Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Fratello Duch e gli orrori del Campo S-21

Intervista all’avv. Maria Stefania Cataleta, legale italiana al Tribunale speciale per la Cambogia

Il suo nome era Kaing Guek Eav ma si faceva chiamare con il suo nome di guerra: Duch. Anzi, “Fratello Duch”; tutti i dirigenti dei Khmer Rouge usavano questo appellativo davanti al loro nome. Lo stesso Pol Pot si faceva chiamare Brother Number One. Si è spento lo scorso 2 settembre in una cella della prigione cambogiana dove scontava la condanna all’ergastolo.

Il suo processo, avviato il 17 febbraio 2009 e conclusosi con la sentenza emessa il 26 luglio 2010, fu il primo ad essere celebrato davanti all’Extraordinary Chambers in the Court of Cambodia (Eccc), meglio conosciuto come Tribunale speciale per la Cambogia. Una corte di giustizia composta da personale internazionale ma istituita in accordo con le leggi nazionali del Paese.

Il processo a Duch suscitò molto scalpore perché porto alla luce gli orrori compiuti dal regime dei Khmer Rossi in Cambogia. Con la sua morte si chiude una delle pagine più nere della storia dell’umanità. Ne parliamo con l’avvocata Maria Stefania Cataleta, unica legale italiana ammessa all’Eccc e che nel 2009 ha fatto parte dell’equipe che ha difeso le vittime di Kaing Guek Eav.

Per capire cosa sia successo in Cambogia in quegli anni sanguinari, torniamo a quel 17 aprile del 1975, quando l’esercito rivoluzionario uscì dalla foresta e conquistò Phnom Penh, prendendo il potere su tutta la Cambogia. Molti, in Europa, salutarono con favore l’arrivo dei rivoluzionari che si prefiggevano di sradicare la corruzione, ripristinare la giustizia e l’eguaglianza, e affermare l’indipendenza nazionale.

Fu davvero così?

In realtà, si trattò della rivoluzione più radicale e segreta della storia. Il movimento dei Khmer Rouge era un universo vietato agli osservatori internazionali e così rimarrà fino al suo smantellamento, nel 1979. I leaders che lo componevano erano di modesta origine contadina o intellettuali che avevano studiato anche in Europa, come il loro leader Pol Pot. Subito dopo il loro ingresso in città, i Khmer Rouge, evacuarono Phnom Penh e i due milioni e mezzo di abitanti, in colonne sterminate, furono costretti a dirigersi verso le risaie. Fu una vera e propria deportazione per liberare Phnom Penh dai complici dell’imperialismo e dai fautori della borghesia e del capitalismo.

Ma perché svuotare la città?

Non fu solo per attuare un’ideologia ottusa, improntata a un ruralismo primitivo, ma anche per ovviare alla carestia. Phnom Penh aveva viveri solo per una settimana e i rivoluzionari non avrebbero saputo come sfamare la popolazione, che fu costretta a lasciare la città senza cibo, bevande, medicinali e non trovare alloggi nei villaggi dove avrebbero dovuto collocarsi. Era l’attuazione di una ruralizzazione coatta, il cui slogan era che il cibo era nei campi e che lì il popolo avrebbe dovuto guadagnarselo con il lavoro. Nulla contava che il popolo cittadino mancasse di competenza, formazione, allenamento, tecnica e utensili per lavorare nelle risaie. E con la capitale, vennero svuotate tutte le cittadine in una frenesia irragionevole di disurbanizzazione. Le città erano viste come centri del piacere, del profitto e dell’emulazione dei modelli stranieri.

I Khmer Rouge costrinsero l’80 per cento della popolazione cambogiana a trasferirsi nelle risaie che divennero dei veri e propri campi di conferimento e di sterminio. Come si viveva e come si moriva in questi luoghi?

La razione giornaliera era di due ciotole di riso per sfamarsi dopo dieci ore di lavoro ad una temperatura di 30°- 40°. Era vietato integrare questa dieta con pesce, carne o frutta, così come era vietato toccare i beni collettivi riservati ai quadri della rivoluzione. La pena per ogni trasgressione era la morte immediata, come quella di una bambina uccisa a colpi di vanga per aver raccolto una mela da terra. Era proibita la vita di famiglia e i bambini, anche di 8 anni, venivano strappati alla scuola e assegnati a centri di lavoro produttivo, come fabbriche, officine e cooperative agricole. Veniva interrotta ogni forma di insegnamento secondario o superiore, attività considerate reazionarie e figlie del colonialismo e dell’imperialismo e vietata ogni attività religiosa, con distruzione dei luoghi e simboli. I bonzi vennero destinati al lavoro agricolo e le pagode trasformate in stalle e porcili.

In una società senza più classi, nuove forme di esecuzione capitale e nuove forme di tortura vennero create: la trottola, per via del movimento della vittima mentre cade dopo aver subito un colpo di vanga alla nuca; il sacco, per via del sacco di plastica con cui viene incappucciata la vittima che muore soffocata; l’altalena, detta della vittima a cui si legano insieme mani e piedi e che viene appesa ad un albero dopo essere stata trascinata da un veicolo. Alcuni carnefici, prima che sopraggiungesse la morte della vittima, gli estraevano il cuore o le viscere per mangiarli.

Possiamo considerarlo un vero e proprio genocidio?

E’ stato configurato il genocidio del popolo cambogiano limitatamente ad una parte sociale di questo popolo, ma, se non vi fosse il limite giuridico della discriminazione politica, questo sarebbe certamente un genocidio, come molti storici l’hanno definito, a dispetto dei giuristi. Il mantra della rivoluzione, così come trasmesso dai media, si basava su tre principi cardine: indipendenza-sovranità; contare sulle proprie forze; difesa e costruzione della patria. Il popolo, sotto i Khmer Rouge, si componeva di due parti: da un lato, l’antico, ovvero gli aristocratici, la borghesia, gli sfruttatori; dall’altro, il nuovo, costituito dalle masse contadine e operaie. Gli studiosi hanno definito questa dei Khmer Rouge come la più estremista e violenta delle rivoluzioni.

Torniamo a Kaing Guek Eav. Il suo ruolo era quello di direttore del centro di detenzione di Tuol Sleng a Phnom Penh, chiamato anche col nome di Campo S-21. E’ proprio da qui, dai circa 4 mila verbali di confessioni rinvenuti, che, come ci ha spiegato lo storico David Chandler, sono emerse le principali testimonianze degli orrori perpetrati sotto il regime della Kampuchea Democratica, come si chiamò la Cambogia tra 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979, in cui furono massacrate 3 milioni di persone. Cosa sappiamo di questa prigione?

L’S-21 era una scuola ma durante il regime dei Khmer Rouge fu adibito a centro di detenzione e tortura. La mole incredibile di documenti ci racconta che circa 14mila tra uomini, donne e bambini sono transitati da quella prigione tra il 1975 e i primi del 1979. I prigionieri venivano interrogati, torturati lungamente per ricavarne delle confessioni e, nella maggior parte dei casi, giustiziati. Solo nel 1978 giunsero nel centro almeno 5mila prigionieri. La lunghezza delle confessioni e dei dossier dipendeva dalla gravità delle accuse, che potevano anche consistere nel semplice fatto di indossare gli occhiali. Ciascuno dei detenuti era costretto, attraverso la tortura, a confessare crimini mai commessi contro il partito, quasi sempre si trattava dell’ammissione di essere controrivoluzionari o spie al soldo delle potenze straniere.

