La laguna fa la festa alle Grandi Navi. Attivisti in acqua per impedire il transito
12/06/2016EcoMagazine
Una situazione che non può più essere tollerata e alla quale la politica deve dare una risposta. E dovrà essere una risposta compatibile con l’ambiente e la tutela della salute dei veneziani. Soprattutto, dovrà essere una risposta partecipata e trasparente. Proprio quella che il Governo non vuole dare, considerando che proposte e alternative sono attualmente secretate ed è difficile seguirne anche l’iter procedurale. Il timore è che gli interessi dei grandi gruppi crocieristici e le acquisite rendite di posizione, pesino sulle scelte finali più della volontà di tutelare la città più bella del mondo.
Ed è proprio per ricordare a tutti che Venezia è la sua laguna, e difendere la laguna dalle Grandi Navi significa difendere la città, che le ragazze e i ragazzi degli spazi sociali, questo pomeriggio, non hanno esitato ad infilare le pinne e a tuffarsi, un’altra volta, in acqua. Proprio come in Val di Susa gli attivisti no Tav tagliano le reti dei cantieri.
Storia di una panchina
15/05/2016Frontiere News
Non che abbia tanto altro cui pensare tutto il santo giorno, il Brugnaro Luigi sindaco. Piange il morto con ogni malcapitato ministro che si avventura in laguna per domandargli soldi per “salvare Venezia”, si fa sfanculare in diretta nelle trasmissioni radiofoniche, ha bannato la parola “ambiente” dal vocabolario municipale, cassato il parco della laguna nord che pure era già stato finanziato dalla Comunità Europea - pare che con i parchi non si facciano soldi e si scontentino i cacciatori che hanno grana -, litigato con le società remiere, insultato quel culattone di Elton John che sui social si era detto preoccupato per Venezia, armato i vigili di pistola, assicurato le compagnie di navigazione che possono far circolare le Grandi Navi dove vogliono come vogliono e quando vogliono, invitato i residenti di Venezia a trasferirsi tutti a Mestre, così si fa più spazio ai turisti che portano schei, twittato contro l’utero in affitto. Problema quest’ultimo che lo assilla più dei cambiamenti climatici ai quali non crede affatto. Ma il meglio di sé, come abbiamo detto, lo riserva tutto alla lotta al degrado. Degrado causato tutto da slavi, negri, nomadi, froci, clandestini, barboni, zecche dei centri sociali, vu cumprà, puttane, zingari, terroristi islamici, tossici ed extracomunitari non svizzeri. Gente, diciamolo pure, non pulitissima. C’erano una volta le docce comunali ma il Brugnaro Luigi Sindaco ha ruspato via pure quelle. Gente che dorme per strada. C’erano una volta associazioni, come la Caracol, che si occupavano dei senza casa offrendo loro un posto letto al caldo durante i rigidi mesi invernali. Ma il Brugnaro Luigi sindaco ha deciso che si poteva fare benissimo a meno di loro. Gente che ti piscia sul portone di casa. C’erano una volta i bagni pubblici. Ma anche questi hanno fatto la fine della nostra disgraziatissima panchina.
E così Mestre - che bella bella non è mai stata - è diventata una fogna a cielo aperto dove, vai a capire il perché, i fascisti di Casa Pound si sentono come a casa loro e cominciano a fare proselitismo. In più, spuntano come funghi i comitati di residenti sempre più incazzati ed intrattabili. E tutti ad invocare il Brugnaro Luigi sindaco, unico e vero paladino della lotta al degrado. Riporto a commento la pacata osservazione di una ragazza che, prima dell’era Brugnaro, passava le notti a portare bevande calde e coperte ai clochard assieme agli attivisti della Caracol. Si chiama Vittoria Scarpa ed è un tipetto ruspante che non te le manda a dire (io non saprei sintetizzare la situazione meglio di lei). “E se vi pisciano sotto casa non va bene. E se mettono i bagni no perché son brutti e attirano gente brutta. E se per strada non c'è nessuno abbiamo paura. E se c'è un bar aperto c'è casino e non dormiamo. E se non ci sono negozi la città muore. E se li comprano i cinesi siamo invasi. E gli spacciatori tunisini sono il problema ma la generazione di giovani che si fanno di tutto l'avete cresciuta voi. Ma più di tutto regna il dio degrado. Ma andate tutti affanculo, compratevi una casetta su Marte”.
Ma adesso che ha ruspato via tutto lo stato sociale, cosa resta da fare al Brugnaro Luigi sindaco per portare avanti la sua crociata contro il degrado? Se pensate che lui sia uno di quelli che si perdono d’animo, siete fuori strada. Zompa in consiglio comunale e scatena una bagarre degna di miglior causa fino a che non ottiene di far approvare due richieste formali al presidente del consiglio. Una per chiedere il ritorno dei marò e l’altra per invocare “più poteri” e risolvere così il problema del degrado a modo suo. Quale sia questo modo suo, non ce lo ha spiegato. A dir la verità, non glielo ho neppure chiesto perché temo la risposta.
Questa signori, è l’aria che tira a Venezia. “La città più sicura del mondo - si vanta sempre il Brugnaro Luigi sindaco -. Se solo uno di quei musulmani prova a gridare Allah si trova sparato nel giro di due secondi”. Con i militari col mitra spianato che marciano per le calli, a parer suo, i veneziani dovrebbero respirare sicurezza a pieni polmoni Attenzione solo a non farvi beccare con l’abbonamento scaduto nel bus che va a Mestre, perché il servizio di controllo è stato appaltato a guardie private che ti chiedono il biglietto armate di pistole. Una spesa che bisognava fare per la sicurezza. Ma per un orinatoio a muro non ci son soldi. E così a Mestre tira un’aria che sa di piscio. Neanche tanto diversa, alla fin fine, da quella che spazza Verona con Tosi Flavio sindaco, dove ti becchi 500 euro di multa solo se ti azzardi a fare la carità ad un disperato. O da quella che ammorba Padova con quell’altro Bitonci Massimo sindaco, che ha inventato addirittura la panchina anti degrado dotata di una sbarra centrale ti impedisce di abbracciare la morosa anche se sei eterosessuale! E ci si è pure fatto immortalare seduto sopra con la faccia soddisfatta accanto al suo degno assessore! Oh… e parliamo di persone che la domenica vanno pure in chiesa e si sistemano in prima fila per sentire le prediche sulla carità cristiana, eh?
