La piccola dea di Kathmandu

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Kathmandu, Nepal - L’ultima volta che sono passato per Kathmandu, sono andato a vedere la Kumari. La dea bambina si è affacciata dal balcone che dà sul cortile interno del Kumari Ghar, la “casa dell’incarnazione” in cui vive prigioniera. Se ne è rimasta una ventina di secondi a guardare dall’alto in basso i suoi fedeli adoranti come se fossero trasparenti e poi è tornata dentro. Dietro il rimmel che le alterava lo sguardo e l’Occhio di Fuoco, il sacro chakchuu, che le orna sempre la fronte, la piccola aveva l’aria un po’ scazzata. Certo non deve essere facile fare la dea bambina... Io, che ho una spiccata tendenza naturale a fare la cosa sbagliata nel momento sbagliato, le ho fatto “ciao ciao” con la mano ma la piccola dea non mi ha risposto. Mi hanno spiegato che potevo ritenermi assai fortunato. Se la Kumari avesse anche solo posato gli occhi su di me come minimo mi toccava una grave perdita finanziaria. Se avesse tremato (eventualità da non scartare, considerato che in Nepal fa un freddo da battere brocche) sarei finito presto in galera (altra eventualità da non scartare per tutta una serie di vicende che non vi sto a raccontare). E se, sempre nel guardarmi, le fossero lacrimati gli occhi, oltre a rovinarsi il trucco, avrebbe significato che per me era già stampato un bel biglietto di sola andata per andare a spalare carbone nelle miniere di messer Satanasso. Come direbbe il mio amico Tex Willer.


Insomma, c’è tutta una cabala interpretativa dei gesti della piccola dea che i fedeli che dalla sera alla mattina affollano il cortile del suo palazzo, prendono per oro colato. Una cabala tutta in negativo. Anche se la Kumari ride o scherza, per te sono comunque cavoli amari. L’auspicio migliore, mi hanno raccontato, si ha quando la dea si comporta come se non si accorgesse di te. E se ci riflettete un momento, in questo concetto ci potete trovare una profonda saggezza sul rapporto sbilanciato che ha l’uomo con il suo dio, comunque se lo immagini. Solo nelle religioni occidentalizzate, e più ricche, il credente si rivolge a dio per ottenere un guadagno. Tra gli altri popoli va già bene quando la divinità ti risparmia le consuete disgrazie.
Bisogna anche anche considerare che, alla fin fine, la Kumari è l’incarnazione sì di una dea, ma di una dea terribile: Kalì, l’inaccessibile.

Una partita a dadi
La leggenda che sta alla base del culto della dea bambina di Kathmandu racconta che in una fresca notte d’estate - e vi assicuro che da quelle parti anche in estate le notti sono sempre fresche - il re Jayaprakash Malla giocava a dadi con la dea Durga, cosa che gli capitava di fare di sovente, considerato che la dea era la patrona del suo lignaggio reale. Adesso dovete sapere che la dea Durga, una delle tante versioni di Kalì, era quella che popolarmente viene definita una gran figa e, per non indurre in tentazione i poveri mortali, mascherava la sua avvenenza dietro un manto di divinità. Tutto procedeva come al solito, quella sera: il re stava bene attento a non vincere e la dea si godeva la sua partita a dadi pensando di essere una grande giocatrice quando nella stanza entrò un grosso serpente rosso. Credo che non ci sia bisogno di scomodare Freud per spiegarvi che cosa significa l’arrivo del grosso serpente, giusto? Fatto sta che nelle testa del povero re cominciarono ad affastellarsi una serie di pensieri assai poco decenti su cosa avrebbe voluto farci con quel gran pezzo di divinità invece di stare a perder tempo con quello stupido gioco. Ma Durga - Kalì si accorse subito del mutato atteggiamento del re che invece di guardare i dadi le guardava altre cose. Si infuriò come solo una dea terribile sa infuriarsi. Uscì dal palazzo reale sbattendo la porta e avvertendo il re che non sarebbe più tornata se non incarnata in una bambina pura - Kumari significa per l’appunto “vergine” - che lui avrebbe dovuto onorare col rispetto che si deve ad una dea. Cominciò così la ricerca della bambina posseduta dallo spirito di Durga - Kalì e nacque il culto della Kumari, la piccola dea protettrice della dinastia reale e di tutto il popolo nepalese.
