Tutti i colori dell’ingiustizia. La Patagonia di Benetton tra violenze e desaparecidos

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Giù, giù, verso sud. Giù, lungo la Ruta 40 raccontata da Chatwin, La Ruta 40 che parte da Buenos Aires e si ferma solo ad Ushuaia. Dopo non c'è niente: è la Fin del Mundo. Sempre a sud, tra gli spazi sconfinati della Patagonia, quando arriverete vicino alla cittadina di Leleque - quattro case in croce per poco più di cento abitanti -, non crederete ai vostri occhi nello scorgere un grande cartellone pubblicitario che vi informa che in quell'immenso niente qualcuno ha costruito un museo. Un museo dedicato al "pueblo desaparecido", il popolo scomparso, realizzato dalla Benetton.
Già, perché tutto quell'infinito che vedete attorno a voi - terra, acqua e anche il cielo, se fosse possibile confinarlo - appartiene al Gruppo trevigiano. Lo ha comprato nel “reparto occasioni" nella svendita avviata dal presidente Carlos Menem (ve lo ricordate? L'amico personale del Berlusconi!) nel '91, quando una Argentina appena uscita dalla dittatura doveva pagare i tanti debiti accumulati dalle eroiche imprese delle giunte militari. In cambio di dilazioni e finanziamenti, il Fondo Monetario Internazionale aveva chiesto al Governo sudamericano di vendere tutto quello che poteva vendere e privatizzare tutto quello che ancora rimaneva da privatizzare. Il provvedimento, come era ragionevole attendersi, fece piombare l'Argentina nella crisi monetaria più pesante della sua storia ed ebbe come effetto la messa all’asta delle terre mapuche. E senza che, per questo, qualcuno abbia mai chiesto l'opinione dei mapuche che, come loro affermano, "viviamo in queste terre sin dal 11 ottobre del 1492". Come dire: da prima che arrivasse il Cristoforo Colombo con le sue cazzo di caravelle.


A proposito, sono loro il "pueblo desaparecido" cui i Benetton, che furono i principali accaparratori di quelle terre, hanno dedicato il loro elegante museo. Va da sé che i mapuche, che non si sentono ancora "desaparecidos" del tutto, non vedono di buon occhio le installazioni di Leleque. Questo il motivo per il quale, tutte le volte che ci sono passato, il museo è circondato da reparti dell'esercito con i mitra spianati.

Il resto, sono tutte storie di quotidiana ingiustizia. Violenze, botte, stupri, assassinii e sgomberi forzati da una parte, resistenza e guerriglia da quell'altra.
Resistenza che non si è mai fiaccata, nonostante la disparità delle forze in campo e che, al contrario, si sta allargando in tutte le terre che i mapuche "recuperano" al furto, abbattendo le barriere di filo spinato e organizzandosi in comunità autogestite. Cosa che, d'altra parte, hanno fatto in tutta la loro storia.
Mai amati e tantomeno sostenuti dalle autorità di Buenos Aires, i mapuche hanno comunque ottenuto importanti riconoscimenti, come quello non affatto scontato del diritto di esistere come comunità indigena, durante i governi di Néstor e Cristina Kirchner. L'arrivo di Mauricio Macri e con lui della destra liberista, un paio di anni fa, ha portato ad un giro di vite nella questione sino alla tentazione, sempre insita nelle destre di tutto il mondo, di trovare una "soluzione finale" al problema indigeno. Argentina e mapuche sono arrivati ad una vera e propria guerra non dichiarata che ha fatto pensare ad una nuova Conquista del desierto, come ha denunciato il giornale La Jornada. La Conquista fu una campagna militare portata avanti dal governo argentino per mano del generale Julio Argentino Roca negli anni 1870 contro gli indigeni del sud e che sfociò in un vero e proprio genocidio.

Il pugno duro del Governo Macri ha avuto come contropartita anche un cambio all'interno della Benetton che ha affidato la gestione di quelle terre dove ricava perlomeno il 10 per cento della lana di cui ha bisogno, a Ronald Mc Donald, uno "scozzese coriaceo" come lo definisce Repubblica. "Un tipo duro, dai modi spicci. Conosce queste terre, sa come trattare gli imprevisti". Non ama i mapuche e non fa nulla per nasconderlo. "Mi sembrano fuori dal tempo - dice. - È come se oggi andassi nell’Inverness, in Scozia, e rivendicassi la terra dei miei antenati. Una follia”.
Non è questo il paragone giusto, mister Ronald Mc Donald. Direi piuttosto: "E' come se oggi andassi dal tuo sindaco, comprassi il terreno dove hai edificato casa tua e buttassi fuori a calci in culo te e tua sorella". Mi sembra più azzeccato, o no?
Fatto sta che la lotta in Patagonia si è fatta più dura e le pallottole di gomma diventano di piombo. Un anno fa, Facundo Jones Huala, leader riconosciuto dei mapuche, viene arrestato con l'accusa non provata di essere un terrorista e comincia un duro sciopero della fame per denunciare al mondo le ingiustizie patite dai popoli indigeni dell'Argentina.
Ma il capitolo più grave accade a Cushamen, dove il primo agosto un attivista di 27 anni nativo di Buenos Aires ma che viveva in una comunità mapuche a El Bolsón, viene fatto sparire dopo essere stato prelevato dalla gendarmeria nazionale durante una manifestazione per la liberazione di Facundo. Si chiama Santiago Maldonado e per l'Argentina torna lo spettro della desaparicion forzada.
La gendarmeria nega ogni responsabilità, ma ci sono video e foto che la provano. Così la magistratura avvia una indagine che per la prima volta tira in causa anche il Gruppo Benetton e indaga sulla gestione da parte dell'esercito e delle forze dell'ordine della questione mapuche e sui diritti violati dei popoli indigeni.
L'opinione pubblica argentina, che pure non si è mai allargata troppo sulle questione indigena, questa volta, è scossa. Televisioni e giornali parlano di un nuovo desaparecido ad opera di gruppi militari. E’ il primo dell’era Macri ed è come se tutte le piastre che ornano i muri di Buenos Aires per commemorare i migliaia di rapiti, torturati ed assassinati, si mettessero a sanguinare. La storia ritorna. E torna a far paura a chi non l'ha mai dimenticata.

