In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Chi ama Venezia difende la laguna

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Mancavano solo loro, alla grande festa di musica e bandiere, che questo pomeriggio, sino a sera inoltrata ha colorato la fondamenta delle Zattere. Mancavano le Grandi Navi. Dalla marittima fanno sapere che l’autorità portuale ha preferito deviarle nei canali dietro la Giudecca. Eppure, il passaggio era sgombro. Questa volta, nessuno ha tentato di bloccare la circolazione di quelle specie di villaggi di vacanza galleggianti.
“Gli abbiamo fatto paura” spiegano dal palco. Più che paura forse, gli abbiamo fatto provare vergogna. Perché chi ama Venezia, questo pomeriggio, era là, in fondamenta, con i veneziani, a difenderla. Chi stava sulle navi, no. Di Venezia, dei suoi problemi e della sua vera bellezza, quei turisti da “tutto compreso”, non possono sapere nulla. Quelle tremila persone che dalla fondamenta chiedevano politiche per la residenzialità, interventi di tutela per la laguna, politiche per governare il turismo, l’allontanamento delle Grandi Navi e del loro inquinante passaggio, avrebbero anche potuto guastare la festa della partenza. Così, i condomini galleggianti, che di nave hanno ben poco, sono stati fatti girare al largo. I turisti si sono persi l’indubbio splendore di ammirare dall’alto del ponte la città dei dogi arrossare al tramonto del sole, ma gli è stata risparmiata l’umiliazione della verità: Venezia non vi vuole.

La vera festa, questo pomeriggio, era tutta alle Zattere, tra le tante bandiere Non Grandi Navi in riva, le barche a vela e a remi in canale, e la musica sul palco galleggiante, dove ad artisti come Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli e sir Oliver Skardy, si alternavano gli interventi politici dei rappresentanti del municipio di Barcellona e di altre “città ribelli”, o di portavoce di comitati ambientalisti come la No Tav, Nicoletta Dose, che si battono contro la politica delle Grandi Opere. categoria nella quale le Grandi navi rientrano di buon diritto: devastano il territorio, fagocitano soldi e risorse pubbliche per deviarle ad aziende private in odor di mafia. In cambio, rubano democrazia e drogano la politica. Impossibile non citare il Mose, che ha inaugurato la stagione delle Grandi Opere. Perché se puoi fare impunemente una tale porcheria in una città sotto gli occhi del mondo come Venezia, allora puoi fare ciò che vuoi dappertutto. “Il Mose è stato il bidone del secolo che ha portato via a Venezia soldi, risorse e anche democrazia – gridano dal palco -. A due anni dalla grande retata tutto è rimasto come prima. Le prove sono state un fallimento annunciato. L’opera non funziona ed è stata pensata apposta per divorare vagoni di euro in manutenzioni continue. Chiediamo al commissario di fare il suo mestiere e di verificare non soltanto l’aspetto finanziario ma anche le numerose criticità del progetto messe in evidenza da studi indipendenti dal consorzio”.
Tanta gente, abbiamo detto. Pochi gli onorevoli. Tra questi, ricordiamo solo Giulio Marcon, che venerdì ha chiesto una question time in parlamento proprio sul tema delle Grandi Navi. “Mi ha risposto il sottosegretario del ministero allo Sviluppo economico Antonello Giacomelli. Cosa mi ha detto? Poco e quel poco mi preoccupa. Prima mi ha fatto la storia delle Grandi Navi, che, se permettete, conoscevo già. Poi ha ribadito che stanno esaminando le varie proposte e che, purtroppo, non escludono lo scavo di altri canali. In conclusione, tanto per dimostrare che non aveva capito le mie domande, mi ha ricordato che nel canale della Giudecca non transitano più navi commerciali o traghetti. Grazie tante! Io stavo parlando delle Grandi Navi”.
Ultima nota per la Chiesa Pastafariana che ha aderito alla manifestazione con una sua coloratissima imbarcazione piena zeppa di birre e di pirati: i “fritelli” della costa.
Non posso sapere dove fossero gli altri dei, ma il Grande Spaghetto – o il suo spirito spiritoso-, questo pomeriggio, era in fondamenta delle Zattere ad ascoltare il concerto ed a “birredire” i manifestanti con le sue Pappardellose Appendici.
Ramen.

La Venezia che (r)esiste in assemblea a Rialto per preparare la festa di domenica 25

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Venezia si prepara alla grande manifestazione contro le Grandi Navi, prevista per domenica 25 settembre. E lo fa con una partecipata assemblea svoltasi questo pomeriggio nel cuore stesso della città: nella pescheria di Rialto. Quel cuore che “no se vende” come i residenti hanno scritto a grandi lettere sotto quello che fu un tempo il primo palazzo del Doge. Tanta gente, tante associazioni hanno accolto l’appello dei No Grandi Navi a dare vita a questo dibattito, comprendendo che la battaglia contro il gigantismo navale non solo è una battaglia in difesa della città, della sua laguna e della salute dei suoi abitanti, ma è anche un grimaldello per affrontare tutte le tante questioni che riguardano Venezia, dal turismo di massa al tanto citato “degrado”. Dietro il No alle Grandi Navi, ha spiegato Marco Baravalle in aperture dell’assemblea, ci sono tanti Sì: sì a una città solidale e sostenibile, sì alle case per i residenti, sì al controllo del traffico acqueo, sì all’artigianato e alla vita a Venezia.
“Proprio qui a Rialto dove sopravvive il valore d’uso di uno dei luoghi storici di Venezia, vogliamo ribadire che la nostra idea di città è ben diversa da quello che ne ha la Giunta e le compagnie di crociera che la vedono solo come uno strumento di profitto - ha spiegato Baravalle -. Ed è proprio sulle idee e sulle proposte che possiamo vincere questa battaglia, di fronte ai balbettii di chi non sa proporre nessuna soluzione, noi ripetiamo ancora una volta che le grandi navi debbono stare fuori dalla laguna e che Venezia esiste e resiste”.

Marta Canino, portavoce dell’assemblea No Grandi Navi, ha spiegato come si svolgerà la manifestazione. “Sarà una grande festa che si svolgerà attorno ad una grande piattaforma galleggiante. La manifestazione ha le autorizzazioni in regola. Venite tutti, a piedi alle Zattere o in barca in canale della Giudecca domenica 25 pomeriggio per dare voce alla Venezia che vogliamo”. Tra gli ospiti che saliranno sul palco galleggiante ci saranno attivisti No Tav come Nicoletta Dosio, e portavoce di movimenti e associazioni ambientaliste di tanti Paesi d’Europa. Ci saranno anche musica e spettacolo, naturalmente. Tra gli artisti che hanno aderito all’iniziativa, ricordiamo Eugenio Finardi, Gualtiero Bertelli, sir Oliver Skardy, Herman Medrano, Marco Furio Furieri, i Rimorchiatori, Banda Nera, Storie Storte, 4 Rooms Family e Big Mike.