Questa perlomeno è una delle tante leggende, così come mi è stata raccontata. Di mio ci ho messo solo il termine “gran figa” per rendervi bene l’idea. Ma vi avverto che esiste perlomeno un altro centinaio di versioni sull’origine della Kumari. E tutte diverse. La verità, tanto nella storia quanto nel mito, è un concetto tutto nostro. In Nepal non gliene frega niente a nessuno e ciascuno la racconta come la vuole.

Nel bel mezzo di Kathmandu
Oggi la Kumari, che quando era soltanto una bambina si chiamava Matina Shakya, abita l’antico palazzo di legno nero e di mattoni rossi posto a lato della Durbar Square, la piazza principale di Kathmandu. La porta del cortile su cui si affacciano i balconi dell’appartamento della dea, al primo piano, è sempre aperta. Dentro ci trovate a tutte le ore del giorno varie decine di fedeli che fremono nell’attesa che la Kumari appaia alla finestra. Attendono anche delle ore tra i fiori profumati del cortile, pregando sottovoce per non disturbare sua santità. In un angolo c’è una piccola porta, anch’essa sempre aperta, che conduce direttamente alle stanze della dea. C’è solo un cartello che ti prega di non entrare a meno che tu non sia la reincarnazione del dio Rama che nel “Who is who” delle divinità induiste sarebbe lo sposo della dea Kalì. Io sono stato lì lì... ma poi ho deciso che fare la reincarnazione di Rama era troppo pure per me. Sono stato comunque fortunato perché dopo un paio di minuti sul balcone si è affacciato il Chitaidar, per metà sacerdote e per metà maggiordomo della Kumari, per avvisare che sua santità stava per degnarsi di mostrare il suo bel viso. Mentre tutti si inginocchiavano, mi si sono avvicinate le guardie del palazzo per ordinarmi di tener buona la reflex, che fare foto non ufficiali della dea era strettamente proibito. Al diavolo anche le divinità incarnate! Venti secondi dopo era già tutto finito. I fedeli con l’aria soddisfatta - la Kumari non li aveva cagati neppure di striscio - uscivano cercando fantasiose interpretazioni sui battiti delle lunghe ciglia della piccola dea. Solo allora mi venne da riflettere che nel cortile c’erano sia fedeli induisti che buddisti. La cosa mi colpì alquanto (nonostante tutti i viaggi che ho fatto continuo a ragionare da occidentale e cerco le contraddizioni su tutte le cose). Come è possibile che la stessa dea incarnata sia venerata da due religioni diverse? Ma ciò può stupire solo chi non conosce - e conoscere vuol sempre dire amare - questo incredibile Paese dove la marjuana cresce spontanea ai bordi delle strade. Per i nepalesi pregare è un atto naturale come vivere, mangiare e fare l’amore. Dei e dee ce ne sono tanti, conosciuti e sconosciuti, e neppure il bramino più santo può vantarsi di padroneggiare a fondo tutta la sterminata biblioteca sacra. I comportamenti delle divinità, se possono insegnare qualcosa all’uomo, alla fin fine risultano misteriosi proprio come misteriosa, alla fin fine, è la nostra vita su questo piano di esistenza. Girare in senso orario attorno ad uno stupa che simboleggia buddha o rintoccare le mille campanelle attorno ad un tempio per attirare l’attenzione di Visnù non vale né più né meno che inginocchiarsi davanti ad un crocifisso o in direzione di un mihrab sciita. “Gli dei sono molto suscettibili ed è bene pregarli tutti“ mi ha spiegato l’amico nepalese che mi ha fatto da interprete e che, quando viene in Italia, non trascura mai di andare a sentire qualche messa. L’amico mi ha pure confessato che trova molto sciocco l’atteggiamento di tanti occidentali, convinti che il loro dio sia unico e migliore degli altri. Mi ha chiesto perché continuiamo a ragionare come dei bambini ma non ho saputo dargli una risposta.