Siete schifati? Posso capirlo ma, per favore, continuate a leggere qualche altra riga perché la storia continua con quell’altra panchina. Quella cui accennavamo in apertura. Quella colore del fuoco. L’hanno sistemata, esattamente dove sorgeva la panchina originale giustiziata dalla ruspa, i ragazzi dei centri sociali, che poi hanno portato in corteo il manichino di un Cristo vestito da clochard sino alla sede dell’assessorato ai servizi sociali per chiedere che ci sta a fare un assessorato ai servizi sociali se i servizi sociali non ci sono più. Non sono stati ricevuti perché loro sono le zecche dei centri sociali. Ma la panchina che hanno costruito, c’è da dire, è più bella di quella che c’era prima. Hanno sistemato sopra addirittura una piccola tettoia per riparare dalla pioggia il malcapitato costretto a dormirci sopra. E se il Comune pialla anche questa, ne rimetteranno subito un’altra, assicurano. E vediamo chi si stufa prima. #noisamogentechenonmollamai è l’hastag di battaglia.
Come ha reagito l’amministrazione? La risposta è stata affidata ad un tweet che, se non lo avesse mandato l’assessore alla Sicurezza, Giorgio d’Este, ma uno dei tanti sparasentenze da bar Sport farebbe solo che pietà ma invece fa anche piangere. “Ecco!!! Questa gente che tanto si schiera per salvaguardare soggetti tossici e disadattati intende aiutarli rimettendo la panchina. Ma perché, mi chiedo, non li aiutano veramente offrendogli un posto a casa loro?” Una argomentazione, questa del “perché non ve li portate a casa vostra”, magari non eccessivamente elaborata nei contenuti ma che la dice tutta su cosa intenda per “politica” - la “cosa di tutti” - la giunta del Brugnaro Luigi sindaco che governa la mia città. A questo punto, avrete intuito perché la puzza di piscio che si sente in laguna non è dovuta solo ai famosi “soggetti tossici e disadattati” costretti a svuotarsi le vesciche sui portoni delle case.
Ma intanto la panchina è sempre là. Un pugno rosso fuoco contro il grigiore di una Mestre che naufraga nella sporcizia, nell’abbandono e nella vergogna. E attorno a lei ci sono ancora loro, le ragazze e i ragazzi del Loco, del Morion e del Rivolta, pronti a fare quadrato, a ricostruire quello che altri distruggono, a sentire tutte le ingiustizie fatte al mondo come fossero fatte a loro, a denunciare un degrado che sta tutto nell’anima di chi lo invoca a pretesto. A lottare per quella libertà e quella democrazia per cui lottavano i loro nonni partigiani. A resistere, a tener duro, a rompere i coglioni.
Quella rapina a mano armata che chiamano TTIP
28/04/2016EcoMagazine, Global Project
Lo ha sottolineato, tra gli altri, anche il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz in uno suo intervento al Parlamento italiano il giorno 24 settembre del 2014, che passerà alla storia per il totale disinteresse dimostrato dai nostri onorevoli. "Il TTIP non è un accordo di libero scambio, come vogliono farci credere - ha sottolineato il Nobel statunitense -. Un accordo simile potrebbe essere contenuto in tre pagine: noi eliminiamo le nostre barriere doganali e voi le vostre. Ma gli Usa non sono interessati ad un accordo di libero scambio. Gli Usa vogliono un patto di gestione del commercio per favorire particolari interessi americano che non non sono neppure gli interessi dei cittadini americani. Ecco cosa è il TTIP. Questo è il motivo per il quale l'Ustr (United States Trade Representative, l'agenzia governativa che gestisce le trattative in materia.ndr) si è rifiutata di rivelare il testo dell'accordo anche ai membri del Congresso. Vogliono che i nostri e i vostri rappresentanti siano all'oscuro di quando contenuto nell'accordo. Figuriamoci i normali cittadini che non ne devono sapere assolutamente nulla".
La segretezza con la quale sono condotte le trattative su un piano economico che, nel bene e nel male, coinvolgerà oltre 820 milioni di persone tra cittadini europei e statunitensi, e alla fine dovrà essere ratificato da un parlamento europeo che, per ore, non ne sa assolutamente niente, è il primo punto che fa suonare una campanella d'allarme.
Nell'unico documento ufficiale diffuso dall'Ue si leggono obiettivi quanto meno superficiali e generici, tipo «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche..." e via discorrendo. Ma perché tanta segretezza allora? Tutti si spiega con le bozze di accordo, pubblicate e mai smentite dalla Ue, da settimanali come il tedesco Zeit o lo Huffington Post che hanno messo in evidenza come la direzione generale commercio della Commissione europea (l'unico "ministero" preposto alla trattativa con gli Usa) stia tramando - non trovo parola migliore - per portare avanti una liberalizzazione feroce che farebbe la felicità degli economisti della scuola di Chicago.
Il TTIP punta infatti ad eliminare tutti i dazi sugli scambi bilaterali di prodotti, liberalizzare tutti i servizi e gli appalti, con conseguente perdita del lavoro per delocalizzazione in mercati più convenienti (e con meno diritti sociali e ambientali) e il decadimento delle norme a favore dell'imprenditoria locale in tema di forniture pubbliche,. Inoltre, il TTIP punta a tutelare i grandi investitori con l'introduzione dell'Isds (Investor to State Dispute Settlement) che consente ai finanzieri di citare in giudizio i Governi e, di fatto, assoggetta gli Stati nazionali ad un diritto tagliato apposta per le multinazionali.
Tra le altre conseguenze denunciate da pressoché tutte le associazioni europee di consumatori e di tutela dell'ambiente, sono state evidenziate una maggior dipendenza dal petrolio (Cop21 ci fa una pippa!), la mercificazione del territorio e dei beni comuni, un aumento dei rischi per la salute perché verrebbero meno tutte le garanzie ed i controlli sui farmaci e sugli alimenti.
