Fratello Duch e gli orrori del Campo S-21
24/09/2020Il suo processo, avviato il 17 febbraio 2009 e conclusosi con la sentenza emessa il 26 luglio 2010, fu il primo ad essere celebrato davanti all’Extraordinary Chambers in the Court of Cambodia (Eccc), meglio conosciuto come Tribunale speciale per la Cambogia. Una corte di giustizia composta da personale internazionale ma istituita in accordo con le leggi nazionali del Paese.
Il processo a Duch suscitò molto scalpore perché porto alla luce gli orrori compiuti dal regime dei Khmer Rossi in Cambogia. Con la sua morte si chiude una delle pagine più nere della storia dell’umanità. Ne parliamo con l’avvocata Maria Stefania Cataleta, unica legale italiana ammessa all’Eccc e che nel 2009 ha fatto parte dell’equipe che ha difeso le vittime di Kaing Guek Eav.
Per capire cosa sia successo in Cambogia in quegli anni sanguinari, torniamo a quel 17 aprile del 1975, quando l’esercito rivoluzionario uscì dalla foresta e conquistò Phnom Penh, prendendo il potere su tutta la Cambogia. Molti, in Europa, salutarono con favore l’arrivo dei rivoluzionari che si prefiggevano di sradicare la corruzione, ripristinare la giustizia e l’eguaglianza, e affermare l’indipendenza nazionale.
Fu davvero così?
In realtà, si trattò della rivoluzione più radicale e segreta della storia. Il movimento dei Khmer Rouge era un universo vietato agli osservatori internazionali e così rimarrà fino al suo smantellamento, nel 1979. I leaders che lo componevano erano di modesta origine contadina o intellettuali che avevano studiato anche in Europa, come il loro leader Pol Pot. Subito dopo il loro ingresso in città, i Khmer Rouge, evacuarono Phnom Penh e i due milioni e mezzo di abitanti, in colonne sterminate, furono costretti a dirigersi verso le risaie. Fu una vera e propria deportazione per liberare Phnom Penh dai complici dell’imperialismo e dai fautori della borghesia e del capitalismo.
Ma perché svuotare la città?
Non fu solo per attuare un’ideologia ottusa, improntata a un ruralismo primitivo, ma anche per ovviare alla carestia. Phnom Penh aveva viveri solo per una settimana e i rivoluzionari non avrebbero saputo come sfamare la popolazione, che fu costretta a lasciare la città senza cibo, bevande, medicinali e non trovare alloggi nei villaggi dove avrebbero dovuto collocarsi. Era l’attuazione di una ruralizzazione coatta, il cui slogan era che il cibo era nei campi e che lì il popolo avrebbe dovuto guadagnarselo con il lavoro. Nulla contava che il popolo cittadino mancasse di competenza, formazione, allenamento, tecnica e utensili per lavorare nelle risaie. E con la capitale, vennero svuotate tutte le cittadine in una frenesia irragionevole di disurbanizzazione. Le città erano viste come centri del piacere, del profitto e dell’emulazione dei modelli stranieri.
I Khmer Rouge costrinsero l’80 per cento della popolazione cambogiana a trasferirsi nelle risaie che divennero dei veri e propri campi di conferimento e di sterminio. Come si viveva e come si moriva in questi luoghi?
La razione giornaliera era di due ciotole di riso per sfamarsi dopo dieci ore di lavoro ad una temperatura di 30°- 40°. Era vietato integrare questa dieta con pesce, carne o frutta, così come era vietato toccare i beni collettivi riservati ai quadri della rivoluzione. La pena per ogni trasgressione era la morte immediata, come quella di una bambina uccisa a colpi di vanga per aver raccolto una mela da terra. Era proibita la vita di famiglia e i bambini, anche di 8 anni, venivano strappati alla scuola e assegnati a centri di lavoro produttivo, come fabbriche, officine e cooperative agricole. Veniva interrotta ogni forma di insegnamento secondario o superiore, attività considerate reazionarie e figlie del colonialismo e dell’imperialismo e vietata ogni attività religiosa, con distruzione dei luoghi e simboli. I bonzi vennero destinati al lavoro agricolo e le pagode trasformate in stalle e porcili.
