In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Poveglia, l’isola più infestata del mondo

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The most haunted isle of the world. Provate a scriverlo sul vostro motore di ricerca e scoprirete che si tratta di “Poveglia”.
Quei sette ettari e mezzo di case diroccate e di vegetazione incolta, nel bel mezzo della laguna sud di Venezia, sarebbero i più infestati al mondo da presenze ultraterrene: spiriti maligni, fantasmi di morti di pestilenze, vittime senza pace di folli esperimenti psichiatrici.
L’aspetto davvero incredibile della vicenda è che tra noi abitanti della laguna, nessuno ne era consapevole. Perlomeno sino a quella mattina del 18 luglio dell’anno scorso, quando, nell’aprire la pagina di cronaca cittadina dei giornali locali, i veneziani hanno letto la notizia del giorno: “I fantasmi “cacciano” 5 americani” (La Nuova di Venezia e Mestre), “Aiuto i fantasmi! Turisti americani portati in salvo dai vigili del fuoco” (Gazzettino).


Cinque boys del Colorado
Gli articoli, non privi di un certo sarcasmo, raccontavano il “singolare intervento” di salvataggio portato a termine da una “lancia” dei vigili del fuoco. Cinque ragazzi del Colorado, tutti meno che ventenni, avevano deciso di regalarsi una avventura da brivido trascorrendo una notte intera a Poveglia. Si erano fatti portare nell’isola da un taxi con un armamentario da Ghostbusters, quindi avevano salutato il marinaio chiedendogli di venirli a prendere il mattino dopo.
Poco dopo mezzanotte, una barca a vela che rientrava in porto dal canale di Malamocco, li ha sentiti urlare: “Ghosts, ghosts!”, Spettri, spettri. Lo skipper ha chiamato i pompieri che sono immediatamente accorsi e li hanno tratti in salvo. I cinque hanno poi raccontato ai giornalisti di aver avuto un “incontro ravvicinato” con i fantasmi dell’isola, di aver sentito voci e lamenti, rumori infernali che provenivano dal buio della notte… Presi dal panico, hanno abbandonato sul campo le attrezzature e sono scappati sul molo, urlando come anime dannate sino a che i vigili del fuoco non li hanno portati via dall’isola maledetta.
E così, questa estate, i veneziani hanno scoperto che tra le tante attrattive della loro laguna, c’è anche l’isola più infestata del mondo. La vera sorpresa però, come abbiamo scritto in apertura, è che quest’isola infestata è Poveglia. Isola che, nell’immaginario collettivo lagunare, è il posto più tranquillo del mondo. Ci siamo sbarcati tutti da ragazzini, alla ricerca di avventure alla Stevenson, a bordo del nostro primo “cofano”, l’equivalente lagunare del motorino. Più avanti con l’età, Poveglia è tappa obbligatoria per grigliare branzini in compagnia di amici e saltare i “peoci” raccolti in apnea ai piedi della “bricole”.
Ma che l’isola fosse zeppa di fantasmi inquieti… nessuno se lo immaginava.