Il caso di Santiago Maldonado esce dai blog sui i diritti umani e rimbalza nei giornali e nei media del mondo. Le associazioni più sensibili alla questione organizzano manifestazioni nelle maggiori città europee. Anche a Treviso, anche nella città di Benetton, sabato scorso, 26 agosto, una cinquantina di attiviste e attivisti di Ya Basta Êdî Bese mette in scena una iniziativa con volantinaggio e striscioni davanti al negozio del Gruppo. “Donde esta Santiago Maldonado?” chiedono.
Nessun commento da parte della famiglia Benetton. L’Argentina è lontana. In Italia, il gruppo continua a mostrare il suo volto da “capitalismo illuminato”, ammicca al centro sinistra, delocalizza la produzione e fa contenti gli azionisti tenendo la barra sul fatturato, acquista palazzi storici di Venezia per stuprarli e trasformarli in rivendite di cialtronerie in stile centro commerciale da aeroporto.
Attraverso la sua Fondazione spende e spande beneficenza, finanza lavori sulla pace e premia progetti virtuosi di tutto il mondo per far scrivere i giornali. E paga viaggi ai giornalisti pronti a scrivere su questi progetti, gira soldi all’associazionismo che diventa un mestiere come la fondazione bolzanina dedicata ad Alex Langer e collabora con i Centri Pace dei Comuni come faceva con quello di Venezia.
Nessuno chiede da dove vengano quei soldi.
E se questo a voi non fa schifo…

Difendiamo Wirikuta. Intervista con Santos De La Cruz

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Si stava recando all'aeroporto,l'avvocato Santos De La Cruz, portavoce del popolo wixarikà, quando una macchina piena di uomini armati ha cercato di intercettarlo. La prontezza di riflessi dell'autista che lo accompagnava, che ha prontamente accelerato, ha probabilmente salvato la vita dell'avvocato De La Cruz. E questa è solo una delle tante minacce alla vita che è il legale che ha istruito le pratiche contro le compagnie minerarie, ha ricevuto nel corso della sua battaglia in difesa del Cuore Sacro del Messico: le alture di Wirikuta, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del mondo. Patria spirituale degli indigeni wixarikà ma anche terra ricca di argento e di altri minerali preziosi. Compagnie come la canadese First Majestic Silver Comp hanno ottenuto dal governo messicano l'autorizzazione ad aprire miniere a cielo aperto che inquinerebbero le falde acquifere e decreterebbero la morte di Wirikuta. E con Wirikuta, scomparirebbero anche i wixarikà che attraverso i pellegrinaggi in queste magiche colline tramandano la loro cultura orale. Chiamato in Europa da associazioni in difesa dei diritti dei nativi, come Salviamo Wirikuta, l'avvocato Santos de la Cruz, ha partecipato a due iniziative di Ya Basta Edi Bese nel veneziano; la prima nel centro sociale Dedalo di Mira, organizzata dall'associazione Argo, e la seconda nelle aule universitarie di San Basilio e poi nello spazio occupato di Ca' Bembo con gli studenti del Lisc.

In questa intervista con Camilla Camilli, il portavoce del popolo wixarikà fa il punto della situazione della battaglia contro le compagnie minerarie. Una battaglia che non è solo dei nativi messicani ma di tutti coloro che credono che l'acqua, la terra, l'ambiente contino più dell'argento.



Il sole nasce a Wirikuta

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Magari non avevano chiaro il significato del termine scientifico "biodiversità", ma certamente gli antichi del popolo wixarikà non avevano scelto male, quando avevano indicano in quelle colline che hanno chiamato Wirikuta il luogo dove è nato il sole. Siamo nel cuore del Messico, nello Stato federale di San Luis Potosí, a circa 360 chilometri a nord di Mexico City.
La riserva naturale di Wirikuta sorge nelle alture della Sierra de Catorce, in quella vasta area chiamata deserto del Chihuahua che dal Messico centrale sale sino a varcare il Rio Bravo ed a lambire le praterie del Texas e dell'Arizona. Un'area di 140 mila ettari quadrati che nel 2004 il governo messicano ha dichiarata Riserva Ecologica Naturale e Culturale, e che nello stesso anno è entrata a far parte dei siti Sacri Naturali dall’Unesco come Patrimonio mondiale dell’umanità.
Già. Perché questo "deserto" non è affatto… deserto. Tutto il contrario. In questo angolo di mondo si concentra la maggior biodiversità e ricchezza endemica cactacea per metro quadrato dell’intero pianeta terra.
Non è per caso quindi, che il popolo indigeno wixarikà, meglio conosciuti in Centroamerica come gli huichol, hanno visto in Wirikuta il luogo magico in cui nacque la vita. Su questa alture sacre, dimore elettive degli dei dei wixarikà, ebbe origine, in tempi remotissimi, la Creazione ed ancora oggi queste alture reggono il peso dell'equilibrio del vivente. Da Wirikuta si dipana nella nostra Terra l'eterno ciclo della natura.