Senza contare che per la frammentata agricoltura europea che oggi punta sulla qualità del prodotto, la scomparsa delle protezioni doganali sarebbe il colpo finale e le culture Ogm sarebbero invocate come la sola soluzione possibile per allineare il settore a quello d'oltre oceano.
In poche parole, il Ttip altro non è che una rapina a mano armata che spazzerebbe via le piccole e medie aziende europee a favore delle grandi multinazionali. E con loro, quello che resta di una democrazia rappresentativa che già adesso, in Italia come in Europa, non rappresenta più nessuno.
Una storia, questa dei trattati Usa per il "libero scambio", che sbarca in Europa dopo aver fatto piazza pulita dell'economia dell'America latina.
Le conseguenze di un simile accordo economico lo possiamo già vedere nell'odierno Messico dove, il primo gennaio 1994, gli Stati Uniti imposero il Nafta (North American Free Trade Agreement) e la nazione centroamericana perse, con la sua indipendenza economica, anche la sua sovranità, consegnando il suo territorio alle multinazionali minerari e la sua democrazia alle multinazionali del narcotraffico.
Quel giorno, nel Chiapas, qualcuno disse che era ora di finirla. Occupò cinque città in armi e salì sul balcone del municipio di San Cristobal per gridare "Ya basta" ed annunciare al mondo intero che, se la scelta era tra morire combattendo o morire di fame, loro sarebbero morti combattendo.
Fin che la barca va, l'inquinamento aumenta
19/04/2016EcoMagazine, Global Project
Sotto osservazione, in particolare, l'inquinamento atmosferico che deriva dal traffico navale e dal via vai di Grandi Navi al porto di Venezia. "Ho effettuato valutazioni dell'aria in tanti porti e tante città - ha dichiarato Axel Friedrich - ma un inquinamento simile non l'ho mai rilevato. In Italia, si continua a permettere alle navi di bruciare carburante di pessima qualità e di non adoperare i filtri antiparticolato con conseguenze tragiche per la salute di migliaia e migliaia di cittadini, per non parlare degli effetti nefasti sul clima, sull'ambiente e anche sui monumenti. I Paesi che si affacciano nel mare del Nord e nel mar Baltico, invece, hanno ottenuto per le loro acque il riconoscimento dell'area Seca (SOx Emission Control Area. ndr) migliorando notevolmente la qualità dell'aria".
In Italia le cose marciano diversamente, le lobby crocieristiche giocano al risparmio, e di filtri e di carburanti a basse emissioni non vogliono sentir parlare. Anche l'accordo Venice Blue Flag con il quale le compagnie si impegnavano ad abbattere la percentuale di zolfo nei carburanti utilizzati in entrata e in uscita del porto, lascia il tempo che trova, considerato che nessuno ha mai effettuato un serio controllo sulle emissioni e che gli stessi dati ottenuti dallo staff di Friedrich dimostrano tutto il contrario. Vedi i picchi registrati ogni qualvolta volta che una nave transitava per il canale della Giudecca.
Le modalità con le quali l'Arpav controlla le emissioni, infatti è uno dei punti focali delle critiche dello scienziato tedesco. Ad oggi c'è una sola centralina in tutta la laguna e sistemata, per di più, a Sacca Fisola. Cioè sottovento rispetto ai principali venti che soffiano a Venezia che sono quelli di bora. "Un posto perfetto per dimostrare che l'inquinamento non esiste. Se proprio vogliono usare una sola centralina dovrebbero sistemarla dove c'è più flusso di persone e dove batte di più l'inquinamento. A San Marco, per esempio. Là noi abbiamo rilevato i picchi più preoccupanti".
Da sottolineare che, pur se misurati con un arbitraggio... "casalingo", i dati raccolti dalle centraline Arpav in questi primi mesi dell'anno hanno ugualmente sforato i limiti di legge. E che in Italia si continua a morire di inquinamento lo afferma anche l'Unione Europea, che ha sanzionato il nostro Paese per mancanza di interventi a tutela della salute dei suoi cittadini. Secondo l'agenzia Ambiente europea, sarebbero oltre 50 mila in Italia le morti premature dovute agli inquinanti atmosferici.
Una situazione criminale nella quale Governo, Regione e Comune, a veri livelli, si guardano bene dall'intervenire preferendo continuare con la politica dello struzzo. Tanto per citare un esempio, da quest'anno la normativa rende obbligati i controlli delle polveri ultra sottili (proprio queste misurate dal dottor Friedrich) ma l'Arpav non è ancora stata dotata degli strumenti per effettuare un corretto monitoraggio. E stiamo parlando di apparecchiature che costano poche migliaia di euro.
Non ci sono soldi o non c'è la volontà politica di affrontare una situazione che imporrebbe scelte radicali e ben diverse da quella di continuare a far fare passerella in laguna alle Grandi Navi?
Ma sappiamo già da che parte pende la bilancia quanto il governatore Luca Zaia e il sindaco Gigio Brugnaro, mettono sul piatto la salute dei cittadini e gli interessi delle grandi lobby.
Fin che la barca va, lasciala andare.
Non solo il mare. Il petrolio inquina anche la politica e la democrazia
13/04/2016EcoMagazine, Global Project
Il problema sta tutto nel fatto che l’oro nero non inquina solo l’ambiente ma la stessa democrazia.
E’ appena il caso di ricordare come proprio il petrolio sia stato, ed è tutt’ora, un formidabile veicolo di corruzione in tutta la terra. Non ultimi, i Paesi del sud del mondo dove le briciole di bilancio di una qualsiasi compagnia petrolifera sono sufficienti per comperarsi l’intero Governo, con apparato burocratico in gentile omaggio.
Global Witness, una bene informata associazione internazionale che monitora i legami tra povertà, corruzione, violazione dei diritti umani e sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi meno industrializzati, ha identificato nel petrolio e, in generale, nelle risorse minerarie il settore di maggior rischio di corruzione. Su 427 casi “ufficiali” monitorati nel 2014, il 20% di questi è imputabile al settore estrattivo.
