In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

E' arrivata la siccità. Tra cambiamenti climatici e cattive gestioni, il futuro è arido

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Una lunga striscia di sabbia. Una volta lo chiamavamo fiume Adige. E la Piave, solo per restare in Veneto, non è ridotta molto meglio. In quanto al lago di Garda, uno dei bacini idrici più grandi d'Italia, siamo all'allarme rosso: il livello sta scendendo di due centimetri al giorno e attualmente è attestato sui 70 cm, contro i 128 o 130 dei tre anni precedenti.
Le altre regioni italiane non sono messe meglio. Solo nell'ultimo anno, in Sicilia, le riserve idriche sono scese del 15 per cento. In Emilia, le città di Parma e Piacenza hanno dichiarato lo stato d'emergenza. La Sardegna è alla disperazione. Rispetto alla stagione precedente, le precipitazioni sono state minori del 40 per cento e il rifornimento idrico per le coltivazioni hanno registrato punte del 90 per cento di deficit. Anche se la situazione migliorasse improvvisamente, saranno ben poche le coltivazioni dell'isola che riusciranno a sopravvivere.
E poi leggi che che il Food sustainability index - lo studio internazionale dell''Economist Intelligence Unit che mette in relazione risorse e sostenibilità - piazza l'Italia al sesto al mondo per quantità di acqua a disposizione!
Stavolta però, i cambiamenti climatici non c'entrano. O meglio, c'entrano a livello globale. L'eccezionale ondata di caldo ha colpito tutto il bacino Mediterraneo sino al nord Europa. Solo in Italia, è stata registrata una temperatura media di 1,9 gradi in più rispetto alla media stagionale. Fatto salvo per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nessuno mette più in dubbio che questi picchi siano imputabili alla nuova stagione climatica verso cui l'intero pianeta si sta avviando, oramai, senza possibilità di ritorno.


Ma perché allora abbiamo scritto che, nel caso dell'Italia, i cambiamenti climatici non c'entrano con la siccità? Perché l'Italia avrebbe tutti i mezzi per far fronte perlomeno a questa prima fase dei cambiamenti se avesse dei politici all'altezza di gestire le risorse a disposizione. Politici capaci di uscire dalla fase emergerziale per impostare una oculata politica di gestione del bene comune.
Ed invece è l'opposto: il tema dei cambiamenti che avrebbe bisogno di strategie più a lungo che a breve termine, è sottovalutato - per dirla in maniera gentile - dai nostri politici di Governo e anche di opposizione. Evidentemente, è un tema che, al contrario di quelli legati alla "sicurezza" e al "degrado", non porta facili consensi.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Siamo uno dei Paesi più ricchi d'acqua e sprechiamo al bellezza di 2,8 milioni di metri cubi di acqua potabile al giorno - più di un quarto del totale - convogliandola in acquedotti che sono delle autentici scolapasta. Anche gli acquedotti dell'antica Roma erano più funzionali degli attuali.
E non è tutto. Anche noi italiani, siamo spreconi. Colpa nostra certamente, ma anche di chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto una efficace informazione. Il nostro consumo pro capite è superiore al 25 per cento rispetto alla media europea.
E vanno pesati anche i consumi dovuti ad una agricoltura che ha fatto dello spreco, dell'insostenibilità e dei sussidi statali il suo punto forte. L'89 per cento delle nostre risorse idriche se ne vanno a coprire queste produzioni. E anche qua, siamo gli ultimi in Europa con un utilizzo di di oltre 2 mila e 200 litri per italiano all'anno. Come dire che se ogni giorno ciascuno di noi beve circa due litri d'acqua, ne consuma quasi 5 mila per l'alimentazione. Basterebbe solo adottare la dieta mediterranea - si legge nel Food sustainability index - privilegiando i prodotti di stagione prodotti da una agricoltura per quanto possibile sostenibile e non aggressiva verso l'ambiente, per abbassare a 2 mila litri al giorno il consumo pro capite e rientrare nei parametri europei.
Tutti discorsi che la politica di governo, impegnata a salvare banche e a costruire emergenze sui migranti, non vuole ascoltare. Preferisce dichiarare "Stati di emergenza" - come ha fatto il governatore del veneto, Luca Zaia - che hanno il solo obiettivo di mungere qualche milionata di euro allo Stato. Euro che che finiranno nelle tasche degli agricoltori in modo da che possano continuare a fare agricoltura proprio come la fanno adesso e che, di sicuro, non verranno utilizzati per mettere in efficenza il nostro disatrato sistema idrico. Senza contare che la cattiva gestione delle risorse idriche ha avuto come conseguenza in tante amministrazioni, il loro affidamento al privato. Cosa che, come era lecito aspettarsi, ha comportato solo un aggravio di spesa per i contribuenti ed un peggioramento della gestione complessiva della "merce" in termini di sprechi. Più ne viene adoperata, e più il privato guadagna.
Quello che non vogliono sapere, i nostri amministratori, è che gli studi della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Desertificazione, hanno inserito nelle zone a rischio anche l''Italia. Il 70 per dell'intera Sicilia, il 58 per cento della Puglia e del Molise e, in percentuali poco minori anche le altre regioni, rischiano di trasformarsi in un Sahara.
Se va avanti così, tra i futuri migranti climatici, che tra il 2008 e il 2015 sono stato oltre 200 milioni, presto ci saremo anche noi italiani.

