Uniti per la Libertà a Ras Jadir
Campo profughi di Ras Jadir, Tunisia - Quando chiesero a George Lucas perché avesse scelto proprio il paesaggio della provincia di Tataouine, a sud della Tunisia, per ambientarci il primo Guerre Stellari - il pianeta natale di Luke Skywalker infatti si chiama proprio “Tatooine”, americanizzato -, il regista rispose: "Ma non lo avete visto? Sembra di stare in un altro mondo!"
Campo profughi di Ras Jadir, Tunisia - Quando chiesero a George Lucas perché avesse scelto proprio il paesaggio della provincia di Tataouine, a sud della Tunisia, per ambientarci il primo Guerre Stellari - il pianeta natale di Luke Skywalker infatti si chiama proprio “Tatooine”, americanizzato -, il regista rispose: "Ma non lo avete visto? Sembra di stare in un altro mondo!"
Man mano che la carovana di Uniti per la Libertà, procede verso sud, il morbido paesaggio mediterraneo, lunghi filari di ulivi e di fichi d'india, si allarga in un deserto estraniante di pietre e sabbia, con rari villaggi di pastori e belanti greggi di pecore. Sopra, ci accompagna un cielo azzurro impastellato dall’afa cocente che pare di vederci volare il Millenium Falcon inseguito dalla flotta imperiale. Ma la guerra che si combatte a pochi chilometri da qui, appena dopo il confine con la Libia, è tutt'altro che stellare.
Le sagome delle tendopoli d’emergenza allestite dalla Mezzaluna Rossa appaiono subito dopo il paesino di Chibou. Prima decine, poi centinaia, poi migliaia di tende. Un mare di tendoni bianchi che copre tutto l’orizzonte."Questo è solo il campo numero tre - spiega un operatore della Mezzaluna Rossa che ci accompagna - in tutto sono quattro. Finora..."
La carovana di “Uniti per la Libertà” organizzata da Ya Basta! delle Marche partita da Tunisi all’alba di sabato 9 aprile è arrivata a destinazione nella tarda serata, dopo 600 chilometri di deserto, lo scoppio di qualche pneumatico, un considerevole numero di posti di blocco, continue soste per i motivi più disparati, sfinenti trattative con presidi militari.
I “carovanieri” partiti da Tunisi sono in tutto una quarantina, provenienti da tutta l’Italia, per la maggior parte legati ai centri sociali o ad associazioni come Action o Ya Basta! A loro si sono uniti altrettanti attivisti tunisini di movimenti per i diritti umani. Tutte associazioni costituitesi da pochi mesi o addirittura da pochi giorni. “Sotto Ben Alì era vietato riunirsi in associazioni - mi spiega uno di loro, Anwar Fatnassi - Dopo la rivoluzione è tutto un fiorire, anche caotico se vogliamo, di movimenti, di gruppi, di associazioni. Ma le stesse persone che sono stati incarcerate ed hanno fatto la rivoluzione sono le stesse che oggi lavorano per aiutare i profughi. Non si può pensare alla nostra libertà senza pensare prima a quella degli altri”.