In una società senza più classi, nuove forme di esecuzione capitale e nuove forme di tortura vennero create: la trottola, per via del movimento della vittima mentre cade dopo aver subito un colpo di vanga alla nuca; il sacco, per via del sacco di plastica con cui viene incappucciata la vittima che muore soffocata; l’altalena, detta della vittima a cui si legano insieme mani e piedi e che viene appesa ad un albero dopo essere stata trascinata da un veicolo. Alcuni carnefici, prima che sopraggiungesse la morte della vittima, gli estraevano il cuore o le viscere per mangiarli.
Possiamo considerarlo un vero e proprio genocidio?
E’ stato configurato il genocidio del popolo cambogiano limitatamente ad una parte sociale di questo popolo, ma, se non vi fosse il limite giuridico della discriminazione politica, questo sarebbe certamente un genocidio, come molti storici l’hanno definito, a dispetto dei giuristi. Il mantra della rivoluzione, così come trasmesso dai media, si basava su tre principi cardine: indipendenza-sovranità; contare sulle proprie forze; difesa e costruzione della patria. Il popolo, sotto i Khmer Rouge, si componeva di due parti: da un lato, l’antico, ovvero gli aristocratici, la borghesia, gli sfruttatori; dall’altro, il nuovo, costituito dalle masse contadine e operaie. Gli studiosi hanno definito questa dei Khmer Rouge come la più estremista e violenta delle rivoluzioni.
Torniamo a Kaing Guek Eav. Il suo ruolo era quello di direttore del centro di detenzione di Tuol Sleng a Phnom Penh, chiamato anche col nome di Campo S-21. E’ proprio da qui, dai circa 4 mila verbali di confessioni rinvenuti, che, come ci ha spiegato lo storico David Chandler, sono emerse le principali testimonianze degli orrori perpetrati sotto il regime della Kampuchea Democratica, come si chiamò la Cambogia tra 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979, in cui furono massacrate 3 milioni di persone. Cosa sappiamo di questa prigione?
L’S-21 era una scuola ma durante il regime dei Khmer Rouge fu adibito a centro di detenzione e tortura. La mole incredibile di documenti ci racconta che circa 14mila tra uomini, donne e bambini sono transitati da quella prigione tra il 1975 e i primi del 1979. I prigionieri venivano interrogati, torturati lungamente per ricavarne delle confessioni e, nella maggior parte dei casi, giustiziati. Solo nel 1978 giunsero nel centro almeno 5mila prigionieri. La lunghezza delle confessioni e dei dossier dipendeva dalla gravità delle accuse, che potevano anche consistere nel semplice fatto di indossare gli occhiali. Ciascuno dei detenuti era costretto, attraverso la tortura, a confessare crimini mai commessi contro il partito, quasi sempre si trattava dell’ammissione di essere controrivoluzionari o spie al soldo delle potenze straniere.
C’è qualche parallelo con le purghe staliniane?
Il trattamento dei detenuti si richiamava proprio alle purghe di Stalin degli anni ’30 e ai processi farsa dell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale. In Cambogia erano stati adottati esattamente quegli esempi. I metodi di tortura erano particolarmente ingegnosi e crudeli, tanto da costringere persone del tutto innocenti a confessare qualunque crimine. Per tali ragioni, queste confessioni non sono considerate dagli storici delle fonti attendibili. Un’altra ragione della loro inattendibilità è che tutti i prigionieri risultavano colpevoli. Quei carteggi sono inattendibili eccetto che per la cura meticolosa con cui i detenuti venivano identificati, schedati e fotografati sia prima che dopo le torture. Le confessioni dimostrano la fobia del partito verso coloro che considerava traditori, tanto che la S-21 era un’operazione del tutto supportata dai leaders del partito.
Quali furono le responsabilità di Kaing Guek Eav in queste operazioni?
