In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Dalla Val di Susa alla Laguna. La battaglia è per la democrazia
8/03/2016EcoMagazine
Il palazzo Ducale di Venezia (e dei veneziani!) che, ricordiamolo, ai tempi dei Dogi non è mai stato difeso da una milizia armata in quanto il popolo doveva avere il potere e la possibilità di rovesciare il governo dogale qualora questi avesse contro la città e la sua laguna, è stato usato dal premier Matteo Renzi come una prestigiosa ed esclusiva location per un vertice con il suo parigrado francese, François Hollande. Vertice in cui si è discusso, tra le altre cose, di una eventuale guerra di cui non solo i semplici cittadini ma ma neppure i parlamentari sanno qualcosa.
Quanto è successo a Venezia, quindi, chiarisce una volta per tutte che la battaglia dei No Tav non è solo contro l’Alta Velocità, quella dei No Grandi Navi non è solo contro i condomini galleggianti che devastano la laguna, la battaglia contro le trivelle non è solo per difendere il mare e far rispettare gli accordi - che lo stesso Renzi aveva sottoscritto - di Cop21, quella degli studenti medi (confortante la loro massiccia presenza al corte) non è solo per la scuola… E’ una battaglia di tutti per riportare in Europa quella cosa che oramai non esiste più: la democrazia.
Intendiamo, parliamo di una democrazia reale, dal basso e partecipata. Una democrazia che non può esaurirsi in una croce su una scheda per eleggere un parlamento che oramai non conta più niente.Ma una democrazia che consenta alla cittadinanza di gestire in autonomia il proprio territorio e di rifiutare le Grandi Opere finalizzate non a rispondere ai bisogni della collettività ma per dare linfa ad una economia mafiosa e militarizzata che trita ambiente, diritti e beni comuni. Perché i valsusini non vogliono la Tav, così come i veneziani non vogliono le grandi navi o il Mose. E’ la mafia capitale a volerle. La soluzione non è la magistratura. Non lo è mai, la magistratura una soluzione. Casomai questa può solo dimostrare il fallimento della politica. E il fallimento della politica, scritto con gli idranti di questa mattina, è l’aver demandato i suoi compiti e le sue prerogative ad un capitalismo predatorio, ultimo epigone di una economia devastata e devastante.
Una economia che, come è stato dimostrato a Parigi, non ha più futuro o, meglio, non è più in grado di costruire futuro per l’umanità. Quello che accadrà domani lo dobbiamo costruire sin da oggi. E la strada giusta non è quella del vertice militarizzato ma di quei ragazzi che oggi sono venuti in duemila a Venezia per difendere la Val di Susa e la laguna e chiedere giustizia climatica, diritti e democrazia.
Quei buchi nell’acqua chiamati trivelle. #CementoArricchito
26/02/2016EcoMagazine
Vero che l’opposizione di alcuni Paesi petroliferi, come l’Arabia Saudita, ha impedito che nell’accordo finale comparisse il termine “decarbonizzazione”, ma è pure vero che, se davvero vogliamo anche soltanto provare a contenere l’aumento globale della temperatura "ben al di sotto di 2 gradi Celsius in più rispetto ai livelli pre-industriali” - come si legge nel documento conclusivo - tutti gli Stati firmatari dovranno impegnarsi sin da subito a trovare alternative energetiche sostenibili.
In altre parole, gli idrocarburi come il petrolio, il carbone in tutte le sue forme, il gas come il metano, sono stati definitivamente buttati fuori della storia dell’umanità.
O non ci sarà futuro per questi combustibili, o non ci sarà futuro per l’umanità.
Fa riflettere quindi che, neppure un mese dopo gli incontri parigini, dove tanto il premier Matteo Renzi, quanto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, vantavano l’Italia come uno dei Paesi più virtuosi e pronti a fare carte false per mantenere il surriscaldamento globale nei limiti proposti, il Governo varava uno Sblocca Italia tutto incentrato su Grandi Opere, consumo indiscriminato del territorio e, dulcis in fundo, dichiarasse “strategico” un piano di trivellazioni che aveva fatto infuriare non solo i “soliti” ambientalisti ma addirittura gli enti locali.
Tanto è vero che la richiesta del referendum popolare sulle trivellazioni in programma il prossimo 17 aprile, è stata presentata, come prescrive la Costituzione, da dieci Regioni interessate, tra le quali il Veneto. Ed è la prima volta, nel nostro Paese, che un quesito referendario viene presentato dai governi regionali. Tra l’altro, in numero doppio rispetto al quorum prescritto che è di cinque.
Come sia possibile che enti non sempre coerentemente schierati su tematiche ambientaliste come le Regioni, siano stati così solerti nell’accogliere le pressioni referendarie provenienti dal mondo ecologista, è presto detto. Per i governo locali, le trivelle sono soltanto un buco nell’acqua: nulla hanno da guadagnare e tutto da perdere, nel caso, non certo impossibile, di uno sversamento o di altre conseguenze inquinanti.
Come ha spiegato, in un incontro pubblico Venezia, Andrea Boraschi, responsabile energia e clima di Greenpeace, i permessi di ricerca e di sfruttamento di idrocarburi, altro non sono che un regalo ai petrolieri a spese dei cittadini. “Il petrolio estratto in Italia non appartiene alla nazione ma alle compagnie petrolifere. Il quantitativo estratto andrebbe inoltre a coprire il consumo nazionale per sole 7 o 8 settimane, così come le riserve di gas non durerebbero più di 6 mesi”.