La prima cosa da fare, arrivati ai campi, è quella di scaricare il materiale. Un grosso Tir colmo di medicinali e di attrezzature mediche che la Mezzaluna chiede di portare direttamente alla frontiera libica, dove file e file di profughi si accalcano senza interruzione giorno e notte. Carri armati, filo spinato, militari con le armi spiegate, in lontananza il rombare dei cannoni, bambini con gli occhi sbarrati dal terrore che trascinano fagotti più grossi di loro, famiglie con valigie piene di tutto quello che gli rimane, donne in pianto, feriti e mutilati, tutti in fila dietro barriere e armi spiegate. Solo oggi ne sono arrivati più di 10 mila, mi spiega un operatore della Mezzaluna, “e sono solo le nove di sera. E’ di notte che arriva il grosso. Lo fanno per evitare di trovarsi per strada sotto i bombardamenti più pesanti”. Dall’inizio della guerra sono arrivati anche 15, 16 mila persone al giorno. Nelle giornate più tranquille non si è mai scesi sotto i 6 mila arrivi. L’esercito tunisino, la Mezzaluna Rossa e le associazioni di volontari, cui le autorità hanno intelligentemente demandato il primo approccio con i profughi, stanno svolgendo un lavoro che, senza retorica, possiamo definire eroico. “Non respingiamo nessuno - mi spiega un militare -. Abbiamo un primo campo di accoglienza da cui smistiamo le persone in altri tre campi e diamo immediato avvio alle procedure per il riconoscimento dello status di profughi e per i rimpatri. Di là della frontiera, in mano alle truppe di Gheddafi, sta succedendo di tutto. Ieri un disgraziato impazzito si è gettato con l’auto contro le barriere ed è uscito urlando e bestemmiando dio e sparando contro tutto con due pistole. Abbiamo dovuto abbatterlo. I problemi quotidiano sono immensi. Mancano medicinali e soprattutto gli strumenti di profilassi. Qui la tubercolosi ammazza, ieri abbiamo registrato il primo caso di malaria, e poi c’è la febbre gialla. Tutta la roba che avete portato è un regalo dal cielo per noi”.
Al campo tre, dove i carovanieri concluso lo scarico si danno appuntamento e che ospita tra le 70 e le 80 mila persone, troviamo una quasi festa. La gente balla e canta e saluta un camion con una trentina di ghanesi che viene rimpatriata. Tutti ridono e si augurano che presto tocchi anche a loro. Un giovanotto sudanese mi racconta che è là da quasi un mese. Lavorava come elettricista in una ditta in una cittadina a due passi da Tripoli che è stata praticamente rasa al suolo. Ha già lo status di profugo e attende che il suo Paese metta a disposizione un aero per farlo tornare a casa assieme ai suoi compagni. Gli spiace, e mi indica tre uomini e una donna che se ne stanno un po’ in disparte, per quegli amici là. “Sono del Ciad. Anche loro sono profughi ma il loro Paese è tanto povero. Non hanno soldi per una aereo. Chissà per quanto dovranno stare qua, poveretti”. Come si vive al campo? “Non c’è guerra, nessuno ci vuole accoppare e questo è già una cosa buona. Ma il cibo è poco e queste tende non sono fatte per il deserto. Di giorno il caldo (il mio termometro ha toccato i 41 gradi dentro un tendone.ndr) fa svenire le donne. E poi ci sono serpenti e scorpioni. Le ultime scorte di medicine per il loro veleno sono giustamente riservate ai bambini. Insomma, che ti devo dire, spero che tocchi a me, tornare a casa, la prossima volta!”
“Una bella differenza con l’Italia del bunga bunga, delle escort, degli scandali vero? - commenta Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana Uniti per la Libertà - Che poi è la stessa Italia infame ed egoista che urla contro i migranti e usa a sproposito parole come ‘clandestini’. Pensiamo all’ipocrisia del ministro Roberto Maroni che ha creato ad arte l’emergenza di Lampedusa e afferma che l’Italia accoglierà solo i veri profughi che sono solo i libici. Perché, viene da domandargli, un somalo che è scappato da una guerra civile solo per finire dentro un’altra, che cosa è se non un vero profugo?”
La sera ha lasciato spazio alla notte, nelle tendopoli di Ras Jadir. I militari avvicinano un per uno i ragazzi di Ya Basta! e li invitano con fermezza ad uscire dalla tendopoli con la promessa di farli ritornare domani. Tutte le autorizzazioni ottenute a Tunisi qui non servono a nulla. La carovana dovrà accamparsi ad almeno una ventina di chilometri dal confine. Ragioni di sicurezza, dicono. Siamo italiani, l’Italia è in guerra con la Libia e le truppe fedeli al Raìs sono ad un tiro di fucile dal campo. A malincuore i carovanieri ricaricano gli zaini nel pulman mentre i profughi e gli operatori della Mezzaluna Rossa salutano questi strani italiani che non parlano come Bossi o Berlusconi, portano medicine e non bombe, girano in scassatissimi autobus e non su aerei di guerra, credono nella solidarietà e non nei respingimenti. Italiani che raccontano di un Meditterraneo antico e futuro. Un Meditterraneo che sia un ponte tra i popoli e non una frontiera di guerra.