L’isola maledetta… che non ti aspetti
Di presenza spettrali, nella tranquilla Poveglia, non si trova traccia in tutta la pur ricca letteratura di storia e di tradizioni popolari veneziane. Non ne parla Alberto Toso Fei nel suo “Veneziaenigma” (Elzeviro Edizioni), non ne fa cenno Marcello Brudsegan nelle sue “Guide Insolite” (Newton Compton), e tantomeno se ne trova traccia in “Venezia, luoghi di paure e di voluttà” (Edizioni della Laguna) scritto da Elena Vanzan. Neanche Espedita Grandesso, che ama romanzare leggende popolari tra il gotico e il pauroso in libri come “Fantasmi a Venezia” (Helvetia), ha mai recuperato qualcosa che riguardasse la placida Poveglia. Niente di niente!
Ma allora, come è venuto in mente a questi boys del Colorado di cercare fantasmi proprio a Poveglia? Questo era il vero mistero. E per avvicinarci a una possibile soluzione dobbiamo proprio guardare agli Stati Uniti d’America.
Ci riferiamo in particolare a una seguitissima – oltreoceano – serie televisiva che “indaga” il paranormale e ha dedicato una intera puntata a Poveglia. I metodi di “indagine”, lo avrete immaginato, sono ben diversi da quelli del CICAP. Tanto è vero che in più occasioni gli amici di Skeptical Inquirer hanno liquidato questa serie televisiva come “solo spettacolo e niente di più“.
La trasmissione si chiama Ghost Adventures (in italiano Cacciatori di fantasmi) e, negli Usa, va in onda su Travel Channel, uno dei canali Discovery. Un autentico successo di pubblico, considerando che la serie è alla sua 13esima stagione e continua a produrre nuovi episodi. Ghost Adventures è trasmessa anche in Italia su Sky, anche se nel nostro Paese ha ottenuto un seguito minore.
Manco a dirlo, la puntata che i ghostbusters a stelle e strisce hanno girato a Poveglia, “Poveglia Island”, e che è stata mandata in onda il 13 novembre 2009, è stata votata come una delle migliori della seria. Le riprese notturne all’infrarosso realizzate tra le chiese diroccate ed i palazzi invasi dalla vegetazione sono davvero spettacolari. Nel corso delle “indagini”, il regista, medium nonché capo investigatore Zachary Alexander Bagans detto Zag, viene addirittura posseduto da una delle anime dannate che infestano l’isola dando vita ad una scena degna di un film horror. L’anima inquieta lagunare che parlava un ottimo inglese, si rivelò particolarmente maligna e per il povero e posseduto Zag fu una esperienza terrificante. Tanto che ebbe a dichiarare: “Abbiamo quasi rischiato di dover interrompere le riprese!”

Island of No Return e Death in Venice
Pur se il “merito” di aver reso famosi nel mondo i fantasmi di Poveglia spetta alla troupe di Ghost Adventures, non è stato Zag Bagans il primo ad aver scelto questa location veneziana per ambientarci una storia di fantasmi. La puntata infatti, ricalca una trasmissione simile mandata in onda da Fox Family Channel per la serie “Scariest Places on Earth”, i luoghi più spaventosi della terra, che aveva come ospite la celebre attrice Linda Blair. Ve la ricordate? È la protagonista femminile del film “L’Esorcista”.
Le due puntate dedicate a Poveglia, intitolate “Island of No Return: The Venice Dare”, furono trasmesse il 19 e il 24 agosto 2001. Il tono era più documentarista rispetto alle “possessioni in diretta” che fanno rantolare come tarantolati i ghostbusters di Zag Bagans, e forse per questo la serie targata Fox Channel ottenne meno successo di pubblico.
Qualche tempo prima rispetto a Ghost Adventures, erano poi stati Yvette Felding e Paul O’Grady a visitare Poveglia. Il documentario “Death in Venice” fu trasmesso dal canale britannico Living all’inizio di novembre 2009.

Brividi veneziani
Sono state queste tre trasmissioni, capaci di regalare facili brividi allo spettatore ma non sostenute da una seria ricerca storica o letteraria, a fare di Poveglia “the most haunted isle of the world”.
C’è da rimarcare che, anche se nessuna tradizione locale testimoniata nella letteratura folklorica avalla la presenza di spettri a Poveglia, le suggestioni utilizzate nella trasmissione di Bagans per raccontare Poveglia e la laguna veneziana sono molte. Si racconta infatti di un’isola abbandonata a ridosso di una Venezia decadente, in una laguna misteriosa dove sorgono antichi lazzareti, ripugnanti ossari, conventi spettrali, vecchi ospedali psichiatrici, tra dottori della peste con la spaventosa bautta bianca sul volto, marinai levantini infetti e relitti affondati… Ce n’è più che a sufficienza per catturare l’attenzione dello spettatore in cerca di emozioni e misteri. E pazienza se a Poveglia – proprio a Poveglia tra tutte le isole della laguna – non c’è mai stato nulla di tutto questo. Mi spiega Alberto Toso Fei, scrittore e noto studioso di storia e tradizioni lagunari:
Durante la registrazione della puntata, la troupe della Fox Channel è venuta ad intervistarmi, in qualità di esperto di leggende veneziane. Volevano a tutti i costi che gli parlassi dei fantasmi di Poveglia. Io ripetevo loro che non mi interesso di fantasmi ma di tradizione scritta e orale veneziana e, in tutta questa vastissima letteratura non c’è la pur minima traccia di presenze spettrali a Poveglia. E questo è anche quanto gli hanno detto e ripetuto tutti gli altri studiosi ai quali si sono rivolti. Ma non è stato sufficiente a convincerli. Non gli importava nulla né della storia, né della letteratura o della tradizione scritta e orale di Venezia. Avevano scelto quell’isola per girare un documentario sui fantasmi di Venezia, mescolando un po’ di tutto a casaccio, e così han fatto.