Un effetto dovuto alla sproporzione tra la debolezza economica del tessuto sociale del Paese sfruttato e i profitti miliardari delle compagnie, certo. Ma il petrolio è anche causa di questa sproporzione perché alimenta regimi corrotti e totalitari, fomenta sanguinose guerre e trova nella diseguaglianza e nelle ingiustizie sociali un fertile concime sul quale prosperare.
Pensiamo solo alla Nigeria dove il settore petrolifero rappresenta il 14,4 % del pil. Il recente scandalo che ha coinvolto l’Eni e alcune sue associate come la Saipen ha portato al sequestro di oltre 200 milioni di dollari in conti svizzeri di presunta corruzione per le concessioni di sfruttamento dei giacimenti marini.
Nell’interessante dossier di Legambiente “Sporco petrolio”, la situazione viene egregiamente riassunta con questa parole. “La corruzione è un micidiale strumento per aggirare leggi e processi democratici, per spostare ingenti risorse economiche in capo a pochi soggetti in grado di organizzare e gestire reti di corruttele e malaffare, per drenare a costi irrisori risorse pubbliche alle comunità locali, lasciando sul posto solo una lunga scia di problemi ambientali”.
E questo non vale solo per la Nigeria e per gli altri bacini del sud dove si estrae l’oro nero, come l’Amazzonia, ma anche per Paesi industrializzati come la nostra povera Italia. Anche solo considerando gli scandali petrolifici degli ultimi due anni, tra manager, funzionari pubblici e “amici di amici” sono stati indagati e, in alcuni casi, già condannati, ben 189 persone per reati che spaziano dall’inquinamento alla corruzione, dalle frodi fiscali alle truffe.
Il caso della Tempa Rossa è solo l’ultimo di un lungo elenco che, facciamo una facile previsione, è tutt’altro che concluso.
Il petrolio, in altre parole, potrebbe ben essere annoverato nell’elenco delle tante Grandi Opere che ammorbano il nostro Paese, pur se con una valenza più internazionale. Ogni tanto, la magistratura mette le manette a qualche alto dirigente e tutti a gridare allo scandalo della “male marcia” infiltrata - chissà come? - in un sistema produttivo che si continua a definire immacolato. Poi tutto continua come prima sino al prossimo scandalo.
Il punto della questione invece, sta nel fatto che il sistema petrolio continua a funzionare ed a macinare profitto privato solo se assieme all’oro nero produce anche corruzione, devastazione ambientale, disuguaglianza sociale, criminalità organizzata e impoverimento della democrazia. Senza queste situazioni a contorno, il gioco non vale la candela.
Solo in termini di emissioni di C02 - e senza considerare sversamenti eccezionali o anche i “normali” danni all’ambiente che sono impliciti nell’attività estrattiva e che i petrolieri non pagano mai -, un barile di petrolio ha un costo di circa 100 dollari. Se consideriamo che, pur tra altalenanti fluttuazioni, il prezzo del petrolio si aggira sui 30 dollari a barile, è chiaro che questa differenza o la paga lo Stato, oppure l’investitore gioca in perdita.
Una corruzione diffusa a tutti i livelli ed un controllo totalitario sull’opinione pubblica sono elementi senza i quali il sistema petrolio non potrebbe funzionare. A questo punto viene solo da chiedersi coma mai qualcuno si stupisca ancora che l’economia fossile è andata in crisi nera.
Quel che le trivelle estraggono dai giacimenti in fondo al mare, in altre parole, non devasta solo l’ambiente ma anche la nostra democrazia.
Margini in/versi intervista EcoMagazine
10/04/2016Margini in/versi
L’unica certezza con cui ci avviciniamo al referendum del 17 aprile è la scarsissima informazione aggravata e rilanciata dalla dissuasione al voto. Quest’ultimo aspetto è il più amaro, dal momento che l’astensionismo ha segnato in negativo le ultime tornate elettorali, e semmai dovrebbe allarmare l’intera classe politica. Il calo dell’affluenza tradisce un salto genetico della democrazia, purtroppo cavalcato dalle forze della maggioranza. Oggi l’elettorato si configura sempre più come qualcosa di scomodo. Lo si riduce a strumento destabilizzante e con ciò si disconosce pericolosamente l’innesto di rappresentanza nelle istituzioni di cui è l’unico legittimo portatore, il che costituisce per l’appunto la base dei nostri ordinamenti. Grazie all’inchiesta sulle attività estrattive in Basilicata, i riflettori sono tornati ad accendersi. E tuttavia il principio non mi soddisfa: senza indagati, senza la testa di un ministro, che sono di per sé fatti eclatanti, destinati ad avere una grande risonanza, quali elementi avrebbe avuto il cittadino per interrogarsi sul merito della questione energetica? Ben pochi.
La solita vulgata dell’ambientalista nemico del progresso sarebbe entrata in circolo più indisturbata di quanto non sia accaduto nelle ultime settimane. Resta il fatto che solo le inchieste avviate sui centri di Viggiano e Tempa Rossa, hanno determinato un’informazione di rimbalzo attorno a un tema che non è per nulla contingente, ma implica il nostro modo di impostare le politiche energetiche nell’immediato futuro; anche questo di per sé è dolo e dovrebbe far riflettere.
Di sicuro la transizione alle rinnovabili non può avvenire con uno strappo immediato rispetto alle fonti di energia, per così dire, tradizionali. Sarebbe irragionevole pensarlo. Però, occorre fare un paio di precisazioni, affatto accessorie. La prima è che tutto quello che risulti essere lesivo per il territorio e la salute pubblica, sia oggetto di indagini serrate, e qualora il danno sia inequivocabilmente provato, si proceda a immediata sospensione e condanna di ciò che lo determina. La seconda, ancor più importante della prima perché la giustizia ha sì carattere riparatorio ma non potrà sanare le cose alla radice, è scegliere ciò che vogliamo per il nostro futuro. Votare è in tal senso l’unica garanzia.