Man mano che la carovana di Uniti per la Libertà, procede verso sud, il morbido paesaggio mediterraneo, lunghi filari di ulivi e di fichi d'india, si allarga in un deserto estraniante di pietre e sabbia, con rari villaggi di pastori e belanti greggi di pecore. Sopra, ci accompagna un cielo azzurro impastellato dall’afa cocente che pare di vederci volare il Millenium Falcon inseguito dalla flotta imperiale. Ma la guerra che si combatte a pochi chilometri da qui, appena dopo il confine con la Libia, è tutt'altro che stellare.
Le sagome delle tendopoli d’emergenza allestite dalla Mezzaluna Rossa appaiono subito dopo il paesino di Chibou. Prima decine, poi centinaia, poi migliaia di tende. Un mare di tendoni bianchi che copre tutto l’orizzonte."Questo è solo il campo numero tre - spiega un operatore della Mezzaluna Rossa che ci accompagna - in tutto sono quattro. Finora..."
La carovana di “Uniti per la Libertà” organizzata da Ya Basta! delle Marche partita da Tunisi all’alba di sabato 9 aprile è arrivata a destinazione nella tarda serata, dopo 600 chilometri di deserto, lo scoppio di qualche pneumatico, un considerevole numero di posti di blocco, continue soste per i motivi più disparati, sfinenti trattative con presidi militari.
I “carovanieri” partiti da Tunisi sono in tutto una quarantina, provenienti da tutta l’Italia, per la maggior parte legati ai centri sociali o ad associazioni come Action o Ya Basta! A loro si sono uniti altrettanti attivisti tunisini di movimenti per i diritti umani. Tutte associazioni costituitesi da pochi mesi o addirittura da pochi giorni. “Sotto Ben Alì era vietato riunirsi in associazioni - mi spiega uno di loro, Anwar Fatnassi - Dopo la rivoluzione è tutto un fiorire, anche caotico se vogliamo, di movimenti, di gruppi, di associazioni. Ma le stesse persone che sono stati incarcerate ed hanno fatto la rivoluzione sono le stesse che oggi lavorano per aiutare i profughi. Non si può pensare alla nostra libertà senza pensare prima a quella degli altri”.
La prima cosa da fare, arrivati ai campi, è quella di scaricare il materiale. Un grosso Tir colmo di medicinali e di attrezzature mediche che la Mezzaluna chiede di portare direttamente alla frontiera libica, dove file e file di profughi si accalcano senza interruzione giorno e notte. Carri armati, filo spinato, militari con le armi spiegate, in lontananza il rombare dei cannoni, bambini con gli occhi sbarrati dal terrore che trascinano fagotti più grossi di loro, famiglie con valigie piene di tutto quello che gli rimane, donne in pianto, feriti e mutilati, tutti in fila dietro barriere e armi spiegate. Solo oggi ne sono arrivati più di 10 mila, mi spiega un operatore della Mezzaluna, “e sono solo le nove di sera. E’ di notte che arriva il grosso. Lo fanno per evitare di trovarsi per strada sotto i bombardamenti più pesanti”. Dall’inizio della guerra sono arrivati anche 15, 16 mila persone al giorno. Nelle giornate più tranquille non si è mai scesi sotto i 6 mila arrivi. L’esercito tunisino, la Mezzaluna Rossa e le associazioni di volontari, cui le autorità hanno intelligentemente demandato il primo approccio con i profughi, stanno svolgendo un lavoro che, senza retorica, possiamo definire eroico. “Non respingiamo nessuno - mi spiega un militare -. Abbiamo un primo campo di accoglienza da cui smistiamo le persone in altri tre campi e diamo immediato avvio alle procedure per il riconoscimento dello status di profughi e per i rimpatri. Di là della frontiera, in mano alle truppe di Gheddafi, sta succedendo di tutto. Ieri un disgraziato impazzito si è gettato con l’auto contro le barriere ed è uscito urlando e bestemmiando dio e sparando contro tutto con due pistole. Abbiamo dovuto abbatterlo. I problemi quotidiano sono immensi. Mancano medicinali e soprattutto gli strumenti di profilassi. Qui la tubercolosi ammazza, ieri abbiamo registrato il primo caso di malaria, e poi c’è la febbre gialla. Tutta la roba che avete portato è un regalo dal cielo per noi”.