Kumari si nasce
Vale la pena di spendere due parole su come viene scelta, oggi come cento anni fa, la Kumari. Per prima cosa la bambina deve appartenere all’alta casta Newar Shakya propria di chi lavora o commercia oro, argento e pietre preziose. I suoi genitori devono risiedere a Kathmandu da almeno tre generazioni e essere di provata fedeltà alla famiglia reale. Alla sua identificazione partecipano otto grandi saggi tra i quali il sacerdote induista di Durga, alti prelati buddisti e l’astrologo del re. La candidata deve essere perfetta nel fisico, non avere cicatrici e presentare le cosiddette “32 perfezioni divine” tra le quali figurano: occhi neri e profondi, piedi e braccia proporzionate, cosce di daino, organo sessuale non sporgente, lingua piccola, corpo come un banano (non ho capito cosa significhi), guance come quelle di un leone (come prima), ciglia come quelle di una mucca (ancora meno), denti perfetti e... una bella ombra!
Una volta dimostrato di possedere questi requisiti - e vorrei sapere come fanno a valutare l’ombra - la candidata deve sottoporsi ad una serie di esami atti a testarne il carattere divino. La Kumari non può piangere ma nemmeno ridere. Una dea infatti è sempre disinteressata alle vicende umane. Deve essere soprattutto una bambina tranquilla, considerato che ogni suo movimento viene sempre interpretato in termini di spaventose sciagure per i fedeli e per il Paese. Per saggiarne la “tranquillità” le bambine vengono sottoposte ad una prova terrificante: sono chiuse in una stanza buia riempita di teste di capre mozzate e di bufali scannati mentre uomini mascherati da demoni urlano per spaventarle. La bimba che si addormenta “tranquilla” è la vera Kumari.
Quando mi hanno raccontato questa storia, ho chiesto cosa fanno ingurgitare (o fumare) alla povera dea prima della prova ma mi hanno risposto che “sono riti segreti”.
Il compito della Kumari è fondamentalmente quello di farsi adorare e di porre la tika, il sacro segno rosso, sulla fronte del re del Nepal che una volta all’anno si reca nel suo palazzo per baciarle i piedi. Per tutta la durata della sua carica, la Kumari non può lasciare i suoi appartamenti se non in rare celebrazioni religiose dove viene trasportata su una speciale portantina dorata. I sacri piedini della dea non possono mai posarsi sul vile terreno. Neppure le scarpe può indossare. Al massimo calze ma solo se di seta rossa. Dopo che gli otto saggi hanno riconosciuto la sua divinità, i genitori si fanno immediatamente da parte e potranno rivedere la figlia dea solo in casi eccezionali e nelle vesti di semplici fedeli. Alla fanciulla sono concessi solo due compagni di gioco attentamente selezionati tra i bambini maschi della sua casta. Ovviamente la Kumari non va a scuola. Una dea sa sempre tutto. Il suo Chitaidar copre comunque anche le funzioni di precettore, pur se non può certo costringerla a studiare e neppure chiederle di impegnarsi in una cosa qualsiasi. Tutto le viene insegnato solo le lei lo desidera.

Kumari non si muore
La dea bambina rimane in carica sino alla prima perdita di sangue. Il che non significa necessariamente la prima mestruazione. Basta anche una piccola ferita o un graffio. Quando capita, la dea Kalì si riprende la sua divinità e va alla ricerca di un’altra bambina meritevole di ricevere cotanto dono. L’oramai ex Kumari viene accompagnata fuori dal palazzo e privata di tutta la sua venerabilità dopo un’ultima una cerimonia che dura 4 giorni. Chi lo sa come appare in quel momento il mondo che sta fuori dal cortile del Kumari Ghar alla piccola ex dea? La ragazzina fa ritorno alla sua famiglia con il solo conforto di un vitalizio di circa 6 mila rupie al mese. Neanche 100 euro per noi ma quattro volte un salario medio per un nepalese. In futuro potrà anche sposarsi se lo desidera, ma il suo sposo, racconta la tradizione, è destinato a morire tossendo sangue dopo circa sei mesi dalle nozze.