Pronunciarsi con chiarezza affinché la strada sia quella dettata da un approvvigionamento che contempli il più basso impatto ambientale, questo siamo tenuti a farlo. E bisogna farlo adesso. La politica è l’unico strumento di cui disponiamo per influire sul corso della storia, per dare alle nostre vite quel carattere di impegno solidale e collettivo a cui ogni generazione è chiamata. La tutela del nostro ambiente e delle risorse che possiede ne è un tratto essenziale. Basta riprendere in mano la Costituzione italiana. L’articolo 9 pone al centro il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, essendo due aspetti inalienabili su cui si basa l’identità dei suoi abitanti: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
L’Italia possiede risorse idriche strategiche. Nostro compito è tutelarle e porle al riparo da qualsiasi opera minacci di comprometterle. L’acqua si avvia a essere nel medio termine più importante del petrolio, specie in un paese come il nostro di estensione geografica limitata e dove la produttività agricola è una voce di grande peso nell’economia interna e a livello di esportazione. Il clima ci benedice, sperperare questa fortuna è follia. Invito a rileggere lo studio del geologo Franco Ortolani sulla Vallo del Diano, nel Cilento, luogo che dal 1997 suscita gli appetiti delle compagnie petrolifere straniere. I rischi strutturali legati alla conformazione del territorio ne metterebbero in discussione la sopravvivenza, qualora si trivellasse e nel contempo occorresse un evento sismico o la ancor più probabile rotazione del suolo, caratteristica di quelle zone, come di molte altre in Italia. Qui il collegamento: Caso petrolio-Vallo di Diano.
Da noi, reperire risorse nel sottosuolo terrestre o marino, è l’equivalente di cercare a tentoni un oggetto in una cristalleria lasciata al buio. La probabilità di urtare qualcosa e danneggiarlo senza rimedio è elevatissima. La differenza è che ciò che distruggiamo dove viviamo, non costituisce solo deturpamento estetico, ma significa la perdita di quanto ci permette di sopravvivere. Tutelarci è un invito al buon senso.
Ne parliamo con Riccardo Bottazzo, direttore della rivista «EcoMagazine», osservatorio sui conflitti ambientali, impegnato in tema di informazione, conservazione e monitoraggio. Invito alla lettura di questa testata chiunque non la conosca e voglia tenersi aggiornato sugli argomenti toccati nella nostra discussione.
Tra disinformazione e inviti a disertare le urne, ci avviamo a un appuntamento elettorale molto importante. In ballo la tutela del nostro mare e del nostro territorio, oltre alla possibilità di pronunciarci sul modo di impostare e gestire la politica energetica nel paese. Quale appello rivolgete ai cittadini perché vadano a votare?
Ai cittadini chiediamo di rimettere in gioco lo stesso entusiasmo e lo stesso slancio che hanno evitato al Paese di cadere nella trappola del nucleare e ci hanno permesso di contrastare la privatizzazione dell’acqua. Oramai, più che il voto, sono i referendum che aprono spazi alla democrazia partecipativa, svilita da una rappresentanza parlamentare che, per lo più, non rappresenta più nulla. La portata del quesito referendario va ben al di là del quesito stesso, proprio come è avvenuto in tutti i casi precedenti. Non si tratta però di un Sì o un No al Governo Renzi, come qualche politico malaccorto sta cercando di sostenere, ma non è neppure un referendum sul mantenimento delle piattaforme dopo le scadenze, pur importante al fine di difendere il nostro mare. Chi sbarrerà la casella del Sì chiederà al Governo di cambiare la sua attuale, e perdente, politica energetica per intraprendere la strada delle alternative ai combustibili fossili. Come, d’altra parte, lo stesso Governo si è impegnato - ma solo a parole sino ad ora - sottoscrivendo l’accordo di Cop21.
Un filone della recente inchiesta sugli impianti in Basilicata riguarda il traffico illecito di rifiuti. L’impatto ambientale delle attività estrattive è di per sé affatto trascurabile, anche quando siano osservate tutte le normative vigenti in materia. Se a tale pratica si aggiunge il dolo, le conseguenze su ambiente e persone rischiano di essere pressoché irreparabili. Alla giustizia non resta che intervenire coi suoi mezzi, che nel caso italiano significano tempistiche altrettanto dolosamente lunghe, e ciò non rassicura certo la popolazione. Fintanto che non sia garantita un’efficace vigilanza su illeciti e abusi di potere, cose che l’idea di profitto purtroppo favorisce, è forse legittimo chiedere la sospensione di queste attività. Qual è la vostra idea?
C’è lo spazio per la Giustizia e c’è quello per la politica. Nel nostro Paese, spesso tendiamo a confondere i due ambiti di intervento. La magistratura ha i suoi tempi. Io sono di Venezia e mi sono occupato del caso Mose. Ci sono voluti vent’anni e più, perché i magistrati scoperchiassero quella pentole di malaffare, tangenti e devastazioni che gli ambientalisti denunciavano sin dall’inizio! Ma ancora oggi il Mose va avanti, pur se oramai è chiaro a tutti che è solo una macchina mangiasoldi inutile, anzi devastante, ai fini di difendere gli equilibri della lagune e capace solo di dirottare denaro pubblico nella mani di faccendieri privati, non di rado in odor di mafia. Il problema sta nel fatto che la magistratura può mandare in galera qualche corrotto, ma spetta alla politica decidere se proseguire o no con l’opera, e, in generale, come intervenire per tutelare l’ambiente. Magari seguendo i consigli di quella strana cosa. da tutti dimenticata in Italia, che si chiama “scienza”.
Le estrazioni petrolifere rischiano di ripetere questa storia. Che poi è la storia di tutte le grandi opere. Sospendere l’attività estrattiva in attesa di sentenze certe della magistratura, e ripensarla sotto un’ottica diversa e più ambientalista, che non sia quella di favorire i grandi interessi finanziari o quelli familiari di chi è al potere, sarebbe non solo legittimo ma anche intelligente e democratico.