Perché allora le compagnie come l’Eni, pronta a trivellare a poca distanza da un parco naturale come quello del Delta del Po, sono disposte ad accollarsi questi impegni economici? “Perché le royalties, i diritti di concessione, da noi, sono i più bassi del mondo, e non superano il 7% di quello che si estrae - ha concluso Boraschi -. Per questo parliamo di regalo di Natale ai petrolieri”.
A far da contrappeso, nell’altro piatto della bilancia, c’è un… mare di rischi. Anche senza arrivare al pericolo di scatenare reazioni di subsidenza - punto sul quale la comunità scientifica ha opinioni divergenti - rimane il costante rischio di sversamento. Ipotesi accreditata anche dall’alta sismicità dell’area in cui dovrebbero sorgere le piattaforme. Di disastri marini legati all’estrazione o al trasporto di combustibili fossili, ne abbiamo già registrati tanti al mondo. Anche a considerare solo l’aspetto economico, i costi per la collettività si sono rivelati assolutamente sproporzionati ai vantaggi. Inoltre, tutti questi disastri si sono verificati nell’oceano. Cosa succederebbe in caso di sversamento in un mare chiuso come quello Adriatico, a poche miglia marine dalla laguna di Venezia e da tante spiagge che vivono di turismo?
Preoccupazioni queste, che investono anche settori non propriamente vicini all’ambientalismo, come quello degli albergatori e degli stessi pescatori.
“Le compagnie petrolifere ci hanno offerto qualche migliaio di euro come indennità in previsione di un ridimensionamento della pesca dovuto alle loro attività - ha raccontato Giampaolo Buonfiglio, presidente delle cooperative italiane pesca -. Ma come potremmo accettare? Nel solo Veneto, ci sono migliaia di barche e di famiglie che campano solo di questo lavoro”.
Da Venezia, la mobilitazione in vista del vicino referendum si è allargata a tutta la Regione. Comitati popolari e associazioni ambientaliste hanno organizzato sit in, incontri pubblici e colorate iniziative in tutte le provincie.
I sostenitori del No punteranno soprattutto sull’astensione ed a sminuire la portata del referendum. “E’ sbagliato pensare che con questo referendum l’Italia venga chiamata a scegliere tra i combustibili fossili e la ricerche sulle fonti di energia rinnovabili - commenta il consigliere emilianoromagnolo del Pd Gianni Bessi -. Le due cose devono andare avanti insieme”.
Di opposto avviso gli ambientalisti. “Invitiamo tutti gli italiani ad andare a votare ed a votare Sì - spiega Gigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto -. La nostra battaglia contro le trivelle non è solo contro le trivelle. Il referendum dovrà anche essere un segnale forte per il Governo Renzi affinché si decida a tradurre in pratica gli accordi di Parigi. I combustibili fossili devono essere abbandonati per investire sulle energie rinnovabili, le sole capaci di regalarci davvero un futuro”.
Anche da Venezia, no all'estradizione di Omar Nayef
18/02/2016Ya Basta Êdî Bese
Questa piccola isola della laguna di Venezia è quindi un luogo – simbolo per la causa palestinese, che proprio qui vide riconosciuta dalla comunità internazionale la sua esistenza e i suoi consequenziali diritti.
E proprio su questa piccola isola la cui visuale spazia sino a piazza San Marco, un gruppo di attivisti ha accolto l’appello lanciato dall’associazione Samidoun (parola araba che significa “resistenti”) a favore di Omar Nayef, il rifugiato politico palestinese da dicembre “assediato” nella sua ambasciata a Sofia da una richiesta di estradizione di Israele.
Come già fatto a New York, a Roma, a Praga e in altre capitali europee, anche a Venezia, questa mattina, alcune ragazze e ragazzi dell’associazione Ya Basta Edi Bese e del Laboratorio Morion hanno alzato uno striscione nel campo antistante la chiesa di San Giorgio con la scritta “Giustizia per Omar. No all’estradizione”.
L’iniziativa veneziana si collega alla campagna lanciata dal sito samidoun.net che si occupa di portare solidarietà ai prigionieri politici palestinesi. E Omar Nayef, condannato all’ergastolo da un tribunale militare israeliano per l’uccisione di un militare colono che si era macchiato di crimini contro la popolazione, è a buon diritto uno di loro. La storia di Nayef, dalla sua rocambolesca fuga dopo una sciopero della fame e della sua nuova vita in Bulgaria dove risiede da oltre 20 anni con la sua famiglia, la potete leggere su questo link del sito di Ya Basta Edi Bese.
Durante la manifestazione di San Giorgio, gli attivisti hanno ribadito l’importanza di sottoscrivere l’appello a favore di Omar Nayef e, di conseguenza, anche di tutti i rifugiati politici palestinesi che si troverebbero in immediato rischio di espulsione qualora passasse un precedente come questo.
In nome del popolo asfissiato
16/01/2016EcoMagazine
L’allarme, si legge sempre sulla Tribuna, è stato dato dall’ambientalista Gianfranco Bettin, attuale presidente della municipalità di Marghera, dalla sua pagina Facebook il 31 dicembre. Ultimo giorno di un anno, tra l’altro, superiore alla media in quanto piovosità. In questa prima quindicina di gennaio, caratterizzate da una marcata siccità, la situazione è alquanto peggiorata. Gli sforamenti dei limiti di sicurezza delle polveri sottili registrati dalle centraline Arpav in tutta la Regione sono oramai una norma. E la cosa più grave è che tutto ciò avviene nella completa indifferenza dei nostri amministratori. “Speriamo che piove presto - si è limitato a dichiarare il governatore veneto, Luca Zaia -. Questo è l’unico rimedio”.