C’è qualche parallelo con le purghe staliniane?

Il trattamento dei detenuti si richiamava proprio alle purghe di Stalin degli anni ’30 e ai processi farsa dell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale. In Cambogia erano stati adottati esattamente quegli esempi. I metodi di tortura erano particolarmente ingegnosi e crudeli, tanto da costringere persone del tutto innocenti a confessare qualunque crimine. Per tali ragioni, queste confessioni non sono considerate dagli storici delle fonti attendibili. Un’altra ragione della loro inattendibilità è che tutti i prigionieri risultavano colpevoli. Quei carteggi sono inattendibili eccetto che per la cura meticolosa con cui i detenuti venivano identificati, schedati e fotografati sia prima che dopo le torture. Le confessioni dimostrano la fobia del partito verso coloro che considerava traditori, tanto che la S-21 era un’operazione del tutto supportata dai leaders del partito.

Quali furono le responsabilità di Kaing Guek Eav in queste operazioni?

Lui era il direttore del centro S-21 e quindi responsabile di quanto avveniva all’interno. Non solo da un punto di vista organizzativo. Duch prendeva parte personalmente alle torture. Considerava tutti i cambogiani dei traditori bugiardi. Aveva un passato da insegnante e si faceva supportare da torturatori per lo più giovani e poco istruiti. La corte lo ha condannato in primo grado a 35 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, come persecuzione a carattere politico, sterminio, riduzione in schiavitù, detenzione illegale, tortura e trattamento inumano, omicidio ed altre condotte illecite. La condanna, su appello della Procura, è stata in seguito commutata in ergastolo dalla Camera della Corte Suprema, il 3 febbraio 2012.

Come si è giustificato Kaing Guek Eav sul banco degli imputati?

Ha ammesso le proprie responsabilità e chiesto scusa alle vittime.

Villa Sikania. la fuga finisce in tragedia investito ed ucciso un giovane eritreo

 E’ finito in tragedia l’ennesimo tentativo di fuga dei migranti trattenuti nella struttura di Villa Sikania a Siculiana, vicino ad Agrigento.

Per tutto il giorno, una ventina di richiedenti asilo, per lo più tunisini, è salita sul tetto dell’edificio in segno di protesta contro le condizioni in cui sono corretti a trascorrere una quarantena che sembra reiterarsi all’infinito.

Nella notte, il tentativo di fuga. Già il giorno prima, un paio di migranti avevano tentato di allontanarsi ma sono stati subito rintracciati dalla polizia e ricondotti nella struttura. Ieri notte, un altro gruppo di migranti ha provato a fuggire ma questa volta il tentativo è finito in tragedia.

Un eritreo di 20 anni, secondo gli attivisti il suo nome era Hanuar, è stato investito mentre scappava lungo la strada statale 115 da una Volkswagen Tuareg ed è morto sul colpo. L’automobilista è un 34enne di Realmonte che è indagato per il reato di omicidio stradale e fuga del conducente. 
Secondo le ipotesi degli inquirenti, l’uomo non si sarebbe fermato dopo lo scontro.

Nello stesso scontro che è costata la vita al giovane eritreo, sono stati feriti anche i poliziotti che cercavano di catturarlo: due hanno riportato solo traumi e contusioni ma il terzo dovrà essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico.

La tragedia di Villa Sikania è solo il risultato di una politica di (mala) accoglienza utilizzata solo ai fini di catturare facile consenso facendo leva su “paure” e su presunte “invasioni” che non hanno nessun riscontro reale.

Da tempo, su Melting Pot denunciamo l’assurdità di queste mega strutture di accoglienza, veri e propri limbi di diritti sospesi, senza servizi e senza nessuna possibilità di inclusione sociale, che altro non sono che veri e propri carceri per “detenuti” che non hanno commesso nessun reato. Il sistema di accoglienza diffusa, sul modello di Riace, è stato volutamente abbattuto dall’ex ministro Matteo Salvini senza che l’attuale Governo abbia fatto nulla per ripristinarlo o per adottare strategie alternative che non degradino il territorio, dignitose per i migranti e non inneschino tensioni.

L’esplosione della pandemia, in particolare, le forzate quarantenne ed i rischi insiti nei grandi assembramenti di persone – inevitabili in strutture come quella di Villa Sikania – hanno messo in luce l’assurdità e la pericolosità di questo sistema di mala accoglienza.

Fuggire e ancora fuggire da una disperazione che tanto è stata gridata e narrata che nessuno ascolta più. Le torture, gli abusi.le violenze in Libia, le attese senza fine non bastano. soprattutto non interessano nessuno. Cento o duecento, salvati o affogati… è tutto uguale oramai. Anzi no, meglio se affogano cosi non arrivano a disturbarci. A nessuno interessa comprendere le motivazioni, condividere magari il dolore o il senso di smarrimento di queste persone alle quali noi neghiamo il futuro”. commenta amaramente Yasmine Accardo che ha seguito le proteste dei migranti di Villa Silkana come referente della campagna LasciateCIEntrare.

In Gabon, centinaia di bambine e bambini sono torturati e uccisi per ricavare dai loro organi feticci rituali