Non resta altro da dire se non “Ci vediamo domenica 25 settembre alle Zattere”

L'energia che guarisce

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Il reiki tra religione per l'anima e terapia per il corpo
Il reiki viene definito dai suoi cultori come una tecnica di guarigione, semplice da praticare quanto efficace negli effetti, che può essere utilizzata da chiunque sia stato “energeticamente ripulito” mediante l’attivazione dei suoi “canali naturali” (vedremo più avanti il significato di questo termine). Nel sito della scuola italiana di reiki[1], si legge: «Il reiki è una tecnica di origine giapponese immediata e naturale che permette di riequilibrarsi e di ritrovare benessere psichico e fisico utilizzando semplicemente le proprie mani. È così semplice che tutti possono impararlo in un fine settimana, persino i bambini».
Questa pratica si propone come una terapia medica atta a curare traumi, distorsioni, ustioni, ferite ma anche allergie, così come malattie autoimmuni, semplici raffreddori o patologie tumorali. Decisamente molto. Anche quando la malattia non regredisce (il reiki, bontà sua, non pretende di garantire l’immortalità), il paziente trattato dovrebbe comunque trovare beneficio psicofisico nel trattamento e migliorare la qualità della sua vita. Il reiki inoltre - sempre secondo chi lo pratica - può essere utilizzato per curare malattie mentali come la depressione e garantirebbe una forte stabilità emotiva ed una maggior serenità nell’affrontare i problemi di tutti i giorni anche a chi è sano come un pesce.
Attenzione a non confondere il reiki con la pranoterapia, ovverosia la guarigione di un malanno tramite l’imposizione delle mani. Una terapia “alternativa” la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Mentre il pranoterapeuta travasa sul paziente la sua personale “energia magnetica”, il reikista si limita a far da «canale» per far scorrere l’«energia dell’universo». Il pranoterapeuta, alla fine della seduta - perlomeno così afferma - si sente svuotato e stanco, mentre il reikista che ha fatto solo da «filo conduttore» sarebbe a sua volta beneficiato dal passaggio del reiki. Contrariamente alla pranoterapia, il reiki può essere praticato anche su se stessi. Un’altra differenza fondamentale sta nel fatto che per applicare la pranoterapia bisogna essere delle persone speciali, alle quali Madre Natura, o chi per lei, ha elargito il magico dono della guarigione. Il reiki, al contrario, lo può praticare un premio Nobel come una persona semplice, un adulto come un bambino, un santo come un bestemmiatore incallito, purché ovviamente abbia prima investito i 300 euro indispensabili per farsi «attivare» i «canali energetici» da un maestro reikista. Da questo punto di vista, si tratta di una pratica di guarigione assai più democratica!


Il reiki nella sanità
Negli ultimi tempi, pur in assenza di studi scientifici che ne abbiano dimostrato una qualche efficacia, il reiki è entrato nella sanità italiana perlomeno in tre ospedali: nel reparto di medicina psicosomatica del San Carlo Borromeo di Milano e nei reparti oncologici del San Giovanni Battista di Torino e del Regina Elena di Roma. Nel canale YouTube della scuola YouReiki si possono vedere dei video che mostrano come questa pratica venga applicata ai pazienti oncologici del Regina Elena. Inoltre, a dimostrazione di come la pratica di questa disciplina si stia diffondendo in Italia, alcune associazioni di reiki sono riuscite ad inserire i loro corsi nell’ambito della formazione continua per il personale sanitario con la possibilità di rilasciare crediti Ecm (Educazione Continua in Medicina). I vantaggi, stando a quanto si legge nella pagina reiki con accredito Ecm, sarebbero sia per il paziente curato con il reiki che per l’operatore, il quale godrebbe di «maggiore resistenza alla fatica ed allo stress da turni» e farebbe così «minori assenze per malattia». Il reiki quindi curerebbe tanto chi lo eroga quanto chi ne beneficia. E ci sarebbe un vantaggio anche per l’azienda ospedaliera, in quanto il reiki può accelerare la convalescenza e contrastare le complicazioni: «si pensi ai vantaggi in termini di riduzione delle liste di attesa ed a quelli economici derivanti dal maggior turnover dei pazienti».

Quando l’energia è “intelligente”
Reiki è una parola giapponese composta da due ideogrammi: Rei (spirituale, intelligente) e Ki (energia). La traduzione letteraria del termine potrebbe essere quindi “energia intelligente”. «Quell’energia che esisteva ancor prima della creazione dell’universo - si legge su www.amoreiki.it - il principio divino dal quale è scaturito il Big Bang e che ha portato alla creazione dell’universo in tutte le sue manifestazioni».
Niente di misurabile o di contestualizzabile in un ambito scientifico, naturalmente. Anzi potremmo affermare che, per sua stessa natura, il reiki esula da qualsiasi definizione scientifica. I suoi adepti la descrivono infatti come una “energia” che non si può misurare, il che in termini scientifici è un non senso. Più un concetto filosofico e religioso, quindi. «Reiki indica un livello di energia vibrazionale che è comune a tutti gli esseri viventi e che nutre e mantiene le cose in vita» come spiega l’associazione reikista Alkaemia nel suo sito. Una sorta di «forza spirituale benigna» che avvolge l’universo impregnandolo di amore e di ordine.
Una energia per sua natura guaritrice, perché le patologie sarebbero imputabili a un disordine o, meglio, a un disequilibrio dello spirito che si riflette negativamente nel corpo.
Il reiki ha il potere di armonizzare l’uomo con l’universo donandogli così la guarigione. La malattia, sia essa una infezione virale o una semplice ferita da taglio, nella filosofia del reiki comporta uno squilibrio nel paziente che si traduce in sofferenza fisica e psichica. L’operatore reiki, incanalando l’energia dell’universo e facendola scorrere nel corpo del malato, ristabilirebbe questo mistico equilibrio, col risultato - sempre secondo i reikisti - di demolire l’infezione o di far cicatrizzare la ferita in tempi brevissimi.
Non sono necessari altri accorgimenti da parte dell’operatore. Il reiki, come abbiamo detto, è una energia intelligente. Una volta incanalata nel corpo sa da sola dove andare a depositare i suoi benefici influssi. Il terapista ha soltanto la funzione di «canalizzare» l’energia. Per questo non servono studi, conoscenze o abilità particolari, come, ad esempio, per l’agopuntura. L’operatore apre solo il «rubinetto» dell’energia che poi scorre da sola. Con queste premesse, i reikisti spiegano facilmente anche eventuali insuccessi. Ad esempio: hai applicato il reiki ad un torcicollo e non ti è passato? Nessuna contraddizione. Probabilmente avevi uno squilibrio più pericoloso in qualche altra parte dell’organismo e il reiki è andato a riequilibrare quella parte del tuo corpo.
Capirete che, partendo da queste premesse, è difficile dimostrare scientificamente se il reiki abbia una qualche efficacia o no.

Dagli States con furore
Raccontato così, il reiki sembra una delle tante discipline orientaleggianti in stile new age che hanno trovato la loro fortuna in Occidente, stravolgendo quello che era il loro significato nelle terre del Sol Levante. Non è affatto così. Provate a chiedere a qualche vostro conoscente giapponese che cosa sia il reiki. Io ci ho provato con un mio amico docente universitario di Kyoto e l’ho visto sprofondarsi in un mare di scuse confessando la sua ignoranza in materia. Solo dopo molte domande serrate - cosa considerata altamente maleducata per i criteri orientali - sono riuscito a capire che quello che noi chiamiamo reiki in Giappone… non esiste! O meglio, esiste ma è una pratica ascetica seguita solo da alcuni monaci buddisti, come complemento di digiuni e meditazioni, finalizzata a guarire più lo spirito che il corpo. Basta anche fare una ricerca su Google per assicurarsi che, mentre in Europa e nell’America del nord di scuole reiki ce ne sono molte, in tutto il Giappone la disciplina del reiki è praticamente sconosciuta e le poche associazioni che usano questo termine sono prettamente religiose e senza finalità terapeutiche.
Per definire il reiki che viene proposto in Italia, il mio amico orientale ha usato l’efficace espressione «la solita americanata».
Già. Perché il reiki che viene praticato in Italia non viene dal Paese del Sol Levante ma dagli Usa.