Lui era il direttore del centro S-21 e quindi responsabile di quanto avveniva all’interno. Non solo da un punto di vista organizzativo. Duch prendeva parte personalmente alle torture. Considerava tutti i cambogiani dei traditori bugiardi. Aveva un passato da insegnante e si faceva supportare da torturatori per lo più giovani e poco istruiti. La corte lo ha condannato in primo grado a 35 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, come persecuzione a carattere politico, sterminio, riduzione in schiavitù, detenzione illegale, tortura e trattamento inumano, omicidio ed altre condotte illecite. La condanna, su appello della Procura, è stata in seguito commutata in ergastolo dalla Camera della Corte Suprema, il 3 febbraio 2012.
Come si è giustificato Kaing Guek Eav sul banco degli imputati?
Ha ammesso le proprie responsabilità e chiesto scusa alle vittime.
Villa Sikania. la fuga finisce in tragedia investito ed ucciso un giovane eritreo
4/09/2020E’ finito in tragedia l’ennesimo tentativo di fuga dei migranti trattenuti nella struttura di Villa Sikania a Siculiana, vicino ad Agrigento.
Per tutto il giorno, una ventina di richiedenti asilo, per lo più tunisini, è salita sul tetto dell’edificio in segno di protesta contro le condizioni in cui sono corretti a trascorrere una quarantena che sembra reiterarsi all’infinito.
Nella notte, il tentativo di fuga. Già il giorno prima, un paio di migranti avevano tentato di allontanarsi ma sono stati subito rintracciati dalla polizia e ricondotti nella struttura. Ieri notte, un altro gruppo di migranti ha provato a fuggire ma questa volta il tentativo è finito in tragedia.
Un eritreo di 20 anni, secondo gli attivisti il suo nome era Hanuar, è stato investito mentre scappava lungo la strada statale 115 da una Volkswagen Tuareg ed è morto sul colpo. L’automobilista è un 34enne di Realmonte che è indagato per il reato di omicidio stradale e fuga del conducente.
Secondo le ipotesi degli inquirenti, l’uomo non si sarebbe fermato dopo lo scontro.
Nello stesso scontro che è costata la vita al giovane eritreo, sono stati feriti anche i poliziotti che cercavano di catturarlo: due hanno riportato solo traumi e contusioni ma il terzo dovrà essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico.
La tragedia di Villa Sikania è solo il risultato di una politica di (mala) accoglienza utilizzata solo ai fini di catturare facile consenso facendo leva su “paure” e su presunte “invasioni” che non hanno nessun riscontro reale.
Da tempo, su Melting Pot denunciamo l’assurdità di queste mega strutture di accoglienza, veri e propri limbi di diritti sospesi, senza servizi e senza nessuna possibilità di inclusione sociale, che altro non sono che veri e propri carceri per “detenuti” che non hanno commesso nessun reato. Il sistema di accoglienza diffusa, sul modello di Riace, è stato volutamente abbattuto dall’ex ministro Matteo Salvini senza che l’attuale Governo abbia fatto nulla per ripristinarlo o per adottare strategie alternative che non degradino il territorio, dignitose per i migranti e non inneschino tensioni.
L’esplosione della pandemia, in particolare, le forzate quarantenne ed i rischi insiti nei grandi assembramenti di persone – inevitabili in strutture come quella di Villa Sikania – hanno messo in luce l’assurdità e la pericolosità di questo sistema di mala accoglienza.
“Fuggire e ancora fuggire da una disperazione che tanto è stata gridata e narrata che nessuno ascolta più. Le torture, gli abusi.le violenze in Libia, le attese senza fine non bastano. soprattutto non interessano nessuno. Cento o duecento, salvati o affogati… è tutto uguale oramai. Anzi no, meglio se affogano cosi non arrivano a disturbarci. A nessuno interessa comprendere le motivazioni, condividere magari il dolore o il senso di smarrimento di queste persone alle quali noi neghiamo il futuro”. commenta amaramente Yasmine Accardo che ha seguito le proteste dei migranti di Villa Silkana come referente della campagna LasciateCIEntrare.