Questioni di location
Un veneziano avrebbe scelto un’altra isola per collocarci degli spettri. Magari Sant’Ariano, l’isola ossario al largo di Torcello, dove trovano riposo centinaia di corpi prelevati dai numerosi cimiteri veneziani. Ma il contesto di Sant’Ariano si presta poco alla possibilità di spettacolarizzare, un ingrediente fondamentale per una trasmissione tv di successo. Vi si trova soltanto un muretto fatiscente che racchiude una boscaglia impervia. L’unica volta che ho provato ad entrarci, mi son dovuto fare largo col machete. Ciò che fa davvero paura qui, è l’incuria nella quale è stato abbandonato questo pezzo di storia veneziana. E invece la trasmissione racconta di una Poveglia piena di fosse comuni, ancora tutte da scoprire, dove sarebbero stati interrati migliaia di corpi di appestati. Anime senza pace che implorano ai vivi una degna sepoltura. Continua Toso Fei:
Io ho spiegato loro che quell’isola [fino alla fine del Settecento] non è mai stata un lazzareto [la rete sanitaria dei Lazzareti che circondavano Venezia era composta dal Lazzareto Vecchio e da quello Novo, attivi rispettivamente dal 1423 e dal 1468]. Solo in due occasioni due navi di appestati provenienti dai porti di levante, vi sono state poste in quarantena. La prima volta nel 1793 quando morirono 8 marinai e la seconda nel 1799 e perirono 12 persone. Sappiamo anche i loro nomi e cognomi. Ma di fosse comuni di appestati a Poveglia non ne troverete di certo.
Nei primi decenni dell’Ottocento, ci ricordano due medici dell’epoca, Angelo Antonio Frari e Gaspare Federigo, ci fu qualcha altro morto, ma in numero assai limitato.

Manicomi & storie truculente
Sempre secondo le “fonti” – o forse è meglio dire la fantasia – degli sceneggiatori di Ghost Adventures, Poveglia sarebbe divenuta, dopo la caduta della Repubblica, un manicomio dove medici sadici e folli praticavano terrificanti esperimenti sui pazienti. “Ma quale ospedale psichiatrico? L’isola era un ricovero per anziani, attivo sino agli anni ’60! Informatevi, dicevo loro. Posso darvi i numeri di telefono dei dottori che da giovani ci hanno lavorato… Ma non c’era nulla da fare. Loro volevano soltanto truculente storie di spettri. Ho capito che se non c’erano, se le sarebbero inventate. E lo hanno fatto”.
Altre sono le isole che fungevano da ospedali psichiatrici in laguna. San Servolo, per esempio. O San Clemente. Ma anche queste due isole, oggi recuperate e trasformate in eleganti centri congressi e sedi della Biennale, non si prestano troppo per girare scene come la possessione in diretta da uno spirito maligno, a differenza della nostra Poveglia. Come ogni regista sa, la location ha una importanza determinante per il successo del film.

Il tempo delle leggende
Facciamo caso alle date. Tutte le “notizie” che troviamo nei tanti siti dei sostenitori delle ipotesi paranormali riguardanti presenza spettrali a Poveglia, sono posteriori alla data di trasmissione della puntata di “Scariest Places on Earth”. È ovviamente possibile che gli autori del programma abbiano sentito da qualche parte un racconto sull’isola e abbiano deciso di dargli corpo in trasmissione, per quanto appunto nei testi che raccolgono le leggende locali non ve ne sia menzione. Ma è altrettanto plausibile che Poveglia sia stata scelta casualmente per ambientarci un racconto di fantasmi, inventando una leggenda di sana pianta. Resta il fatto che la fama mondiale dell’isola si deve senz’altro a questi due programmi statunitensi. E oggi nessuno, anche tra chi non crede ai fantasmi, dubita più che le storie di presenza spettrali siano sempre state una peculiarità dell’isola. Come quella del medico che nel secolo scorso si sarebbe buttato giù dal campanile di Poveglia, terrorizzato da chissà quale presenza demoniaca. Una storia che non trova riscontro in nessun giornale o sito precedente al 2009, e di cui nessun medico che lavorava all’allora ospizio ha ricordi, ma che viene ripetuta in tutte le pagine che trattano il “mistero” di fantasmi di Poveglia. Un “copia e incolla” senza verifica. Tanto per rimanere in tema, questa sì che è la vera pestilenza del nostro secolo!