"Sopravvivere a Sarajevo", voci dall'assedio a Sherwood 2017

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Il Washington Post l'aveva definita "una perfetta parodia di una guida turistica alla moda". Il formato era quello delle celebri Michelin, infatti, ed anche le informazioni che vi si trovavano erano quelle che ci si aspetta di trovare in una guida: come vivere in una città straniera. Ma nel caso in questione, la parola esatta sarebbe "sopravvivere". La città infatti è Sarajevo ai tempi dell'assedio (1992 - 1996). La "Survival Guide Sarajevo" nasceva all'interno della città martoriata da un collettivo di artisti e scrittori, Fama, per dare voce alle tante pratiche di resilienza messe in atto dai cittadini della città bosniaca. Le informazioni che trovate sulla guida non sono quindi "dove si beve la migliore birra di Monaco di Baviera" ma "come costruire una lampada ad olio con un bigodino di metallo e un batuffolo di cotone", oppure "come coltivare funghi nello scantinato che serve anche da rifugio dai bombardamenti", "come attraversare la strada senza farsi cecchinare" o, ancora più importante, "come far sorridere e distrarre un bambino mentre fuori sparano".



Voci preziose che  ti mettono in mano l'assurdità di una guerra meglio di tanti articoli di giornale. Voci che non scivolano mai in ragionamenti moral o politici ma che restituiscono la quotidianità di persone che lottano per non precipiare nella pazzia in un mondo che nella pazzia è precipitato. Venticinque anni dopo la fine dell'assedio, la guida è stata anche tradotta in italiano dall'editore bolognese Matteo Pioppi, fondatore della Bébel. Ho avuto il piacere di partecipare con lui all'incontro che si è svolto ieri sera sotto il tendone della libreria dello Sherwood Festival in cui abbiamo chiacchierato insieme sulla guerra nei Balvcani rileggendola sulle pagine di questo libro che ha intitolato "Sopravvivere a Sarajevo". Nel video che potete scorrere in fondo alla pagina, Matteo ci spiega perché, in un quadro politico in cui ci viene raccontato che tutto è merce e l'unica alternativa che abbiamo sia scegliere tra il nazionalismo e il neo liberismo, questa guida è più che mai attuale. Di più, indispensabile per riflettere su ciò che davvero è importante nella vita.

Referendum Grandi Navi. Non ha vinto solo il Si', ha vinto la democrazia

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Lasciamo parlare i numeri. Votanti: 18 mila 105, in una sola giornata di raccolta schede, dalle 9 di mattina alle 18 di sera. Favorevoli all'allontanamento delle Grandi Navi dalla laguna il 98,7 per cento, uno per cento i contrari, 0,3 schede annullate. Lasciamo parlare i numeri e abbiamo già detto tutto. Il resto sono tutti tentativi di sminuire una reale pratica di democrazia dal basso da parte di spaventati politici di palazzo. "Si sono votati tra di loro" ha detto qualcuno. "Hanno fatto votare anche i cani e i gatti" ha rilanciato qualcun altro. Ma chiunque si sia anche solo avvicinato ad uno dei 46 banchetti elettorali predisposti dal comitato No Grandi Navi sa bene che non è così. Le attiviste e gli attivisti ai seggi hanno sempre chiesto ai votanti un documento di identità valido. Tutti i nomi sono stati diligentemente registrati nei moduli predisposti con firma, mail (facoltativa), numero del documento e sono a disposizione di quanti vogliano verificare. Avessimo voluto copiare l'elenco telefonico di Venezia lo avremmo fatto spendendoci meno tempo, meno soldi e pure meno sbattimento dei cosidetti. Ed avremmo facilmente raggiunto cifre di "votanti" ancora più elevate. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Perché quei banchetti sono stati prima di tutto un presidio della città. Una dimostrazione -anche per noi stessi - che possiamo riprenderci un bene che ci è stato scippato. E' anche per questo, e non per qualche punto di percentuale in più di votanti, che abbiamo aperto la consultazione a studenti fuori sede, pendolari e anche a turisti. Perché il referendum è stato anche uno strumento per parlare e per ascoltare la città. Una città che è fatta anche di studenti fuori sede, pendolari e turisti. Come quei tanti francesi che si sono avvicinati al mio seggio, alle Fondamente Nuove, per chiedere come sia stato possibile che un luogo magico come "Venise" venisse brutalizzata da quel mostro chiamato Mose (i giornali francesi non sono mai stati raggiunti dalla lunga mano del Consorzio e hanno potuto scrivere la verità!), oppure come sia possile che il Governo continui a permettere a quei condomini galleggianti delle Grandi Navi di ammorbare la laguna.