Ma il Kumari Ghar, il palazzo prigione della piccola Kalì, rimarrà vuoto solo per poco tempo. A Kathmandu gli otto si mettono immediatamente alla ricerca un’altra Kumari mentre la vita sotto il Sagaramāthā, la Grande Madre Celeste che gli inglesi hanno voluto chiamare Everest, scorre come tutti gli altri giorni.
Di giorno, quei catorci che qui chiamano automobili si incolonnano in file lunghe chilometri davanti ai distributori vuoti. Di notte, il flusso della corrente elettrica si interrompe puntualmente, nonostante le quotidiane dichiarazione del Governo che tutto funziona alla perfezione, e l’intera vallata piomba nel buio. La gente per scaldarsi esce di casa e accende grandi falò ai bordi delle strade. Sono le uniche luci che illuminano l’ampia valle del Bagmati dopo la luna e le stelle. Vista dall’alto, dal santo monastero buddista di Kopan dove i monaci intonano con voce profonda l’om padme hum, Kathmandu sembra uno sterminato accampamento di nomadi. Quando il partito comunista ha vinto le elezioni ponendo fine alla guerra civile, l’India e la Cina hanno staccato la spina dei rifornimenti energetici. La vita è dura per “questa piccola radice tenera che cerca di crescere tra due macigni” come recita un antico detto sul Nepal.
Ma tutto questo la Kumari non lo sa.

Bahía del Correo

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Puerto Baquerizo Moreno - Dietro le Americhe, a tre giorni di mare da Puerto Baquerizo Moreno, tempeste permettendo, si trova l’ufficio postale più incredibile del mondo. Siamo nelle Galapagos. Più precisamente a Floreana, l’isola più a sudovest di quel lontano arcipelago dove, in un lontano ottobre del 1935, approdò un giovane e curioso naturalista di nome Charles Darwin.
A dir la verità, il vero nome di Floreana sarebbe Santa Maria, in onore delle più celebrate delle tre caravelle di Cristoforo Colombo. Ma lo scopritore delle Americhe non è particolarmente amato in questo lato del mondo dove, vai a capire il perché, gli indigeni sono tuttora convinti che non avevano nessun bisogno di essere “scoperti”. E così preferiscono chiamare quest’isola Floreana che significa pressappoco “fiorita”, alludendo alla rigogliosa vegetazione che prospera sull’isola. Sono gli ultimi colori di un continente. Colori che rallegravano gli occhi dei marinai che da Floreana dirigevano la prua della nave verso il mare aperto.

Per i lunghi mesi a venire il loro sguardo avrebbe vagato dall’azzurro del mare e all’azzurro del cielo. I profumati fiori di Floreana, la sua lussureggiante vegetazione sarebbero stati un prezioso ricordo da conservare nell’anima. Floreana era l’ultimo angolo di terraferma sulla rotta delle navi che si preparavano ad affrontare il proprio destino navigando nelle acque dell’oceano più grande e più pericoloso: il Pacifico. Navi da corsa, vascelli militari, brigantini delle società geografiche, baleniere, galeoni di pirati, velieri con corsari e avventurieri al timone. Tutti salutavano Floreana come l’ultima isola del continente americano prima di varcare la frontiera del grande oceano.