21 sassolini per il reiki
Tutti gli studiosi sono concordi nel considerare il monaco Mikao Usui (1865 - 1926) il fondatore del reiki. Di lui, che non ha lasciato nulla di scritto, non si sa molto più di quanto racconta la sua leggenda. Avrebbe messo a punto il reiki come metodo di risveglio spirituale e di riequilibrio energetico, meditando sulle pendici del vulcano Fujiyama 21 giorni e 21 notti, seduto su 21 sassolini.
Fondò la sua scuola in età avanzata e morì quattro anni dopo. Sulla sua lapide c’è scritto che insegnò il reiki a duemila persone. Solo sedici di questi studenti raggiunsero il livello di “shinpiden”, che consente di “attivare” altri reikisti. Per Usui, questo era un traguardo molto importante, raggiungibile solo con lunghi digiuni e profonde meditazioni. Per il reiki occidentale, è semplicemente il terzo livello del corso completo.
Fu una donna di passaporto statunitense e di origine giapponese, Hawayo Takata (1900 - 1980), colei che portò il reiki in Occidente. La donna conobbe questa disciplina in un viaggio a Tokjio tramite Chujiro Hayashi, un medico omeopata che fu iniziato al reiki dallo stesso Usui. Nel 1941 Hawayo Takata divenne il terzo maestro Reiki nella successione di Usui, e si autonominò responsabile unica della salvaguardia e della corretta diffusione del metodo Usui.
Takata strutturò il percorso formativo del reikista in tre corsi, come è tutt’ora, e occidentalizzò la disciplina liberandola dalle pratiche monacali e dandole una forte valenza terapeutica. Scrisse nel suo diario: «Io credo che esista un Essere Supremo, l'Infinito Assoluto, una Forza Vitale che governa il mondo e l'universo, un Potere Spirituale invisibile dinanzi al quale tutti gli altri poteri appassiscono nella loro insignificanza. Questo potere è incomprensibile per l'uomo, inimmaginabile, non misurabile, è la Forza Universale della Vita, da cui ogni singolo essere riceve continue benedizioni. Io chiamerò questa energia Reiki»

Il reiki in Italia
Dagli States, il reiki è arrivato in Italia attorno ai primi anni ’90. Da allora, questa pratica terapeutica si è diffusa in tutto il Paese, ottenendo un innegabile e crescente successo. In Italia le scuole di reiki sono oramai parecchie decine e sono diffuse in tutta la penisola. Il reiki, abbiamo scritto, è per sua natura “democratico”. Chiunque abbia frequentato il terzo livello, e di conseguenza abbia il potere di “attivare” gli aspiranti reikisti, può fondare una sua scuola e impegnarsi in questo business. La tecnica è sempre la stessa, così come sempre gli stessi sono i tre livelli che ogni scuola offre al pubblico. Il primo livello consiste nell’attivazione dei canali energetici e consente di guarire i pazienti, e anche lo stesso operatore, ponendo le mani (vedremo più avanti con che tecnica) a contatto col corpo dei malati. Il secondo livello permette di trasmettere il reiki a distanza con la sola forza del pensiero. Il terzo livello, l’ultimo, dà il potere di attivare altri reikisti e quindi di organizzare corsi di tutti i livelli.
Ognuno di questi corsi dura un paio di pomeriggi. I tariffari si aggirano sui 300 euro per il primo, 500 per il secondo, mentre il terzo arriva anche a 10 mila euro.
La distanza dei reikisti da un approccio di tipo scientifico si osserva anche nel modo in cui affrontano la questione della medicina dei farmaci. Per esempio, il reiki è antitetico al vaccino, che causa secondo reikinet.it «migliaia di reazioni serie, incluse centinaia di morti e di menomazioni permanenti». Vaccinare un bambino, si legge nel sito www.reiki.it , è come chiedergli «di allenarsi per un incontro di pugilato o sottoporlo ad un addestramento militare». Le spiegazioni che vengono fornite per giustificare questa opera di disinformazione rinviano ancora una volta a simboli e teorie, mai ad una qualche evidenza: «Il sistema immunitario è collegato all’archetipo del Guerriero e ci permette di entrare in relazione con il mondo, con l’Altro-da-me e di difenderci dalle invasioni». In questo modo, si legge sempre nel sito, «un bambino sano nei primi anni di vita è in grado di rispondere in modo adeguato per limitare i danni provocati dalla gran parte degli agenti infettivi e, allo stesso tempo di produrre la cosiddetta memoria immunologica». r
Secondo i reikisti, i vaccini possono essere assorbiti da un adulto, ma se «il bambino è ancora molto piccolo, il suo sistema immunitario è ancora totalmente immaturo e cercare di proteggerlo precocemente (prima del reale contatto con i germi) si è dimostrata essere una delle principali cause di danno vaccinale». Le conclusioni sono queste: «più i nostri figli sono vaccinati e più stanno male». Tutto al contrario dei bambini cui viene insegnato il reiki, «il regalo più grande che possiamo fare loro». E la conclusione di questo articolo è che «Oggi si può aiutare efficacemente i propri bambini senza inquinarli troppo con le tossiche medicine. Tante sono le possibilità. Grandissimi risultati ha ottenuto l’omeopatia, la giusta alimentazione con utilizzo di alimenti “bio”, la naturopatia, ma più grandi risultati potrete ottenere se unirete a qualsiasi cura, di medicina tradizionale o alternativa, il reiki».