Certo. La pioggia è un rimedio. Ma starsene con le mani in mano in attesa della pioggia è un delitto. Ci sono tanti provvedimenti che si possono, che si debbono prendere. Provvedimenti, lo sappiamo bene, anche assai impopolari per l’elettore medio come il blocco della circolazione, ad esempio, ma indispensabili in un momento in cui la salute di tutti è messa a rischio. Provvedimenti che, chi governa, non può esimersi dal varare.
Ci sono cose da fare subito a livello locale, e cose da fare subito a livello nazionale. Ci sono cosa da fare a lungo termine a livello locale, e cose da fare a lungo termine a livello nazionale.
Ma, sempre e comunque ci sono “cose” da fare, se non vogliamo asfissiare.
Ci sono interventi contingenti ed urgenti, ed interventi strutturali a lungo termine. Interventi di competenza dei Comuni, delle Regioni e, per quanto riguarda una strategia d’insieme, anche del Governo.
A livello locale, bisogna bloccare le fonti di emissione più impattanti, organizzare un lavaggio quotidiano delle strade più trafficate, mettere mezzi pubblici gratuiti o a prezzo ridotto, limitare il traffico ordinario.
A livello regionale e nazionale, bisogna avviare una radicale conversione energetica, proprio come prevedono gli accordi di Cop21: incentivare auto e mezzi elettrici, ed il riscaldamento con più metano e più solare e meno biomassa e meno carbone, chiudere gli inceneritori e le centrali a carbone più vecchie (come è stato fatto a Marghera dalla precedente Giunta) e ambientalizzare le più moderne con una conversione dell'apparato produttivo in chiave meno impattante, limitare l'impatto di aerei e navi (quelle “grandi” prima di tutto!), potenziare nelle città la mobilità ciclopedonale, espandere le grandi aree verdi intorno alla città come il bosco di Mestre, ed i parchi ed i giardini interni, offrire incentivi e obblighi per mutare il sistema di riscaldamento dei condominii e degli uffici, delle scuole, degli ospedali.
“Sperare che piova”, non serve a niente. Situazioni come questa che stiamo vivendo sono entrate oramai nella normalità.
“L'emergenza era prevedibile”, ha commentato Bettin su Fb. “Bisognava creare i tavoli regionali e nazionale di coordinamento e predisporre i piani integrati già da settembre o ottobre. Tutto questo va coordinato e predisposto per tempo: perciò è indecente, ai limiti del crimine, che siano passati quaranta giorni senza che il governo centrale e i governi regionali si muovessero. Incompetenti, negazionisti della crisi climatica e complici dei peggiori interessi, però, non potranno mai farlo. Ed infatti…”
Se non si muovono gli amministratori, si muove la gente. Ecco perché il comitato Marghera libera e pensante, ha invitato la cittadinanza alla mobilitazione.
L’appuntamento è per sabato prossimo, 23 gennaio, alle ore 11, davanti alla sede dell’Arpav, cavalcavia Giustizia.
Non sono tollerabili, afferma il comunicato dell’associazione, “oltre 70 sforamenti dei limiti massimi in un anno e nessun straccio d'intervento da parte della Regione del Veneto e Comune di Venezia”.
“Non è possibile avere centraline come quella di via Beccaria - si legge - che rilevano giorno dopo giorno sforamenti dei PM10 e non aver nessun intervento che ne riduca la produzione”.
Italia in stile gruviera. Il Governo apre la porta alle trivellazioni e rinnega Cop21
14/01/2016EcoMagazine, Global Project
Facciamo finta che i cambiamenti climatici siano il parto di un fecondo scrittore di fantascienza, che i combustibili fossili non siano in via di esaurimento e che l’inquinamento atmosferico sia l’ultimo dei problemi dall’umanità. Immaginate anche, se ci riuscite, che le emissioni di scarico siano un toccasana per la salute. Immergetevi in questo scenario idilliaco e converrete che la sola idea di trivellare mezza Italia per cavarne qualche goccia di petrolio è ugualmente - per dirla come ebbe a dirla Fantozzi della Corazzata Potëmkin - una cagata pazzesca.
I 114 permessi di ricerca ( 90 di terra e 24 di mare) e le 212 concessioni di estrazione di idrocarburi (143 di terra e le rimanenti 69 di mare) rilasciati dal ministero per lo Sviluppo economico con un provvedimento che - guarda caso! - portano date da ferie natalizie come il 24 e il 31 dicembre, sono una follia sotto tutti i punti di vista. Quello economico compreso. Lo ha messo bene in evidenza il verde Angelo Bonelli che ha fatto due conti alla concessione che il Governo ha assegnato alla Proceltic Italia, aggiudicatasi il lotto adiacente alle Tremiti per la modica cifra di 5 euro e 16 centesimi al metro quadrato. Come dire che la devastazione di un’area unica al mondo per la biodiversità, come quella che arricchisce queste isole, porterà nelle casse dello Stato la miseria di mille 928 euro e 3 centesimi (arrotondati per eccesso!) all’anno. Se questa non è follia…
In totale, le concessioni rilasciate dal nostro poco attento all’ambiente Governo, riguardano un’area che equivale pressapoco alla Campania e alla Lombardia messe insieme. In un Paese ricco di storie,di arte e, per quel che ne resta, di bellezze ambientali come l’Italia, pare superfluo sottolineare che le trivellazioni saranno per forza di cose adiacenti - quando non proprio sopra - aree di pregio.