Ed è proprio qui che ancora oggi si trova il più straordinario Correo del mondo. La leggenda racconta che fu un capitano inglese di nome James Colnett il primo che, in quella spiaggia di Floreana, posò a terra un barile vuoto con la scritto “postal office”, ufficio postale. Era un qualche giorno dell’estate del 1793. Colnett era quello che definiremmo un vero lupo di mare. Aveva navigato con James Cook al suo secondo viaggio transoceanico e, nella sua lunga carriera di ufficiale di sua maestà nonché pirata a tempo perso, si era azzuffato con le navi spagnole in pressoché tutti i mari del mondo. Capitan Colnett sapeva bene cosa significava per un marinaio trascorrere lunghi anni lontano da casa, senza neppure il conforto di poter spedire una lettera ai propri cari. L’idea che gli venne quel giorno, poco prima di salpare da Floreana, era semplice e geniale al tempo stesso. Prima o poi, ragionò, qualche altro vascello approderà in questa spiaggia. Magari sarà una baleniera spagnola che fa rotta a Cartagena, oppure un brigantino statunitense che ha costeggiato tutto il continente e ora scende sino a Punta Arenas per doppiare lo stretto di Magellano e raggiungere i porti sicuri della vecchia Europa. Contando su quella solidarietà che tra la gente di mare non è mai venuta meno, neppure durante le battaglie più cruente, Colnett confidò che qualcuno si sarebbe preso carico delle lettere sino a portarle a destinazione. Certo, ci sarebbero voluti mesi, probabilmente anni, ma con ogni probabilità la lettera sarebbe comunque arrivata a casa prima del marinaio che l’aveva spedita. Un servizio di mano in mano del tutto gratuito, mai venuto meno nel corso dei secoli a venire. Chi aveva bisogno, lasciava nel barile la sua lettera. Chi poteva, prendeva la corrispondenza e si impegnava a recapitarla al destinatario personalmente o ad affidarla ad altri marinai, in altre navi, in altri porti. Così è nato e così è sopravvissuto sino ai nostri giorni il Correo dei bucanieri. Correo in spagnolo, vuol dire “posta”. Il nome bucanieri invece indica che i maggiori fruitori del servizio non erano quel che si dice degli stinchi di santo. Eppure, quella spiaggia divenne un santuario di pace. Una zona neutrale, diremmo oggi. Chi sbarcava per depositare o per prelevare la posta era considerato inviolabile. Non c’era Spagna, non c’era Inghilterra che contava. Non c’erano pirati e non c’erano soldati. Tutti avevano diritto di gettare l’ancora nella Bahía del Correo e di poter riprendere il mare sani e salvi. La posta in gioco, è proprio il caso di dirlo, era troppo importante.
Io ci sono sbarcato in una giornata in cui il cielo era così azzurro da apparire innaturale, dopo aver ormeggiato la barca in quell’insenatura che ha ispirato lo scrittore Stevenson: Devil’s Crowd, la corona del diavolo. Una serie di scogli affioranti sistemati in semicerchio che sono quanto rimane della bocca da fuoco di un vulcano oggi spento. La spiaggia era piena di foche spaparanzate al sole con la tranquillità di chi sa bene che è un animale protetto. Camminare sulla sabbia era percorrere un labirinto di pelo lucido e baffoni, stando bene attenti a non calpestare qualche pinna. Il Correo non è visibile dal mare. Bisogna inoltrarsi per un centinaio di metri nella vegetazione. Ti appare improvvisamente dietro una curva del sentiero che ti vien da domandarti in quale film sei capitato. Che cosa sia non è facile descrivere. Questo è uno di quei momenti in cui ringrazi di avere con te la macchina fotografica perché il vocabolario non contiene parole a sufficienza. Il semplice barile di Colnett si è trasformato in una scultura di legno dove tutti coloro che sono passati, ci hanno messo del loro. Nel legno sono intagliati disegni, nomi e date che risalgono anche a cent’anni or sono. Chi ci ha avvitato una targa automobilistica, chi ha appeso un pupazzo o il teschio di qualche strano animale. Qualcuno ha lasciato una radio rotta, altri collage di puntine per il disegno, manifesti di rockstar, copertine di libri, foto, bottiglie con messaggi, chiodi con appesi nastrini colorati...