Manco a dirlo, oltre che di biodiversità, queste colline sono ricche di minerali preziosi e il Governo Messicano, più incline alle argomentazione dei dollari messi in campo dalle multinazionali estrattive che alle sacre ragioni dei wixarikà, ha pensato bene di concedere ben 22 concessioni minerarie all’impresa canadese First Majestic Silver Corp. Mentre la zona più sacra della già sacra riserva di Wirikuta, l'area di Bernalejo che è la casa del cervo Kauyumari, è andata per intero ad un'altra multinazionale canadese, la West Timmins Mining.
"E’ come se volessero mettere un distributore di benzina in Piazza San Pietro a Roma o scavare sotto la Basilica della Madonna di Guadalupe a Città del Messico" ha sintetizzato Santos De La Cruz, portavoce della comunità wixárika.
"Il tipo di estrazione utilizzato dalle industrie minerarie è il sistema 'a cielo aperto' - spiega De La Cruz -. Questo sistema rimuove nel giro di qualche ora, lo strato superficiale della terra attraverso moderni scavatori e esplosioni al fine di rendere accessibile i minerali. Successivamente per separare il metallo dalla terra si utilizzano dei processi chimici, con il cianuro e il xantatos, altamente contaminanti, con delle enormi quantità di acqua. Ne consegue anche un inquinamento delle falde acquifere e lo svuotamento dei già precari bacini idrici".
Per le multinazionali minerarie, è un affare di miliardi ed una ulteriore conferma della loro ragione di essere. Esistono perché depredano, depredano perché esistono.
Per il Governo messicano - o meglio, per il Narcogoverno messicano, come lo chiamano da queste parti (e vai a capire il perché) - è un buon sistema per ottenere denaro da investire in facile consenso e voti. Senza contare l'appoggio di quelle finanziarie che oramai non dettano più i tempi solo all'economia ma anche alla politica.
Per i campesinos di San Luis Potosí, lo sfruttamento minerario che devasterà i loro campi, prosciugherà le falde acquifere e avvelenerà la loro terra, si tradurrà al massimo in qualche anno di lavoro, in condizione di sfruttamento e di semi schiavitù (che i padroni de las minas non amano avere sindacalisti tra i piedi). Poi, quando tutto l'estraibile sarà estratto, potranno prendere la via di una delle tante e sempre più numerose favellas che arricchiscono l'America latina. Parlo di quell'America che non fanno mai vedere ai turisti.
Per i wixárika, le concessioni minerarie significano la fine della comunità. Senza alternative. La lingua e la cultura huichol non si tramandano in forma scritta. Ogni giovane la impara in un lungo pellegrinaggio attraverso i luoghi sacri di Wirikuta. Un pellegrinaggio talmente importante che è stato definito una “università itinerante mesoamericana”.
"Questo pellegrinaggio - spiega il portavoce della comunità wixárika - è l’asse portante della nostra identità e il mezzo attraverso cui trasmettere alle nuove generazioni un sistema di conoscenza ancestrali basato sulla natura". Senza Wirikuta non possono esistere gli huichol. Così come senza laguna, non può sopravvivere la nostra Venezia. Perché gli huichol sono Wirikuta così come Venezia è laguna.
Ma la cosa che fa da pensare che davvero su quelle alture ci debba abitare un qualche dio è che la battaglia in difesa di Wirikuta non è ancora persa. Anzi, è tutta da combattere. La strenua resistenza degli huichol alle devastazioni minerarie, come quella di tanti Davide che non arretrano di fronte ai loro Golia, ha suscitato le simpatie di intellettuali, premi Nobel, musicisti e artisti di fama (l'elenco sarebbe davvero lungo) che hanno aderito alla campagna Salviamo Wirikuta. In rete, a questo link, trovate anche una sottoscrizione che vi invitiamo a firmare.
Ne è nato un agguerrito movimento di opinione che, grazia anche alle determinate azioni di resistenza sul campo degli huichol, è riuscito a congelare buona parte delle concessioni minerarie.
Ma la battaglia, come abbiamo detto, è ancora tutta da combattere. "Resistere" è un verbo da coniugare sempre al presente e al futuro. Mai al passato.

Parleremo della difesa di Wirikuta anche nel veneziano, con due incontri ai quali parteciperanno il portavoce della comunità Santos De La Cruz e la scrittrice e sciamana wixárika Maria Mendicino.
Gli appuntamenti sono al centro Dedalo di Mira, via Enrico Toti 35, mercoledì 3 maggio alle ore 18, e all'aula 1B San Basilio a Venezia, salizada San Basegio, giovedì 4 alle ore 17.
Se potete, partecipate e venite a discutere con noi di una lotta a difesa di un patrimonio di tradizioni e di biodiversità che non è solo degli wixárika ma di tutta l'umanità.
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Le miniere aperte dell'America Latina