Voci di una città
E non è neppure vero che "ci siamo votati tra di noi". A parte il fatto che saremmo stati comunque tanti, ai seggi si sono avvicinati a chiedere la scheda anche persone molto distanti dal nostro pensiero. Tanto per citare un episodio di colore, al mio seggio si è avvicinato un signore con un fazzoletto verde al collo. Io speravo che fosse verde… "green". E dopo il voto mi chiede sorridente se faremo dei banchetti anche per raccogliere firme contro lo Ius Soli! Le Grandi Navi però no. Sporcano, inquinano, devastano… quelle non le vuole nemmeno lui.
Sono tante e diverse le voci della città che abbiamo raccolto in questa domenica. Camilla: "Una signora esita prima di prendere la scheda e mi chiede chi siamo. Glielo spiego e rispiego ma lei non è convinta. Alla fine rompe gli indugi e di domanda: 'Ma non sarete mica di Casa Pound?'" No. Su questo punto può stare davvero tranquilla, signora". Riccardo: "Da noi sono venute tente persone che abitano a Santa Marta. Sono le più incazzate. Qualcuna fa anche discorsi che oscillano tra la destra e il populismo, ma poi racconta che non riescono a vedere la Tv per le emissioni radio delle Navi e che i panni stesi diventano neri se li lasciano un po' di più al sole. Pensa i polmoni…" Marco: "Una signora mi ha raccontato di essere veneziana per nascita ma che risiede a Milano dagli anni '70. E' tornata apposta per votare al nostro referendum. Sentiva di doverlo fare per la sua Venezia". Luciano: "Al Lido abbiamo fatto il botto. 1286 schede solo a Santa Maria Elisabetta. E' venuta anche una decina di persone a votare a favore delle Grandi Navi. Una signora attempata urlava che era una fan di Brugnaro, che lei ne vuole decine e decine di Grandi Navi in laguna perché portano 'schei'. Ha chiesto una scheda è ha votato No. Contenta lei…" Maddalena: "Si avvicina questo tipo lateralmente e mi chiede piano se può votare anche lui che ha fatto una crociera su una Grande Nave. Gli chiedo un documento e gli dò la sua scheda. 'Che spettacolo - mi fa - tutta Venezia dall'alto… indescrivibile! Poi la crociera, per me che non vado in discoteca e non gioco d'azzardo, è stata una noia mortale… ma quello spettacolo valeva tutto. Io le capisco le compagnie di crociera, sa? Ma no, non si può farle passare per la laguna. Non è giusto. Peccato però".
L'unico tentativo di innescare una provocazione lo abbiamo registrato a Santi Apostoli. Flavio: "Sono arrivati questi due che mi raccontano di essere ingegneri del Consorzio. Vogliono discutere sul Mose, tutti ne parlano male, dicono, ma nessuno di noi è mai stato arrestato, e non è vero che non funziona o che non serve… Io gli cito D'Alpaos ma quelli mi zittiscono subito alzando la voce. D'Alpaos è un cretino che spara solo idiozie, dicono, ma è chiaro che vogliono provocare. Si mettono davanti al banchetto ed impediscono alle gente di avvicinarsi per votare. Provo a non dargli corda, quelli vogliono una scheda e continuano a parlare. Alla fine votano No e se ne vanno".

Ma la domanda più frequente ai seggi è solo una: "servirà a qualcosa?" Anche le risposte sono sempre le stesse. Scontate. Chi smette di lottare ha già perso. Chi non molla alla fine qualcosa ottiene. Eppoi vuoi mettere la soddisfazione di rompere le scatole a certa gente?
Ma dietro la domanda c'è la crisi profonda di una politica che è scappata di mano non solo ai partiti ma anche alle amministrazioni, come quelle comunali, che dovevano essere le più vicine ai cittadini e che non contano più nulla anche nei rari casi - e non è certo quello di Venezia! - in cui cercano di mettersi di traverso ai grandi interessi economici.
Le persone che ieri sono venute ai nostri seggi a prendere la loro scheda, sia che abbiano votato per il Si che per il No, non chiedevano solo una soluzione al problema delle Grandi Navi. Chiedevano anche democrazia.

Referendum Grandi Navi. L’appello di EcoMagazine per il SI’

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Ci siamo. Oggi l’altra Venezia, quella che respira con la sua laguna, la Venezia che non ci sta a lasciarsi trasformare in un grande parco giochi per turisti, questa Venezia no logo, scende in calle e va a votare. Le attiviste e gli attivisti del comitato No Grandi Navi, dei centri sociali e delle associazioni ambientaliste hanno sistemato seggi in tutte i principali luoghi della città. Sarà impossibile per un veneziano, o anche per un visitatore diretto alla Biennale o alle spiagge, uscire di casa senza incocciarne uno. Un modo anche questo di riappropriarsi dei campi e delle fondamente della nostra città e di rispondere con i fatti a chi si lamenta del degrado scrivendo lettere ai giornali o postando foto di amorosi lucchetti serrati nelle ringhiere dei ponti sui social.
Perché, sia ben chiaro a tutti, che non andremo a votare solo per cacciare le Grandi Navi dalla laguna. Certo, quelle specie di condomini galleggianti, con i motori accesi anche all’ormeggio, sono una fabbrica di inquinamento come neanche un inceneritore riesce ad essere. Certo, il loro assurdo via vai per scarrozzare qualche turista idiota e dargli l’illusione di aver viaggiato per mare, ha il solo effetto di far guadagnare milioni alle compagnie crocieristiche e maciullare i fondali della laguna mettendo a rischio un equilibrio salvaguardato per secoli. Certo, il gigantismo ha fatto il suo tempo come le energie fossili che lo hanno nutrito. In qualunque direzioni questi villaggi vacanze low cost galleggianti girino la prua, il futuro della terra - sempre che la terra abbia un futuro - sta dall’altra parte.