Una pratica moderna che ha per mandanti politici e uomini d’affari

«Le vittime sono soprattutto bambine alle quali sono state amputate le labbra, la lingua e gli organi genitali - ha denunciato all’agenzia Reuters Jean-Elvis Ebang Ondo, presidente dell’Association de Lutte Contre les Crimes Rituels del Gabon -. Ma, abbandonati nella spiagge, si trovano frequentemente anche resti di corpi di donne, uomini e di ragazzi. Nessuno dice nulla, nessuno denuncia per paura di rappresaglie. I tribunali non svolgono indagini. I politici o sono conniventi o sono mandanti».
Il Gabon non è certo l’unico Paese della fascia subsahariana in cui vengono commessi i cosiddetti “crimini rituali”. La piaga coinvolge anche altri Paesi come il Benin, il Niger, il Camerun, il Sudan e altri ancora.
Ma grazie alla denuncia di persone come Ebang Ondo, il Gabon rimane il Paese in cui questi crimini si sono guadagnati l’attenzione degli organi della Comunità Europea competenti in tema di diritti umani.
Nel 1983, la segretaria di un alto dirigente del partito di Governo fu fermata perché nella sua auto fu trovato la testa di un bambino. Nel 2012, un uomo che aveva fatto a pezzi una bambina di 12 anni accusò un senatore di essere il mandante dell’omicidio per potersi impossessare dei suoi organi che avrebbero dovuto accrescere il suo potere politico.
E questi sono solo alcuni dei pochissimi casi arrivati ai media. Nei primi tre mesi del 1993, nella solo spiaggia di Libreville, sono stati trovati una ventina di corpi straziati. A partire dal 2000, sempre secondo le stime dell’Unicef, i crimini rituali sono triplicati e, nell’ultimo decennio, i casi documentati sono centinaia, tanto che, a partire dal 2011, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ha deciso di dedicare la giornata del 28 dicembre alla commemorazione delle vittime dei crimini rituali.
Va subito sottolineato, a scanso di equivoci, che i “crimini rituali” non hanno assolutamente niente a che fare con le religioni né tantomeno con le tradizioni africane. Ce lo spiega con chiarezza Maria Stefania Cataleta, avvocata per i diritti umani presso la Corte Penale Internazionale. «Alla base di questi crimini c’è certamente una mentalità impregnata di credenze soprannaturali che lascia spazio a personaggi stregoneschi incaricati di compiere questi sacrifici umani, ma questi crimini non hanno nulla a che vedere con le antiche tradizioni autoctone ma riguardano solo il Gabon contemporaneo. Sono commissionati da personaggi che detengono un certo potere e si affidano a tali pratiche per preservarlo o incrementarlo. Appartengono ad élites politiche o economiche che si ritengono al di sopra della legge e che dispongono dei mezzi necessari per portare a compimento questo genere di operazioni molto complesse e dispendiose. Questo è comprovato dal fatto che di di questi crimini, a volte, sono individuati solo gli esecutori e difficilmente i mandanti».
In altre parole, contrariamente a quando si potrebbe pensare, il fenomeno dei sacrifici rituali, è recente e, in Gabon come negli altri Paesi in cui sono commessi, si è diffuso in concomitanza con le lotte politiche avvenute dopo la conquista dell’indipendenza, nel 1960.
Una spiegazione ce la offre il sociologo congolese Joseph Tonda. La stregoneria, in Africa come in tutto il mondo, altro non è che un tentativo di esorcizzare i mali che affliggono la società in un momento di profonda crisi. Secondo Tonda, nei Paesi africani, dove la società civile ha perso ogni controllo sulla politica e sui valori, e non ha nessuna certezza di futuro, la stregoneria è un compagno ideale nella competizione per il potere, soprattutto per dittatori e signori della guerra.
In un’intervista rilasciata a Jeune Afrique nel 2012, Joseph Tonda spiega: «Da qualche mese, vi sono state delle inchieste su crimini rituali da parte dei tribunali. Sono finiti sotto indagine deputati, ministri e senatori, i quali, per accedere al potere e preservarlo, inviano dei sicari a sequestrare delle persone alle quali asportano la lingua, le mani, gli organi genitali, che sono consegnati in seguito a dei fabbricanti di feticci. Ma quasi sempre le inchieste si sono risolte con un nulla di fatto». 
Più è grande la sofferenza della vittima, e più il talismano è potente e, di conseguenza, costoso. Un feticcio può arrivare a costare anche l’equivalente di 1500 euro. Sono pochi, in Gabon, come in tutta l’Africa, a poterselo permettere!
Un rapporto della sopracitata associazione contro i crimini rituali, sottolinea come i periodi elettorali o di nomine ai vertici del potere sono quelli più propizi per questo genere di pratiche, comunque diffuse anche tra i ricchi uomini d’affari. Come dire: le élites intoccabili del Paese. 
«Le vittime invece - conclude l’avvocata Maria Stefania Cataleta - appartengono per lo più alle classi povere o sono abitanti di villaggi isolati. Certamente gli obiettivi principali sono i bambini poveri o i figli di famiglie immigrate o disagiate, che non dispongono di nessun mezzo per ottenere giustizia».

Treviso - Virus, proteste e speculazioni

Il caso dell’ex caserma Serena testimonia il fallimento di una politica di accoglienza basata sulle grandi strutture

L’aspetto davvero incredibile del pasticciaccio brutto assai legato all’ex caserma Serena è che chi ha creato la struttura fonte del problema, ora chiede di rimuoverla perché è fonte del problema da lui creato. Il resto di quanto accaduto, era tutto prevedibile e previsto.

Ma ricapitoliamo i fatti. Cominciando dall’inizio, però, e non dagli ultimi fatti di cronaca. Cominciando da Matteo Salvini e dai suoi decreti sicurezza - leggi che, ricordiamolo, già che ci siamo, se ne stanno ancora là a far danni, nonostante la Lega non sia più al Governo. Ebbene, questi decreti, tra alte cose, chiudevano le porte ai (pochi) tentativi di organizzare un modello di accoglienza diffuso per ritornare a quello di concentrare i richiedenti asilo in grandi strutture. Un vero e proprio regalo per le lobby dell’accoglienza che potevano continuare a fare business sui grandi numeri, senza il fastidio di dover concedere servizi ai propri “ospiti” forzati o di prevedere progetti di inclusione sociale. Inutili le proteste, pressoché unanimi, dell’intero arcipelago associativo che si occupava dei migranti e che aveva denunciato tutto quello che poi si è verificato: aumento delle spese complessive per l’accoglienza, drastica diminuzione dei posti di lavoro per gli operatori, riduzione dei servizi ai richiedenti come l’insegnamento dell’italiano e l’orientamento legale, difficoltà di procedere con nuovi inserimenti lavorativi e anche di mantenere quelli già in atto, rischio di ghettizzazione non solo per gli ospiti di queste mega strutture ma per tutta l’area urbana in cui sono collocate con conseguente pericolo di infiltrazioni criminali [1]. Insomma, i decreti sicurezza e immigrazione hanno peggiorato ulteriormente un sistema di accoglienza che non se la passava molto bene e che di “accoglienza” aveva solo il nome.
Poi è arrivato il coronavirus e questi grandi assembramenti di persone si sono rivelati ancora più pericolosi di quando si immaginasse all’inizio. Intendiamo, pericoloso non solo per i richiedenti asilo ma per tutta cittadinanza perché il virus, a modo suo, è democratico, e colpisce senza stare a vedere se l’infettato ha il passaporto in regola.

Nel centro di accoglienza situato nell’ex caserma Serena, a Dosson di Casier, paesino a ridosso di Treviso, si è verificato appunto questo, quando un operatore della srl Nova Facility di nazionalità pakistana ha portato all’interno della struttura il Covid 19, obbligando il Comune, lo scorso giovedì 11 giugno, a isolare la struttura e scatenando le immediate proteste dei migranti, subito sedate dalla polizia.

Il caso è stato subito cavalcato dalla destra che ha accusato i migranti, tacciati di ingratitudine, di non voler rispettare le regole valide per tutti gli italiani. Non è mancato lo striscione di Casa Pound che invita a chiudere la struttura e le esternazioni nelle stesso senso dell’ex ministro 
 Salvini che ha fatto finta di dimenticare che queste mega strutture sono anche merito suo.

«Che queste grandi ed inumani centri vadano chiusi lo diciamo anche noi e da molto prima delle destra. Come si può pensare di fare accoglienza ghettizzando i richiedenti asilo in queste mega strutture senza servizi? La differenza tra noi e la destra è che, per noi, queste persone sono solo vittime di una mala gestione e di una idea di accoglienza gestita come un business che parte dal 2015 quando l’ex caserma è stata adibita a CAS» spiega Fabrizio Urettini, ideatore del progetto Talking Hands che ha aperto a tanti migranti le porte del mondo del design creativo e della moda.