Fantasmi? Sì, ma buoni
E così, quella tranquilla oasi lagunare dove i veneziani vanno a rifugiarsi quando proprio vogliono evadere da carnevali, mostre del cinema e orde turistiche, è diventata l’isola più infestata del mondo.
Ad alimentare la leggenda e ad aggiungere storie sempre nuove ci pensano i tanti gruppi di ghostbusters che ne hanno fatto una meta ambita delle loro scorrerie nel mondo del paranormale. Cacciatori di fantasmi targati Usa, come i cinque boys del Colorado, ma anche italiani, perché la leggenda dell’isola più infestata del mondo si è oramai diffusa anche nella Vecchia Europa.
A metà gennaio di quest’anno è stata la volta di un gruppo di ghostbusters dell’Epas (European Paranormal Activity Society). Anche loro hanno voluto trascorrere l’oramai tradizionale nottata da brivido tra i ruderi di Poveglia. Come è andata la loro caccia? Bene, hanno spiegato ai giornalisti che non hanno perso l’occasione di intervistarli. Hanno udito chiaramente il lamento di una bambina fantasma. Ma di presenza maligne come quella che ha assalito il povero Zag, no. Nemmeno l’ombra. I fantasmi a Poveglia ci sono, hanno assicurato, ma sono tutti buoni.

Fatti contro bufale? Vince la disinformazione

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Smentire le bufale? Tutta fatica sprecata. Anzi. C’è il serio rischio di ottenere l’effetto opposto e di “confermare”, sia pure involontariamente, il “complotto” che abbiamo sbugiardato. Come dire che nel mare magnum di internet le bugie navigano molto meglio delle verità. Proprio così. Per quanto ci si sforzi, una prova scientifica, un fatto conclamato, una notizia basata sulla sostanziale verità dei fatti, non potrà mai reggere il confronto con una bugia ben confezionata. E’ la fantasia al potere, di cui scrivevo nei muri ai tempi dell’università, pur se con un significato ben diverso.
Facciamo un esempio. Il quotidiano la Stampa ha raccontato, qualche tempo fa, il caso emblematico della legge proposta dal senatore Cirenga che mirava a stanziare 134 miliardi di euro nel nobile intento di trovare un posto di lavoro per gli ex-deputati non eletti nel 2013. Detta legge, approvata dal senato con 257 voti a favore,165 astensioni e nessun contrario, ha sollevato il comprensibile furore del popolo del web: post infuocati contro la “casta” (“E’ tutto un magna magna”), denunce del malcostume in tanti blog, addirittura una pagina Facebook contro il truce Cirenga. Peccato solo che Cirenga non esista. Non c’è nessun senatore con questo nome. Non c’è mai stato in tutta la storia della Repubblica. I voti al Senato sono al massimo 315, difficile quindi approvare una legge con 422 voti in aula. Di tale legge non c’è traccia, e non dico nel Bollettino ufficiale, ma anche in tutto il sito del Senato.
Inoltre, 134 miliardi di euro… sono un po’ tantini. O no? Miliardi, non milioni, eh! Ti ci compri il Milan, la Juve, tutto l’esercito italiano in blocco e avanzano pure soldi per fare una offerta per la Moldavia. Insomma, per dirla come il ragionier Fantozzi ebbe a dire della corazzata Potëmkin, la faccenda altro non è che una cag… pazzesca. Una bufala, tra l’altro, facilissima da sbugiardare anche senza grandi inchieste. Basta fare quella cosa strana che dovremmo fare sempre: tenere attaccato il senso critico al cervello. E invece – fatevi un giro per la rete – c’è chi ancora spreca energie, degne di miglior causa, a postare contro il bieco senatore Cirenga!