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C'era una volta zio Paperone. Con lo zaino in spalla ed un piccone in mano, il futuro fantastiliardario risaliva le innevate distese del Klondike alla ricerca del suo filone d'oro, confidando solo nelle sue forze papere e nel suo Decino portafortuna. Erano i tempi del capitalismo che fu, quando il guadagno realizzato da una concessione mineraria era proporzionato solo all'estratto. Con l'avvento dell'economia finanziaria, l'estrattivismo è entrato in borsa rivelandosi la più potente benzina per le speculazioni finanziarie. Le corporation minerarie oggi, sono tutte quotate nei mercati finanziari e il valore delle loro azioni non dipende da quanto effettivamente estratto dalle loro miniere ma da complessi calcoli speculativi su ricavi futuri che consentono ai loro investitori il perverso gioco di fare "soldi dai soldi". E' un gioco di scatole cinesi globale, dove gli Stati nazionali (e pure i loro governi) sono tenuti ai margini. Quando una legge nazionale pone restrizioni alle speculazioni, il capitale si sposta semplicemente su un'altra borsa. Proprio come è accaduto per il Canada, negli ultimi anni del secolo scorso, quando gli Usa imposero una serie di limiti speculativi sulle attività minerarie e le corporation risposero trasferendo le loro sedi legali a Toronto e continuando, come prima, ad acquistare concessioni speculative in tutto il mondo. Una indagine pubblicata su Le Monde Diplomatique ha dimostrato che, oggi, oltre tre quarti delle multinazionali minerarie del mondo ha sede legale in Canada, e il 60 per cento di queste fa riferimento alla borsa di Toronto, la Toronto Stock Exchange. "Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria - scrive Le Monde - salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini".
Le bolle economiche create dalla speculazione finanziaria hanno preso il posto delle pepite d'oro faticosamente raccolte nelle gelate sponde dello Yukon. Un capitalista old style come il buon Paperon De Paperoni, avrebbe presi tutti a picconate in testa. Questo processo, pur se virtuale, comporta però che, nella realtà, la miniera deve sempre e comunque continuare a produrre, anche quando, secondo i dettami del vecchio capitalismo, il gioco non varrebbe più la candela. Vuoi perché i costi gestionali o ambientali sono eccessivi, vuoi perché i governi impongono troppe tasse. Ecco perché le corporation dell'estrattivismo hanno assoluto bisogno di governi amici che detassino le attività minerarie, smagriscano le carte costituzionali troppo protettive dei beni comuni - è un caso esemplare il Messico dove assistiamo ad un lento ma continuo disgregamento della costituzione nata dalla rivoluzione zapatista -, tacciano sui danni ambientali e, come se non bastasse, siano pronti a soffocare qualsiasi soffio di rivolta tra le popolazioni locali. Governi non soltanto complici. Governi anche malavitosi. La corruzione è un elemento fondamentale per l'ottenimento di concessioni minerarie, considerando che l'attività estrattiva è, per dirla come va detta, assolutamente incompatibile con la tutela dell'ambiente e la difesa dei beni comuni. Pensiamo solo all'acqua che viene avvelenata col mercurio perché riveli eventuali tracce d'oro. Oppure allo spreco che si fa di questa risorsa durante la lavorazione dei metalli, in zone per lo più, dove l'approvvigionamento idrico è sempre critico. Solo otto mesi fa, crollavano due gigantesche dighe minerarie di contenimento a Bento Rodrigues in Brasile. 62 milioni di litri di acqua e fango tossico spazzavano via una intera regione. E' stato uno dei più grandi disastri ambientali della storia dell'umanità, che ha causato danni impossibili da quantificare e un numero di morti ancora da accertare. Eppure, oggi, sono in pochi a ricordarselo, nonostante i fanghi tossici continuino ad inquinare aree sempre più vaste del Paese. Le indagini hanno accertato che la Samarco, per risparmiare sui costi di gestione, aveva tralasciato le più elementari norme di sicurezza e aveva fatto pressione sulle autorità locali per mettere a tacere i rapporti dei tecnici che denunciavano la pericolosità delle dighe. L'aggiramento delle leggi - se non addirittura la loro modifica legale - è una prassi costante e necessaria dell'attività estrattiva, senza la quale non potrebbe prosperare. In alcuni Paesi dell'America latina, in particolare in quelli governati dalla destra, l'illegalità viene tollerata se non addirittura favorita dalle autorità costituite. Nella migliore delle ipotesi, polizia ed amministrazioni preferiscono seguire la politica dello struzzo e fingono di non vedere una quantità enorme di miniere a cielo aperto. Miniere clandestine che non esistono ufficialmente ma che comunque ottengono le loro brave quotazioni alla Toronto Stock Exchange! Un quinto dell'oro estratto dalle montagne del Perù, Paese che con le sue 160 tonnellate annue si pone al quinto posto della classifica mondiale, ha questa provenienza illecita. Al prezzo attuale di mercato, un giro di affari che sfiora il miliardo di euro all'anno. A gestire le vie del commercio illegale sono organizzazioni di stampo mafioso legate a doppio filo con il governo e con le multinazionali estrattive. E' appena il caso di sottolineare che dietro a queste miniere di nobile metallo - anzi, chiamiamolo meglio "oro sucio" (oro sporco), come lo appellano a queste latitudini - si trovano devastazioni ambientali, violenze, sfruttamento minorile, miseria, assassini di oppositori, genocidi di intere comunità indigene, corruzione politica. In altre parole, lo scenario perfetto per lo "sviluppo" di una sana economia neo liberista. Con orgoglio tutto renziano, possiamo affermare che dietro tutto questo c'è anche un po' di Italia. Visitando il Cile, lo scorso ottobre, il nostro premier, Matteo Renzi, ha elogiato il lavoro delle aziende italiane che operano nel continente come la Astaldi che passa dalla realizzazione di ospedali (privati) allo sfruttamento minerario, la Atlantia che sta realizzando le autostrade più contestate del Paese, e l'Enel che fracassa qua e là l'Amazzonia in cerca di petrolio di bassa qualità. "L'Italia qui è rispettata per il carico di civiltà che rappresenta e per la voglia di futuro che esprime" ha dichiarato il premier. "I presidenti delle società mineraria - mi disse tempo fa un giornalista messicano - vanno a pranzo col ministro ed a cena col mafioso. L'unica differenza tra l'estrattivismo e il narcotraffico è che il secondo non è quotato in borsa. Perlomeno direttamente!" Ad opporsi a questo malaffare imperante non sono certo polizie ed eserciti ma i popoli indigeni che si organizzano in autonomie, i contadini che occupano e lavorano le terre saccheggiate dalle multinazionali, i lavoratori che si organizzano in sindacati autonomi, i cittadini che difendono i quartieri, che chiedono istruzione statale, trasporti accessibili e una sanità pubblica e aperta a tutti. Sono loro i veri e gli unici nemici del neo liberismo. Una galassia di movimenti dal basso che, pur con le loro differenze e contraddizioni, sono il vero sangue che scorre nelle vene aperte - per citare Eduardo Galeano - dell'America Latina. La crisi dei Governi di sinistra, dall'ecuadoriano Correa al venezuelano Maduro, va imputata alla loro incapacità di rovesciare il modello socio economico imperante basato su una economia predatoria. Se in molti casi hanno migliorato le condizioni del loro popolo creando scuole e strutture sanitarie prima assenti, dall'altro hanno continuato a marciare sui binari dell'estrattivismo nel vano tentativo di gestire e umanizzare il capitalismo, ma finendo solo per trasformarsi da rivoluzionari a burattini delle corporation minerarie. In poche legislazioni, la loro carica innovativa si è esaurita, schiacciata dal peso di una economia che si nutre di disastri e di povertà, e perdendo credibilità di fronte ai loro elettori. Si spiega così la lenta ma decisa marcia verso l'autoritarismo in cui si sono incamminate o si stanno incamminando tutte le democrazie dell'America Latina. Il nuovo fascismo che avanza non veste la logora divisa delle vecchie Giunte Militari ma non è per questo meno reazionario e sanguinoso. Per imporre il suo potere si fa scudo della stessa democrazia. Il controllo dei giornali e dei media assieme all'imposizione di una giustizia sfacciatamente politica (vedi il caso della presidente brasiliana Dilma Rousseff) sono le armi con le quali i nuovi caudillos fanno piazza pulita degli oppositori, presentandosi poi alle folle come dei politici innovatori, telegenicamente trasgressivi, capaci di imbonire col sorriso sulle labbra fiabe su fiabe, mentendo smaccatamente, smerciando interessi privati come operazioni di pubblica utilità. Una democrazia recitativa che, a ben vedere, siamo stati noi italiani a lanciare nel mondo sulle ali del berlusconismo. Uno stile di cui l'argentino Mauricio Macri è un indiscusso maestro, considerando che lo stesso giorno in cui è uscita la notizia che lui e tutto il suo entourage erano implicati nello scandalo dei Panama Papers, è apparso in tutte le televisioni del Paese per dichiarare: "Questo governo combatterà la corruzione". Il Sudamerica - e con lui tutta la terra - è sull'orlo di un baratro che, va ricordato, non è solo politico o sociale. Non rischiamo solo un semplice ritorno del fascismo. Stavolta, in gioco c'è la stessa sopravvivenza della specie umana. L'economia estrattiva è la causa principale dei cambiamenti climatici e non ci sono formule per convertire in green le speculazioni finanziarie cui fa da motore. Il fascismo poi, è merda solo in senso figurato e, di per sé, non è materiale eco compatibile. Se vogliamo che la terra di domani sia ancora abitabile dall'uomo, non possiamo più cedergli spazio. L'Altro Mondo Possibile, per cui si battono i movimenti latinoamericani, dovrà in primo luogo slegarsi da questa economia speculativa che si nutre di disastri e di guerre. Non ci sono riusciti i governi di sinistra perché questo è il programma di una rivoluzione e non di un governo. E non sono mai i governi che fanno le rivoluzioni. Sono i popoli.