«L’ex caserma era già stata posta in isolamento quando il virus è arrivato a Treviso. Sono stati momenti duri per tutti, ma soprattutto per loro che sono stati pressoché abbandonati dalla srl che gestisce la struttura. Adesso che finalmente ne stavano uscendo ed avevano ripreso ad andare al lavoro, si sono visti chiudere un’altra volta le porte in faccia perché non è stato fatto il tampone e neppure imposta la quarantena d’obbligo ad un operatore che tornava dal Pakistan. Insomma, se si sono incazzati, un motivo c’era, giusto? E non è certo perché non vogliono rispettare le regole di sicurezza, come sono stati accusati da certa stampa!».

L’ex caserma è gestita dalla srl Nova Facility sorta alle ceneri dell’impresa Pio Guaraldo spa, chiusa per fallimento con un buco di svariati milioni [2]. Un anno fa, la coop napoletana Marinello aveva vinto il bando per la gestione del centro ma, dopo una battaglia in tribunale, la gestione è ritornata nella mani della srl trevigiana [3]. Oggi la Nova Facility gestisce anche tutti i servizi sociali di Treviso.

«Trovo vergognoso - conclude Fabrizio Urettini - il tentativo degli amministratori della Nova Facility di addossare la colpa di quanto successo all’operatore pakistano, dipinto come un tipo losco che prendeva l’ibuprofene per non far scoprire che aveva la febbre. Ma sono stati loro a spedirlo al lavoro, servizio mensa per di più, il giorno dopo il suo ritorno a Treviso, senza quarantena e senza tampone».

Due giorni fa, un ospite della struttura, è stato trovato positivo al virus e ricoverato in terapia intensiva. Risultato: ancora lockdown per i migranti, ancora proteste e ancora accuse da parte degli amministratori di destra che governano il territorio di voler spargere il contagio.

«Ma i migranti costretti a vivere in quel posto orribile che è l’ex caserma Serena non sono untori - commenta Monica Tiengo dell’Adl Treviso -. Sono le vittime dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Le vittime di un sistema che li vuole prigionieri in uno dei più grandi hub della regione. Fin dalla sua apertura chiediamo che quel posto venga chiuso e che i richiedenti asilo vengano distribuiti in strutture più piccole dove poter vivere dignitosamente. Dopo due mesi chiusi li dentro a causa del lockdown ora debbono subire un’altra quarantena perché l’ente gestore non ha seguito le norme minime di prevenzione. L’ente gestore dovrebbe vergognarsi per le ricadute che comporta questa improvvisazione e farsi da parte. E in generale è ora che chiunque la smetta di lucrare e cercare consenso politico sulle pelle dei migranti».

No, i richiedenti asilo di Pisa non pretendono di andare al ristorante

La storia emblematica di una protesta raccontata dai media in maniera inesatta, incompleta e pretestuosa
Una storia perfetta per giocare sugli equivoci e sparare qualche bel titolone ad effetto, oltre che xenofobo e razzista, sulle prime pagine dei giornali. Così è stata raccontata nei giornali italiani la protesta dei richiedenti asilo di Pisa “in rivolta in strada in barba a pandemia e decreti perché non vogliono la spesa a domicilio”, come titola il Secolo d’Italia del 9 aprile. E, per buona misura, apre con un bel “Paura a Pisa” e correda l’articolo con una foto falsa. O meglio, decontestualizzata, perché non riguarda la vicenda in questione e non è neppure stata scattata nel pisano, ma si sposa perfettamente con le solite fake news cavalcate dalla destra che vuole i migranti tutti in buona salute, eleganti e… viziati come figli unici.

I migranti accolti nel Belpaese si ribellano alle restrizioni imposte a loro, come a tutti gli italiani, per l’emergenza coronavirus” scrive il Secolo. “Le regole da prevenzione epidemiologica non valgono solo per i cittadini italiani ma per ‘chiunque’ si trovi in Italia” sottolinea il commissario della Lega Giovanni Frullano al cronista de Il Giornale: "Se questi sono i risultati dell’integrazione, dobbiamo certamente preoccuparci e non avere speranza”. Il quotidiano Libero addirittura si appella alla democrazia e all’uguaglianza per spiegarci che i richiedenti asilo di Pisa non hanno nessun diritto di lamentarsi: ”Gli uomini sono tutti uguali ed anche la legge vale per chiunque senza nessuna distinzione tra gli uomini”. E continua invocando pene severe per i trasgressori perché “il blocco stradale in Italia è un reato. E le leggi non valgono solamente per gli italiani”. Facciamo grazia dei commenti dei lettori sotto gli articoli che spaziano allegramente tra espulsione immediata, pena di morte e forni crematori.
Ma cosa è successo davvero a Pisa? Ce lo raccontano gli stessi immigrati in una nota inviata ai giornali per invitarli a raccontare le cose in maniera completa e non pretestuosa. Nota che, peraltro, non ci risulta sia stata ripresa da qualche media.
“Il giorno 1 aprile, come conseguenza della grave emergenza dovuta alla pandemia, la Prefettura di Pisa ha deciso di sostituire l’abituale erogazione dei buoni spesa con un servizio di consegna di generi alimentari a domicilio. Pur comprendendo i motivi di eccezionalità che l’avevano imposta, ci siamo opposti a questa decisione per i seguenti motivi: molto prima dell’arrivo del Covid-19, come conseguenza del Decreto Sicurezza, ci sono state tolte le ‘carte’ (ticket spesa) per l’acquisto di vestiti e medicinali. Ricordiamo che senza il ticket i medicinali non possiamo acquistarli autonomamente in farmacia, ma dobbiamo necessariamente andare in ospedale e questo impatta in maniera grave sulle nostre vite”.
“Poi è iniziata l’emergenza sanitaria e le conseguenti misure restrittive decise dal governo. Tutti noi siamo preoccupati per la nostra e la altrui salute e cerchiamo di osservare correttamente le norme ma incontriamo grandissime difficoltà. Abbiamo ricevuto le mascherine solo pochi giorni fa, ma non indicazioni precise tradotte nelle nostre lingue, cosa indispensabile per chi tra noi ancora non capisce bene l’italiano (ricordiamo che, sempre in seguito al DL sicurezza, l’apprendimento della lingua italiana non è più assicurato all’interno dei centri). Nei centri di accoglienza non abbiamo gli spazi per mantenere la distanza di sicurezza, alcune strutture ospitano 50, 100 o anche più persone e se una persona fosse contaminata, lo saremmo tutti. A fronte di queste condizioni, la Prefettura ha deciso, per garantire la sicurezza, di toglierci i buoni per la spesa. Siamo pronti ad accettare questa misura di prevenzione, ma allo stesso tempo chiediamo che vengano messe in sicurezza le strutture in cui viviamo”.
La protesta dei migranti quindi va proprio nella direzione chiesta dall’emergenza sanitaria perché chiedono che a loro, come a tutti gli italiani, venga data la possibilità di evitare di contagiarsi o di diffondere il contagio. I buoni spesa? I migranti hanno solo chiesto che la loro rimozione sia limitata all’emergenza, dicendosi più che disposti a ricevere i pasti già confezionati o i generi alimentari a casa, fintanto che il Coronavirus costituirà un pericolo. “Non vogliamo che l’emergenza sia strumentalizzata per mettere in atto la loro rimozione permanente così come è successo con i buoni per i medicinali e i vestiti eliminati da tempo”. Cosa che la Prefetture di Pisa si è già impegnata a fare, dichiarando in una nota ufficiale inviata alle cooperative che gestiscono centri, che la sostituzione dei buoni con la spesa a domicilio è da intendersi come una soluzione temporanea legata alle disposizioni emergenziali. Tutto qua. Il resto è solo malafede.
La strumentalizzazione che certi giornali hanno fatto della vicenda è evidente anche dall’uso di certe parole - spiega Renata Longo, attivista della scuola di italiano Idansè Benvenuti di Pisa -. Molti media hanno usato il termine ‘buoni pasto’ invece che ‘buoni spesa’, lasciando intendere che i migranti, alla faccia degli italiani costretti a rinchiudersi a casa, protestavano perché volevano continuare ad andarsene in giro per la città a pranzare e cenare nei ristoranti!”.