Gli interessi di Total e Shell verso il nostro paese non sono nuovi. Dal ’97 a oggi gli abitanti della Vallo di Diano, riuniti in un comitato di difesa delle risorse idriche del territorio, sono stati impegnati in un duro testa a testa a colpi di perizie e cause in tribunale. Spesso si accusano questi movimenti di essere organizzazioni animate da pressappochismo e arretratezza, mentre leggendo le carte relative ai rischi corsi dai luoghi interessati dalle perforazioni, si ha lo spaccato di un paese che punta i piedi perché i rischi oggettivamente corsi non valgono il guadagno. L’Italia è un paese a forte sismicità e dove i problemi legati al dissesto idrogeologico si manifestano con particolare frequenza. I cittadini sono chiamati, credo, a opporsi fortemente a impiantare qualsiasi attività non consideri questi due aspetti, che determinerebbero una catastrofe di ampie proporzioni e la morte dei territori coinvolti. Non se ne parla mai abbastanza: i tratti geologici del nostro ambiente richiedono un occhio di riguardo. Cosa vi sentite di dire al riguardo?
In Italia oramai sta diventando vietato fare la cosa giusta. I processi ai No Tav, la militarizzazioni di cantieri devastanti per il territorio ma considerati alla stregua di “siti di interesse nazionale”, neanche fossero caserme, i linciaggi mediatici anche alle semplici opinioni come nel caso dello scrittore Erri De Luca, lo dimostrano. Chi difende il suo territorio da una politica economica oramai agli sgoccioli, costretta per tirare avanti a mercificare ambiente, beni comuni e diritti, rischia la galera per “terrorismo”. E come succede agli ambientalisti, anche gli esperti che sottolineano, dati alla mano, i rischi per l’ambiente vengono messi alla berlina con infondate accuse di arretratezza e di non capire le esigenze di uno “sviluppo” che, come ci suggerisce Serge Latouche, va sempre scritto tra virgolette!
Per venire alla tua domanda, “cosa vi sentite di dire al riguardo”, agli ambientalisti e a chi ha a cuore il nostro paese, risponderei con il testo della canzone No Surreder di Bruce Springsteen. Non arrendetevi. Se l’umanità avrà un futuro, sarà quello che noi sapremo costruire. E sarà un futuro che mette al primo posto la difesa dell’ambiente e la tutela dei beni comuni. Il futuro scritto sui conti panamensi della grande finanza sta dalla parte sbagliata della storia.
L’estensione della nostra penisola non le permette di sopportare attività così invasive quali trivellazioni a 4000-5000 metri di profondità per estrarre gas e idrocarburi. Conformazione, orogenesi, limitatezza di spazi disponibili non possono essere ignorate. Ci affacciamo inoltre su un mare con un ricambio delle acque imparagonabile rispetto a quello che interessa gli oceani. Volendo fare un raffronto, anche in virtù di un territorio assai più vasto del nostro, gli Stati Uniti possono gestire una politica energetica diversa in materia di energia, sebbene io credo che il graduale abbandono del petrolio sia una tappa a cui nessuno nel breve riuscirà a sottrarsi.
Le carte da giocare per il nostro sviluppo sono dunque nel monitoraggio e nella valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche. Voglio dire, il clima ci benedice da secoli. Perché scambiare un inquinamento certo, per una vocazione aiutata dalla natura del nostro ambiente?
Non c’è un perché. Non ci sono risposte a questa tua domanda. Il capitale ha solo una regola: quella di massimizzare il profitto. Questa sola segue e altro non guarda. Il discorso «vale la pena consumare le nostre ricchezze paesaggistiche e naturali (di tutti) per estrarre qualche barile di petrolio (privato)» può avere un senso per me e per te, ma non per la finanza che punta a monetizzare subito e tutto quello che è – e anche quello che non sarebbe – monetizzabile. Non c’è un futuro cui il capitale debba tener da conto. Non ci sono generazioni future alle quali pensare. Questo compito spetterebbe alla politica. Ma tocca scrivere al condizionale perché oggi la politica ha demandato le sue competenze all’economia. Oggi la politica è attaccata su tutti i fronti. È considerata sporca, inutile, personale, fonte di guadagni illeciti. Adesso, non dubito che per certi “politici” sia proprio così, ma il punto non è questo. La politica è lo strumento con il quale esercitiamo la democrazia. Chi scende in piazza, chi occupa i cantieri, chi difende l’ambiente anche con azioni forti, fa politica e rivendica democrazia contro un potere oramai tutto relegato nelle mani di una economia che tira avanti a furia di shock, per ricordare Naomi Klein. In questo senso, il tuo discorso va rovesciato. Un ipotetico disastro petrolifero, specie in una area a forte valore ambientale e artistico, andrebbe tutto a vantaggio di una economia che si nutre di disastri.
Oggi il connubio tra tecnologie, saperi e ricerche nel settore dell’agronomia permette una resa della terra più elevata che in passato. In questi anni impietosi di crisi economica, la terra è stata inoltre un rifugio per chi è rimasto senza occupazione o per chi un’occupazione la stava cercando per la prima volta. Molti i giovani che hanno preferito investire in attività agricole. Le risorse idriche rivelano pertanto la loro natura strategica, mentre l’attività estrattiva ne minaccia la sussistenza per le future generazioni. Si tratta secondo me di scegliere cosa vogliamo essere, anche e soprattutto per i nostri figli. Non sarebbe ora di ribadire con forza che tutelare l’ambiente non è affatto un moto umano regressivo, ma semmai l’opzione più attuale di cui disponiamo?
Sono d’accordo naturalmente. I molti “giovani che hanno preferito investire in attività agricole”, come scrivi, hanno capito quello che i nostri governanti non hanno capito, oppure preferiscono non capire: il domani, il futuro dei nostri figli, non sarà legato alle attività estrattive e, in generale, ai combustibili fossili. Non è solo una questione di opportunità. Mi spiego: preferire l’acqua al petrolio (perdona la semplificazione) non è solo una scelta atta a favorire quello che al momento conviene. È l’unica scelta possibile per salvare il pianeta da una svolta epocale: quella dettata dai cambiamenti climatici. A Parigi, così come nelle precedenti Cop, è stato ribadito ancora una volta che il mondo sta cambiando e che, se vogliamo che la Terra sopravviva, non abbiamo altra scelta che imprimere alla nostra economia una sterzata decisa verso le rinnovabili, così come verso il riciclo, il riuso, una limitazione decisa dei consumi, e un drastico cambiamento dei nostri stili di vita. Tutto ciò passa anche attraverso il referendum del 17 aprile. Quella domenica ricordiamoci di andare tutti a votare e poi mettiamoci tranquilli che avremo tante, tante altre battaglie da fare!