In Gabon, centinaia di bambine e bambini sono torturati e uccisi per ricavare dai loro organi feticci rituali
1/07/2020
Una pratica moderna che ha per mandanti politici e uomini d’affari
Più è grande la sofferenza della vittima, e più il talismano è potente e, di conseguenza, costoso. Un feticcio può arrivare a costare anche l’equivalente di 1500 euro. Sono pochi, in Gabon, come in tutta l’Africa, a poterselo permettere!
«Le vittime invece - conclude l’avvocata Maria Stefania Cataleta - appartengono per lo più alle classi povere o sono abitanti di villaggi isolati. Certamente gli obiettivi principali sono i bambini poveri o i figli di famiglie immigrate o disagiate, che non dispongono di nessun mezzo per ottenere giustizia».
Treviso - Virus, proteste e speculazioni
15/06/2020L’aspetto davvero incredibile del pasticciaccio brutto assai legato all’ex caserma Serena è che chi ha creato la struttura fonte del problema, ora chiede di rimuoverla perché è fonte del problema da lui creato. Il resto di quanto accaduto, era tutto prevedibile e previsto.
Nel centro di accoglienza situato nell’ex caserma Serena, a Dosson di Casier, paesino a ridosso di Treviso, si è verificato appunto questo, quando un operatore della srl Nova Facility di nazionalità pakistana ha portato all’interno della struttura il Covid 19, obbligando il Comune, lo scorso giovedì 11 giugno, a isolare la struttura e scatenando le immediate proteste dei migranti, subito sedate dalla polizia.
Il caso è stato subito cavalcato dalla destra che ha accusato i migranti, tacciati di ingratitudine, di non voler rispettare le regole valide per tutti gli italiani. Non è mancato lo striscione di Casa Pound che invita a chiudere la struttura e le esternazioni nelle stesso senso dell’ex ministro Salvini che ha fatto finta di dimenticare che queste mega strutture sono anche merito suo.
«Che queste grandi ed inumani centri vadano chiusi lo diciamo anche noi e da molto prima delle destra. Come si può pensare di fare accoglienza ghettizzando i richiedenti asilo in queste mega strutture senza servizi? La differenza tra noi e la destra è che, per noi, queste persone sono solo vittime di una mala gestione e di una idea di accoglienza gestita come un business che parte dal 2015 quando l’ex caserma è stata adibita a CAS» spiega Fabrizio Urettini, ideatore del progetto Talking Hands che ha aperto a tanti migranti le porte del mondo del design creativo e della moda.
«L’ex caserma era già stata posta in isolamento quando il virus è arrivato a Treviso. Sono stati momenti duri per tutti, ma soprattutto per loro che sono stati pressoché abbandonati dalla srl che gestisce la struttura. Adesso che finalmente ne stavano uscendo ed avevano ripreso ad andare al lavoro, si sono visti chiudere un’altra volta le porte in faccia perché non è stato fatto il tampone e neppure imposta la quarantena d’obbligo ad un operatore che tornava dal Pakistan. Insomma, se si sono incazzati, un motivo c’era, giusto? E non è certo perché non vogliono rispettare le regole di sicurezza, come sono stati accusati da certa stampa!».
L’ex caserma è gestita dalla srl Nova Facility sorta alle ceneri dell’impresa Pio Guaraldo spa, chiusa per fallimento con un buco di svariati milioni [2]. Un anno fa, la coop napoletana Marinello aveva vinto il bando per la gestione del centro ma, dopo una battaglia in tribunale, la gestione è ritornata nella mani della srl trevigiana [3]. Oggi la Nova Facility gestisce anche tutti i servizi sociali di Treviso.
«Trovo vergognoso - conclude Fabrizio Urettini - il tentativo degli amministratori della Nova Facility di addossare la colpa di quanto successo all’operatore pakistano, dipinto come un tipo losco che prendeva l’ibuprofene per non far scoprire che aveva la febbre. Ma sono stati loro a spedirlo al lavoro, servizio mensa per di più, il giorno dopo il suo ritorno a Treviso, senza quarantena e senza tampone».