Due bambini sottratti alla madre e nascosti in Pakistan

Grazia Satta dell’associazione PortAmico: “Chiediamo alla Farnesina di attivarsi immediatamente per riportare i due bambini in Italia e riconsegnarli alla loro madre”

Due bambini italiani prigionieri in Pakistan. Due bambini derubati dei documenti, costretti a vivere nascosti, in casa di parenti ad Islamabad, senza possibilità di tornare in Italia dalla madre. Due bambini italiani che da oltre due anni sono stati privati di qualsiasi assistenza sanitaria e non hanno neppure potuto frequentare una scuola. Non soltanto. I due bambini sono a rischio che il tribunale pakistano dichiari decaduta l’autorità della madre che attualmente si trova in Italia, e li consegni ai fratelli del padre che li ha abbandonati e che li sta usando come merce di scambio.
La drammatica vicenda che stanno vivendo S.S, una bambina di 9 anni, e il suo fratellino di 10, U.S, è stata denunciata dall’associazione PortAmico di Portomaggiore, in Provincia di Ferrara. Non a caso uno dei Comuni italiani con la più alta densità di migranti pakistani del nostro Paese.
A questi due bambini che, voglio sottolinearlo, hanno la cittadinanza italiana e sono quindi italiani, sono stati negati tutti i diritti fondamentali dell’infanzia, senza che nessuna autorità del nostro Paese si sia mossa a loro tutela - spiega Grazia Satta dell’associazione PortAmico -.
Dal gennaio 2018, questi bimbi sono costretti a vivere nascosti in casa dello zio materno a Islamabad, senza assistenza sanitaria, senza l’affetto della madre e senza neppure frequentare la scuola perché sono stati derubati dei documenti. In Pakistan i diritti della donna sono un capitolo tutto da scrivere e una madre da sola, senza la firma di un uomo, non ha nessun diritto, neppure quello di riprendersi i suoi bambini dopo che sono stati abbandonati dal marito. Quello che mi stupisce è che la Farnesina accetti queste regole patriarcali e non faccia nulla per riportare in Italia questi due bambini che, lo ripeto ancora una volta, sono nati in Italia, hanno la cittadinanza italiana, sono italiani ed hanno tutto il diritto di essere tutelati dalla legge italiana”.
Una storia brutta assai che rischia di finire ancora peggio, questa di S.S. e U.S., seriamente a rischio di finire a far da capro espiatorio di vendette trasversali dal sapore tribale. Così come è a rischio di ritorsioni la loro madre, N. P. B, che, proprio per questo, è stata inserita in un percorso di alta protezione in una città dell’Emilia Romagna di cui mi è stato chiesto di non fare il nome per motivi di sicurezza. La sua colpa? Essersi ribellata alle leggi patriarcali, non scritte ma imposte dalla “tradizione”. Leggi che in Pakistan contano come una Costituzione.
La vicenda di NPB è simile a quella di tante donne pakistane. Matrimonio combinato dalla famiglia rispettando i dettami della casta - pur se abolite dalla legge pakistana e contrarie alla fede islamica, le caste in Pakistan continuano ad essere rispettate nella società - e trasferimento in Italia per il ricongiungimento. Ma la sua storia con M.B. 38 anni, italiano di origine pakistana, dura solo il tempo di generare due figli. L’uomo trova una nuova compagna e decide di liberarsi della famiglia precedente e lo fa nel modo, per lui, più semplice che gli evita noiose pratiche burocratiche e, soprattutto, l’assegno di mantenimento. Porta la moglie e i figli in Pakistan, ruba loro soldi e documenti, e li abbandona ad Islamabad. Quindi se ne torna in Europa, in Inghilterra, secondo le ultime notizie, e si sistema con la nuova compagna. Ma N.P.B., stavolta si ribella al costume tradizionale che
vede la donna abbandonata tornare in famiglia e chinare la testa accettando supina la volontà del maschio. Approfittando del fatto che la circolazione fra Inghilterra e Pakistan non prevede alcun visto, prova a tornare in Europa con i due bambini per far valere i suoi diritti col tribunale italiano. Ma alla frontiera pakistana non li fanno passare. Manca la firma fondamentale del padre per l’espatrio dei due bimbi. La dichiarazione di una donna abbandonata non vale niente, in quel Paese. Che lei sia la madre non conta nulla. Per N.P.B. comincia una lunga via crucis tra le ambasciate. A quella italiana non la ricevono nemmeno. Il fatto di essere stata sposata con un italiano e di aver trascorso buona parte della sua vita in una regione italiana non conta nulla perché la donna, tenuta dal marito segregata a casa, non ha completato le pratiche burocratiche necessarie ad ottenere la cittadinanza italiana, grazie anche agli ostacoli posti dalla legge Salvini.
Disperata, N.P.B. decide di affidare i due bambini a suo fratello e di venire da sola in Italia per chiedere giustizia e il ricongiungimento familiare. Tornata nella sua casa del comune di residenza, viene accolta con pesante ostilità dalla comunità pakistana ed intercettata dai parenti del marito che vedono il suo comportamento come uno sgarro alla famiglia. Così costretta a scappare in Emilia dove, tramite PortAmico viene accompagnata al centro Donne e Giustizia di Ferrara ed inserita in un programmi di alta protezione. Attualmente, N.P.B. vive nascosta in una città emiliana ma continua a chiedere di poter riabbracciare i suoi bambini. Bambini che sono in pericolo perché l’ex marito ha portato in tribunale un documento con la firma falsificata di N.P.B. in cui è lei che chiede il divorzio allo scoppio di ostacolare la sua richiesta di cittadinanza italiana, ed ha presentato la richiesta di ottenere la custodia dei bambini allo scopo evidente di usarli come merce di scambio e ricattare la donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi.
I figli di N.P.B. vivono nel terrore - conclude Grazia Satta -. Una volta al mese i parenti dell’ex marito incontrano i bambini in presenza di un legale e chiedono loro dove si trovi la loro mamma. Alla risposta dei bambini ‘la mamma è a casa’ i nonni incalzano chiedendo chi ha insegnato loro a dire
bugie. Secondo la legge pakistana infatti, qualora si riuscisse a dimostrare che la madre non è in Pakistan, i bambini verrebbero affidati immediatamente alla famiglia paterna. Il fratello di N.P.B. è riuscito, grazie a dei certificati medici, a non portare i bambini alle udienze del tribunale ma i tempi per intervenire sono sempre più stretti. Chiediamo alla Farnesina di attivarsi immediatamente per riportare i due bambini in Italia e riconsegnarli alla loro madre”.