Le critiche al reiki
Navigando in rete, quello che più stupisce un osservatore dotato di spirito critico è la quasi assoluta mancanza di voci critiche nei confronti di questa disciplina.
Se provate a battere il termine Reiki sulla finestra di Google, le pagine più facilmente citate sono quelle di associazioni di reikisti che promettono corsi, guarigioni miracolose, seminari, risvegli spirituali ed energetici.
Per trovare un approccio critico bisogna conoscere l’inglese (o correre il rischio di affidarsi al disgraziatissimo traduttore di Google). Lo Skeptic’s dictionary da abracadabra agli zombi[2], in un articolo, per la verità piuttosto succinto, racconta la storia del reiki e della sua diffusione, senza comunque tentare una spiegazione del suo successo, e alla fine liquida la pratica terapeutica come uno dei tanti placebo al pari delle altre pratiche di pranoterapia. Anche se il reiki, come abbiamo detto, non è assimilabile alla pranoterapia.
Chi si è espresso criticamente verso il reiki è invece la Chiesa cattolica, anche se ovviamente non sulla base di evidenze scientifiche.
La Commissione per la Dottrina della Conferenza episcopale, con una direttiva datata 25 marzo 2009, scaricabile in italiano al link indicato in nota[3], ha dichiarato che questa pratica terapeutica è una manifestazione demoniaca ed è nemica della fede cristiana: «Per un cattolico credere nella terapia reiki presenta problemi insolubili».
Il che si spiega facilmente. Per la teologia cattolica, che non ammette panteismi, la sola forza positiva e guaritrice che pervade l’universo è quella che viene da Dio tramite lo Spirito santo. Una forza che solo i santi possono adoperare per effettuare le miracolose guarigioni di cui abbondano le agiografie. Ma il reiki, come abbiamo scritto, ha una natura più “democratica” e può essere incanalato anche da atei o peccatori incalliti. Il che comporta che, se non viene da Dio, questa forza ultraterrena altro non può venire che dal demonio. Con una semplice ricerca in rete, non faticherete a trovare confessioni di cattolici praticanti che esprimono tutto il loro pentimento per aver usato questa energia diabolica. Va sottolineato che i cattolici che hanno provato il reiki non dicono che non funzioni. Anzi, ne sostengono il potere terapeutico. Ma riconoscono che, non potendo provenire da Dio, deve essere opera del suo antagonista per eccellenza, il demonio.
In ambito scientifico, invece, non sono molti gli studi condotti sulla reale efficacia del reiki. Quelli che ci sono, però, la contestano. Una revisione sistematica di 205 studi potenzialmente rilevanti pubblicata nel 2007 non ha trovato alcun effetto della terapia reiki né sul recupero funzionale dopo patologie debilitative né per la riduzione di dolore, ansia e depressione nei pazienti[4]. Analoghe conclusioni sono venute da un’altra ricerca pubblicata per The Cochrane Collaboration da Janine Joyce e Peter Herbison del dipartimento di medicina sociale e preventiva dell’Università di Otago, Nuova Zelanda[5].
Un lavoro focalizzato proprio a determinare gli effetti del reiki nella riduzione dei sintomi di ansia e depressione in pazienti tra i 16 e i 55 anni. Le conclusioni sono riassunte in una riga: «Non c’è nessuna evidenza che il reiki abbia qualche efficacia per i pazienti».

La conclusione dell'articolo integrale può essere letta solo sulla rivista o sul sito di Query

Note
1) www.ilreiki.it
2) http://www.skepdic.com/
3) http://tinyurl.com/grpzk8y
4) Lee, M. S., Pittler, M. H., & Ernst, E. (2008). Effects of reiki in clinical practice: a systematic review of randomised clinical trials. International journal of clinical practice, 62(6), 947-954.
5) Joyce, J., & Herbison, G. P. (2015). Reiki for depression and anxiety. The Cochrane Library.

La mia esperienza col Reiki

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E proviamo anche noi!
Per cercare di capire di più di questa disciplina, non appena mi si è presentata l’occasione mi sono iscritto ad uno dei corsi reiki di primo livello che periodicamente si svolgono vicino alla mia città, Venezia, organizzato da una delle associazioni più attive nel territorio: la Riziki. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Riziki non è un termine giapponese, ma africano. «Una parola in Kiswahili, ‘la lingua della costa’ - si legge nel loro sito - che mette in comunicazione vari gruppi etnici dell’Africa dell’est: una sorta di Esperanto africano». Scopo dell’associazione, sempre dal loro sito internet, è di promuovere «un equilibrio, dal punto di vista personale, sociale ed ambientale». Per questa ragione, Riziki, oltre che ad organizzare corsi in Italia, opera per la diffusione del reiki soprattutto nei Paesi del Sud del mondo,[...]

L'articolo integrale può essere letto solo sulla rivista o sul sito di Query

Dieci Sì per Venezia

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Diciamocelo pure: con l’amministrazione Brugnaro, Venezia ha toccato il punto più basso della sua storia millenaria. Prima causa di quel degrado e di quell’insicurezza contro cui sbraita ogni santissimo giorno chiedendo, come “unica soluzione”, poteri da “sceriffo” - del tutto fuori misura per un sindaco -, multe, daspo, vigilantes armati ad ogni angolo e altre amenità da guerra civile, il nostro poco amato sindaco si è rivelato del tutto inadeguato a gestire i problemi di una città unica al mondo e che ha sempre vissuto sul filo sottilissimo di un perfetto equilibrio mare/terra/laguna. Un equilibrio che già da un pezzo è andato a farsi fottere. E così, proprio nel momento in cui servivano scelte coraggiose, magari, per certi versi, anche impopolari ma comunque capaci di disegnare un futuro a partire da un passato che sui nostri canali continua scorrere assieme l’acqua, ci siamo trovati il Gigio da Spinea a far da padrone di casa. Con tutto quello che ne è conseguito. Mediocrità amministrativa (un Comune non è una azienda, ma questo non lo ancora capito e non lo capirà mai). Completa incapacità di immaginare un progetto a lungo termine atto a gettare le basi di un domani sostenibile per questa nostra città che, dicono, sia la più bella del mondo ma che non per questi deve necessariamente prostituirsi al turismo più becero, ignorante e danaroso.
Non dimentichiamoci inoltre, il dichiarato asservimento ai poteri forti - “Costa può fare quello che vuole con me come sindaco” - di cui il nostro personaggio si è sempre fatto vanto e che è uno stato d’animo naturale in un “imprenditore” che si è fatto i soldi vendendo il lavoro degli altri. Ma la cosa che più salta agli occhi, in tutta la sua foga amministrativa volta a svendere tutto quello che è svendibile, dai quadri ai giardini storici, è che al Gigio da Spinea, di Venezia, non gliene è mai fregato niente. “Trasferitevi in terraferma che è meglio”, l’ho sentito dire a dei ragazzi che manifestavano contro le Grandi Navi. Lui, in riva ad un canale, non ci abita e non ci abiterebbe mai. Non è uno di quelli che gli capita di svegliarsi “con l'acqua alla gola, e un dolore a livello del mare”, come cantava Guccini. Per lui, Venezia è solo una merce come tante altre. Proprio come il lavoro, i diritti, i beni comuni e l’ambiente. Finché ce n’è, si vende e si compra. Come tutto a questo mondo. Solo questione di “schei” e, naturalmente, anche di ordine pubblico. Misura indispensabile a far funzionare la “macchina dei schei” secondo i dettami del moderno capitalismo predatorio. Più in là di così, il Gigio non arriva. Eccolo a chiudere i gabinetti pubblici e a sbraitare se qualche disgraziato la fa in canale, ed a minacciare i turisti in bici - “Li colpiremo duro!”, come fossero terroristi dell’Isis - senza pensare che se non organizzi un deposito a piazzale Roma, chi arriva a Venezia sulle “due ruote”, per forza di cose se la deve tirare dietro. Come se fosse questo il famoso “degrado” che sta ammazzando la città!

Di contro, c’è un Governo che di Venezia non ha mai capito niente. Un Governo che ci ha regalato solo Grandi Opere e commissariamenti. Un Governo che da oltre 4 anni sta derogando dall’assumere l’unica soluzione atta a difendere la laguna, o quel che ne resta, dallo stupro, continuo e doloroso, delle Grandi Navi. Un Governo che ha consentito all’Autorità Portuale di regalare concessioni senza gare d’appalto alle lobby crocieristiche e di avviare, di fatto, la privatizzazione del porto con la benedizione della Regione e di Veneto Sviluppo. Un Governo che, tra progetti assurdamente secretati o decisamente farlocchi, e nonostante i tanti moniti dell’Unesco e di altri organismi internazionali di tutela, ha sempre evitato di assumersi la responsabilità dell’unica scelta logica e sostenibile per la città. Che poi è solo questa, semplice semplice: le Grandi Navi debbono rimanersene fuori dalla laguna.