Tutto questo è vero. Ma nel referendum che voteremo oggi, in quella scheda che ci chiede di decidere se le Grandi Navi debbano rimanere fuori o dentro la laguna, c’è molto di più. C’è la voglia inarrestabile di una città unica al mondo e dei suoi cittadini, lasciatemelo dire, anche loro unici al mondo, di riprendersi in mano il destino e cominciare a guardare al futuro come ad un orizzonte verso il quale dirigersi.
Di immaginare un domani possibile per la nostra città, di compiere quelle scelte a difesa della laguna che il Governo centrale, al pari di quello regionale, non ha mai saputo o voluto fare, limitandosi ad avallare passivamente gli interessi delle grandi compagnie che hanno mercificato, stuprato ed umiliato un bene prezioso, come la nostra incantevole laguna, che appartiene a tutti i veneziani come a tutti coloro che amano con sincerità la nostra città. E non è per caso che il referendum dia anche a loro il diritto di esprimersi col voto.
Perché, il vero degrado che affligge l’antica città dei Dogi non sono i lucchetti sui ponti (che ho trovato in tutte le città del mondo in cui sono stato) e neppure qualche turista sbalconato che si tuffa di testa in canal Grande (cosa che, magari non nel Canalasso ma in qualche canale secondario, facevano anche i nostri genitori). Il vero degrado di Venezia è stato lo scippo ai danni dei suoi cittadini della possibilità di decidere sulla loro città. E tutto in nome degli interessi del mercato. Perchè Venezia, come spiega sempre il nostro, ahimé, sindaco Brugnaro Luigi "xe schei". Il degrado invece, sono proprio questi "schei". Il degrado è il Mose e quel consorzio di banditi che ha corrotto, devastato ed inquinato la democrazia. Il degrado sono le barene artificiali e la trasformazione della laguna in un braccio di mare aperto. Degrado è non aversi saputo dotare di strumenti, come doveva essere il parco della laguna, atti a tutelare un ecosistema unico al mondo. Degrado è una giunta comunale che pensa di risolvere il problema del degrado licenziando gli operatori sociali e assumendo vigili palestrati e pistolettati come cowboy.
Le Grandi Navi, che nessuno a Venezia vuole ma che continuano ad andare su e giù nei nostri canali alla faccia nostra… anche questo è degrado.
Per questo domani andremo tutti a votare. Come in quella vecchia canzone che ascoltavo da ragazzino: per riprenderci in mano la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.

I Pfas versati in Veneto ammazzano. Lo svela una ricerca pubblicata sul European Journal of Public Health

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Di Pfas si muore. E si muore male. Ad affermarlo non sono più i "soliti" ambientalisti ma una ricerca pubblicata sull'ultimo numero dell'European Journal of Public Health. Rivista scientifica con tanto di peer review, vale a dire la procedura di valutazione applicata a tutte le pubblicazioni specialistiche da parte di esperti nel settore atta a verificare ed a garantire la validità di quanto pubblicato. La ricerca in questione, titolata "Drinking water contamination from perfluoroalkyl substances (Pfas): an ecological mortality study in the Veneto Region, Italy" (traducibile con "Contaminazione da acqua potabile da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas): uno studio ecologico di mortalità nella Regione Veneto, Italia") porta la firma di una equipe di scienziati coordinata dalla biologa Marina Mastrantonio dell'Enea. In fondo alla pagina, come allegato potete leggere una sua breve presentazione e l'integrale dell'intervista.
La ricerca ha messo a confronto i decessi avvenuti in Veneto nei Comuni dove le acque sono state contaminate dalle sostanze perfluoroalchiliche, Pfas, e quelli non interessati da questi inquinante, rivelando una innegabile presenza statistica nei primi di patologie come il tumore al rene e del seno, il diabete, le malattie cerebrovascolari, l'infarto miocardico, le malattie di Alzheimer e di Parkinson. Nonché un aumento della mortalità media di circa il venti per cento.