Anche la posta che trovi dentro il barilotto più grande è in stile col Correo. Ci sono cartoline, lettere, diari, pagine di libri, fogli e buste di tutte le dimensioni e colori. Qualcuno ha lasciato il suo messaggio ricamato su fazzolettini. Un originalone ha adoperato carta igienica. Un intero rotolo scritto fitto fitto in un alfabeto che non ho riconosciuto. Il Correo parla tutte le lingue del mondo e scrive in tutti gli alfabeti del mondo. Ci ho trovato una corteccia di albero destinata, se non ho letto male, ad una ragazza tedesca di Düsseldorf e un mezzo guscio di noce di cocco con inciso un indirizzo e una frase. La noce era destinata ad una ragazza di Sidney e gliela inviava (lo so che non è educato leggere la corrispondenza degli altri, ma in questo caso...) un ragazzo di Newcastle. Il messaggio era solo questo: I love you. La data era di un paio di anni prima. Ogni tanto, ancora oggi, mi chiedo se la ragazza di Sydney l’abbia ricevuta, la sua noce di cocco, o se ancora l’attende ancora. Io, al Correo dei Bucanieri, ci ho lasciato una lettera ma non vi dirò per chi.
Ma spulciando tra le tante buste contenute nel Correo, ne ho trovata una destinata Treviso. Città in cui, avendo la fortuna di vivere a Venezia, mi capita ogni tanto di passare. Così l’ho portata con me. Era una busta blu chiusa, con sopra nome e indirizzo, e doveva aver trascorso un bel po’ di tempo nel Correo, considerando quanto era sgualcita.
Un paio di mesi dopo il mio ritorno dalle Galapagos, sono stato invitato a Treviso a presentare il mio libro “Liberalaparola” che racconta la storia di una scuola di italiano per migranti, gratuita e aperta a tutti. Finito l’incontro ho salutato tutti e ho cercato la via. Al numero civico indicato corrispondeva il nome giusto. Mi ero ripromesso di suonare e di consegnarla a mano. Un vero corsaro gentiluomo avrebbe fatto così. Ma all’ultimo momento mi è mancato il coraggio e l’ho lasciata nella cassetta delle lettere. O non sono un corsaro, o non sono un gentiluomo. O forse Floreana era troppo lontana.

I gorilla del Congo

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Provincia di Kivu, Repubblica Democratica del Congo - Le prime due ore di marcia non sono neppure impossibili. Il sentiero sale dolcemente lungo un declivio verde brillante costellato da radi arbusti. Sullo sfondo, l’imponente presenza del vulcano Karisimbi si innalza con i suoi 4500 metri nell’azzurro terso del cielo. Dietro il massiccio, le alte montagne congolesi si addolciranno sino ad aprirsi nelle lunghe valli coltivate a tè e a caffè del Rwanda, il Paese delle Mille Colline. Ma questo possiamo solo immaginarcelo. La linea dell’orizzonte è impenetrabile per la fitta foschia generata dalla calda umidità della foresta pluviale. Non c’era da aspettarsi altro, dalle montagne delle Nebbie. Come se non bastasse, siamo nel bel mezzo della stagione delle piogge. Per tutta la notte, sono cascati dal cielo veri torrenti d’acqua. Il sole equatoriale che ora ci scalda non è riuscito, in queste poche ore, a mitigare la furia degli acquazzoni. Il folto manto d’erba cede improvvisamente al nostro passaggio e, ogni dieci passi, finiamo con una gamba nell’acqua sino al ginocchio. Ma questi sono inconvenienti da mettere in conto, per chi vuole vedere i gorilla dalla schiena argentata.