La disperazione del ritornante

Lui è uno di quelli che ce l’hanno fatta. Uno dei pochi. Racconta che è stata dura e subito aggiunge che non è ancora finita. L’ho incontrato in mezzo ai colori, ai suoni ed ai profumi del mercato dell’artigianato di Dakar, ma avrei potuto incontrarlo anche a Roma perché gestisce una bancarella di maschere e dipinti senegalesi in una strada della Capitale. Il suo nome è Amadou. ”Torno a Dakar almeno una volta all’anno per acquistare la merce che poi rivendo nel mercato di Roma - racconta -. Ma soprattutto torno per aiutare la mia famiglia e portare dei soldi. Anche un centinaio di euro qui sono tanti e ti permettono di vivere per molti mesi. Senza il denaro che porto dall’Italia la mia famiglia farebbe la fame. Mio fratello gestisce questa bancarella di artigianato a Dakar ma turisti qui se ne vedono davvero pochissimi. Alla fin fine sono solo io che gli compro la merce per portarla in Italia. Gli altri fratelli fanno gli agricoltori ma la terra è sempre più povera. Poi ci sono i nipoti che non riescono neppure a fare gli agricoltori perché la terra è sempre più secca. Sopravvivono solo grazie a quello che io gli regalo. Il problema è che abbiamo famiglie troppo numerose e non più sostenibili. Io sono riuscito ad arrivare in Italia ed ad avviare una attività commerciale ma quasi tutto quello che guadagno lo spendo in Senegal con l’unico risultato di allontanare la fame dalla mia famiglia. Ma così non si va avanti. Non c’è futuro. E dire che, in Senegal, sono considerato uno di quelli che ce l’hanno fatta!”

Amadou ha conquistato la sua Europa solo per scoprire che, come sottolinea, “è un altro Senegal, solo con molto più razzismo” con l’unico vantaggio che “da voi la merce si riesce a vendere, qualcosa si tira su e si sopravvive”. E conclude: “Ma se potessi tornerei subito a Dakar!”

Non è stato così fortunato, Abdoulaye (questo è un nome di fantasia). Anche lui girovagava per il mercato dell’artigianato di Dakar, ma, al contrario di Amadou, non aveva nessuna bancarella. Magro da far spavento, vagabondava tra la gente cercando di vendere a chi capitava una della 4 o 5 brutte collanine che teneva tra le mani scheletriche. Non stava neppure a discutere sul prezzo. Andava bene qualsiasi cifra. “E’ per mangiare”, spiegava. In Europa, Abdoulaye ci era pure arrivato. E per la stessa strada di Amadou. Un viaggio interminabile attraverso il deserto e gli orrori dei lager libici. Poi il barcone e finalmente l’agognata Europa, sino alla Francia. Un viaggio di oltre tre anni per essere rispedito in patria a calci in culo dopo neppure tre mesi con un volo diretto Parigi - Dakar di 5 ore e 25 minuti. E Dakar, Abdoulaye, non l’ha più lasciata. Sbarcato dall’aereo, non ha avuto il coraggio di ritornare al suo villaggio ed alla sua famiglia che contava su di lui per uscire dalla miseria. Preferisce che lo credano morto. Preferisce sopravvivere di collanine e di carità, tra fame e stenti, nelle strade di Dakar.

“Chi viene rispedito indietro dall’Europa va incontro ad un destino che è considerato peggio della morte - spiega il giovane attivista Mustapha Sallah - Io sono fortunato. Ho una famiglia che mi ha riaccolto. Ma non è così per la maggior parte dei migranti”. Mustapha è un portavoce dell’associazione interafricana Youth Against Irregular Migration (Yaim) nata in Gambia proprio per tutelare i migranti di ritorno e per spiegare ai giovani che intendono partire a quali rischi vanno incontro. Lui stesso è un “ritornante”. Il suo obiettivo iniziale non era l’Europa ma Taiwan, dove sperava di accedere ai corsi universitari di informatica. Per questo, aveva lasciato la nativa Banjul, capitale del Gambia, per la Nigeria. Ad Abuja si era fermato tre mesi solo per rendersi conto che Taiwan era per lui irraggiungibile. Allora aveva affidato tutti il suo denaro a dei passers convinto che fosse la soluzione per arrivare all’Europa. “Appena arrivato a Tripoli, mi hanno arrestato senza motivo e internato in un campo” racconta. Di quanto gli è stato fatto nel lager libico, Mustapha non parla volentieri. Dice solo che lo picchiavano per il gusto di picchiarlo tutte le volte che chiedeva qualcosa da mangiare.

Dopo 4 mesi di prigionia è ridotto in fin di vita. Anche per i torturatori, Mustapha non presenta più interesse perché gli hanno già portato via tutto quello che sono riusciti a portargli via, e viene preso in carico da dagli operatori dell’Oim che gli offrono l’opportunità di essere rimpatriato. “Ho detto di sì. Non avevo nulla per pagarmi il barcone e l’alternativa era solo la morte”.

Oggi Mustapha con la sua associazione si occupa di aiutare i disperati che non hanno il coraggio di rientrare in famiglia, “cerco di spiegargli che non c’è vergogna nell’essere respinti dalle frontiere”, e gira per i villaggi dell’interno per raccontare cosa significa affidare la propria vita ai trafficanti. “Chi parte non sa quello a cui va incontro -spiega - Nei villaggi queste informazioni non arrivano”.

In un Paese dove la povertà ammazza, l’Europa viene vista come l’unica strada per un riscatto sociale. Il giovane che riesce ad arrivare, come nel caso di Amadou, è una garanzia di sopravvivenza per tutta la famiglia e, in alcuni casi, per tutto il villaggio. E’ frequente che due o più famiglie creino una sorta di, chiamiamola così, joint venture con lo scopo di mettere assieme il denaro che credono sia sufficiente a consentire al migrante di arrivare in Europa e di avviare una attività o di trovare un lavoro.

Birago (anche questo è un nome di fantasia per una questione di tutela) vive in affitto assieme ad un numero imprecisato di suoi connazionali senegalesi in un piccolo appartamento nella preferita di Mestre. L’ho conosciuto in una scuola di italiano gestita dalle attiviste del cso Rivolta. Da anni attende un permesso di soggiorno che forse non agli arriverà mai. Intanto lavora in nero in una azienda edile perché in patria aveva seguito un corso di saldatura. Il suo villaggio si trova ai confini con la Mauritania. “Tutto il paese ha fatto una colletta per farmi partire. La mia famiglia ha venduto le mucche. Io adesso gli ho detto che sono arrivato, che lavoro e che sono trattato bene. Non sanno la verità. Gli spedisco quasi tutto quello che guadagno anche se non mi resta quasi nulla per vivere in Italia. Ma loro sono contenti. I miei genitori, i miei fratelli e sorelle, sono fieri di me. Non sanno come devo vivere qui e non voglio che lo sappiano mai. Se mi rimandano indietro, non potrei più tornare a casa. E’ la cosa peggiore che mi potrebbe capitare. Preferisco fargli credere che sono morto”.