Articolo tratto dal blog Margini in/versi
La letteratura migrante come bene comune
10/04/2016Frontiere News
La letteratura come grimaldello per scardinare le serrature mentali che si annidano su concetti vuoti di significato come “clandestino” o “sicurezza”. La letteratura come dialogo, come incontro tra culture, come reciproco arricchimento di chi scrive e chi legge. La letteratura come mezzo per restituire alle parole quella dignità che gli viene negata da tutte le semplificazioni xenofobe che scavano dentro le nostre paure. La letteratura, infine, come bene comune. Ed è proprio quest’ultimo il sottotitolo del 15esimo convegno sul tema “Non solo acqua, non solo aria” intitolato a Franco Argento che si svolgerà nel ferrarese da giovedì 14 a sabato 16 aprile. Una “tre giorni” fitta di appuntamenti dedicata, come di consueto, alla letteratura migrante. L’appuntamento è organizzato dal Cies (centro informazioni ed educazione allo sviluppo) di Ferrara, in collaborazione con altre realtà che si occupano di migranti e di diritti come Cittadini del Mondo, Quadrifoglio, PortoAmico, e gode dei patrocini istituzionali di Comune, Provincia e Regione.
Come è oramai tradizione, il primo appuntamento del festival, quello di giovedì, si svolgerà a Portomaggiore, teatro Smeraldo alle ore 9, per poi trasferirsi al centro Il Quadrifoglio, Pontelagoscuro, Ferrara. Tra le scrittrici e gli scrittori che interverranno, segnaliamo Melita Richter, Tahar Lamri, Nader Ghazvinizadeh, Silvestra Sbarbaro, Sandro Abruzzese, Barbara Diolaiti, Ibrahim Kane Annour ed Alessandro Ghebreigziabiher.
Per il programma dettagliato potete visitare questa pagina
Negli incontri saranno coinvolti, come è oramai consuetudine, le ragazze ed i ragazzi dei principali istituti scolastici di Ferrara e Provincia.
Da sottolineare come Portomaggiore, il Comune dove si aprirà il festival di letteratura migrante, è una delle aree italiane a più alta densità di migranti. Una scelta non casuale. Cosa c’è di più migrante della letteratura?
Non è un Paese per ambientalisti. Lo scandalo Tempa Rossa travolge la ministra per lo Sviluppo economico
1/04/2016EcoMagazine, Global Project
La “buona notizia” in questione è che il progetto Tempa Rossa, un inquinante impianto di estrazione a Corleto Perticara, in provincia di Potenza ed a ridosso dal parco nazionale dell’Appennino lucano, inizialmente stralciato dallo Sblocca Italia, era stato reinserito grazie alle pressioni della compagna ministra. Cinque minuti prima, la stessa ministra aveva telefonato al Gemelli, rassicurandolo sul suo progetto. “Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte”. La Maria Elena in questione, è la ministra con delega all’attuazione del Programma di Governo, Boschi. Altro personaggio che puntualmente sale alle cronache per le strette parentele finite sotto inchiesta, come nel recente caso di Banca Etruria.
L’emendamento è stato puntualmente approvato e ancora una volta il nostro Paese ha svenduto un suo pezzo di territorio pubblico ai petrolieri privati. Un “regalo”, per le sole aziende di Gianluca Gemelli di circa 2 milioni e mezzo di euro di subappalti.
Da sottolineare che il progetto è stato approvato qualche giorno prima che il nostro capo di Governo, Matteo Renzi, volasse a Parigi, davanti all’assemblea di Cop21, per raccontare quando brava fosse l’Italia ad investire sulle rinnovabili.
Stavolta però la pubblicazione dell’intercettazione che non lascia spazio ad equivoci, ha inguaiato la ministra che proprio ieri ha rassegnato le dimissioni. Dimissioni chieste dall’opposizione ma prontamente accettate anche dalla maggioranza. Va sottolineato che il solo a non voltarle le spalle è stato Silvio Berlusconi che per le intercettazioni, evidentemente, ha una idiosincrasia tutta sua, e non ha perso l’occasione di bollarle ancora una volta come “inaccettabili” in un Paese democratico.
C’è da dire che le intercettazioni sono solo l’aspetto più teatrale di una inchiesta sulla quale la Procura di Potenza sta indagando da quasi tre anni e che ha messo sotto inchiesta una sessantina di persone, tra ex sindaci, dirigenti dell’Eni e di altre aziende appaltatrici, dirigenti regionali e dipendenti pubblici. Oltre al già citato Gianluca Gemelli, proprietario di ben due società petrolifere, accusato di concorso in corruzione e millantato credito per aver promesso vantaggi agli imprenditori in cambio del suo rapporto col ministro.
Sotto sequestro preventivo, sono state posti gli impianti incriminati, bloccando l’attività in Val d’Agri dove si estraevano circa 75mila barili di petrolio al giorno.
Secondo gli inquirenti, i dirigenti dell’Eni, accusati di traffico e smaltimento illecito di rifiuti, sforavano volutamente il tetto di inquinamento imposto dalla normativa e inviavano dati “non corrispondenti al vero, parziali o diversi da quelli effettivi” agli enti di controllo. I rifiuti pericolosi inoltre, venivano trasformati in ordinari e smaltiti come tali con la complicità delle aziende appaltatrici con un guadagno valutabile, sempre secondo la magistratura, tra i 44 e i 110 milioni all’anno.
"Per risparmiare denaro si sono ridotti ad avvelenare il territorio con meccanismi truffaldini” ha sintetizzato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che in conferenza stampa ha restituito il quadro di un fitti intreccio di rapporti malavitosi tra petrolieri e politica, con la complicità delle strutture regionali di controllo.