Come sia possibile tutto ciò, ce lo spiega uno studio dal significativo titolo “L’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione”. Ve lo potete godere tutto cliccando su questo link sul sito della Cornell University. Il lavoro è frutto di una équipe internazionale di studiosi tra i quali l’italiano Walter Quattrociocchi del CSSLab dell’IMT di Lucca, esperto di scienze sociali computazionali.
In sintesi, lo studio afferma che fare debunking va dall’inutile al controproducente, e ci spiega perché. L’équipe di studiosi ha preso in esame due gruppi di utenti Facebook. Nel primo c’erano persone abituate a interagire con siti seri come questo che state leggendo… Scherzo! Diciamo meglio che gli utenti del primo gruppo si appoggiavano ad una informazione con basi scientifiche e su un giornalismo professionale. Il secondo gruppo, invece, raggruppava complottisti vari, dai “credenti” nelle scie chimiche ai fedeli rettiliani del settimo giorno. Ebbene, questi due gruppi non interagivano mai fra di loro. Ciascuno rimaneva all’interno del proprio… ceppo tribale, trovando conforto e conferma delle proprie convinzioni. Quelle poche volte che i, chiamiamoli, “disinformati” incocciavano in una smentita proveniente dal gruppo degli “informati”, si guardavano bene dal cambiare opinione. Anzi. L’effetto finale era proprio quello di rafforzare le teorie sostenute, indipendentemente dal loro grado di verità e insensatezza. Facebook, insomma, così come Twitter e gli altri social, hanno il potere (diabolico!) di costruire “tribù” chiuse nelle loro credenze e refrattarie a qualsiasi assalto di scetticismo. L’eccessivo proliferare di “notizie” che vengono smerciate come vere, se non addirittura inventate di sana pianta per guadagnare qualche clic – vedi il caso di alcuni siti xenofobi e nazistoidi del tipo “i crimini dei clandestini” -, comporta un abbattimento del nostro senso critico. Qualsiasi bufala trova “conferma” in blog o pagine che si citano reciprocamente come “fonte della prova”. Siccome la notizia X la riportano in tanti, finiamo per pensare che sia anche vera.
E questo è un problema col quale tutti quanti dobbiamo imparare a fare i conti, compresi noi giornalisti che mai abbiamo collezionato tanti “granchi” da quando internet è entrato nelle nostre redazioni. Ma è soprattutto tra i complottisti che vengono mietute più vittime, perché per principio rifiutano le fonti di informazione tradizionali. Per questa categoria di persone (tribù) vale il principio secondo il quale più una notizia è smentita e più deve essere vera. Addirittura il debunking stesso, viene letto come prova provante!
Spiega Quattrociocchi che questo effetto contro-intuitivo va imputato al fatto che contesti come Facebook e la rete in generale consentono agli utenti di “modellare” quanto leggono sulle loro preferenze. Insomma, l’utente può costruirsi, senza filtro alcuno, un mondo a sua misura dove tutti i “clandestini” sono dell’Isis, stuprano le donne bianche e ci rubano il lavoro, oppure dove il Pentagono ha realizzato la macchina che scatena i terremoti ma nessuno lo dice perché sono tutti pagati dalla Cia.
Capirete che tutto ciò è molto, molto pericoloso. Conclude Quattrociocchi: “Facebook e Twitter hanno creato un canale diretto attraverso cui i contenuti arrivano dai produttori ai consumatori, da chi scrive a chi legge, cambiando il modo in cui gli utenti si informano, discutono le idee e danno forma al loro punto di vista sul mondo. Questo scenario potrebbe generare confusione su cosa causa i problemi globali e sociali, incoraggiando così un senso di paranoia basato su false voci”.
Uno scenario, lo ammetterete, un po’ deprimente per chi, come noi del Cicap, crede ancora al valore di quel “vero” che Galileo stimava più che il “disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna”. Sarebbe più saggio, piuttosto che lottare contro i mulini a vento, dedicarci al gioco degli scacchi o alla fabbricazione della birra in casa? Forse sì. O forse anche no. Se ci sono i mulini, c’è bisogno anche di un Don Chisciotte che parta alla carica. Senza dimenticare come si risponde in una difesa siciliana e neppure quel tino di birra che sta fermentando allegramente nella mia cantina.