E per ribadire a tutti, dalle lobby finanziarie, al Comune ed al Governo, che Venezia non è ancora morta e che il suo cadavere non è ancora in vendita, movimenti, ambientalisti, spazi sociali e le tante, tantissime associazioni che esistono e ancora lottano per una città diversa hanno organizzato una grande mobilitazione.
L’appuntamento è per domenica 25 settembre, a partire dalle 15.30 in Riva delle Zattere. Sarà una grande giornata di festa e di lotta per urlare al mondo che Venezia è incompatibile con queste sorte di inquinanti Villaggi Vacanza galleggianti chiamati Grandi Navi. Non solo. La giornata sarà anche una importante occasione per fare politica come questa dovrebbe essere sempre fatta: discutere assieme e provare ad immaginare una idea diversa della nostra città.

Domenica 25 settembre, gli ambientalisti di Venezia faranno un passo in avanti. E, in fondo, avanti di un passo, il movimento ambientalista lo è sempre stato, giusto? Ricordate le nostre critiche al Mose? Inutile, devastante e funzionale solo a far lievitare i costi e dirottare vagonate di fondi pubblici dalla salvaguardia ad aziende in odor di mafia e politici corrotti? Adesso pure il Gazzettino si è accorto che avevamo ragione!
Il passo in avanti che i cittadini di Venezia faranno domenica sarà quello di trasformare il No di protesta in Dieci Sì.

Sì a una città con un turismo su misura
Sì a alle case per i residenti
Sì a un controllo per i cambi d’uso per immobili
Sì a controllo del traffico acqueo
Sì a all’artigianato veneziano
Sì a a una vita a Venezia
Sì a al controllo dell’inquinamento dell’aria e del moto ondoso
Sì a una città solidale
Sì alle Grandi Navi fuori dalla laguna

Come dite? Solo solo nove? Avete contato bene. Ne manca uno. L’ultimo Sì. Quello che viene dai nostri cuori. Sì a riempirci il cuore di un infinito e disperato amore per la nostra bellissima e violentata città.

Intanto, in attesa del 25 settembre, aderite alla campagna “Venezia che parla dai balconi!” e fate sventolare su calli, fondamente e canali, una bandiera che racconti a chi passa sotto le vostre finestre che Venezia è ancora viva e che è qui, e solo qui, che vogliamo immaginare il nostro futuro.


L’appello del comitato Laguna Bene Comune No Grandi Navi alla mobilitazione
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/grandi-navi-a-venezia-storia-e-presa-in-giro-infinita-o-prossima-vittoria-per-la-citta-per-lambiente-e-loccupazione/20306

La pagina Facebook del Comitato
https://www.facebook.com/comitatonograndinavi/?fref=nf

e della campagna “Venezia che parla dai balconi!”
https://www.facebook.com/events/170389006698307/

Città d’Europa protagoniste del cambiamento tra guerre e migrazioni

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In una Europa aperta ma composta da nazioni chiuse - ha spiegato Luciana Castellina - le contraddizioni si concentrano sulle città. Ed è da questi luoghi, sociali e politici, che dovrà partire il cambiamento. Ed è proprio sotto questa lente che la nascente Sinistra Italiana della nostra provincia ha scelto di aprire l’autunno politico veneziano con un dibattito sul tema “Dalle città all’Europa”, svoltosi ieri pomeriggio a Venezia, in una sala San Leonardo gremita di gente.
L’obiettivo dell’incontro è stato quello di “riprendere il mano il bandolo della matassa” dopo la pausa estiva - ha spiegato nella sua introduzione Mattia Orlando - per tessere da protagonisti “le trame di un futuro ancora incerto al quel arriviamo dopo un passato di conflittualità”. A far gli onori di casa, Anna Messinis, consigliere di circoscrizione di 2020Ve e e vice presidente della Municipalità di Venezia. Città che è uno dei punti focali del cambiamento cui accennavamo. Ma tutto in negativo. “Dopo un anno di giunta Brugnaro, possiamo affermare che Venezia è diventata un laboratorio di politiche populiste, tradendo la sua antica tradizione di città aperta e la sua ancora più antica e, allo stesso tempo, innovativa vocazione di città capace di tutelare il suo ambiente”. La democrazia ha lasciato il posto alla tecnica gestionale, ha spiegato la consigliera. Il welfare è stato abbandonato in nome del profitto privato e l’ambiente è letto solo come merce da vendere. “Il degrado di cui tanto si parla, nasce proprio da questa visione commerciale del mondo e della città. Le soluzioni che il sindaco propone, come quella di colpire il turismo ‘straccione’ a favore di quello ricco, è un rimedio peggiore del male. La strada dovrebbe essere, al contrario, quella di valorizzare le proposte dei tanti movimenti e dei tantissimi cittadini che si battono per una Venezia diversa e per una diversa economia: aiutare la residenzialità locale, l’artigianato e le altre attività non necessariamente legate al turismo, per ridare linfa vitale e dignità a chi vuole costruire in laguna il suo futuro”.


Dal grigione di una Venezia dall’incerto futuro, la giornalista Luciana Castellina spazia verso una lucida analisi del momento politico europeo. E comincia col dire che le elezioni non bastano più per garantire democrazia e, ancor meno, partecipazione. “Il primo danno fatto dal governo Renzi è stato quello di dichiarare la politica incompetente a dare risposte ai bisogni delle persone. In questo modo, il partito degli affari ha pressoché nullificato la democrazia. Ripartire sarà difficile perché è necessario ricostruire tutta la pratica democratica e non basterà mettere una croce su una scheda. La sinistra non deve più fare l’errore di adagiarsi solo sulle consultazioni elettorali ma diventare protagonista dei cambiamenti nel sociale. Dobbiamo costruire una nuova democrazia e la strada è quella di riscoprire e ridare dignità alla politica”.

Sulla stessa lunghezza d’onda Valentina Orazzini, responsabile per l’Europa di Fiom, che sottolinea l’importanza di riappropiarsi di fiducia e speranza. “Il problema non è solo quello di andare al governo. La Grecia insegna che non è sufficiente il potere politico per cambiare le politiche neoliberiste. Il nostro obiettivo è piuttosto quello di costruire una forte opposizione sociale e di mettere in rete i movimenti di opposizione per costruire dal basso il cambiamento”. Le fa eco Martina Carpani, Rete per la Conoscenza: “Più che interrogarsi sulle alleanze politiche e sugli andamenti dei flussi elettorali, la nascente sinistra dovrebbe chiedersi come vuole rappresentare e costruire il nuovo”.

A questo punto viene da chiedersi se la citata sinistra italiana sia finalmente pronta a slegarsi dal mito della “conquista del palazzo d’Inverno” e dei “diecimila anni” di felice socialismo che ne sarebbero derivati, magari per capire che il progresso sociale si costruisce giorno dopo giorno alzando sempre di più l’asticella del conflitto tra movimenti e un potere politico, o meglio ancora, economico, che per sua natura tende a “piramidizzarsi” verso l’alto, indipendentemente da chi siede nella stanza dei bottoni. La nascente Sinistra italiana, ad esempio, sarà l’ennesimo partito tradizionale o qualcosa di davvero nuovo? Non ha esitazioni, Nicola Fratoianni, deputato e promotore di SI. “Abbiamo tante cose difficili da fare. Il problema è come farle. Non ho dubbi che è necessario costruire un partito capace di raccogliere le opposizioni a questo sistema, mettere insieme idee e proposte e dare gambe a tutto ciò”.