"Dal nostro studio - spiega la biologa - è emerso come nei comuni contaminati da Pfas ci siano degli eccessi statisticamente significativi della mortalità per alcune cause che non andrebbero sottovalutati in quanto la letteratura scientifica suggerisce un’associazione tra queste patologie ed esposizione a Pfas. In particolare è stato rilevato un aumento della mortalità generale negli uomini e nelle donne rispettivamente del 19% e 21%, del diabete (21% e 48%), malattie cerebrovascolari (34% e 29%) infarto (22% e 24%) e malattia di Alzheimer (33% e 35%). Nelle sole donne si osserva un aumento del 32% della mortalità per tumore del rene, del 11% del tumore della mammella e del 35% di Parkinson".
Le zone inquinate dalla lavorazione della Miteni, l'azienda che utilizzava i Pfas per produrre tessuti impermeabili, si estende per circa 200 chilometri quadrati e tocca 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo. Un bacino di circa 800 mila residenti potenzialmente vittime della contaminazione. Nell'immagine a fianco, le aree prese in considerazione dalla ricerca della dottoressa Mastrantonio e l'elenco dei Comuni nei quali è stato riscontrato una alta percentuale di decessi imputabili alle sopracitate patologie.
Da sottolineare come questa sia la prima indagine epidemiologica svolta in Italia su una popolazione la cui acqua sia stata contaminata da Pfas. Un inquinante che potremmo definire "emergente", come spiega la biologa dell'Enea. "Come è noto i PFAS sono un gruppo eterogeneo di composti chimici molto stabili e ampiamente utilizzati in diversi prodotti (pesticidi, rivestimenti in carta e cartone, detergenti, cere per pavimenti, vernici, schiume antincendio, oli idraulici, rivestimenti antiaderenti delle pentole (Teflon) trattamenti dei tessuti impermeabili e traspiranti (Goretex). Di conseguenza, i Pfas rappresentano una classe emergente di inquinanti ambientali, ubiquitari, altamente persistenti, rilevabili in tutte le matrici (acqua, aria, suolo) e soggetti a bioaccumulo lungo la catena alimentare. I più importanti studi sulla tossicità dei PFAS nell’uomo sono stati eseguiti a seguito dello sversamento di queste sostanze nel fiume Ohio, in Virginia. Una azienda della Dupont che produceva Teflon vi riversava i suoi reflui idrici e l’acqua del fiume era utilizzata a scopo potabile. A seguito di una class action intentata dalla popolazione interessata, la Dupont fu costretta a finanziare una ricerca indipendente sugli effetti sanitari dei PFAS".
La ricerca, in lingua inglese che potete scaricare in fondo alla pagina, conclude con un invito alla Regione Veneto di avviare "azioni immediate per evitare ulteriori esposizioni delle popolazioni a PFAS nell'acqua potabile".
Azioni che, al di là di qualche dichiarazione di intenti di effettuare screening sulla popolazione, stiamo ancora aspettando. La stessa ricerca in questione non ha avuto nessun riscontro da parte della nostra Regione.
Bisogna anche considerare che il problema non sta solo nel verificato aumento di decessi per patologie imputabili a queste sostanze perfluoroalchiliche. Questi inquinanti sono responsabili anche di malattie a bassa mortalità ma comunque pericolose e debilitanti. "Nelle popolazioni residenti in aree altamente contaminate e nei lavoratori esposti professionalmente - continua la biologa Marina Mastrantonio – sono state rilevate associazioni con ipertensione in gravidanza, aumenti dei livelli di acido urico, arteriosclerosi, ischemie cerebrali e cardiache, infarto miocardico acuto e diabete. Per quanto riguarda le patologie tumorali, incrementi del rischio sono stati evidenziati soprattutto nelle popolazioni professionalmente esposte per tumori del testicolo, rene, vescica, prostata, ovaio, mammella, fegato, pancreas, linfoma non Hodgkin, leucemie e mieloma multiplo".
E conclude: "Sulla base di tali evidenze e per un principio precauzionale non consiglierei agli abitanti delle aree interessate di bere acqua del rubinetto".

Venezia vs Grandi Navi. Domenica 18 giugno si vota Sì al Referendum

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Sarà una domencia importante per Venezia, quella del 18 giugno. Il comitato cittadino che lotta contro le Grandi Navi e il loro carico di inquinamento e di devastazione delle rive e dei fondali lagunari, ha indetto un referendum popolare autogestito. Il quesito è facile: "Vuoi che le Grandi navi da crociera restino fuori dalla laguna di Venezia e che non vengano effettuati nuovi scavi all'interno della laguna stessa?" La risposta che il comitato chiede alla cittadinanza è naturalmente Sì.
Stiamo parlando, ovviamente, di un referendum autoconvocato, considerato che i favorevoli alle Grandi Navi non hanno accettato di misurarsi nelle urne, ma che ha comunque un grande valore politico. Per la prima volta, i veneziano avranno la possibilità di contarsi e di dire la loro opinione su un problema, come quello delle Grandi Navi, sul quale non hanno mai avuto voce, considerando che fino ad oggi ad esprimersi sono stati solo ministeri, comitatoni vari e, last but not least, le compagnie di crociera che sono le vere padrone della laguna. Considerando che se ne sono bellamente infischiate di tutte le decisioni prese dalle autorità politiche. Anche i decreti che cercavano di contenere i danni all'ecosistema, come quello Clini Passera che il 2 marzo 2012 aveva vietato il transito anche alle stazze superiori alle 40 mila tonnellate, hanno avuto vita breve di fronte alle pressioni delle multinazionali del turismo. Quelle che Venezia la sfruttano solo e non lasciano un soldo in città.