Una presenza spettrale in laboratorio

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Le "cose" che sussurrano nelle tenebre e che spiano maligne dagli angoli bui della casa, hanno riempito i libri di letteratura. E fin che si resta sulla letteratura, va tutto bene. Io stesso, ho uno scaffale pieno zeppo di Lovecraft, Bradbury, Matheson, Blackwood e via discorrendo, e sin da bambino sono sempre stato convinto che un enorme ragno, peloso e zannuto, si nascondesse sotto il mio lettino. Non lo potevo vedere ma ne “avvertivo” ugualmente la presenza. Sicuro, come ero sicuro dell’esistenza di Babbo Natale.
Il problema nasce dal fatto che queste, sino ad oggi, inspiegabili “presenze spettrali" sono pane e companatico di tante pseudoscienze legate all'occultismo e alla parapsicologia. Quante volte abbiamo sentito affermare dalla “sensitiva” di turno che nella stanza c’era una presenza che solo lei poteva captare? Quanti “ghostbuster”, più o meno in buona fede, ci hanno giurato che quella notte in quel castello hanno “sentito” la vicinanza del fantasma della Dama decapitata?
Ebbene, queste sensazioni oggi sono state ricreate in laboratorio. Precisamente nell'istituto Federale Svizzero di Tecnologia (EPFL). I risultati della ricerca condotta dall’equipe del neurologo Giulio Rognini, sono stati pubblicati nella rivista Current Biology, e potete trovare un sommario a questo
link.
Secondo lo studioso elvetico, questa famosa sensazione sarebbe comune non solo alle persone che soffrono patologie neurologiche ma anche a quanti vivono esperienze estreme come alpinisti o subacquei.



Per scoprire cosa c'è di vero in queste sensazioni, lo scienziato ha esaminato 12 persone affette da disturbi neurologici che affermavano di avvertire presenze inesistenti, per scoprire che in comune avevano tutti subito lesioni tali da causare una perdita sensomotoria in tre specifiche regioni cerebrali: temporoparietale, insulare e la corteccia fronto-parietale.
Per verificare se è proprio da un cattivo funzionamento di queste aree cerebrali che si innescano le sensazioni di “presenze spettrali”, battezzate dall’equipe elvetica FoP (“feeling of a presence“. Ovvero, sensazione di una presenza), gli studiosi hanno realizzato un robot.
Robot che non ha nulla in comune con quelli di Asimov - tanto per ricadere nello scaffale proprio sotto quello già citato e dedicato a Lovecraft della mia libreria - ma che altro non è che una macchina in grado di generare conflitti sensomotori nelle tre regioni cerebrali individuate, intervenendo in contemporanea sulle sensazioni tattili, motorie e propriocettivi. Termine, quest’ultimo, che definisce gli stimoli con i quali un organismo riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio tramite lo stato di contrazione dei muscoli (come dire che anche ad occhi chiusi, noi possiamo capire se siamo seduti o in piedi).
A questo punto, sono entrati in scena 48 volontari. Tutti garantiti sani nelle suddetti regioni e che non avevano mai avuto esperienze FoP. I coraggiosi sono stati quindi bendati e collegati al robot. I risultati non si sono fatti attendere. Un terzo dei volontari ha affermato di “sentire” presenze estranee nel laboratorio. Una persona ne ha avvertite addirittura quattro contemporaneamente. Due hanno chiesto di fermare l’esperimento perché provavano una sensazione di estraneità che li disturbava.
La spiegazione avanzata dai ricercatori è che le interazioni col robot causavano una parziale distorsione dell’autoconsapevolezza che ognuno ha di sé, sino a sbalestrare la percezione della posizione del proprio corpo nello spazio così che questo viene percepito come appartenente a qualcun altro. Questo sarebbe alla base della FoP.
"Il nostro cervello possiede varie rappresentazioni del nostro corpo nello spazio - ha commentato Giulio Rognini -. In condizioni normali è in grado di assemblare una corretta ed unica percezione del sé. Ma quando siamo di fronte ad un malfunzionamente del sistema cerebrale, sia a causa di malattia, di situazione estrema o, come nel nostro esperimento, dell’interazione con un robot, questo a volte può creare una interferenza. Il proprio corpo quindi, non viene più percepito come ‘io’ come ma come ‘qualcun altro’. Da qui la sensazione di presenze spettrali”.
Chiaro? Adesso vedo di riuscire a convincere anche quel brutto ragnaccio, peloso e zannuto, che continua a zampettare sotto il mio letto. Fosse la volta buona che se ne torna a casa sua!