Una diga per mettere fine al Kurdistan

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Si chiama Güneydoğu Anadolu Projesi (Gup), traducibile con “Progetto per l’Anatolia Sud Occidentale”, e viene spacciato come un piano di proporzioni bibliche da 32 miliardi di dollari per trasformare gli alti bacini dei fiumi Tigri ed Eufrate con la realizzazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche.
Pensato da Kemal Ataturk, il fondatore dell’attuale Turchia, come un grimaldello per rifondare lo Stato in chiave moderna, spingendolo verso una industrializzazione forzata, nelle mani del presidentissimo Recep Tayyip Erdogan, il Gup è stato trasformato in un vero e proprio strumento di genocidio per sommergere sotto tonnellate d’acqua le città, i villaggi, i luoghi di resistenza e di memoria di quei curdi che continuano a resistere alla dittatura.
La fase attuativa del progetto è cominciata a cavallo degli anni ’80 e ’90, con la costruzione di due di queste dighe: la Karayak e la Ataturk. Per l’alto costo dell’operazione e per i risultati raggiunti - la Turchia non avrebbe necessità di altra energia -, sembrava che il Gup fosse arrivato alla sua conclusione. Era chiaro a tutti gli investitori che il gioco non valeva la candela. Il Governo turco si trovò senza più finanziatori, con oltre 90 mila sfollati da ricollocare e bersagliato dalle critiche degli ambientalisti di tutto il mondo per la distruzione di inestimabili tesori archeologici di origine persiana, romana, greca ed hittita. La censura della Comunità Europea - per quanto tardiva - favorì l’accantonamento del Gup che fu ultimato solo per un decimo scarso di quanto previsto inizialmente.
Con l’ascesa al potere di Erdogan, il Gup ha ripreso vita ma in funzione decisamente anti curda. L’Anatolia Sud Occidentale, cui fa riferimento il progetto, altro è che quel Kurdistan. Termine geografico che, a queste latitudini, non puoi neppure pronunciare a meno che tu non voglia finire dritto in galera, anche se sei avvocato, anche se sei giornalista, anche - o meglio, soprattutto se, - sei deputato.