Le isole Tremiti, Pantelleria, la costa della Sardegna, sono solo alcuni esempi che gridano vendetta al cielo. Per tacere del mare antistante Venezia, anch’esso finito nell’elenco delle aree “legalmente devastabili”. Ma la nostra laguna, oramai lo abbiamo imparato, è già diventata da tempo “carne di porco”. Proprio sui nostri lidi, quotidianamente massacrati dalle Grandi Navi, è stata avviata col Mose la prova generale di quella politica delle Grandi Opere - imposta a furia di leggi liberticide, prima ancora che devastanti, come la berlusconiana Legge Obiettivo e la renziana Sblocca Italia - che hanno cambiato volto al nostro Paese.
Nel prosieguo di questa politica che non dà futuro e nel mantenimento di una economia predatoria di ambiente e di democrazia, va interpretata la voglia del Governo di trasformare l’Italia in un gruviera.
Eppure… eppure esiste una differenza sostanziale tra le tante Grandi Opere che hanno massacrato la Penisola e queste disgraziatissime concessioni di idrocarburi. Le trivelle non hanno nessuna giustificazione.
Intendiamoci: neppure il Mose ne aveva una, neppure la Tav ce l’ha. Eppure, in questi casi, i sostenitori della shock economy, qualche motivazione che non fosse quella vera “dobbiamo pur finanziare le mafie, o no?”, riuscivano comunque a tirarla fuori. Salvare Venezia dalle acque alte, velocizzare il trasporto… Bugie, certo. Lo scrivevamo all’epoca, e tutti gli accadimenti successivi - non di rado giudiziari - ce lo hanno confermato. Ma erano comunque motivazioni sulle quali risultava difficile far ragionare una opinione pubblica mainstream stregata dai miti in stile Canale 5 dello “sviluppo” illimitato.
Con le trivelle invece, non ci sono argomentazioni a favore. Ci sono solo argomentazioni contrarie. Pure se, come abbiamo scritto in apertura non avessimo la testa sotto la mannaia dei cambiamenti climatici.
L’Italia non è una terra ricca di idrocarburi. Estrarli non è un affare per nessuno. Non lo è mai stato e non lo sarebbe neppure oggi se, per le aziende concessionarie, non fossero spuntati i soliti “aiutini miliardari” da parte dello Stato. E non ci raccontino che lo si fa per favorire l’occupazione o la “ripresa” (altro mito dei nostri giorni). La devastazione di intere aree che oggi campano di turismo, pesca o agricoltura porterà solo miseria culturale, povertà e ulteriore disoccupazione.
L’area critica del dissenso, stavolta, non è limitata ai “soliti” ambientalisti, a quelli che urlano No a tutto. Lo dimostra la radicale contrarietà con la quale non solo tutti i sindaci e le organizzazioni di categoria dei territori interessati, ma anche Regioni per le quali “ecologia” è un termine desueto, come il Veneto o la Lombardia, hanno accolto le aperture del Governo.
Ecco perché questa delle trivelle è una battaglia che possiamo vincere. Nessuna faccia di palta, nessun opinionista venduto, stavolta, potrà andare in televisione per giustificare una scelta che non ha giustificazioni e che, per di più, si lancia in direzione opposta agli accordi della Cop21 sul cambiamento climatico. Accordi sui quali il Governo si è formalmente impegnato.
E se non lo faranno i nostri ministri, dovranno essere i cittadini a farli rispettare.
Parigi non va dimenticata.
“Circenses” senza “panem”. Tutto qua il bilancio della Giunta Brugnaro
23/12/2015In Comune
Ma bisogna fare dei distinguo. Gesù Cristo, secondo alcuni perlomeno, era abilitato dal padreterno a fare i miracoli. Non doveva, lui, fare i conti col patto di stabilità. Il Comune di Venezia invece sì. Inoltre, questione da non sottovalutare, i “miracoli” con i bilanci è meglio non farli. Se sono privati rischi che arrivi la Finanza. E vagli a spiegare tu, che è come per i pani e per i pesci! Se sono pubblici, prima o poi i tarocchi vengono scoperti. Perché se li hai messi su quella voce, i soldi, vuol dire che li hai tolti da quell’altra, se non ci sono non te li puoi inventare - come fanno le banche -, e se li fai apparire come i pesci e i pani, vuol dire che te li ha dati o il Governo o i cittadini (tasse) o hai svenduto qualche bene pubblico. Altre alternative non ci sono neanche a farsi miracolare.
Ha un bel dire quindi Brugnaro Luigi sindaco che i soldi ci sono, che il patto di stabilità (forse) non verrà sforato, che non ha tagliato niente ma solo “ottimizzato le spese”.
Conti alla mano, si annuncia un carnaio sociale come Venezia non ha mai visto dalla Liberazione in poi. A farne le spese saranno le categorie più deboli. Meno 700 mila euro ai servizi destinati agli anziani. L’assessorato parla di un indispensabile “turn over” agli assistiti. La gente dovrà imparare ad avere bisogno quando è il turno giusto. Per il sociale, in generale, saranno spesi un milione e mezzo di euro di meno. Inevitabile che i servizi ne risentiranno. Inevitabile che saranno i più poveri a pagarne le spese. Inevitabile non sottolineare la perfetta continuità con l’infausta gestione del commissario.
In compenso, per ogni vigile sono stati stanziati 5 mila euro per le divise. La “sicurezza” per Brugnaro è un capitolo importante e la si ottiene non intervenendo nelle sacche di degrado e di povertà, ma vestendo di fino la polizia. D’altra parte, non può mica essere sempre lui a correre dietro ai delinquenti come ha fatto il primo giorno di sindaco!