"Ciao fossili" I cambiamenti climatici tra resilienza e futuro post carbon

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Si definisce un "transizionista", Luca Lombroso. Ritiene infatti, il nostro meteorologo di fiducia, che il "cambiamento verrà dal basso e dalle comunità resilienti in transizione post carbon". Ottimista sul futuro dell'umanità - più che per altro, perché essere pessimisti sarebbe troppo catastrofico e, forse, anche troppo facile - Luca Lombroso ha appena dato alle stampe il suo terzo e ultimo libro sul cambiamenti climatici: "Ciao fossili" edito da Artestampa, 17 euro ben spesi. Ultimo, sottolinea l'autore, non solo in senso temporale. "Mi auguro proprio di non dover scrivere più libri sui rischi dei cambiamenti climatici e che l'umanità cominci finalmente ad agire".
Il cambiamento dal basso che auspica Lombroso, riguarda semplicemente tutti e tutto. Niente e nessuno può chiamarsi fuori. Sarà una rivoluzione economica, tecnica, culturale ma anche etica e sociale. Soprattutto, sarà inevitabile. Ed è per questo che la prima parte del libro è una sorta di dizionario alfabetico per insegnarci a "convivere con la resilienza". Accanto ai capitoli che ti aspetti, come Bicicletta, Trivelle" e Biodiversità, troviamo Ogm ("Il problema del cibo - spiega Lombroso - non si risolve con gli Ogm. Anzi non si farebbe altro che rendere i piccoli produttori dipendenti dalle grandi compagnie abbassando la resilienza") e Sforzi Vanificati ("i politici per primi devono essere coerenti ed evitare che mentre vengono promossi iniziative di sostenibilità ... dall'altro si insista per costruire nuove autostrade, cercare petrolio e gas"). Con la categoria dei "politici", Luca Lombroso non ci va a nozze. E come dargli torto? Il politico più lungimirante lavora nell'arco del suo mandato. Cinque anni, forse dieci se riconfermato. Ma i tempi della terra non sono i tempi della politica. Per non parlare dei tempi dell'economia. Che non solo non sono i tempi della terra - né lo sono mai stai - ma nemmeno quelli dell'umanità. Dire "Ciao fossili", Lombroso lo spiega con coerenza ed efficacia, significa salutare per sempre una economia che ha mercificato ambiente, beni comuni e diritti. Significa lasciarci per sempre alle spalle una economia che ha trasformato in nostro futuro in uno sportello di bancomat.

Ma se la politica si rivela inadeguata, a chi spetta il compito di indicare all'umanità una nuova rotta attraverso il burrascoso mare della transizione? Racconta Luca Lombroso che, in seguito alla pubblicazione di Apocalypse Now? (che Luca venne a presentare proprio al laboratorio Morion, alla nostra scuola #ClimateChaos), le mail più intelligenti gli vennero spedite dai bambini. "Nelle giovani generazioni c'è una grande preoccupazione per il futuro e non comprendono l'immobilismo e il ritardo dei potenti, nonché l'insensibilità di tanti adulti". La speranza dell'umanità sta nella loro capacità di rispondere in maniera positiva agli eventi traumatici che, non c'è dubio alcuno, i cambiamenti climatici porteranno con sé, anche nella migliore delle prospettive possibili, e "nella capacità di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre senza perdere la propria umanità". In altre parole, nella resilienza.
Non è un caso che la seconda parte del libro sia tutta dedicata alla Cop 21 di Parigi, che Luca ha seguito dalla capitale francese, sottolineandone le manchevolezze e le ambiguità. Non fa mistero infatti, di preferirgli l'enciclica Laudato Si' di papa Francesco delle cui citazioni è infarcito il volume. Una lettura della Cop, quella di Lombroso, non del tutto negativa considerato che la Conferenza ha quantomeno sancito che le energie fossili sono dalla parte sbagliata della storia (quella che non ha futuro). Ma neppure totalmente positiva. Al massimo, l'accordo di Cop 21 può essere letto come una Costituzione ambientale. La prima Costituzione valida per tutta la terra perché del futuro della terra tratta. E, come tutte le costituzioni, ne sappiamo qualcosa in Italia come in Turchia, è fragile se non saranno i popoli a difenderla, inutile se non saranno i popoli a pretendere che venga applicata. Dall'altra parte ci sono i poteri forti della finanza, le multinazionali del fossile, politici inadeguati e senza coraggio, destre trasformiste che alzano muri di ignoranza per nascondere sotto le nebbie del nazionalismo e della xenofobia i veri problemi dell'umanità.
Loro non hanno futuro. Tocca a noi far sì che non rubino il nostro.

Dalle città ribelli per una Europa diversa

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Città ribelli per una Europa diversa. Spazi di democrazia dal basso da mettere in rete per costruire European Alternatives, visioni alternative di una Europa che non sia quella delle banche, delle privatizzazioni, dei tagli al sociale e dei diritti negati. Città come Barcellona e Napoli. Città che non hanno solo in comune il mare ma anche due sindaci capaci di ricordare che la disobbedienza ai diktat dell’alta finanza è sempre una virtù. Sindaci come Ada Colau e Luigi De Magistris, questo pomeriggio ospiti della municipalità di Marghera in un dibattito organizzato in piazza Sant’Antonio in collaborazione, per l’appunto, con European Alternatives. 
A far gli onori di casa, il presidente della municipalità, Gianfranco Bettin. “In un momento in cui i Comuni sono ridotti a semplici organi esecutori di una politica di tagli al welfare decisa in altre sedi, gli esempi di disobbedienza che stanno dando Barcellona e Napoli sono preziosi per farci capire che si può amministrare in maniera diversa. Ciò che non sta facendo il Comune di Venezia, purtroppo, che proprio nel primo atto della nuova Giunta ha tagliato i trasporti per i malati di Alzheimer e nel secondo ha eliminato il parco della laguna, già finanziato dalla comunità Europea. Ada Colau e Luigi De Magistris hanno dimostrato che si può amministrare una città non solo senza scatenare la guerra ai poveri, ma anche aprendo spazi di democrazia ai movimenti e alla cittadinanza attiva”. Tutto il contrario di Venezia, dove le stesse municipalità sono state rapinate da tutte le deleghe. 