I grandi primati descritti da Dian Fossey messi in pericolo di estinzione per la follia dell’uomo: deforestazione, cambiamenti climatici e bracconaggio. Siamo arrivati sino a qua dopo aver fatto tappa a Kisoro, capoluogo dell’omonimo distretto dell’Uganda. Una anonima cittadina che sorge sotto le pendici del vulcano Mufumbiro. L’unico interesse di Kisoro è la prossimità della frontiera con il Congo e la riserva naturale di Virunga. La guerra civile che continua ad insanguinare le provincie orientali dell’ex Zaire, oggi repubblica democratica del Congo, per il controllo dei ricchi giacimenti di coltan, rende sconsigliabile arrivare al Virunga da Kinshasa. Molto meno rischioso giungerci dall’Uganda e attraversare la frontiera che corre tra i laghi Edward e Kivu. Dalla stessa Kisoro, non è difficile contattare i ranger congolesi del Virunga Park e trovare una guida disposta ad accompagnarti nella foresta. Il Congo è un paese in guerra, anche se non sono le armi ma la malnutrizione e la mancanza di cure sanitarie a causare la maggior parte dei 38 mila decessi al mese dal 2006 ad oggi stimati dalle associazioni per i diritti umani. Le regioni ad est del Paese sono comunque attraversata da milizie paramilitari legati alle mafie del coltan che non fanno prigionieri. Come se non bastasse sono all’opera anche numerose bande di bracconieri che cacciano i rinoceronti per i corni, gli elefanti per le zanne e, trofei ancora più pregiati, i gorilla. Dalle loro mani, tagliate ed imbalsamate, si ricavano preziosi portacenere da smerciare di contrabbando nei mercati orientali e statunitensi. “Da dieci anni a questa parte – ha raccontato il ranger che mi ha fatto da guida – i bracconieri hanno ucciso oltre 140 miei commilitoni. In media viene ucciso un ranger al mese. Per questo viaggiamo armati. Incontrarli nella foresta significa difendersi o morire. E per questo dobbiamo sorvegliare giorno e notte gli ultimi gruppi di gorilla rimasti nel nostro parco”. All’appuntamento con i ranger, arriviamo dopo un’ora e mezza di terrificanti ed incessanti sobbalzi su uno sterrato dove le grosse buche sono più una regola che un’eccezione, percorso appesi alle sbarre di uno scassato furgone dell’esercito congolese. Il mezzo militare si ferma in mezzo ad un mare di campi coltivati a cacao, cotone, e canna da zucchero. Da qui in avanti si può procedere solo a piedi. Ed è un sollievo, dopo quella sorta di pista da motocross. Come abbiano detto in apertura, il cammino all’inizio non appare difficile. I grandi campi coltivati lasciano presto spazio ad una umida piana erbosa costellata di acquitrini i e pozzanghere che non sempre è possibile evitare. Ci vogliono due ore buone per arrivare al muro della foresta. Sì, un muro. La giungla comincia improvvisamente, alle pendici delle montagne dellaLuna. Il confine è netto tra due mondi distinti: uno aperto e soleggiato, l’altro chiuso e buio. Il manto erboso si spegne davanti ad una muraglia verde e fitta, appena nascosta da una umida nebbiolina che si ostina a resistere sotto il cocente sole d’Africa. Non ci sono sentieri, nella foresta. Si entra a colpi di machete e ti basta mettere la testa dentro per rimpiangere il cielo che hai lasciato fuori. Si procede lentamente, scavalcando tronchi putrescenti e chinando la testa sotto improvvisate gallerie di foglie, liane, rami. Se piove, là sotto, non te ne accorgi nemmeno. Ad ogni passo i piedi pesano sempre di più e devi strapparli alle piante che li trattengono e ti fanno inciampare. Le caviglie sprofondano nei tanti strati di vegetali che marciscono per terra. Pare di camminare su altalene e materassi molli. Ti viene da pensare che se anche ti cade la batteria della reflex, ce la lasci là, perché trovarla sarebbe una impresa impossibile, sprofondato come sei sino alle caviglie in quello stagno di verde putrescente. L’umidità ti avvolge dappertutto. Manca il fiato e i pungenti odori della foresta ti prendono allo stomaco. L’espressione “inferno verde” si colora di significato. E poi ci sono gli innumerevoli insetti, enormi millepiedi, ragni, zanzare, zecche, cavalletti, scarafaggi, vermi, termiti… una enciclopedia naturale dove nessuna voce manca. Le formiche in particolare sono terribili. Salgono dall’apertura dei pantaloni e i loro morsi ti lasciano il segno per due giorni. Prima di inoltrarci