Tagli a parte, anche il capitolo “entrate” di questo bilancio è quanto meno fumoso. Giocassimo a poker, potremmo dire che i nostri amministratori hanno una bella faccia da bluff. I soldi ci sono, dicono. Anche i dipendenti possono stare tranquilli per il loro fondo, dicono, e andare a fare il trenino alle feste che il sindaco, a sue spese, magnanimamente gli concede. Panem et circenses. Solo che non hanno spiegato “dove” hanno trovato i soldi. Il “circenses” non manca. Manca il “panem”. Non arriveranno fondi da quei contratti che il sindaco in campagna elettorale vantava come già firmati con le compagnie di crociera, non arriveranno finanziamenti per Venezia dalle grandi aziende che si arricchiscono col turismo. Tutte promesse elettorali, perché in questo capitolo, l’amministrazione deve ancora mettere parola.
E fosse solo una questione di soldi! Il vero, profondo deficit della Giunta Brugnaro sta nella democrazia, che il resto alla fin fine viene da sé. Nella democrazia interna, innanzitutto. Gli assessorati sono solo dei passacarte delle ordinanze partorite dal Gabinetto del Sindaco. In consiglio, i “fedelissimi” fanno gruppo come neanche una mischia di rugby. Ma così si amministra una azienda. Non una città. Brugnaro, semplicemente, non è in grado di cogliere la differenza.
Poi c’è una questione, ancora più grave di democrazia esterna di cui la ventilata proposta di spogliare le municipalità di tutte le loro deleghe è solo l’ultimo esempio. Non ce la raccontano che è un provvedimento dettato dalla necessità di smagrire le spese. Gli enti più vicini al cittadino sono quelli che investono meglio, in maniera più efficace e meno dispendiosa. Piuttosto, è il colore politico delle municipalità, che non è certo fucsia, ad infastidire l’amministrazione.
Una amministrazione che governa la nostra città con poca democrazia, zero lungimiranza, nessun progetto ma tanta “furbizia”. La “furbizia” del pizzicagnolo disonesto che ruba sul peso e tarocca la merce. La “furbizia” che fa dichiarare “siamo stati talmente bravi che ‘forse’ il patto di stabilità non verrà sforato” e intanto pensa a chi dare la colpa quando, inevitabilmente, verrà sforato. Già. perché Venezia sorge sulle rive della laguna e non del mar di Galilea.
Fatti contro bufale? Vince la disinformazione
19/12/2015Cicap
Facciamo un esempio. Il quotidiano la Stampa ha raccontato, qualche tempo fa, il caso emblematico della legge proposta dal senatore Cirenga che mirava a stanziare 134 miliardi di euro nel nobile intento di trovare un posto di lavoro per gli ex-deputati non eletti nel 2013. Detta legge, approvata dal senato con 257 voti a favore,165 astensioni e nessun contrario, ha sollevato il comprensibile furore del popolo del web: post infuocati contro la “casta” (“E’ tutto un magna magna”), denunce del malcostume in tanti blog, addirittura una pagina Facebook contro il truce Cirenga. Peccato solo che Cirenga non esista. Non c’è nessun senatore con questo nome. Non c’è mai stato in tutta la storia della Repubblica. I voti al Senato sono al massimo 315, difficile quindi approvare una legge con 422 voti in aula. Di tale legge non c’è traccia, e non dico nel Bollettino ufficiale, ma anche in tutto il sito del Senato.
Inoltre, 134 miliardi di euro… sono un po’ tantini. O no? Miliardi, non milioni, eh! Ti ci compri il Milan, la Juve, tutto l’esercito italiano in blocco e avanzano pure soldi per fare una offerta per la Moldavia. Insomma, per dirla come il ragionier Fantozzi ebbe a dire della corazzata Potëmkin, la faccenda altro non è che una cag… pazzesca. Una bufala, tra l’altro, facilissima da sbugiardare anche senza grandi inchieste. Basta fare quella cosa strana che dovremmo fare sempre: tenere attaccato il senso critico al cervello. E invece – fatevi un giro per la rete – c’è chi ancora spreca energie, degne di miglior causa, a postare contro il bieco senatore Cirenga!
Come sia possibile tutto ciò, ce lo spiega uno studio dal significativo titolo “L’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione”. Ve lo potete godere tutto cliccando su questo link sul sito della Cornell University. Il lavoro è frutto di una équipe internazionale di studiosi tra i quali l’italiano Walter Quattrociocchi del CSSLab dell’IMT di Lucca, esperto di scienze sociali computazionali.
In sintesi, lo studio afferma che fare debunking va dall’inutile al controproducente, e ci spiega perché. L’équipe di studiosi ha preso in esame due gruppi di utenti Facebook. Nel primo c’erano persone abituate a interagire con siti seri come questo che state leggendo… Scherzo! Diciamo meglio che gli utenti del primo gruppo si appoggiavano ad una informazione con basi scientifiche e su un giornalismo professionale. Il secondo gruppo, invece, raggruppava complottisti vari, dai “credenti” nelle scie chimiche ai fedeli rettiliani del settimo giorno. Ebbene, questi due gruppi non interagivano mai fra di loro. Ciascuno rimaneva all’interno del proprio… ceppo tribale, trovando conforto e conferma delle proprie convinzioni. Quelle poche volte che i, chiamiamoli, “disinformati” incocciavano in una smentita proveniente dal gruppo degli “informati”, si guardavano bene dal cambiare opinione. Anzi. L’effetto finale era proprio quello di rafforzare le teorie sostenute, indipendentemente dal loro grado di verità e insensatezza. Facebook, insomma, così come Twitter e gli altri social, hanno il potere (diabolico!) di costruire “tribù” chiuse nelle loro credenze e refrattarie a qualsiasi assalto di scetticismo. L’eccessivo proliferare di “notizie” che vengono smerciate come vere, se non addirittura inventate di sana pianta per guadagnare qualche clic – vedi il caso di alcuni siti xenofobi e nazistoidi del tipo “i crimini dei clandestini” -, comporta un abbattimento del nostro senso critico. Qualsiasi bufala trova “conferma” in blog o pagine che si citano reciprocamente come “fonte della prova”. Siccome la notizia X la riportano in tanti, finiamo per pensare che sia anche vera.