Il referendum del 18 giugno sarà quindi una imperdibile occasione per riprendere voce sul governo della nostra città, per ribadire che la nostra salute è importante e non può essere compromessa dai fumi delle Grandi Navi che sparano inquinanti come due autostrade, per ricordare che Venezia è laguna e che la laguna non è un braccio di mare che può essere scavato a piacimento, solo per farci transitare queste specie di villaggi vacanze galleggianti che portano profitto ai soliti noti mercificando beni di tutti.
Già che ci siamo, il referendum sarà anche una opportunità di ricordare che i cambiamenti climatici si combattono localmente, invertendo la rotta di quel gigantismo consumista di cui le Grandi navi sono una bandiera. Donald Trump non è l'unico dinosauro fautore delle energie fossili al mondo. Cominciamo a combattere quelli che vorrebbero prosperare a casa nostra. Una Grande Nave produce più Co2 di una portaerei da guerra. Un motivo di più per andare a votare Sì al referendum. Perché se la terra avrà un futuro, questo sarà senza fossili. E senza Grandi Navi.

Clima - Ultimo tango a Parigi

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Non è il primo "pacco" targato Stelle&Strisce, questo di Trump, che arriva al pianeta Terra, pur se rischia di essere l'ultimo e il più pesante. E sempre in nome del principio "American First". Prima l'America. Come se l'America non facesse parte del pianeta Terra! Considerazione questa che ha fatto dire al regista Michael Moore che «il partito Repubblicano americano è la più grande organizzazione criminale su scala planetaria». 
Ricordiamoci che il percorso istituzionale per contrastare (ma sarebbe più corretto dire “contenere) i cambiamenti climatici, cominciato a Kyoto nel 2005, è partito senza l'appoggio degli Usa. Questo perché un altro repubblicano, l'allora presidente George Bush, aveva rifiutato di sottoscrivere l'accordo e, anzi, si era dimostrato particolarmente ostile ad ogni mediazione sostenendo che «lo stile di vita degli americani non può essere oggetto di trattativa». 
Altri tempi. Il negazionismo allora, era considerata dai più una teoria rispettabile pur se errata, nonostante tutti i libri e tutte le pubblicazioni a suo sostegno fossero opera di supposti "scienziati" al soldo diretto delle compagnie minerarie o di "giornalisti" che riempivano solo le pagine di diversi giornali. 