L’Area 51 esiste (i dischi volanti no)

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Dopo il continente perduto di Atlantide e il Santo Graal gelosamente nascosto da una occulta confraternita che controlla i destini del mondo, c’era solo lei: l’Area 51. Non serve pescare tanto indietro nei ricordi per farsi venire in mente perlomeno tre o quattro storie di Topolino e Indiana Pipps dedicate a questa misteriosissima base persa nella zona più remota del remoto deserto del Nevada. Per tacere di film, telefilm e di libri che ci raccontano di UFO, esperimenti top secret, portali per altre dimensioni, viaggi interstellari, dischi volanti e molto altro.
E fino a che si rimane nel campo della fantasia... come dire... tutto è lecito e divertente. Lo dice uno che di Martin Mystere ha tutta la collezione, speciali compresi, che fa bella mostra in libreria proprio sopra i libri del CICAP!


Il fatto è che alla favola della base segreta che nascondeva all’umanità resti di astronavi provenienti da altri pianeti – e in alcuni casi anche i loro occupanti - tante persone ci credevano sul serio! Basta battere “Area 51” su Google per venire impestati di siti che, senza alcuna evidenza, si sprecano in congetture che nulla hanno a che fare con la scienza o il vero giornalismo d’inchiesta. Ad onor del vero, bisogna ammettere che nessuno negava che in quella regione appartenente all’Air Force statunitense, ci fosse una base militare, più o meno, segreta. Una caserma con annesso aeroporto chiamata anche da chi ci lavorava, non senza una buone dose di sarcasmo, “Paradise Ranch”. L’Area 51 (il nome le viene dalla toponomastica dello Stato semplicemente perché è situata tra l’Area 50 e l’Area 52) infatti, è tutt’ora zona “off limits” per il traffico aereo civile ed è continuamente presidiata da guardie armate appartenenti all'agenzia di sicurezza Wackenhut. Queste pattugliano la zona sopra mimetiche Jeep Cherokee e hanno il loro bel daffare ad allontanare le comitive di ufologi che cercano di avvicinarsi a Paradise Ranch in gran segreto. A conti fatti, un cordone di sicurezza come si trova, nè più nè meno in tutte le basi militari a Stelle & Striscie ma che in quel tratto di deserto, dove le dicerie si mescolano alla fantascienza, alimenta strampalate tesi di chissà quale mysterioso mystero.
Come Loch Ness insegna, l’han capito per primi i commercianti di Rachel, la cittadina più vicina a Paradise Ranch, che hanno messo su un museo e un discreto merchandising destinato alle centinaia di appassionati di UFO e di complotti che visitano la zona armati di binocoli e di macchina fotografica,  con la speranza di immortalare contatti ravvicinati di chissà che tipo. Non manca neppure a Rachel il tour operator del mistero che organizza visite sino alle piste d’atterraggio degli UFO. Lo stesso Stato del Nevada non ha perso l’occasione di pompare sull’effetto turistico chiamando la statale 375, che corre nei pressi dell'Area 51, con il simpatico nome di "The Extraterrestrial Highway".
Da parte sua, il Governo degli Stati Uniti sin dal 14 luglio 2003 ha ammesso l'esistenza di una unità operativa nella zona, senza però fornire informazioni sui suoi scopi, col risultato di alimentare il complottismo sulla reale esistenza di veicoli extraterrestri all’interno della base.
Ma cosa c’è davvero all’interno dei capannoni di Paradise Ranch? Lo ha rivelato giovedì 15 Agosto il National Security Archive dell’Università George Washington che ha pubblicato una corposa
documentazione di oltre 400 pagine che smonta tutte le teorie cospirazioniste su atterraggi di UFO o portali per altre dimensioni. Negli Stati Uniti infatti esiste una legge denominata Freedom of Information Act, emanata nel 1966 ma entrata effettivamente in vigore dopo una serie di emendamenti applicativi nel 2009, che vincola le amministrazioni pubbliche, governo federale compreso, a consentire a chiunque l’accesso alle loro “regole, opinioni, documenti e procedure”. Il sopracitato report denominato "Central Intelligence Agency and Overhead Reconnaissance: The U-2 and Oxcart Programs" racconta una storia ben diversa. Quella di una base dell’areonautica militare che sin dal ‘55 ha ospitato il progetto di un aereo spia chiamato U-2 (la band irlandese non c’entra niente) costruito dalla Lockheed Martin che aveva lo scopo di sorvolare ad altissima quota l’allora URSS, per fotografarne i dettagli del territorio e la disposizione delle basi militari. Si capisce quindi come mai l’Area 51 fosse tenuta segreta dai militari e al riparo da occhi indiscreti. In seguito, Paradise Ranch divenne la base di altre operazioni legate alla Guerra Fredda come lo sviluppo e la sperimentazione di velivoli come il noto SR-71 Blackbird, che alimentarono la leggenda di frequenti visite da parte di astronavi extraterrestri. Val la pena di sottolineare, come osserva Paolo Attivissimo nel suo blog, che “i militari trovarono molto utile sfruttare la spiegazione ufologica come copertura per questi voli: meglio lasciar credere a visitatori alieni che far sapere ai paesi nemici le caratteristiche tecnologiche dei velivoli più avanzati”.
Ma adesso che la verità storica è venuta a galla, che ne sarà dell’alone di mistero che circonda Paradise Ranch? Non c’è rischio: nessun cospirazionista che si rispetti si è mai fatto convincere da un documento ufficiale governativo. Anzi, il fatto stesso che qualcuno si dia tanta pena a fornire una spiegazione convincente, significa che qualcosa da nascondere c’è.
Nessun timore di fallimento per gli scaltri commercianti di souvenir di Rachel. Loch Ness, dicevamo, ci ha insegnato tante cose.