Due giorni fa, un ospite della struttura, è stato trovato positivo al virus e ricoverato in terapia intensiva. Risultato: ancora lockdown per i migranti, ancora proteste e ancora accuse da parte degli amministratori di destra che governano il territorio di voler spargere il contagio.
«Ma i migranti costretti a vivere in quel posto orribile che è l’ex caserma Serena non sono untori - commenta Monica Tiengo dell’Adl Treviso -. Sono le vittime dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Le vittime di un sistema che li vuole prigionieri in uno dei più grandi hub della regione. Fin dalla sua apertura chiediamo che quel posto venga chiuso e che i richiedenti asilo vengano distribuiti in strutture più piccole dove poter vivere dignitosamente. Dopo due mesi chiusi li dentro a causa del lockdown ora debbono subire un’altra quarantena perché l’ente gestore non ha seguito le norme minime di prevenzione. L’ente gestore dovrebbe vergognarsi per le ricadute che comporta questa improvvisazione e farsi da parte. E in generale è ora che chiunque la smetta di lucrare e cercare consenso politico sulle pelle dei migranti».
No, i richiedenti asilo di Pisa non pretendono di andare al ristorante
22/04/2020La storia emblematica di una protesta raccontata dai media in maniera inesatta, incompleta e pretestuosa
Due bambini sottratti alla madre e nascosti in Pakistan
25/02/2020Grazia Satta dell’associazione PortAmico: “Chiediamo alla Farnesina di attivarsi immediatamente per riportare i due bambini in Italia e riconsegnarli alla loro madre”
La drammatica vicenda che stanno vivendo S.S, una bambina di 9 anni, e il suo fratellino di 10, U.S, è stata denunciata dall’associazione PortAmico di Portomaggiore, in Provincia di Ferrara. Non a caso uno dei Comuni italiani con la più alta densità di migranti pakistani del nostro Paese.
“A questi due bambini che, voglio sottolinearlo, hanno la cittadinanza italiana e sono quindi italiani, sono stati negati tutti i diritti fondamentali dell’infanzia, senza che nessuna autorità del nostro Paese si sia mossa a loro tutela - spiega Grazia Satta dell’associazione PortAmico -.
Una storia brutta assai che rischia di finire ancora peggio, questa di S.S. e U.S., seriamente a rischio di finire a far da capro espiatorio di vendette trasversali dal sapore tribale. Così come è a rischio di ritorsioni la loro madre, N. P. B, che, proprio per questo, è stata inserita in un percorso di alta protezione in una città dell’Emilia Romagna di cui mi è stato chiesto di non fare il nome per motivi di sicurezza. La sua colpa? Essersi ribellata alle leggi patriarcali, non scritte ma imposte dalla “tradizione”. Leggi che in Pakistan contano come una Costituzione.
La vicenda di NPB è simile a quella di tante donne pakistane. Matrimonio combinato dalla famiglia rispettando i dettami della casta - pur se abolite dalla legge pakistana e contrarie alla fede islamica, le caste in Pakistan continuano ad essere rispettate nella società - e trasferimento in Italia per il ricongiungimento. Ma la sua storia con M.B. 38 anni, italiano di origine pakistana, dura solo il tempo di generare due figli. L’uomo trova una nuova compagna e decide di liberarsi della famiglia precedente e lo fa nel modo, per lui, più semplice che gli evita noiose pratiche burocratiche e, soprattutto, l’assegno di mantenimento. Porta la moglie e i figli in Pakistan, ruba loro soldi e documenti, e li abbandona ad Islamabad. Quindi se ne torna in Europa, in Inghilterra, secondo le ultime notizie, e si sistema con la nuova compagna. Ma N.P.B., stavolta si ribella al costume tradizionale che
Disperata, N.P.B. decide di affidare i due bambini a suo fratello e di venire da sola in Italia per chiedere giustizia e il ricongiungimento familiare. Tornata nella sua casa del comune di residenza, viene accolta con pesante ostilità dalla comunità pakistana ed intercettata dai parenti del marito che vedono il suo comportamento come uno sgarro alla famiglia. Così costretta a scappare in Emilia dove, tramite PortAmico viene accompagnata al centro Donne e Giustizia di Ferrara ed inserita in un programmi di alta protezione. Attualmente, N.P.B. vive nascosta in una città emiliana ma continua a chiedere di poter riabbracciare i suoi bambini. Bambini che sono in pericolo perché l’ex marito ha portato in tribunale un documento con la firma falsificata di N.P.B. in cui è lei che chiede il divorzio allo scoppio di ostacolare la sua richiesta di cittadinanza italiana, ed ha presentato la richiesta di ottenere la custodia dei bambini allo scopo evidente di usarli come merce di scambio e ricattare la donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi.