E questo è un problema col quale tutti quanti dobbiamo imparare a fare i conti, compresi noi giornalisti che mai abbiamo collezionato tanti “granchi” da quando internet è entrato nelle nostre redazioni. Ma è soprattutto tra i complottisti che vengono mietute più vittime, perché per principio rifiutano le fonti di informazione tradizionali. Per questa categoria di persone (tribù) vale il principio secondo il quale più una notizia è smentita e più deve essere vera. Addirittura il debunking stesso, viene letto come prova provante!
Spiega Quattrociocchi che questo effetto contro-intuitivo va imputato al fatto che contesti come Facebook e la rete in generale consentono agli utenti di “modellare” quanto leggono sulle loro preferenze. Insomma, l’utente può costruirsi, senza filtro alcuno, un mondo a sua misura dove tutti i “clandestini” sono dell’Isis, stuprano le donne bianche e ci rubano il lavoro, oppure dove il Pentagono ha realizzato la macchina che scatena i terremoti ma nessuno lo dice perché sono tutti pagati dalla Cia.
Capirete che tutto ciò è molto, molto pericoloso. Conclude Quattrociocchi: “Facebook e Twitter hanno creato un canale diretto attraverso cui i contenuti arrivano dai produttori ai consumatori, da chi scrive a chi legge, cambiando il modo in cui gli utenti si informano, discutono le idee e danno forma al loro punto di vista sul mondo. Questo scenario potrebbe generare confusione su cosa causa i problemi globali e sociali, incoraggiando così un senso di paranoia basato su false voci”.
Uno scenario, lo ammetterete, un po’ deprimente per chi, come noi del Cicap, crede ancora al valore di quel “vero” che Galileo stimava più che il “disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna”. Sarebbe più saggio, piuttosto che lottare contro i mulini a vento, dedicarci al gioco degli scacchi o alla fabbricazione della birra in casa? Forse sì. O forse anche no. Se ci sono i mulini, c’è bisogno anche di un Don Chisciotte che parta alla carica. Senza dimenticare come si risponde in una difesa siciliana e neppure quel tino di birra che sta fermentando allegramente nella mia cantina.
Parigi, il vertice è finito. Ora cominciamo a fare sul serio
13/12/2015EcoMagazine, Global Project
Alla fin fine, l’unica strada davvero risolutiva del problema clima, era quella prospettata dal signor Raoni Metuktire, cacique del popolo amazzonico kayopo, nel suo intervento davanti ai leader della terra: “Europei e nordamericani dovrebbero imparare a mangiare solo quello che producono sotto le loro case”.
L’avesse detto Obama, non sarebbe più potuto tornare negli States.
Come valutare allora l’accordo di Parigi? Non certo con lo stesso tono col quale lo ha promosso Laurent Fabius, presidente della Cop21: “Giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”. Ma neppure come lo ha liquidato al Guardian James Hansen, uno degli scienziati che per primi hanno denunciato il pericolo del cambiamento climatico. “Porsi l’obiettivo di stare sotto i 2 gradi con un piano di verifiche quinquennali per cercare di migliorare un po’ alla volta è una cosa ridicola, uno scherzo”. In conclusione, ha tagliato corto lo scienziato, l’accordo siglato a Parigi “It’s just a bullshit”. Frase che il traduttore di google fa finta di non capire ma che azzardo a tradurre con “E’ solo una stronzata”. (Se sbaglio correggetemi…)
Eppure, per quelli che, come noi, dal vertice francese si aspettavano poco o niente, va detto che qualcosa di buono è venuto fuori. E per “buono” intendo strumenti che potremo utilizzare nelle nostre battaglie ambientaliste.
Entriamo velocemente nei termini dell’accordo. L’articolo 2 fissa il limite massimo dei 2 gradi con l’obiettivo ideale di mantenersi entro il grado e mezzo. Il che significa, secondo i dati dell’Ipcc, tagliare le emissioni tra il 40 e il 70 per cento rispetto al 2010 entro il 2050. Tra il 70 e il 95 per cento, se puntiamo ad un aumento contenuto entro il grado e mezzo. Bene. Il problema è che per non scontentare petrolieri, multinazionali e governi, il testo non specifica come e dove. Tutto viene demandato alle Indc, le Intended Nationally Determined Contribution, cioè alle misure che ogni Stato intende volontariamente adottare.
Dal testo iniziale dell’accordo è stato stralciato tutto quanto poteva penalizzare le grandi corporation finanziarie. Desaparecido anche il concetto di decarbonizzazione, che implicava il completo abbandono di carburanti fossili, per fare spazio ad una ipotesi di “bilancio energetico” che non sta a significare niente se non che si continuerà ad usare il petrolio (fin che ce n’è, e fin che questo sarà economicamente vantaggioso). Anche i famosi 100 miliardi di dollari annui da stanziare per i Paesi non industrializzati sono solo fumo. Non è stato stabilito come, quando, con quali criteri e con quali vincoli saranno stanziati. Inoltre, questione non da poco, non è stato neppure precisato se stiamo parlando di finanziamenti a fondo perduto o… prestiti!
