzione oppositori al regime. Tra gli anni ‘70 e ’80, il numero della comunità mapuche si ridussero da più di 2 mila a 665. Il ritorno alla democrazia ha visto le comunità indigene della Patagonia – parliamo di quelle sopravissute – impegnarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità e difendere la propria terra. Una battaglia non solo durissima ma anche tutta da costruire, se teniamo conto che solo pochi anni fa, la Costituzione della Repubblica Argentina citava i popoli indigeni soltanto per ricordare che lo Stato aveva il dovere di convertirli al cattolicesimo.
Oggi, il Wall Mapu, il territorio dei mapuche, sembra cucito col filo spinato. Qua e là, cartelloni avvertono i viaggiatori che per di qua è “prohibido pasar”. La mitica Ruta 40 dove si sono avventurate generazioni di viaggiatori sulle orme di Chatwin, di Coloane e di Sepulveda, oggi scorre in mezzo a proprietà private acquistate a prezzi di liquidazione da lupi dell’imprenditoria straniera che hanno rubato la terra ad un popolo libero e i sogni all’intera umanità.
I torrenti che un tempo ruggivano lungo la sterminata pianura trasportando vita e prosperità, sono stati deviati per portare le loro ricchezze d’acqua solo dove lo impone la legge dello “sviluppo” – termine che scriveremo sempre tra virgolette – neo liberista. Il grande rio Chubut che attraversa il latifondo Benetton è diventato proprietà privata e ai mapuche non è consentito neppure avvicinarsi. Adesso l’acqua del rio è riservata alle 300 mila pecore e ai 16 mila bovini da macellazione dell’azienda Benetton e i greggi mapuche, composti sì e no da una dozzina di pecore, devono abbeverarsi 40 chilometri più a est. “Ma non è l’acqua che è nostra – ha precisato Ronald MacDonald, il gringo norteamericano che i Benetton hanno messo a capo del latifondo Leleque –. Quella, per legge, è di tutti e non potremmo vietare nemmeno la pesca. E’ la terra attorno al fiume che dobbiamo tutelare come proprietà privata in quanto appartiene alla nostra azienda. E qui è prohibido pasar”.
Questa che si combatte in terra mapuche, è anch’essa una guerra per l’acqua. Per l’accesso all’acqua, al di là del filo spinato. Per l’uso dell’acqua: la Patagonia, è vero, è ricca di questo bene prezioso ma non tanto da consentire la crescita di foreste di legname pregiato e il mantenimento di centinaia di migliaia di capi di bestiame. Ma anche per la purezza e la potabilità dell’acqua. I fiumi che escono dalle grandi “estancias” sono irrimediabilmente inquinati. Nel 2005, una ong riuscì a documentare numerosi casi di indigeni, donne e bambini in particolare, intossicati per aver bevuto l’acqua del fiume che attraversa l’estancia El Maiten di Benetton, inquinata dai liquidi di scarico e dai residuali di lavorazioni del bestiame non depurati da nessun filtro. Quello che in Italia ti farebbe finire in galera, in Argentina è concesso.
Ma se Benetton è oggi il più grande latifondista d’Argentina, non è il solo ad aver investito capitali per “dare un futuro anche agli abitanti di queste terre sottosviluppate”, come ha affermato in un’intervista. Attori famosi come Richard Gere, calciatori come Oscar Batistuta, stelle della televisione e del cinema hanno investito i loro soldi facilmente guadagnati nell’acquisto di terre in Patagonia senza mai porsi troppe domande se nelle terre in questione vivessero dei popoli nativi e, nel caso, che ne pensassero della loro idea di “sviluppo”.
“L’idea di vendere la terra è totalmente estranea alla nostra cultura” mi ha spiegato Mauro Milian, portavoce dell’Once, che ho incontrato a El Maiten in occasione dell’inaugurazione di radio Petü Mogeleiñ, la prima radio in lingua mapuche della Patagonia, realizzata grazie all’aiuto dell’associazione Ya Basta. “Come si può vendere una cosa che appartiene a tutti e, soprattutto, che serve a tutti? E come si può pensare di comperarla? Ce n’è tanta, di terra, in tutta la Patagonia. Se qualcuno vuole costruirsi una casa e allevare il suo bestiame lo può fare senza chiedere niente a nessuno. E tutta la comunità è pronta ad aiutare chiunque voglia mettere su casa. Vendere la terra? Che idea! Sarebbe come pretendere di vendere l’acqua, l’aria… Ma già! Gli uomini bianchi fanno pure questo! Poi mandano la polizia e l’esercito. E dicono a noi, che abitiamo queste terre prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, che dobbiamo fare le valigie. Dobbiamo andarcene via perché un ricco signore che abita in terre tanto lontane da fuggire alla nostra immaginazione, ha comperato tutto e ora afferma che è tutto suo. Ma noi non ce ne andiamo. Non ce ne andiamo perché questa terra è Nuke Mapu. E’ la nostra terra: è la madre di tutti i mapuche ed è la madre di tutto ciò che qui cresce. Senza di lei, potremmo forse continuare a chiamarci Mapuche? Potremmo continuare ad essere ciò che siamo?”
Cosa ne è di un mapuche senza la sua Nuke Mapu? domanda Mauro Milian. Qualcuno china la testa e accetta di lavorare proprio nelle grande “estancias” dei nuovi padroni, lasciandosi sfruttare dai latifondisti e dai loro sgherri come manodopera a basso costo e senza diritti sindacali. Altri prendono la strada delle grandi metropoli dove li attendono giorni di miseria e di discriminazione nelle baraccopoli dei bianchi.
E’ un genocidio anche questo. Un genocidio perpetuato senza camere a gas o stermini di massa ma perpetuato con la non meno efficace arma della globalizzazione. Salvo poi inscatolarne la memoria nelle vetrine di un museo e ricordare in qualche convegno quanto era nobile e saggio l’antico popolo dei mapuche. El pueblo desaparecido.