nella foresta, avevamo chiuso colletti, polsini e bottoni delle camicie. Avevamo infilato i pantaloni dentro le calze, rinforzando il tutto con generosi giri di nastro adesivo per pacchi. Tutte precauzioni necessarie ma che non ci hanno comunque risparmiato da contatti indesiderati. Per fortuna, ci spiega il ranger, il gruppo di gorilla che stiamo cercando, non dovrebbe essersi addentrato molto nella foresta. Solo un paio di giorni prima, li hanno visti scendere a valle per rubare la frutta ai contadini. Col nostro passo, entro un’ora al massimo dovremmo trovarli. Sono in tutto 18 esemplari tra cui alcuni neonati. Il capo branco è un grosso gorilla dalla schiena argentata che, ci assicura, “abbastanza raramente attacca i visitatori”. Nel caso, basta chinarsi in posizione fetale ed evitare di guardarlo negli occhi in modo da fargli capire che non intendiamo sfidarlo o mettere in dubbio la sua supremazia. In tutto il parco di Virunga sono rimasti solo 4 gruppi di gorilla. Gli altri sono stati tutti sterminati dai bracconieri. Questo gruppo si chiama “mapu”, che significa “nasoni”, e sono i diretti discendenti dei gorilla descritti da Dian Fossey nel suo celebre libro “Gorilla nella nebbia”. La prima traccia della loro presenza la troviamo, come ci aveva garantito l’amico ranger, proprio dopo un’ora circa di cammino nella foresta. E’ una piazzola di erba ben calpestata che i grossi primati hanno usato per dormire la note precedente. Tra i mille odori della giungla spicca una sfumatura dolciastra e selvatica. Ci siamo. Dieci minuti dopo, il rumore di un tronco che si schianta ci fa capire che i “nasoni” sono vicini. Il primo esemplare che incrociamo è una femmina che allatta un piccolo. Spaparanzata in mezzo al verde non si cura di noi e continua a divorare interi rami di foglie. Riusciamo ad avvicinarci sino ad un paio di metri. E’ tranquilla e pare occuparsi solo al suo pasto. L’incontro ci ha talmente emozionato che non ci siamo neppure accorti di essere finiti in mezzo al branco. I mapu dalla schiena argentata sono tutti intorno a noi. Salgono sugli alberi sino a piegarli con il loro peso. Poi saltano a terra liberando il tronco che ondeggia come una frusta. Si rotolano per terra pigri e non smettono un istante di mangiare grandi foglie. Solo i cuccioli trascurano il pranzo per interessarsi ai visitatori e ci regalano uno spettacolo improvvisato saltando con agilità, nonostante la mole, di ramo in ramo, attorno a noi. Sono incuriositi e, proprio come farebbe un cucciolo d’uomo, si dannano l’anima per farsi notare da questi strani esseri spelacchiati arrivati da chissà dove: si spintonano, si saltano sulle spalle, fingono di cadere, urlano e sberciano nella nostra direzione come per invitarci ad unirci ai loro giochi. Tacciono solo quando un secco rumore di rami schiantati sovrasta tutti gli stridii della foresta. Il capo branco ha deciso di scendere dal suo albero e di mettere fine alla cagnara. Con la sua enorme stazza si fa largo tra il verde nella mia direzione. A quattro metri dal mio obiettivo si siede tra le piante come su un trono, scrutandomi con uno sguardo indecifrabile. Quindi comincia a… petare come neanche in una caserma. E’ lui, il maschio dominante, e me lo vuole far capire in tutti i modi. I giovani e le femmine si sono allontanati tutti. Improvvisamente, l’imponente gorilla decide di darmi un’ulteriore dimostrazione della sua potenza. Si alza sulle zampe posteriori in tutta la sua enormità e si batte il petto a mani aperte, lanciando minacciose grida di sfida. Una scena vista in tanti film di Tarzan, ma dal vivo, ve lo assicuro, fa tutta un’altra impressione! In un batter d’occhio, mi chino a terra, prono. Non ho nessuna voglia di mettermi a discutere di democrazia con quella montagna di carne. Il capo branco pare soddisfatto del mio gesto e si lascia cadere nel suo trono verde senza più degnarmi di uno sguardo. Queste strane scimmie senza pelo talmente imbranate da non riuscire neppure muoversi nella foresta, deve aver giudicato, non possono certo mettere in pericolo la mia supremazia. Ritornando a valle, tra inevitabili ruzzoloni e dolorosi scorticamenti, non posso fare a meno di pensare a quanto quei giganteschi gorilla, tanto forti quanto vulnerabili, siano simili a noi, animali umani.
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