Vedere tutto ma ricordare sbagliato. L’(in)attendibilità della testimonianza oculare

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Essere testimoni oculari non è garanzia di veridicità. Questo vale per una scena del crimine quanto per un ricordo qualsiasi. Lo hanno affermato due studiosi statunitensi, Jason Chan e Jessica LaPaglia, in un lavoro denominato “Impairing existing declarative memory in humans by disrupting reconsolidation” recentemente pubblicato dalla rivista scientifica Pnas e del quale potete trovare un estratto nel sito http://ulisse.sissa.it.
Secondo i due scienziati, la memoria può essere contaminata semplicemente aggiungendo nuove e diverse informazioni sul fatto. Due sono i punti chiave. Il primo è la tempistica: per alterare il ricordo è indispensabile agire entro una finestra di circa sei ore, dopo le quali questo viene stabilizzato. Secondo punto: l’attinenza. La nuova informazione deve essere in qualche modo legata alla prima. Per spiegarci meglio, vediamo un esempio riportato dai due ricercatori. Ad alcune persone è stato chiesto di visionare un filmato in cui un terrorista cercava di dirottare un aereo minacciando lo steward con l’ago di una siringa. Successivamente ai testimoni sono stati formulate alcune domande relative all’episodio per verificare l’attendibilità dei loro ricordi. Ad un gruppo di loro, entro le ore successive, è stato fatto ascoltare un file audio in cui lo speaker dava notizia di un fatto simile relativo ad una operazione antidroga nel quale però il terrorista aveva usato una pistola elettrica al posto dell’ago.



Gli studi di Chan e LaPaglia hanno messo in evidenza come questo gruppo di persone, a differenza delle altre, avesse maggiori difficoltà a ricordare l’arma usata dal dirottatore nel primo episodio. Cosa significa questo? Sembrerebbe che la nostra mente abbia bisogno di un intervallo di almeno sei ore per assorbire un ricordo e che entro tale intervallo potrebbe essere manipolata. Questo avverrebbe comunque solo se i due fatti che creano interferenza mnemonica sono in qualche modo simili e compatibili. Per continuare con l’esempio proposto, se ai nostri testimoni fosse stato descritto in seconda battuta un assalto di pirati dei Caraibi, nessuno si sarebbe sognato di affermare che il dirottatore aereo impugnava una sciabola!
Oltre a gettare una nuova ombra di dubbio sul valore delle testimonianze oculari, vogliamo sottolineare come il lavoro di Chan e LaPaglia offra una possibile spiegazione agli errori degli studenti sotto esame. Se durante la lezione un compagno, sia pure involontariamente o per chiarire un suo dubbio, fornisce una informazione scorretta, per gli altri studenti sarà assai più difficile ricordare la soluzione corretta al momento dell’interrogazione.
Purtroppo, dubitiamo fortemente che in una simile eventualità, citare al vostro docente il lavoro di Chan e La Paglia potrà farvi ottenere una immeritata sufficienza!

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