“I figli di N.P.B. vivono nel terrore - conclude Grazia Satta -. Una volta al mese i parenti dell’ex marito incontrano i bambini in presenza di un legale e chiedono loro dove si trovi la loro mamma. Alla risposta dei bambini ‘la mamma è a casa’ i nonni incalzano chiedendo chi ha insegnato loro a dire
La disperazione del ritornante
23/10/2019Amadou ha conquistato la sua Europa solo per scoprire che, come sottolinea, “è un altro Senegal, solo con molto più razzismo” con l’unico vantaggio che “da voi la merce si riesce a vendere, qualcosa si tira su e si sopravvive”. E conclude: “Ma se potessi tornerei subito a Dakar!”
Non è stato così fortunato, Abdoulaye (questo è un nome di fantasia). Anche lui girovagava per il mercato dell’artigianato di Dakar, ma, al contrario di Amadou, non aveva nessuna bancarella. Magro da far spavento, vagabondava tra la gente cercando di vendere a chi capitava una della 4 o 5 brutte collanine che teneva tra le mani scheletriche. Non stava neppure a discutere sul prezzo. Andava bene qualsiasi cifra. “E’ per mangiare”, spiegava. In Europa, Abdoulaye ci era pure arrivato. E per la stessa strada di Amadou. Un viaggio interminabile attraverso il deserto e gli orrori dei lager libici. Poi il barcone e finalmente l’agognata Europa, sino alla Francia. Un viaggio di oltre tre anni per essere rispedito in patria a calci in culo dopo neppure tre mesi con un volo diretto Parigi - Dakar di 5 ore e 25 minuti. E Dakar, Abdoulaye, non l’ha più lasciata. Sbarcato dall’aereo, non ha avuto il coraggio di ritornare al suo villaggio ed alla sua famiglia che contava su di lui per uscire dalla miseria. Preferisce che lo credano morto. Preferisce sopravvivere di collanine e di carità, tra fame e stenti, nelle strade di Dakar.
“Chi viene rispedito indietro dall’Europa va incontro ad un destino che è considerato peggio della morte - spiega il giovane attivista Mustapha Sallah - Io sono fortunato. Ho una famiglia che mi ha riaccolto. Ma non è così per la maggior parte dei migranti”. Mustapha è un portavoce dell’associazione interafricana Youth Against Irregular Migration (Yaim) nata in Gambia proprio per tutelare i migranti di ritorno e per spiegare ai giovani che intendono partire a quali rischi vanno incontro. Lui stesso è un “ritornante”. Il suo obiettivo iniziale non era l’Europa ma Taiwan, dove sperava di accedere ai corsi universitari di informatica. Per questo, aveva lasciato la nativa Banjul, capitale del Gambia, per la Nigeria. Ad Abuja si era fermato tre mesi solo per rendersi conto che Taiwan era per lui irraggiungibile. Allora aveva affidato tutti il suo denaro a dei passers convinto che fosse la soluzione per arrivare all’Europa. “Appena arrivato a Tripoli, mi hanno arrestato senza motivo e internato in un campo” racconta. Di quanto gli è stato fatto nel lager libico, Mustapha non parla volentieri. Dice solo che lo picchiavano per il gusto di picchiarlo tutte le volte che chiedeva qualcosa da mangiare.