E così sono ripresi i lavori di realizzazione di altre dighe come quella di Birecik che ha sommerso l’antica città di Zeugma. Lavori che hanno portato vantaggi pressoché nulli all’economia turca ma che, in compenso, hanno causato perdite irreparabili al patrimonio artistico che, ricordiamolo, non appartiene mai ad una solo Paese ma all’intera umanità.
La prossima vittima, con la ventilata realizzazione della diga di Ilisu, sarà Hasankeyf, antichissima cittadine con duemila abitanti che tutti gli archeologi sono concordi nel giudicare uno dei siti più promettenti al mondo per studiare i primi insediamenti umani alle radici della preistoria. Una città dove la storia si respira ad ogni passo e dove ad ogni passo si possono ammirare resti assiri, urartiani, persiani, romani, bizantini, omayyadi, abassidi, artuquidi… Tutto questo sta per scomparire ad opera di un uomo che l’Unione Europea ha eletto a suo alleato.
Il totale disprezzo per Erdogan nei confronti di tutti i reperti che non siano conducibili a quella disgrazia storica di cui lui si crede erede che è stato l’Impero Ottomano (che ha fatto per il Medio Oriente quello che la colonizzazione europea ha fatto per l’Africa) non è la sola chiave interpretativa per giustificare la diga di Ilisu.
Secondo gli attivisti, nelle mani di Erdogan, il Gup va inserito di una più vasta operazione che mira a genocidiare il popolo curdo. Non solo sommergendo i luoghi della sua memoria storica ma anche di abbattendo le principali roccaforti dove si nasconde la resistenza del Pkk, sommergendo i villaggi che sostengono i guerriglieri e quei sentieri di montagna dove i combattenti curdi si sono dimostrati invincibili. “I migliori amici di un curdo - recita un proverbio - sono le sue montagne”.
E proprio queste, sono le montagne che Erdogan vuole sommergere.
Il tutto, sotto l’ottica di una trasformazione radicale del territorio che prevede l’allontanamento dei pastori curdi per fare spazio ad una nuova economia fondata sull’agricoltura, affidando le nuove terre a quei contadini turchi di bassa estrazione sociale che sono la colonna vertebrale dell’elettorato di Erdogan. E magari, trasferire sulle sponde dei nuovi bacini idrici, anche qualche migliaio di quei profughi siriani per paura dei quali l’Unione Europea ha letteralmente venduto l’anima al diavolo.
Un vero e proprio “patto col diavolo”, questo che l’Europa ha sottoscritto con Erdogan, in virtù del quale i lavori alla diga di Ilsu sono stati recentemente ripresi, dopo l’abbandono a metà degli anni ’90 per le incursioni del Pkk, l’opposizione della popolazione che si era rifiutata di collaborare in qualsiasi modo alla realizzazione dell’opera e le determinate prese di posizione di associazioni ambientaliste e, all’epoca, pure di tanti Governi esteri.
Adesso le cose sono cambiate e l’Europa vede in Erdogan solo un alleato disposto a far barriera contro quelle “invasioni di profughi” che, numeri alla mano, non hanno nessun riscontro reale ma che le destre sanno cavalcare così bene. Un prezioso alleato per i cui servigi val la pena di chiudere un occhio ad ogni azione discutibile.
E così Erdogan può impunemente arrestare giornalisti ed oppositori, massacrare popolazioni, fare affari con gli stessi integralisti che afferma di voler contrastare.
E, infine, anche “atlantidizzare” una intera regione piena di storia, arte, cultura e di combattenti che resistono in nome di quella stessa libertà e quella stessa democrazia che dovrebbero essere anche le bandiere di una Europa dei popoli e non delle banche.

Ucciso Omar Nayef

E’ morto Omar Nayef Zayed, il combattente dell’Fplp che da dicembre viveva rifugiato nell’ambasciata palestinese a Sofia per evitare l’estradizione in Israele. Abbiamo raccontato la sua storia su questa pagina. Secondo l’agenzia palestinese Maan, Nayef è stato trovato questa mattina gravemente ferito nel piccolo giardino davanti all’ambasciata, nel quartiere universitario della capotale Bulgara. Inutili i soccorsi. Omar Nayef è deceduto durante il trasporto.
Ancora ignote le cause della morte. Secondo l’associazione Samidoun che aveva lanciato una campagna contro l’estradizione, la morte della “bandiera di Palestina” va letta coma una vendetta israeliana. Ancora più esplicito Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che ha espressamente tirato in causa il Mossad, il servizio segreto di Israele.


Per Zayed si erano mobilitate molte associazioni per i diritti umani che si erano mobilitate perché fosse rispettato il suo status di rifugiato politico. Ricordiamo la manifestazione che gli attivisti di Ya Basta Edi Bese avevano organizzato una settimana fa nell’isola veneziana di San Giorgio.

Lo strano caso di Nayef Zayed

justice-for-omarVive da oltre vent'anni in Bulgaria, dove ha moglie, figli e lavoro. Eppure da dicembre non può uscire dall'ambasciata palestinese a Sofia, pena l'estradizione in Israele. Con la complicità del governo bulgaro e della debolezza dell'Autorità Palestinese

Non è solo la libertà di Omar Nayef Zayed, la posta in gioco a Sofia, ma quella di tutti i rifugiati politici palestinesi in Europa. “Partigiano e combattente” per i sostenitori della causa palestinese, “terrorista e criminale” per l’esercito e il governo israeliano, dal 17 dicembre scorso, Zayed vive assediato nei locali dell’ambasciata palestinese della capitale bulgara. Due giorni prima, il Governo sionista aveva inoltrato una ufficiale richiesta di estradizione ma, poco prima dell’arresto, Zayed era riuscito ad involarsi ed a raggiungere la sua ambasciata.
Oggi, dopo quasi due mesi, Zayed vive ancora assediato nei locali di quella villetta a ridosso della zona universitaria di Sofia, che dal punto di vista del diritto internazionale sono territorio palestinese inviolabile.
Assediato, abbiamo scritto, non soltanto in quanto Zayed non può mettere il naso fuori della porta senza venire ammanettato ed immediatamente imbarcato per Tel Aviv, ma anche perché, per tutto questo tempo, la polizia bulgara non ha consentito l’accesso a nessun avvocato ed a nessun portavoce delle varie associazioni europee che si sono spese a favore della sua causa.
Lo stesso non si può dire per le pressioni esercitate dal governo israeliano tanto sulla Bulgaria, quanto sull’Autorità Palestinese, la cui indipendenza da Israele, come sappiamo, è poco più che formale. “Zayed è una bandiera della Palestina” ha proclamato l’ambasciatore a Sofia, Ahmad Madbouh, ma ha subito aggiunto che, purtroppo, le risoluzioni internazionali vanno rispettate e ha dato alla “bandiera” vari ultimatum – tutti disattesi – perché abbandoni i locali della sua ambasciata. Di diverso avviso il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha diffidato l’ambasciatore dal mettere alla porta Zayed, ricordandogli che, se cadesse nella mani di Israele, ad attendere l’ex combattente ci sarebbe un futuro di prigionia dura, isolamento e torture.