Gambia. Arrestato Killa Ace, il rapper che ha denunciato la dittatura

scritto con Joshua Evangelista - Serrekunda, 19 agosto - Con i suoi rap vibranti che rimbalzavano coraggiosissime parole di denuncia dell’oppressione di un intero Paese, Killa Ace ha fornito ai giovani del Gambia la colonna sonora della lotta contro il regime brutale del presidente Yahya Jammeh, il dittatore che per 23 anni ha tenuto sotto scacco il paese, trasformandolo di fatto in uno Stato islamico.

In questi tre anni che sono seguiti alla caduta del regime, Alli Cham - il vero nome di Killa Ace - non ha cessato di denunciare le ingiustizie che ancora pesano sul suo Paese e l’ipocrisia di un processo di pace che sembra essersi arenato mentre i torturatori e gli uccisori del passato regime vengono amnistiati uno dopo l’altro, in nome di una “riconciliazione” che poco ha a che vedere con la giustizia.

Siamo andati ad intervistare Killa Ace ieri pomeriggio, nel piccolo negozio di cellulari in cui lavora part-time, tra una rima e l’altra, nel bel mezzo del mercato di Serrekunda.

Sessanta minuti dopo, la polizia lo ha arrestato, prelevandolo con la forza proprio dietro lo stesso bancone dove avevamo chiacchierato. E con lui, è stata portata in carcere una dozzina di altri attivisti che avevano manifestato contro l’omicidio di un venditore ambulante perpetuato dalle forze speciali della polizia. In serata, gli attivisti sono stati poi rilasciati dietro cauzione.

Killa Ace, un ultra trentenne con l’aspetto di un ragazzino, ci aveva raccontato senza paura e senza giri di parole della brutalità delle forze dell’ordine che sono rimaste le stesse del tempo della dittatura. Ci aveva raccontato che il Gambia, nonostante quello che si preferisce credere all’estero, è tutt’altro che un Paese libero. Ci aveva raccontato di un Governo nuovo solo nel suo aspetto esteriore ma che, nei fatti, continua le politiche di svendita delle ricchezze del Paese alle multinazionali estere. Ci aveva raccontato di un Stato in cui qualsiasi dissenso viene prontamente e brutalmente represso, dal quale i giovani scappano con la stessa disperazione di prima. “È lo stesso regime, le stesse leggi, la stessa corruzione, le stesse facce. E la polizia continua a tenere sotto controllo chi promuove il dissenso con lacrimogeni e arresti preventivi”, ci ha detto profeticamente.

Nel video, Killa Ace, “rappa” per noi una versione personalizzata di uno suoi pezzi più conosciuti, diventato virale tra le giovani ed i giovani attivisti del Gambia.

Nel video, Killa Ace, “rappa” per noi una versione personalizzata di uno suoi pezzi più conosciuti, diventato virale tra le giovani ed i giovani attivisti del Gambia


https://youtu.be/q-F-kngZ-x0

Quando i diritti sono sospesi. La storia emblematica di Ridha

Un giovane tunisino con problemi di salute rinchiuso per più di 9 mesi nei CPR

Ridha oggi è libero. Ma la sua storia, che raccontiamo soltanto ora per evitargli possibili ritorsioni, è emblematica di come la giustizia italiana, nei riguardi dei richiedenti asilo, adopera metri approssimativi e vaghi, deragliando dai binari del diritto per applicare storture, incongruenze e vere e proprie iniquità. 
Ridha è un giovanotto con una trentina d’anni sulle spalle. E’ fuggito dalla Tunisia seguendo la rotta mediterranea. All’inizio del 2018 è riuscito a sbarcare a Lampedusa. Qualche giorno dopo il suo arrivo, l’hotspot dell’isola è stato oggetto di un incendio doloso. Non ci furono vittime, ma gli inquirenti considerarono tutti i migranti del centro, all’incirca 150 persone, come possibili responsabili dell’atto doloso. Ridha fu così trasferito nel CPR di Restinco, una frazione di Brindisi. Le indagini dimostrarono ben presto che Ridha era innocente. Durante l’udienza al tribunale di Agrigento, un migrante si assunse tutte le responsabilità del gesto. La sentenza che ne seguì avrebbe dovuto determinare la scarcerazione immediata di Ridha e degli altri tunisini trattenuti, riconosciuti innocenti. Ma così non fu.

Ridha rimase rinchiuso nella struttura di Restinco sino al 25 novembre. Come lui, anche altri tunisini furono trattenuti, mentre altri furono rilasciati. "Di fronte ad una unica sentenza, quella del tribunale di Agrigento, i giudici di pace delle diverse città in cui i richiedenti asilo furono condotti, si comportarono in maniera completamente diversa - spiega Yasmine Accardo, coordinatrice della Campagna LasciateCIEntrare -. Abbiamo scritto all’Unhcr, al garante dei detenuti e alle prefetture spiegando la situazione quanto meno illegittima del trattenimento prolungato, abbiamo anche coinvolto deputati, ma non c’è stato nulla da fare. Al CPR di Torino, seguiti dall’avvocato Gianluca Vitale, alcuni sono stati rilasciati e altri trattenuti, in quello di Brindisi sono stati rilasciati solo a settembre ma, nel frattempo, alcuni erano già stati deportati in Tunisia. A Potenza, i migranti rinchiusi nel CPR di San Gervasio sono stati trattenuti sino a maggio, quando hanno ottenuto la liberazione col riesame seguito dall’avvocata Angela Bitonti. Insomma, ognuno ha fatto un po’ come gli pareva, con buona pace di quel diritto che afferma che la legge dovrebbe essere uguale per tutti”.
Ridha è rimasto nel CPR di Brindisi per più di 8 mesi ma la sua odissea non doveva finire là. Il 25 novembre, senza neanche che gli venisse concesso di avvertire con una telefonata il suo avvocato o gli attivisti della campagna LascieteCIEntrare che seguivano il suo caso, è stato trasferito al CPR di Trapani con la minaccia di essere rimpatriato. La “colpa” che gli era imputata era sempre quella di un incendio che non aveva commesso e per il quale nessun tribunale lo aveva condannato. Ridha è un richiedente protezione umanitaria per motivi di salute e i certificati medici attestano che è un ipovedente a rischio di cecità.
Nelle sue condizioni precarie, non poteva ragionevolmente definirsi un soggetto pericoloso o a rischio di fuga. E’ una persona vulnerabile. Eppure, per tutti questi mesi, la sua avvocata Giovanna Corrado non riesce ad ottenerne la liberazione. “La vicenda del mio assistito è emblematica della regolamentazione del fenomeno migratorio. Le non minime diseguaglianze e sperequazioni di trattamento tra i richiedenti asilo prima al 17 agosto 2017 e quelli dopo, non sono la sola criticità. Non possiamo negare, se siamo intellettualmente onesti, che vi sia una sorta di automatismo nel meccanismo giurisdizionale della convalida dei trattenimenti che penalizza il controllo relativo alla legittimità delle misure restrittive a favore di un incontestabile abuso di ricorsi al trattenimento che dovrebbe essere, al contrario, l’extrema ratio. In poche parole, siamo di fronte ad una giustizia di serie B, dove non si fa mai ricorso a misure meno gravi e si viola continuamente il principio di proporzionalità e adeguatezza che dovrebbe essere rispettato anche in questa materia, considerato che, se pure è di competenza del giudice civile, vanta una assoluta affinità con la materia penale delle misure cautelari, avendo rilievo l’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale”.
Ridha è stato definitivamente scarcerato solo il 26 dicembre. Adesso è libero ed ha potuto raggiungere finalmente quella meta che si era prefissato quando ha lasciato la Tunisia per il suo lungo viaggio. “Per molte settimane, quando l’hanno portato via da Brindisi non sapevano più dove fosse finito - conclude l’attivista Yasmine Accardo -. Non poteva telefonare perché non aveva il cellulare. Quando l’hanno finalmente rilasciato è andato in una cabina telefonica e ci ha chiamato per ringraziarci. Eravamo sotto le festività di Natale. Ci ha detto che faceva tanto freddo ma che era contento lo stesso. Stava camminando verso la libertà”.