Dopo 4 mesi di prigionia è ridotto in fin di vita. Anche per i torturatori, Mustapha non presenta più interesse perché gli hanno già portato via tutto quello che sono riusciti a portargli via, e viene preso in carico da dagli operatori dell’Oim che gli offrono l’opportunità di essere rimpatriato. “Ho detto di sì. Non avevo nulla per pagarmi il barcone e l’alternativa era solo la morte”.
Oggi Mustapha con la sua associazione si occupa di aiutare i disperati che non hanno il coraggio di rientrare in famiglia, “cerco di spiegargli che non c’è vergogna nell’essere respinti dalle frontiere”, e gira per i villaggi dell’interno per raccontare cosa significa affidare la propria vita ai trafficanti. “Chi parte non sa quello a cui va incontro -spiega - Nei villaggi queste informazioni non arrivano”.
In un Paese dove la povertà ammazza, l’Europa viene vista come l’unica strada per un riscatto sociale. Il giovane che riesce ad arrivare, come nel caso di Amadou, è una garanzia di sopravvivenza per tutta la famiglia e, in alcuni casi, per tutto il villaggio. E’ frequente che due o più famiglie creino una sorta di, chiamiamola così, joint venture con lo scopo di mettere assieme il denaro che credono sia sufficiente a consentire al migrante di arrivare in Europa e di avviare una attività o di trovare un lavoro.
Birago (anche questo è un nome di fantasia per una questione di tutela) vive in affitto assieme ad un numero imprecisato di suoi connazionali senegalesi in un piccolo appartamento nella preferita di Mestre. L’ho conosciuto in una scuola di italiano gestita dalle attiviste del cso Rivolta. Da anni attende un permesso di soggiorno che forse non agli arriverà mai. Intanto lavora in nero in una azienda edile perché in patria aveva seguito un corso di saldatura. Il suo villaggio si trova ai confini con la Mauritania. “Tutto il paese ha fatto una colletta per farmi partire. La mia famiglia ha venduto le mucche. Io adesso gli ho detto che sono arrivato, che lavoro e che sono trattato bene. Non sanno la verità. Gli spedisco quasi tutto quello che guadagno anche se non mi resta quasi nulla per vivere in Italia. Ma loro sono contenti. I miei genitori, i miei fratelli e sorelle, sono fieri di me. Non sanno come devo vivere qui e non voglio che lo sappiano mai. Se mi rimandano indietro, non potrei più tornare a casa. E’ la cosa peggiore che mi potrebbe capitare. Preferisco fargli credere che sono morto”.
Gambia. Arrestato Killa Ace, il rapper che ha denunciato la dittatura
20/08/2019In questi tre anni che sono seguiti alla caduta del regime, Alli Cham - il vero nome di Killa Ace - non ha cessato di denunciare le ingiustizie che ancora pesano sul suo Paese e l’ipocrisia di un processo di pace che sembra essersi arenato mentre i torturatori e gli uccisori del passato regime vengono amnistiati uno dopo l’altro, in nome di una “riconciliazione” che poco ha a che vedere con la giustizia.
Siamo andati ad intervistare Killa Ace ieri pomeriggio, nel piccolo negozio di cellulari in cui lavora part-time, tra una rima e l’altra, nel bel mezzo del mercato di Serrekunda.
Sessanta minuti dopo, la polizia lo ha arrestato, prelevandolo con la forza proprio dietro lo stesso bancone dove avevamo chiacchierato. E con lui, è stata portata in carcere una dozzina di altri attivisti che avevano manifestato contro l’omicidio di un venditore ambulante perpetuato dalle forze speciali della polizia. In serata, gli attivisti sono stati poi rilasciati dietro cauzione.