Al campo tre, dove i carovanieri concluso lo scarico si danno appuntamento e che ospita tra le 70 e le 80 mila persone, troviamo una quasi festa. La gente balla e canta e saluta un camion con una trentina di ghanesi che viene rimpatriata. Tutti ridono e si augurano che presto tocchi anche a loro. Un giovanotto sudanese mi racconta che è là da quasi un mese. Lavorava come elettricista in una ditta in una cittadina a due passi da Tripoli che è stata praticamente rasa al suolo. Ha già lo status di profugo e attende che il suo Paese metta a disposizione un aero per farlo tornare a casa assieme ai suoi compagni. Gli spiace, e mi indica tre uomini e una donna che se ne stanno un po’ in disparte, per quegli amici là. “Sono del Ciad. Anche loro sono profughi ma il loro Paese è tanto povero. Non hanno soldi per una aereo. Chissà per quanto dovranno stare qua, poveretti”. Come si vive al campo? “Non c’è guerra, nessuno ci vuole accoppare e questo è già una cosa buona. Ma il cibo è poco e queste tende non sono fatte per il deserto. Di giorno il caldo (il mio termometro ha toccato i 41 gradi dentro un tendone.ndr) fa svenire le donne. E poi ci sono serpenti e scorpioni. Le ultime scorte di medicine per il loro veleno sono giustamente riservate ai bambini. Insomma, che ti devo dire, spero che tocchi a me, tornare a casa, la prossima volta!”
“Una bella differenza con l’Italia del bunga bunga, delle escort, degli scandali vero? - commenta Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della carovana Uniti per la Libertà - Che poi è la stessa Italia infame ed egoista che urla contro i migranti e usa a sproposito parole come ‘clandestini’. Pensiamo all’ipocrisia del ministro Roberto Maroni che ha creato ad arte l’emergenza di Lampedusa e afferma che l’Italia accoglierà solo i veri profughi che sono solo i libici. Perché, viene da domandargli, un somalo che è scappato da una guerra civile solo per finire dentro un’altra, che cosa è se non un vero profugo?”
La sera ha lasciato spazio alla notte, nelle tendopoli di Ras Jadir. I militari avvicinano un per uno i ragazzi di Ya Basta! e li invitano con fermezza ad uscire dalla tendopoli con la promessa di farli ritornare domani. Tutte le autorizzazioni ottenute a Tunisi qui non servono a nulla. La carovana dovrà accamparsi ad almeno una ventina di chilometri dal confine. Ragioni di sicurezza, dicono. Siamo italiani, l’Italia è in guerra con la Libia e le truppe fedeli al Raìs sono ad un tiro di fucile dal campo. A malincuore i carovanieri ricaricano gli zaini nel pulman mentre i profughi e gli operatori della Mezzaluna Rossa salutano questi strani italiani che non parlano come Bossi o Berlusconi, portano medicine e non bombe, girano in scassatissimi autobus e non su aerei di guerra, credono nella solidarietà e non nei respingimenti. Italiani che raccontano di un Meditterraneo antico e futuro. Un Meditterraneo che sia un ponte tra i popoli e non una frontiera di guerra.