Il tutto a pochi giorni dal referendum sulle attività estrattive in mare. Giustizia ad orologeria? Il procuratore Roberti nega decisamente: “Le richieste di misura cautelare sono state presentate tra agosto e novembre del 2015. Prima del referendum e in tempi non sospetti”. La pubblicazione delle intercettazioni ha comunque fatto arrabbiare Matteo Renzi che si è sperticato ad assicurare che lo scandalo della Tempa Rossa e le dimissioni del suo ministro non hanno nulla a che vedere con il Sì al referendum del 17 aprile.
La realtà è un’altra. Ancora una volta, le inchieste della magistratura non hanno fatto altro che confermare - pur con il consueto ritardo - le tesi degli ambientalisti secondo le quali il Governo Renzi si fa forte di uno strettissimo legame con le lobby petrolifere. Lobby che perseguono interessi propri, non di rado con metodi truffaldini per non dire mafiosi, inquinando il Paese e mercificando beni comuni.
Le dimissioni della ministra Guidi dimostrano che dietro l’attività estrattiva si celano interessi privati miliardari e non il semplice mantenimento dei posti di lavoro, come sostengono i fautori del No.
Come è stato per l’acqua, il referendum sulle trivelle ha una valenza politica che travalica il quesito sull’opportunità di rinnovare o no le concessioni estrattive a mare.
Il voto del 17 aprile sarà una occasione per ribadire al Governo che il futuro energetico che vogliamo per il nostro Paese è quello che la stessa Italia si è impegnata a costruire a Cop21. E non è quello che continua ad inseguire quei combustibili fossili tanto cari ai loro “amici” petrolieri.
Comincia la battaglia per difendere il nostro futuro dalle trivelle. A Venezia si costituisce il comitato per il Sì
14/03/2016EcoMagazine
Quello sul quale gli elettori saranno chiamati ad esprimersi, domenica 17 aprile, è un referendum senza storia perché, contrariamente a quanto accaduto per l’acque e il nucleare, i sostenitori delle trivelle, che alla fin fine sono solo i petrolieri, non hanno nessun argomento valido da opporre alle tesi ambientaliste. Le attività estrattive contribuiscono al bilancio nazionale per appena 340 milioni di euro all’anno. Come dire che solo a fare il referendum si spende di più. In compenso, “regalano” al nostro Paese, inquinamento del mare e delle falde, subsidenza e un forte rischio ambientale.
Il “No” non ha ragioni da vendere e per questo punterà sulla disinformazione e sull’astensione. “A poche settimane dal referendum il 50 per cento degli italiani non sa neppure che si andrà a votare” spiega Michele Boato, del comitato per il Sì. Il lavoro degli ambientalisti e di quei partiti come i 5 Stelle, Sel, Verdi e anche la Lega Nord, (folgorata sulla via dell’ecologia?) dovrò puntare tutto ad informare gli italiani, a far sapere loro che domenica 17 si aprono le urne e che è importante depositarvi dentro la propria scheda.
Questa mattina a Venezia si è costituito il comitato Vota Sì per fermare le trivelle. Tra i presenti, oltre al Boato, Paolo Cacciari, Salvatore Lihard, Isabella Albano, Cristiano Gasparetto e altri.
“Non è solo una questione ambientale – ha rimarcato Cristiano Gasparetto di Italia Nostra – Si tratta di riprenderci in mano il nostro destino contro delle prese di posizione arbitrarie di un Governo che tratta i cittadini come sudditi”.
Come già dicemmo per l’acqua, si scrive “trivelle” si legge “democrazia”
Dalla Val di Susa alla Laguna. La battaglia è per la democrazia
8/03/2016EcoMagazine
Il palazzo Ducale di Venezia (e dei veneziani!) che, ricordiamolo, ai tempi dei Dogi non è mai stato difeso da una milizia armata in quanto il popolo doveva avere il potere e la possibilità di rovesciare il governo dogale qualora questi avesse contro la città e la sua laguna, è stato usato dal premier Matteo Renzi come una prestigiosa ed esclusiva location per un vertice con il suo parigrado francese, François Hollande. Vertice in cui si è discusso, tra le altre cose, di una eventuale guerra di cui non solo i semplici cittadini ma ma neppure i parlamentari sanno qualcosa.
Quanto è successo a Venezia, quindi, chiarisce una volta per tutte che la battaglia dei No Tav non è solo contro l’Alta Velocità, quella dei No Grandi Navi non è solo contro i condomini galleggianti che devastano la laguna, la battaglia contro le trivelle non è solo per difendere il mare e far rispettare gli accordi - che lo stesso Renzi aveva sottoscritto - di Cop21, quella degli studenti medi (confortante la loro massiccia presenza al corte) non è solo per la scuola… E’ una battaglia di tutti per riportare in Europa quella cosa che oramai non esiste più: la democrazia.
Intendiamo, parliamo di una democrazia reale, dal basso e partecipata. Una democrazia che non può esaurirsi in una croce su una scheda per eleggere un parlamento che oramai non conta più niente.Ma una democrazia che consenta alla cittadinanza di gestire in autonomia il proprio territorio e di rifiutare le Grandi Opere finalizzate non a rispondere ai bisogni della collettività ma per dare linfa ad una economia mafiosa e militarizzata che trita ambiente, diritti e beni comuni. Perché i valsusini non vogliono la Tav, così come i veneziani non vogliono le grandi navi o il Mose. E’ la mafia capitale a volerle. La soluzione non è la magistratura. Non lo è mai, la magistratura una soluzione. Casomai questa può solo dimostrare il fallimento della politica. E il fallimento della politica, scritto con gli idranti di questa mattina, è l’aver demandato i suoi compiti e le sue prerogative ad un capitalismo predatorio, ultimo epigone di una economia devastata e devastante.
Una economia che, come è stato dimostrato a Parigi, non ha più futuro o, meglio, non è più in grado di costruire futuro per l’umanità. Quello che accadrà domani lo dobbiamo costruire sin da oggi. E la strada giusta non è quella del vertice militarizzato ma di quei ragazzi che oggi sono venuti in duemila a Venezia per difendere la Val di Susa e la laguna e chiedere giustizia climatica, diritti e democrazia.