Killa Ace, un ultra trentenne con l’aspetto di un ragazzino, ci aveva raccontato senza paura e senza giri di parole della brutalità delle forze dell’ordine che sono rimaste le stesse del tempo della dittatura. Ci aveva raccontato che il Gambia, nonostante quello che si preferisce credere all’estero, è tutt’altro che un Paese libero. Ci aveva raccontato di un Governo nuovo solo nel suo aspetto esteriore ma che, nei fatti, continua le politiche di svendita delle ricchezze del Paese alle multinazionali estere. Ci aveva raccontato di un Stato in cui qualsiasi dissenso viene prontamente e brutalmente represso, dal quale i giovani scappano con la stessa disperazione di prima. “È lo stesso regime, le stesse leggi, la stessa corruzione, le stesse facce. E la polizia continua a tenere sotto controllo chi promuove il dissenso con lacrimogeni e arresti preventivi”, ci ha detto profeticamente.
Nel video, Killa Ace, “rappa” per noi una versione personalizzata di uno suoi pezzi più conosciuti, diventato virale tra le giovani ed i giovani attivisti del Gambia.
Nel video, Killa Ace, “rappa” per noi una versione personalizzata di uno suoi pezzi più conosciuti, diventato virale tra le giovani ed i giovani attivisti del Gambia
Quando i diritti sono sospesi. La storia emblematica di Ridha
17/02/2019Ridha è un giovanotto con una trentina d’anni sulle spalle. E’ fuggito dalla Tunisia seguendo la rotta mediterranea. All’inizio del 2018 è riuscito a sbarcare a Lampedusa. Qualche giorno dopo il suo arrivo, l’hotspot dell’isola è stato oggetto di un incendio doloso. Non ci furono vittime, ma gli inquirenti considerarono tutti i migranti del centro, all’incirca 150 persone, come possibili responsabili dell’atto doloso. Ridha fu così trasferito nel CPR di Restinco, una frazione di Brindisi. Le indagini dimostrarono ben presto che Ridha era innocente. Durante l’udienza al tribunale di Agrigento, un migrante si assunse tutte le responsabilità del gesto. La sentenza che ne seguì avrebbe dovuto determinare la scarcerazione immediata di Ridha e degli altri tunisini trattenuti, riconosciuti innocenti. Ma così non fu.
Ridha rimase rinchiuso nella struttura di Restinco sino al 25 novembre. Come lui, anche altri tunisini furono trattenuti, mentre altri furono rilasciati. "Di fronte ad una unica sentenza, quella del tribunale di Agrigento, i giudici di pace delle diverse città in cui i richiedenti asilo furono condotti, si comportarono in maniera completamente diversa - spiega Yasmine Accardo, coordinatrice della Campagna LasciateCIEntrare -. Abbiamo scritto all’Unhcr, al garante dei detenuti e alle prefetture spiegando la situazione quanto meno illegittima del trattenimento prolungato, abbiamo anche coinvolto deputati, ma non c’è stato nulla da fare. Al CPR di Torino, seguiti dall’avvocato Gianluca Vitale, alcuni sono stati rilasciati e altri trattenuti, in quello di Brindisi sono stati rilasciati solo a settembre ma, nel frattempo, alcuni erano già stati deportati in Tunisia. A Potenza, i migranti rinchiusi nel CPR di San Gervasio sono stati trattenuti sino a maggio, quando hanno ottenuto la liberazione col riesame seguito dall’avvocata Angela Bitonti. Insomma, ognuno ha fatto un po’ come gli pareva, con buona pace di quel diritto che afferma che la legge dovrebbe essere uguale per tutti”.
Niente diritti, tanta ingiustizia. Il Cpr di Palazzo San Gervasio è la cartina di tornasole di una sistema di detenzione pensato apposta per generare violenza
2/02/2019La campagna insieme all’avvocato Angela Bitonti continua a portare avanti un’instancabile lavoro di tutela dei diritti dei cittadini reclusi.
"I Cpr sono peggio delle carceri sovraffollate - conclude Yasmine Accardo -. Occorre far conoscere quanto avviene all’interno, sensibilizzare la società civile. Questi centri vanno chiusi immediatamente e vanno sostenute tutte le mobilitazioni per non farne aprire di nuovi".