Niente diritti, tanta ingiustizia. Il Cpr di Palazzo San Gervasio è la cartina di tornasole di una sistema di detenzione pensato apposta per generare violenza

Un lager di Stato. Le condizioni in cui versano gli “ospiti” del Cpr di palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, hanno superato di gran lunga ogni limite di decenza umana. Ed a dirlo non sono solo i “soliti buonisti” ma anche esponenti di primo piano della Lega, come il neo eletto senatore Pasquale Pepe che, in una intervista all’Huffington Post, ha denunciato “le scarse condizioni igieniche, i cumuli di rifiuti accatastati negli spazi comuni, nei corridoi” in cui versa la struttura. Le conclusioni dell’esponente del Carroccio sono lapidarie: “La situazione non consente di rispettare né la dignità degli ospiti, che comunque dovrebbero essere espulsi prima possibile invece di stare lì parcheggiati, né alle forze dell’ordine, alle quali vanno sostegno e solidarietà, secondo me non in numero sufficiente per tenere sotto controllo la situazione, di lavorare in sicurezza”.
La visita del senatore Pepe risale allo scorso marzo, quando la stampa nazionale si era interessata al degrado in cui era precipitata la struttura. Degrado denunciato dagli stessi migranti che avevo attuato un lungo sciopero della fame. Nel Cpr erano scoppiate anche alcune rivolte e, in aprile, 22 “ospiti” del centro per il rimpatrio erano riusciti a scappare. Oltre al citato senatore leghista, altri onorevoli avevano visitato la struttura, tra cui l’europarlamentare Eleonora Forenza (L’Altra Europa con Tsipras) che era stata accompagnata da una delegazione della campagna LasciateCIEntrare. “Sono uscita umanamente molto provata dalla visita al centro- aveva dichiarato Forenza - questo è un lager di Stato. Non c’è alcun rispetto dei diritti umani”.
Nell’ultimo anno, il caso del Cpr di palazzo San Gervasio è stato oggetto di numerose interrogazioni parlamentari, depositate sia a Bruxelles che a Roma. Lo stesso Comune di Potenza ha più volte manifestato preoccupazione di dover gestire all’interno del proprio territorio una situazione di "accoglienza" gestita così male che pare pensata apposta per “creare allarme nella comunità”, come ha spiegato il sindaco Michele Mastro. Il primo cittadino ha chiesto alla prefettura che di provvedere quantomeno per limitare il numero di migranti detenuto nel centro.
Tutti appelli rimasti inascoltati. Negli ultimi mesi la situazione dei migranti trattenuti a san Gervasio è, se possibile, peggiorata. La struttura è un bene confiscato alla mafia e in quanto tale appartiene al Ministero dell’Interno. Sin dalla sua nomina, il ministro Matteo Salvini si è adoperato in un senso completamento opposto a quanto chiesto dal sindaco e dagli onorevoli che avevano visitato il Cpr. Il numero dei migranti è aumentato - attualmente sono circa un centinaio - e le condizioni del centro notevolmente peggiorate con gravi ricadute, oltre che nei confronti degli “ospiti” e di chi lavora nella struttura, anche nella stessa città. La discussa gestione del centro, nonostante le tante critiche, è stata confermata alla srl Engel Italia, una società che ha già passato i suoi guai per le gravi irregolarità commesse nella gestione di un altro centro a Paestum, nel salernitano, e per la quale, evidentemente, non “è finita la pacchia”.
Non passa settimana che non inoltriamo segnalazioni di violenze fisiche e di violazioni dei diritti al Garante per i detenuti - spiega Yasmine Accardo, referente della campagna LasciateCIEntrare -. Le notizie che ci giungono dai migranti di San Gervasio sono terribili. Qualche giorno, fa un ragazzo è caduto dal tetto dove si era arrampicato per cercare di telefonare alla famiglia. Ha riportato gravi traumi al torace e al cranio ed è tuttora ricoverato in rianimazione. Sappiamo che la polizia ha divelto e spaccato le porte dei bagni e che i migranti denunciano percosse e aggressioni continue da parte delle forze dell’ordine. Non c’è nessuna assistenza sanitaria all’interno della struttura e non viene concesso ai detenuti neppure di incontrare un avvocato. Sono finiti dentro un lager e non sanno perché. Dicono tutti che vorrebbero tornare a casa ma la burocrazia è lentissima. Nessuno gli spiega niente, nessuno li ascolta e non hanno nessuna certezza del domani. Sono trattenute persone vulnerabili che hanno bisogno di cure sanitarie e supporto psicologico, ci sono molti atti di autolesionismo. Trascorrono il tempo disperandosi e giocando con un mazzo di carte che si sono disegnati su del cartone. A San Gervasio è stato creato ad arte un clima di violenza e di intolleranza, ed ora tutti ne pagano le spese”.
LasciateCIEntrare e le associazioni locali seguono le persone trattenute nel Cpr fin dalla sua riapertura. Hanno raccolto numerose testimonianze di abusi, inviando una documentazione dettagliata aI Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma. Nell’ultimo rapporto, datato 6 settembre 2018, lo stesso aveva sollevato numerose criticità. 
La campagna insieme all’avvocato Angela Bitonti continua a portare avanti un’instancabile lavoro di tutela dei diritti dei cittadini reclusi.
"I Cpr sono peggio delle carceri sovraffollate - conclude Yasmine Accardo -. Occorre far conoscere quanto avviene all’interno, sensibilizzare la società civile. Questi centri vanno chiusi immediatamente e vanno sostenute tutte le mobilitazioni per non farne aprire di nuovi".

Gabbie - Dentro il Cpr di Palazzo San Gervasio


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