Ad introdurre il dibattito, Lorenzo Marsili, fondatore di European Alternatives, che ha raccontato come l’idea di costruire una associazione costruire una rete politica per far comunicare movimenti ed esperienze di democrazia dal basso, gli sia venuta a Pechino “dove i litigi tra Francia e Germania sulle politiche comunitarie sembrano davvero poca cosa”. “Viviamo un momento di collasso sia nella politica che nell’economia - ha spiegato -. Da questo collasso ne può uscire una Europa dei diritti come un ritorno del fascismo. La crisi della democrazia apre nuovi scenari e anche nuovi spazi di protagonismo dei movimenti sociali, come dimostrano per l’appunto i casi di Barcellona e di Napoli”. 
Spazio quindi ai due ospito d’onore dell’incontro, intervistati da dal giornalista Giacomo Russo Spena, autore di “Ada Colau. La città in comune”, edizioni Alegre. 
“Come sia diventata sindaca di Barcellona è un mistero anche per me - ha spiegato in perfetto italiano l’alcalde Ada Colau -. Fino a poco tempo fa non ero interessata alla politica istituzionale e mi limitavo a lottare per il diritto alla casa e a combattere gli sfratti. Barcellona è sempre stata una città con forte tradizione di sinistra ma a governare erano sempre gli stessi. La crisi economica ha portato con sé una crisi della democrazia rappresentativa. Le istituzioni non davano più risposte ai bisogni dei cittadini su temi fondamentali come la casa, la sanità, il lavoro…  Abbiamo cominciato a far rete tra associazioni, cittadinanza attiva e movimenti. Alla fine abbiamo deciso di presentarci alle elezioni contro tutto e tutti e… abbiamo vinto. Alcuni non ci credono ancora. E anche io faccio fatica a pensare che sia potuto succedere ma adesso a Barcellona non si sfratta più nessuno e sul municipio sventola uno striscione con la scritta: benvenuti rifugiati”. 
Contro tutti e tutto, anche la vittoria di Luigi De Magistris, per il secondo anno consecutivo. “Gli exit poll non mi menzionavano neppure. Avevo contro la destra, la sinistra, i cinquestelle, per non parlare dei poteri forti e della mafia. Eppure abbiamo vinto. Ho trovato una città devastata dai debiti e dalle immondizie. Ho contribuito a cambiarla assieme ai cittadini napoletani investendo non sul capitale economico ma sul capitale umano, e ho vinto anche la seconda volta. Mi dicevano che dovevo chiudere le scuole per via della spending review. Neanche fosse una guerra o una epidemia. Ho disobbedito e ho assunto maestre e personale. Ora le scuole pubbliche ci sono e funzionano. Sono l’unico sindaco ad aver obbedito, e volentieri, al referendum sull’acqua trasformando una azienda privata in una azienda pubblica che oggi si chiama Abc, acqua bene comune. Ho internalizzato il patrimonio pubblico che era gestito solo da un imprenditore privato. Insomma, ho dimostrato che ‘pubblico’ funziona e che la disobbedienza è un valore civile quando si tratta di difendere il bene comune. Gli altri sindaci di fronte alle occupazioni di aree dismesse e degradata vanno da questore per chiedere lo sgombero, io vado dagli occupanti a ringraziarli per il lavoro svolto. Napoli oggi si è ripresa in mano il suo futuro. E non dite che è merito mio. Il merito è dei cittadini che hanno saputo ribellarsi”.

In viaggio con gli scettici: Ca’ Dario, la casa che uccide

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Gabriele d’Annunzio, nel suo romanzo autobiografico “Il fuoco”, pubblicato nel 1900, la descrive “inclinata come una cortigiana decrepita sotto la pompa dei suoi monili”. Il Vate d’Italia conosceva bene Ca’ Dario. La Casetta Rossa, che il principe Hohenlohe gli aveva messo a disposizione per suoi suoi soggiorni veneziani, sorge sull’altra sponda del Canal Grande e poteva vederla ogni volta che si affacciava dalla finestra. Più o meno dalla stessa prospettiva, la dipinse il pittore francese Claude Monet che sbarcò a Venezia nel 1908 alla ricerca di luci e colori. Il grande impressionista ne prese ispirazione per una celebre serie di quadri, tutti con lo stesso soggetto – la facciata di Ca’ Dario – ma sotto condizioni di luce sempre diverse. E anche a Monet, non sfuggì quella leggera inclinazione verso sinistra della facciata che contribuisce a donare alla Casa che Uccide, come viene chiamata a Venezia, un aspetto inquietante.

Il palazzo al civico 353 del sestiere di Dorsoduro con la sua eccentrica bellezza, non mancò di accendere anche la fantasia John Ruskin che nelle “Pietre di Venezia” ne descrisse lungamente e con la dovizia di particolari che contraddistingue la sua scrittura, le ricche decorazioni di marmi policromi che ornano la sua facciata.
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Dopo la celeberrima Ca’ D’Oro, Casa Dario, situata a fianco dell’incompiuto palazzo Venier dei Leoni, oggi sede della collezione Guggenheim, quasi all’altezza di piazza San Marco, è senza dubbio alcuno, uno degli edifici più eleganti e spettacolari che si specchiano sul Canal Grande.
Eppure c’è un “ma”. La casa sarebbe gravata da una antica maledizione che causerebbe a tutti i suoi proprietari e chi vi soggiorna la rovina economica e una morte violenta. Tutto cominciò nel 1479 quando il segretario del Senato e ambasciatore per la Serenissima Repubblica, Giovanni Dario (1414-1494), un ricco mercante di origini dalmate, commissionò un grande palazzo all’architetto Pietro Lombardo come dote per la figlia Marietta, promessa sposa al nobile Vincenzo Barbaro. Quello stesso anno Dario aveva ottenuto il titolo onorifico di Salvatore della Patria per aver negoziato un trattato di pace col sultano turco Mehmet II e l’unione con l’importante famiglia dogata dei Barbaro lo avrebbe reso un punto di riferimento della politica cittadina. Forse per questo l’uomo volle che nella facciata del palazzo comparisse la scritta “genius urbis Joannes Dario”. Frase traducibile come una dedica di Giovanni alla città di Venezia (“genius urbis”).
I sostenitori della maledizione non hanno perso l’occasione di giocare con gli anagrammi, ricavandone un “Sub ruina insidiosa genero”: genero sotto una insidiosa rovina. Che, con un po’ di fantasia, diventa: porto la rovina a coloro che vivono sotto di me.
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Il palazzo fu ultimato nel 1487. Il costruttore e primo proprietario Giovanni Dario non subì la maledizione della casa, considerato che si spense ricco e alla veneranda età di 80 anni. Più sfortunato fu, invece, il genero Vincenzo Barbaro, trovato morto in una calle, accoltellato da ignoti, probabilmente a causa dei debiti. La moglie Marietta morì nel 1505. La leggenda, costruita a posteriori, racconta che si sarebbe suicidata gettandosi nel Canal Grande a causa del tracollo finanziario. Altri commentatori, tutti moderni, parlano genericamente di “crepacuore”. In realtà non ci sono prove che la fine di Marietta avvenuta a 32 anni, sia stata violenta. Il Marin Sanudo nei suoi preziosissimi Diari, testimonia come la famiglia Barbaro non fosse affatto finita in miseria, considerato che riscuotevano ingenti affitti da molte proprietà.
La casa viene ereditata dai tre figli di Marietta: Gasparo (1496-1514), Giacomo (1501-1542) e Giovanni (1502-1582). Giovanni Barbaro porterà avanti la discendenza, ristabilirà le finanze familiari e si spegnerà ad 80 anni. Tocca al fratello Giacomo alimentare la leggenda della maledizione morendo per mano ignota nella lontana isola di Candia, l’odierna Creta. Ma la realtà è meno prosaica. Nel 1650 la Serenissima inviò una truppa di rinforzo alla città di Sittia assediata dai turchi; la spedizione cadde in un’ imboscata e, mentre i cavalleggeri riuscirono a rifugiarsi tra le mure della città, tutti i fanti vennero massacrati. Tra costoro figurava il provveditore Giacomo Barbaro.
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Tra il Seicento e la fine del Settecento le generazioni dei Barbaro si susseguirono in Ca’ Dario senza altri incidenti di rilievo. Per risentire parlare di maledizione, bisogna arrivare alla caduta della Serenissima, quando l’ultimo dei Barbaro, Alessandro, vendette il palazzo ad un commerciante armeno di pietre preziose, Arbit Abdoll. Anche in questo caso, la leggenda torna a parlare di bancarotta ma non abbiamo prove certe. In ogni caso, Ca’ Cario non uccise Abdoll e passò di mano in mano senza fare vittime: nel 1838 il palazzo fu venduto ad un celebre studioso inglese di storia italiana, Rawdon Brown (1803-1883) che solo quattro anni dopo l’acquisto, fu costretto a rimetterlo sul mercato, non avendo denaro per la costosissima manutenzione. Fu la volta poi di un nobile ungherese, un ricco mercante irlandese, sino alla contessa Isabelle Gontran de la Baume-Pluvinel che vi ospita per due anni il poeta Henri de Régnier.
La maledizione pare essersi assopita. Per vederla risvegliarsi, dobbiamo attendere il dopoguerra, quando la casa fu acquistata da Charles Briggs, un americano proprietario di miniere in Sudafrica, fuggito dagli Usa per una accusa di omosessualità. Per qualche anno, abiterà a Ca’ Dario con il suo amante, quando nel 1962 la magistratura italiana gli comunica che, pur non essendoci nel nostro Paese leggi contro l’omosessualità, risulta comunque un personaggio non gradito in Italia. Briggs è costretto a rimettere Ca’ Dario sul mercato. Fuggirà in Messico dove il suo amante si suiciderà. Per sei anni Ca’ Dario rimane senza un padrone, quando nel 1968, si fa avanti un altro nobile, anch’egli omosessuale, il conte Filippo Giordano delle Lanze. Ed è proprio il conte delle Lanze, esperto d’arte e antiquario, l’unico proprietario che andrà davvero incontro ad una morte violenta all’interno del palazzo: il 19 luglio del 1970, il conte 46enne viene trovato assassinato con la testa fracassata da un vassoio d’argento. Sarà condannato a 18 anni un giovane amante del conte, il marinaio jugoslavo Raoul Biasich. Mai scontati perché il marinaio è tutt’ora irreperibile.
Dopo la nobiltà, va in scena il rock. Il nuovo proprietario di Ca’ Dario è Kit Lambert, manager del celebre complesso degli Who. La leggenda racconta che anche questo impresario si suicidò dopo un fallimento. Nulla di più falso. Lambert morì il 7 aprile dell’81 per una emorragia cerebrale dopo una caduta dalle scale di casa causata, secondo alcuni giornali, dal troppo alcol. In ogni caso, si trovava a Londra e la sua residenza veneziana l’aveva già venduta tre anni prima. Nel ’78 infatti, la casa era stata acquistata dalla Nuova Bavaria Assicurazioni di proprietà di un discusso uomo d’affari di Mestre, Fabrizio Ferrari, e viene usata come esclusiva location per feste dai vip della finanza e della politica. La magistratura indaga su festini a base di droga e prostitute, ma la Casa non uccide nessuno e tutti godono ancora di ottima salute.
L’ultimo dramma sul palcoscenico di Ca’ Dario va in scena nell’85 quando la casa viene acquistata da Raul Gardini, l’uomo di Enimont, della Montedison e del Moro di Venezia. Otto anni dopo l’acquisto, il finanziere travolto da Mani Pulite, sarà trovato morto. Non a Ca’ Dario, ma nella sua casa milanese, lo storico palazzo Belgioioso, il 23 luglio del 1993. Gli inquirenti avvalorano la tesi del suicidio con un colpo di pistola in testa. Oggi Ca’ Dario è disabitata. La figlia di Gardini, Elisabetta, l’ha venduta nel 2006 ad una società americana che ha commissionato gli attuali restauri. Sulla destinazione finale dell’immobile, non ci sono notizie.
Il timore è che la storica magione dei Dario diventi l’ennesimo albergo. La vera maledizione di Venezia è solo questa.