Conclusione: il testo finale partorito dalla Cop21 è debole, imperfetto, facilmente aggirabile, non vincolante né per i Governi né per le multinazionali. Prospetta e auspica un contenimento utopistico di 1,5 gradi ma non detta quei severissimi vincoli e quei drastici cambiamenti indispensabili di rotta per raggiungerlo. Come possedere la mappa del tesoro ma non sapere su quale isola andare a scavare.
Eppure… eppure questo accordo ha anche una lettura positiva. Quella di relegare definitivamente l’industrializzazione, così come l’abbiamo concepita sino a oggi, nei libri di storia del Novecento. A Parigi è stata chiusa l’era del petrolio e dei grandi consumi. Il futuro passerà per le rinnovabili.
Perché rispettare l’obiettivo dei 2 gradi, significa senza se e senza ma, tenere gas, petrolio e carbone là dove Madre Natura ce lo ha messo: sotto terra.
Questo è l’impegno che gli Stati, Italia compresa, hanno preso a Parigi. Un impegno che presto proveranno a disattendere facendo leva su tutte quelle deficienze del testo cui abbiamo accennato. Un impegno che sicuramente cercheranno di farci dimenticare con la scusa del terrorismo (che non a caso introita dal mercato del petrolio) o altre invenzioni.
Fateci caso. A poche ore dalla firma - fatta salva qualche rara eccezione - la Cop21 è già sparita dalle home dei siti di informazione e pochissimi quotidiani gli hanno dedicato la prima pagina. Tutti a sbavare su truculenti fatti di cronaca, a commentare fuffe bancarie o a sbavare su quella stramenata da infarto cosmico che è la Leopolda.
Toccherà ai movimenti sociali e ambientali, alle loro lotte, ricordare che c’è una emergenza clima e pretendere che Cop21 venga rispettato. Dopo Parigi, possiamo scriverlo senza tema di smentita: trivellare l’Adriatico va contro l’accordo sul clima che l’Italia ha sottoscritto. Questa è una verità che nessun politico, nessun amministratore, nessun petroliere, neppure un Salvini (tanto per dire la cosa peggiore che mi viene in mente), potrà negare. Questa è una verità sulla quale chi dice No ad Ombrina deve battere, ribattere ed ancorarsi senza far sconti a nessuno. Lo stesso lo possiamo ribadire per la Tav, le industrie cancerogene come l’Ilva, la Pedemontana e tutte le Grandi e devastanti Opere che hanno partorito crisi sociale, economica, ambientale e, adesso è ufficiale, anche climatica.
Pure le Grandi Navi, viste sotto i criteri dell’accordo parigino, navigano verso la parte sbagliata della storia. Fuori dalla laguna? No, fuori dal mondo le vogliamo!
Cop21. I limiti della conservazione di un sistema
11/12/2015Global Project
Il rischio è che l’accordo resti solo una bella carta di intenti senza nessun potere sanzionatorio e priva di qualsiasi capacità di incamminare il mondo lungo quella strada che rimane l’unica davvero in grado di salvare il pianeta, così come noi o conosciamo: ribaltare l’attuale “economia predatoria” in una economia slegata dalla finanza, a misura d’uomo e di ambiente.
Non è un caso che nessuno dei ministri presenti a Parigi metta in discussione l'articolo 2 de testo che fissa la soglia di aumento della temperatura "ben al di sotto dei 2 gradi”, possibilmente entro al soglia del grado e mezzo.
Il problema sta in tutti gli altri articoli che dovrebbero spiegare “come” rimanere entro questo limite!
Un po’ come impegnarsi a debellare la fame, la guerra e le ingiustizie sociali senza spiegare come, e, soprattutto, senza sognarsi di mettere in discussione l’ordine costituito. Un traguardo utopistico. Esattamente come molti commentatori hanno giudicato il limite del grado e mezzo auspicato dall’articolo 2.
Motivi del contendere, e del conseguente ritardo nell’approvazione del documento, è soprattutto la parte finanziaria. Ovvero come e quanto compensare i danni ambientali irreversibili che sono la causa delle migrazioni climatiche. Oppure, se preferite, quanto i Paesi ricchi devono dare ai Paesi poveri per poter continuare a comportarsi come si comportano adesso.
C’è anche da dire che molti Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” si sono avvicinati alla Cop21 solo con la mera intenzione di ottenere più finanziamenti possibile e vedono di traverso se questo denaro viene vincolato ad uno “sviluppo” diverso da quello che, ahimè, ammirano guardando verso i Paesi europei o nordamericani.
E che siano proprio coloro che hanno causato la crisi climatica (oltre che quella economica che le cammina a fianco) a salire sul pulpito per dare lezioni su come si deve fare economia pulita, è una cosa non prima di sarcastiche contraddizioni.
Dopo i finanziamenti, il secondo punto critico è quello delle sanzioni. Senza “multe” non c’è normativa che tenga. Tanto nella circolazione stradale, quanto negli accordi transnazionali. Non è un caso che la Cina, che se ne è stata buona a zitta per tutto il vertice, sia saltata come una tarantolata e abbia alzato barricate appena è stata prospettata l’ipotesi di una revisione sanzionatoria quinquennale dei risultati ottenuti nell’abbattimento delle emissioni e sul rispetto dei vincoli dell’accordo. Il che la dice tutta sulla volontà del Governo comunista cinese di spendersi a difesa del clima.
Ultima menzione al merito per il governo dell’Arabia Saudita. Gli emiri nutrono verso il clima lo stesso delicato sentimento che nutrono nei confronti delle donne, degli oppositori politici e dei diritti in generale. I portavoce del Regno saudita se ne sono usciti per tutto il vertice con affermazioni pubbliche atte a screditare come “nemica dell’ambiente” l’ipotesi di un azzeramento, anche a lungo termine, delle emissioni imputabile all’uso dei combustibili fossili.