Altri tempi. Dieci anni dopo, a Parigi, nessuno ha potuto tirarsi indietro: Cop 21, in tutti i suoi limiti politici ed ambientali stessi, è stato sottoscritto da tutti i Paesi del mondo tranne la Siria (che ha altri problemi) e il Nicaragua (che comunque è già ad emissioni zero ed ha promesso di aderire a breve). Oggi, dire che i cambiamenti climatici non esistono ha la stessa valenza scientifica di affermare che la terra è piatta. Ci possono credere, o far finta di credere, al massimo personaggi tra il grottesco e il cialtronesco come Trump, per l'appunto, o il sindaco di Venezia che ha appena comunicato che il Comune aderirà alla giornata dell'ecologia, ma sottolineando che «non sarà una manifestazione contro l'amico Trump» e che «per contrastare l'inquinamento noi abbiamo già agito in tempi non sospetti con azioni concrete». Una considerazione che non può non lasciarci sgomenti.
Dopo il primo No a Kyoto, gli Usa piano piano sono rientrati nell'accordo, e, grazie all’impegno di Barack Obama, paladino del green capitalism, sono stati tra i promotori dell’accordo parigino del 2015. Stavolta però, non sarà così facile, perlomeno sino a che in sella rimarrà un dinosauro politico del calibro di Donald Trump. 
La sua uscita dagli accordi di Parigi era ampiamente nelle previsioni, giacché in campagna elettorale non aveva fatto che derubricare i cambiamenti del clima come di una "bufala messa in giro dai cinesi". 
Il Donald è un esempio vivente di quell'economia da rapina a mano armata che sottende ad un capitalismo fondato sullo sfruttamento feroce dei fossili ed è comprensibile che del parere della comunità scientifica non abbia alcuna cura. Così come del futuro del pianeta. 
Ma cosa accadrà ora alla Terra? Intanto va a farsi benedire l'obiettivo - già utopico! - di contenere l'impennata del riscaldamento globale sotto i 2 gradi celsius, considerato che gli Usa sono una delle principali cause di questo aumento. E parliamo solo di fonti dirette, di emissioni provenienti dal suolo nazionale, perché andrebbero, a mio parere, considerate anche le emissioni - che non sono affatto trascurabili - che gli Usa spargono nel pianeta con le loro missioni di "pace" ai quattro angoli del globo. La guerra sì; non è un caso che la Siria, da anni teatro di guerra tra i più importanti del globo, non abbia sottoscritto Cop21.
Una prima conseguenza dello svincolamento degli Usa, potrebbe essere una reazione a catena. Già Russia e Paesi arabi ci stanno stretti su Cop21 e non è un caso che siano stati proprio loro a spingere perché non fossero vincolanti. E questo era un limite dell'accordo che avevamo già sottolineato a suo tempo. 
Gli Usa, dando via libera allo sfruttamento indiscriminato delle risorse fossili, si aggiudicano un innegabile vantaggio, oggi negato agli altri Paesi le cui economie ancora puntano su questo mercato e la cui crescita è “frenata” dalla firma del trattato Cop21. 
Perché dovrebbero lasciare agli Stati Uniti un tale vantaggio in questa corsa? Certo. Stiamo parlando di una corsa che ha come traguardo finale un mondo dove l'umanità non può sopravvivere. Ma questo è il capitalismo, bellezza! 
Qualche considerazione invece fa fatta sulla politica americana. Non è un mistero che Trump sia inviso ad una buona parte del suo stesso partito. Non certo per una sciocchezzuola come quella di mettere a repentaglio il futuro del pianeta, ma perché temono che stia dirigendo il Paese dalla parte sbagliata del… capitalismo! Già. Perché c'è una economia, che qualcuno chiama green, che sta spingendo per farsi largo nella spire della finanza mondiale. 
Senza addentrarci su considerazioni etiche riguardo questa nuova finanza -  sempre ammesso che il capitalismo un'etica ce l'abbia, da qualche parte - facciamo notare come la decisione di Donald Trump abbia trovato una immediata e ferrea opposizione da parte delle tante e potenti aziende o multinazionali che si sono riconvertite al verde. 
Un solo esempio: la fondazione Rockefeller ha annunciato da qualche giorno che liquiderà tutte  le sua azioni nel settore dei combustibili fossili in nome della salvaguardia del pianeta. La notizia ha avuto una pesante ricaduta proprio nel momento in cui Trump annunciava l'affondamento di Cop21. Tanto che gli investitori di una compagnia trivellatrice come la ExxonMobil hanno spinto perché questa si impegnasse a rispettare i limiti parigini, indipendentemente dalle decisioni del presidente degli Stati Uniti. E così hanno fatto altre multinazionali, non solo quelle green. Google, Microsoft nel settore dell'informatica, Unilever nel campo dell'alimentazione e tante altre ancora hanno dichiarato che, Trump o no, i limiti di Parigi, loro li rispetteranno in ogni caso; così come stanno andando verso questa direzioni molti sindaci americani, tra cui Bill de Blasio a New York .
Secondo un dato diffuso dal Partito Verde Europeo, nel solo 2016 oltre 5 trilioni di dollari a livello globale sono stati sottratti ai fossili e reinvestiti in energia pulite. La Cina e l'Europa - a parte l'Italia dove il trend è contrario, considerato che trivelliamo i mari, abbattiamo uliveti per costruire oleodotti e continuiamo a voler realizzare Tav e autostrade - sono all'avanguardia nella costruzione di questa nuova economia. «La cosiddetta green financing - sostiene la co-presidente del Partito Verde Europeo, Monica Frassoni - conviene non solo eticamente, ma anche economicamente, poiché la società è ormai direzionata verso le rinnovabili, a causa del crollo dei profitti per le fonti possibili, alla riduzione del costo delle energie pulite, alla creazione di posti di lavoro green vis à vis la perdita di molti posti di lavoro nei settori estrattivi sporchi». 
La svolta di Trump va letta, quindi, come una contraddizione interna al capitalismo stesso, ma anche come una forzatura rispetto al ruolo che gli stessi USA ambiscono ad avere all’interno delle potenza del G7, in particolare sulle scelte che riguardano l’economia.  E poi - chissà? - magari in questo spietato tiro alla fune tra capitalismo fossile e capitalismo verde, potrebbe spezzarsi proprio la fune. Sempre che prima non si spezzi la Terra!

A Trento, va in scena OltrEconomia. L'economia delle pratiche dal basso che non ruba diritti e restituisce felicità

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C'è anche un altro festival dell'economia, a Trento. C'è un altro festival perché c'è anche un'altra economia nel mondo. Una economia che non va a braccetto con la finanza, che non indebita i Paesi più poveri e che non detta legge alla politica imponendo uno "sviluppo" - termine questo sempre da scrivere virgolettato come ci insegna Serge Latouche - oramai slegato da qualsiasi logica scientifica, oltre che sociale e umana. Oltre questa economia da banditi, c'è l'economia solidale, quella che ha sposato gli accordi di Parigi parecchi decenni prima che questi fossero scritti e che ha deciso che il futuro dell'umanità, se l'umanità avrà un futuro, sarà verde, sostenibile, democratico, dal basso e completamente svincolato dalla dittatura delle energie fossili. Questa è l'economia che ha saputo saltare il fosso scavato dal capitalismo e andare oltre una idea di economia diventata, in questa ultima fase della globalizzazione, ferocemente predatoria di diritti, di ambiente e di beni comuni.
OltrEconomia è infatti l'azzeccato nome che si è dato questo festival alternativo del quale anche EcoMagazine è partner.