Bibliografia
Libri
  • Fabrizio Falconi; I monumenti esoterici d’Italia, Newton Compton, Roma
  • Gianni Nosenghi; Il grande libro dei misteri di Venezia risolti e irrisolti, Newton Compton, Roma
  • Marcello Brusegan; Storia insolita di Venezia, Newton Compton, Roma
  • Alberto Toso Fei; Leggende veneziane e storie di fantasmi, Elzeviro, Treviso
  • Gabriele D’Annunzio; Il fuoco, Newton Compton, Roma
  • John Ruskin; Le pietre di Venezia, Rizzoli, Milano
  • Marin Sanudo; I diarii 
  • Giulio Lorenzetti; Venezia e il suo estuario, Lint, Trieste
  • Thomas Jonglez e Paola Zoffoli; Venezia insolita e segreta, Thomas Jonglez editore, Venezia
  • Damien Simonis; Venezia, EDT Edizioni, Torino.
Articoli
Siti

La laguna fa la festa alle Grandi Navi. Attivisti in acqua per impedire il transito

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Proprio come la Val di Susa. Magari con l’acqua al posto delle montagne, ma con la stessa identica voglia di resistere e di difendere la propria terra. Come i valsusini non mollano sulla Tav, così i veneziani hanno voluto ribadire ancora una volta che la laguna è un bene comune che non deve essere né mercificato né devastato. E proprio come in Val di Susa, la giornata di lotta è stata trasformata in un momento di festa popolare con musiche, canti e bandiere. Tutti in fondamenta alle Zattere, questo pomeriggio, per la Festa della Laguna davanti al canale della Giudecca trasformato in una autostrada per le Grandi Navi. Tutti a ribadire che quegli inquinanti villaggi turistici galleggianti sono incompatibili col delicato ecosistema lagunare. Tutti sostenere la ventina di sub - attivisti che anche quest’anno si sono gettati in acqua con maschera e pinne per impedire il passaggio di quei Mostri del mare. Guardia costiera, motoscafi della polizia e moto d’acqua non sono riusciti a fermare i nuotatori che, trincerandosi dietro tre grosse boe, sono riusciti a bloccare per tutto il pomeriggio il transito di tre grandi navi. Intanto, dalla riva, qualche centinaio di cittadini applaudiva e sventolava bandiere No Navi, mentre dal microfono si alternavano gli interventi degli ambientalisti che ricordavano perché queste speculazioni edilizie galleggianti sono incompatibili con la laguna di Venezia per via dell’enorme spostamento d’acqua che causa lo smottamento dei fondali e delle rive. Per non parlare dell’inquinamento da polveri sottili e ultra sottili che portano l’inquinamento di una autostrada a tre corsia all’interno dell’unica città al mondo senza auto.

Una situazione che non può più essere tollerata e alla quale la politica deve dare una risposta. E dovrà essere una risposta compatibile con l’ambiente e la tutela della salute dei veneziani. Soprattutto, dovrà essere una risposta partecipata e trasparente. Proprio quella che il Governo non vuole dare, considerando che proposte e alternative sono attualmente secretate ed è difficile seguirne anche l’iter procedurale. Il timore è che gli interessi dei grandi gruppi crocieristici e le acquisite rendite di posizione, pesino sulle scelte finali più della volontà di tutelare la città più bella del mondo.
Ed è proprio per ricordare a tutti che Venezia è la sua laguna, e difendere la laguna dalle Grandi Navi significa difendere la città, che le ragazze e i ragazzi degli spazi sociali, questo pomeriggio, non hanno esitato ad infilare le pinne e a tuffarsi, un’altra volta, in acqua. Proprio come in Val di Susa gli attivisti no Tav tagliano le reti dei cantieri.
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