Ma chi è Omar Nayef Zayed? Esattamente come ha detto l’ambasciatore, Zayed è niente di più e niente di meno che una “bandiera della Palestina”. Un modello al quale molti giovani palestinesi, in particolare quelli legati a movimenti di sinistra e lontani da derive integraliste religiose, si sono ispirati per le loro lotte contro l’occupazione militare israeliana. Nato a Jenin, nel cuore del West Bank, 52 anni fa in una famiglia di combattenti (tanto il padre, quanto la madre che i suoi otto fratelli hanno conosciuto le galere israeliane), nell’86 ha fatto parte di un commando di tre persone che ha ucciso un colono che si era macchiato di atrocità nei confronti dei palestinesi.
Una “azione di guerra” per i palestinesi, un “omicidio a sangue freddo” per i sionisti. Arrestato e condannato all’ergastolo da un tribunale militare assieme ai suoi due compagni, Zayed comincia nel ’94 uno sciopero della fame che lo porta quasi alla tomba. Ricoverato in ospedale, riuscirà a fuggire grazie all’aiuto di altri combattenti palestinesi e dopo aver peregrinato per vari Paesi arabi, riparerà in Bulgaria, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico ed un permesso di soggiorno a vita. Da oltre 20 anni, Zayed vive a Sofia con un lavoro, una moglie e due figli, entrambi con la cittadinanza bulgara. Una vita tranquilla con una famiglia che sarebbe stata applaudita pure al Family Day, se non fosse arrivata la richiesta di estradizione da parte della giustizia israeliana che non gli ha mai perdonato, più che l’attentato, la rocambolesca evasione. I suoi due compagni infatti, sono stati liberati tre anni fa, in virtù di uno scambio di prigionieri con Hamas.
Come abbiamo sottolineato in apertura, non è solo la vita di Omar Zayed, la posta in gioco. In un momento in cui si alza la tensione tra l’Europa e il governo di Netanyahu sull’occupazione e sulla colonizzazione dei Territori, il caso Zayed rischia di venir interpretato come una necessaria contropartita. Già il “via libera” all’estradizione può essere letto sotto questa luce di compensazione. Sa da un lato, l’Europa non può accettare passivamente l’aperta violazione di trattati come quello di Oslo, ai quali essa stessa ha fatto da testimone, dall’altro non vuole rompere con il Governo sionista, seppur colpevole di violare i diritti umani ed internazionali. Israele continua pur sempre, nell’ottica dell’attuale politica europea, ad essere la principale e più affidabile sponda di dialogo dell’altra parte del Mediterraneo. La “bandiera di Palestina” rischia di dover pagare il prezzo di tutto questo. E con lui, tanti altri combattenti palestinesi che nei Paesi europei hanno trovato asilo sotto il protettivo status di rifugiati politici. Il caso Zayed insomma, può rivelarsi un precedente pericoloso. Se la “bandiera” può essere arrestata ed estradata, allora tutti sono in pericolo.