Finanziare gli integralismi servirà anche a far alzare il prezzo del petrolio, ma non a farlo ricomparire nei pozzi che si stanno esaurendo. Non mancano troppi decenni che non ne avranno neppure per riempirsi il serbatoio della Rolls Royce.
Cop21. Il mondo non è project
3/12/2015Global Project
A starli a sentire, pare davvero che i cambiamenti climatici siano in cima alle loro preoccupazioni. Proprio come il terrorismo. Solo che i cambiamenti climatici non li puoi bombardare, e le soluzioni capaci di fermare il riscaldamento globale - le soluzioni vere, intendo - passano attraverso la realizzazione di una democrazia dal basso e di un cambiamento radicale del nostro modello di civiltà, non più basato sul consumo ma sui diritti, di cui sono loro il primo ostacolo. I leader mondiali riescono a contraddire se stessi anche solo passando da un microfono all’altro; da una conferenza stampa dove annunciano svolte green e quella dove spiegano la necessità di combattere il terrorismo distribuendo bombe e democrazia sui vari califfati. Senza considerare che guerre e bombardamenti sono tutto tranne che… eco compatibili! Oltre che morti, fame e povertà producono pure Co2 e finanziano una industria bellica che non gode certo del bollino verde!
Il problema è, che nessuno di quei politici che oggi sono lì “per decidere come salvare la terra”, per dirla col francese François Hollande, ha una aspettativa di vita (politica) superiore ai due o tre, massimo, mandati. Le decisioni che la storia li chiamerebbe a prendere risulterebbero decisamente impopolari ed in aperto contrasto con quegli stessi poteri forti che li hanno messi sulla poltrona. Nessuno di loro ha voglia, o levatura politica e culturale, di giocarsi le prossime elezioni sostenendo, al di là delle dichiarazioni di intenti, le battaglie necessarie a contenere la temperatura mondiale entro i 2 gradi entro anno 2070.
Alla fine dei conti, la strategia economica delle grandi potenze, fatto salvo qualche concessione alle Green Economy (finché il settore “tira”), non è poi così distante da quella dell’Isis, l’ultima reincarnazione del braccio violento del capitalismo: vendere e acquistare petrolio, fin che ce n’è. E se le riserve sono in scadenza… motivo di più per farne alzare il prezzo. Economico, politico e militare.
E qui ci sta tutto il divario tra chi gioca in borsa e chi no, tra i ricchi ed i poveri della terra, tra chi ha e chi non ha. I primi sono i principali responsabili delle emissioni che stanno massacrando tutto il vivente di questa terra. I secondi ne pagano le conseguenze e non hanno nessuna intenzione di fermarsi, senza adeguata contropartita, sulla strada per quel modello di “sviluppo” del quale abbiamo già visto gli effetto e che, loro credono o sperano, li porterà prima o poi ad entrare nel club dei ricchi.
Il problema è stabilire il prezzo. L’inquinamento è una merce come le altre. Questo è l’unico accordo che verrà siglato a Parigi: quanto i Paesi ricchi daranno ai Paesi poveri per poter continuare ad inquinare come prima. Perché nessuno del membri dell’esclusivo Vip Club, mette realmente in discussione lo stile di vita proprio e dei propri elettori.
Mettiamoci in testa che quello che sta passando per Parigi, non è l’ultimo treno per fermare i cambiamenti climatici. Quello è già partito venti o trent’anni fa e non è più passato per nessuna stazione. Oggi, la mutazione del clima è una realtà con la quale bisogna convivere. Il punto della questione è quanto salato sarà il conto e chi dovrà rimetterne le spese. E facciamo attenzione che il conto potrebbe essere così salata da rivelarsi insostenibile per l’intera civiltà umana, oltre che per tante altre specie animali e vegetali della terra. Siamo alla svolta: apocalisse o rivoluzione. E’ su questo treno che dobbiamo salire. Come ha affermato il presidente boliviano, Evo Morales, una delle poche voci fuori dal coro “aspetta e spera” dei leader mondiali, è la shock economy, l’economia che trasforma i disastri in capitale, e non il clima, che dobbiamo combattere. “Il capitalismo - spiega il presidente indigeno - provocherà la scomparsa della vita sul pianeta”.
A Parigi si cercano soluzioni, ma l’unica soluzione è quella di riscrivere il significato del concetto di “economia” allacciandolo a vincoli di sostenibilità e di giustizia. Perché, come sostiene Naomi Klein, la crisi climatica è anche una crisi morale. “Ogni volta che i governi dei paesi ricchi evitano di affrontare il problema, dimostrano che il nord del mondo sta mettendo i suoi bisogni e la sua sicurezza economica davanti alla sofferenza di alcuni dei popoli più vulnerabili della Terra”. Non è un caso quindi che a Parigi nessun microfono sia stato offerto e nessun palco abbia ospitato i portavoce di quei popoli che già subiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici e che già hanno pagare le spese di un nuovo stile di vita: i migranti climatici. Loro - gli unici che avrebbero avuto tutte le carte in regola per spiegare perché è necessario costruire una diversa economia - non hanno avuto voce nei palchi parigino.
Chi ha provato a manifestare in nome loro, è stato picchiato ed arrestato. Come se fossero loro, gli ambientalisti, gli amici dei “terroristi islamici” e non piuttosto questa economia capitalista che alza il prezzo dei combustibili fossili proprio perché sono in esaurimento, invece di puntare a nuove energie rinnovabili e pulite ma che non danno gli stessi interessi in borsa.