Wirikuta, il deserto dove l’uomo bianco ruba il sole

Il sole è nato a Wirikuta. Tanto tempo fa, quando quasi la totalità della terra era coperta dalle acque ed i nostri antenati vivevano in una canoa, il sole bambino si levò dalla collina sacra chiamata Cerro Quemado. Camminò per tutto il giorno e, già grande, si fermò sopra le nostre teste, asciugando il mondo che ha la forma tonda di un peyote. Quindi scese ad Haramara, nel lontano ovest, si trasformò in un serpente e dovette lottare per la sua vita. Vittorioso, salì ancora in cielo da est, soffermandosi in tutti i luoghi in cui gli antichi avevano piantato alberi affinché egli non cadesse. E così il tempo degli dei si tramutò nel giorno e nella notte, affinché il popolo degli uomini potesse vivere.
Così raccontano gli sciamani huichol ai xukuri kate, che significa pressapoco “portatori delle ciotole”, che si apprestano al lungo pellegrinaggio verso la collina sacra per raccogliere il cactus hikuli, meglio conosciuto da noi come “peyote”. Non importa la strada. Quello che conta è il viaggio. Come recita un antico proverbio huicol, “tutte le strade portano a Wirikuta”. L’importante è andare, rinnovare l’antico patto tra il dio e l’uomo, conoscersi per quello che si è e conoscere il mondo per quello che noi siamo. Perché le credenze, come ha spiegato Lévi-Strauss con la sua scienza del concreto, altro non sono che fatti pragmatici. Wirikuta non è solo un pezzo di deserto nello Stato messicano di San Luis Potosí, ma l’essenza stessa, la ragione di esistere del popolo huicol.
Di tutto questo, la compagnia mineraria canadese First Majestic Silver vuol fare un bel piazza pulita, con la complicità del governo messicano che ha pensato bene di mettere all’asta una terra che non era sua ma degli huicol. Non è la prima volta che questo accade nel mondo. In particolare, nell’America latina. In particolare, qui nel deserto di Wirikuta, dove già nel 1600 gli spagnoli, alla ricerca di miniere d’argento, causarono lo sterminio degli indigeni guachichiles.
Oggi la storia rischia di ripetersi con altri carnefici e con altre vittime.
“Gli huicol vedono in Wirikuta la propria casa, il cielo, l’universo. Questo luogo è il fondamento stesso del loro divenire materiale e immateriale. A Wirikuta le essenze delle divinità wixaritari si incontrano con la biodiversità. Wirikuta è anche riconosciuto come Luogo Sacro Naturale del popolo huichol. Nell’ottobre 2000 è stato dichiarato Area Naturale Protetta per il suo grande interesse naturalistico. Purtroppo, come abbiamo visto, questo non ha impedito che diversi governi abbiano concesso licenze minerarie su questo territorio” spiega l’antropologo messicano Arturo Gutiérrez del Ángel, una delle più autorevoli voci che si sono spese contro le concessioni minerarie nel Wirikuta.
A fianco degli indigeni, sono scesi in campo gli ambientalisti, in nome di un “diritto alla natura” che accomuna popoli antichi e moderni ecologisti che sanno guardare al futuro senza perdere di vista il passato. Il Wirikuta è una delle tre aree semidesertiche biologicamente più ricche del pianeta; ospita specie endemiche esclusive, e - per quel che vale - è stato dichiarato area protetta anche dall’Unesco. Da sottolineare che la zona minacciata dalle estrazioni minerarie, che poi è quella dove si svolge il pellegrinaggio dei xukuri kate, pur facendo geograficamente parte del deserto di Chihuahua per appena lo 0,28 per cento della sua superficie complessiva, ospita il 50 per cento della flora, l’85 per cento degli uccelli e il 60 per cento dei mammiferi della regione. Nel territorio sono state riconosciute 453 specie florali, alcune di queste a rischio di estinzione, come il peyote. Questo paradiso di biodiversità è messo a rischio dall’attività estrattiva canadese che presuppone l’uso di inquinanti chimici, di cave a cielo aperto e di esplosivi. Senza contare l’enorme utilizzo di acqua per la lavorazione del materiale che, in una regione arida come questa, sarebbe sottratta alle coltivazioni e all’ecosistema, con l’effetto di desertificare tutto.
Nel Wirikuta, come in tutto il mondo, la battaglia per l’ambiente è la battaglia per la democrazia. La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sugli indigeni tribali stabilisce che l’organo della consulta è un diritto di tutti i popoli. Lo Stato messicano l’ha adottata ufficialmente nel giugno del 1990. Eppure questo diritto viene sistematicamente negato ogni qual volta si presenta all’orizzonte una “grande opera” che colpisce gli interessi degli indigeni ma che è sostenuta da un potentato economico.
“Perché - si chiede Arturo Gutiérrez del Ángel - negli ultimi anni si concedono indiscriminatamente terre messicane e di altri paesi impoveriti a imprese minerarie soprattutto canadesi? Perché gli Stati, tanto in America Latina quanto in Asia o Africa hanno risposte tanto deboli di fronte a queste imprese? Certo, il denaro e la corruzione sono il lubrificante che permette il movimento di questo meccanismo ma non è questa la sola spiegazione. Il governo federale canadese, nonostante tutti i trattati sui diritti umani che ha sottoscritto, continua ad offrire alle imprese minerarie protezione giuridica ed economica perché non si sentano minacciate da nessun tipo di atti di pressione”.
Ma c’è anche un altro scenario da considerare. In Messico, come in altri Paesi dell’America latina e dell’Africa, l’attività mineraria era stata parzialmente abbandonata dopo una serie impressionante di fallimenti e di devastazioni ambientali che avevano portato interi popoli che prima campavano con proprie risorse a mendicare negli “slum” delle grandi città. La tendenza si è invertita quando, sul finire degli anni novanta, nel panorama dell’economia globale si è affacciato un nuovo attore: la Cina comunista. Metalli come lo zinco, l’oro, l’argento, lo stagno, il bronzo, il nichel e il ferro sono indispensabili per la nuova potenza industriale che spinge per riaprire un mercato nel quale i diritti umani contano zero ma al quale i governi più poveri, e più ricattabili, non sanno rinunciare. Secondo il rapporto 2012 di The Gaya Foundation, tra il 2005 e il 2010 il settore minerario cinese è aumentato del 25 per cento e, nello stesso periodo, sono stati portati avanti 173 progetti minerari in 212 comunità di 16 Paesi dell’America latina. Nessuna di loro è stata preventivamente consultata sull’avvio del progetto, alla faccia della Convenzione 169 dell’Onu.
“In Messico, negli anni ’90 - conclude Arturo Gutiérrez del Ángel - il governo del presidente Ernesto Zedillo ha aperto le porte alle imprese minerarie, offrendo concessioni senza misurare le conseguenze sociali ed economiche che si sarebbero avverate nel futuro. L’aumento in scala dell’estrazione mineraria negli ultimi dieci anni è stato sorprendente e spaventoso. Sappiamo che le imprese minerarie non si auto regolano affatto. Sono gli Stati che dovrebbero avere questo ruolo. E decisioni di questa portata devono sorgere dal consenso emanato da una consulta aperta, trasparente e pubblica, di tutti gli attori coinvolti, in primis, i popoli indigeni. Gli alti livelli del potere federale non possono decidere quello che conviene ai popoli. Gli huicol devono essere gli architetti del loro futuro e hanno l’inviolabile diritto di conservare la propria tradizione, che dipende sostanzialmente, e non misticamente, da Wirikuta”.
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