E va da sé che se il primo festival conta un bel po' di sponsor danarosi, dalle banche alle fondazioni, e gode del patrocinio di istituzioni a tutti i livelli, e occupa i salotti buoni della città. Il secondo festival, gli sponsor danarosi non ha neppure provato a cercarseli. Le associazioni ambientaliste, i comitati cittadini e gli spazi sociali che hanno organizzato questa sua quarta edizione, hanno scelto ancora una volta di stare sotto il cielo aperto del parco Santa Chiara. Tanto per ribadire che l'economia che piace a loro non ha bisogno di palazzi e di lusso.
I giorni di svolgimento dei due festival, invece, saranno proprio gli stessi. Tutto si svolgerà in contemporanea. Si apre mercoledì 31 maggio e si chiude domenica 4 giugno.
Radicalmente diversi invece, saranno i temi di attualità trattati dai due festival. Soprattutto, radicalmente diverso sarà il modo di affrontare questi temi. "Le disuguaglianze aumentano, la massa dei poveri, dei migranti, dei precari si allarga senza confini. La ricchezza cresce a dismisura e si concentra sempre di più nelle mani di pochi. Il potere decisionale si polarizza in una 'non-immagine' i cui contorni sfumano, spesso, in acronimi senza forma - si legge nella presentazione di OltrEconomia - I consigli di amministrazione di un manipolo di multinazionali e centri finanziari sostengono e circondano di lobbies l’ascesa di classi dirigenti mondiali e locali, vecchie e nuove: così decidono il futuro del nostro pianeta e dei nostri territori. Il potere si accentra, difende, conserva, moltiplica gli interessi di parte e accresce il bene privato di pochi. E si attua nelle forme coercitive dell'economia, della finanza speculativa, delle privatizzazioni, del debito, delle politiche dell'austerity, del capitalismo vorace, delle guerre, dei fondamentalismi, della violenza di genere, del femminicidio, del patriarcato, della corruzione mafiosa, nel dissesto territoriale, della speculazione edilizia, dell’inquinamento, della distruzione ambientale".
Il programma completo di OltrEconomia 2017, quest'anno dedicato al tema Corpo e territori, lo potete trovare a questo link. Gli incontri saranno tutti trasmessi in diretta da Global Project. Oltre alle tavole rotonde, ci saranno stand di gastronomia, corsi di teatro, laboratori per grandi e per bambini, spettacoli per divertirsi e musiche per ballare. Già. Perché OltrEconomia, al contrario di quell'altro festival, è anche una festa, e chi abita a Trento o nelle vicinanze ci si reca anche per divertirsi, per mangiare bene e sano, per imparare, per discutere e per stare in bella compagnia.
Anche questa è una differenza non da poco tra le due opposte economie di cui abbiamo scritto. Quella che ha saputo andare Oltre una idea di "sviluppo" paragonabile ad una rapina a mano armata (perché altro non è l'economia finanziaria) è anche quella che rende donne e uomini più felici.
Ed è anche quella che ci piace di più.

Chi decide sul futuro del pianeta?

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Un G7 deludente sotto tutti gli aspetti, quello che si è consumato a Taormina. Deludente per gli accordi sulla lotta al terrorismo che non sono andati oltre ad una formale dichiarazione di intenti, E con un Donald Trump appena tornato da un tour in Arabia Saudita dove ha chiamato gli sceicchi sauditi, noti finanziatori dei movimenti integralisti islamici, "i migliori amici del mondo occidentale" indicando nell'Iran la "fonte di ogni male", non c'era da attendersi che a Taormina, la questione terrorismo fosse affrontata seriamente.
Deludente, il G7 di Taormina, lo è stato anche sul tema immigrazione, confermando "il diritto sovrano degli Stati di gestire i propri confini e di stabilire politiche nell'interesse della sicurezza nazionale", avallando, in pratica, quell'approccio securtario che si è ampiamente dimostrato fallimentare anche e soprattutto in tema di sicurezza. Da sottolineare l'uso del termine "nazionale" davanti a "sicurezza". Come dire: ogni "nazione" faccia quello che vuole. E buonanotte all'ipotesi di affrontare il problema come come dovrebbe essere affrontato: cioè nelle sue dinamiche globali.


Qualche risultato, le diplomazie europee lo hanno ottenuto solo sul tema del protezionismo, portando a casa un impegno - sia pure generico - a mantenere i mercati aperti. E sapendo come la pensa in merito un pazzoide del calibro del presidente degli Stati Uniti, è una cosa non da poco.
In compenso, un totale fallimento si è rivelato qualsiasi tentativo di far ragionare Mr. Trump sui cambiamenti climatici. Che tutte quelle menate sul clima che cambia fossero solo balle da campagna elettorale messe in giro dai democratici, il multimiliardario diventato presidente lo aveva sempre detto. I soldi poi, lo sanno tutti, si fanno solo inquinando. Concetto questo, che gli ha garantito l'elezione e l'appoggio delle maggiori industrie nordamericane, penalizzate dalle politiche green di Barack Obama.
Certo, la decisione finale sulla permanenza o meno della più grande potenza industriale mondiale nel club degli accordi di Parigi, non è ancora stata ufficialmente presa, ma vi sono pochi dubbi a riguardo. L'anima verde dell'amministrazione Trump - pensate un po' come siamo messi - è incarnata dalla figlia Ivanka. Niente di più che un gioco delle parti, naturalmente. Perché sull'inevitabile sganciamento degli Usa da Cop21 scommettono tutti i media statunitensi. Il tweet lanciato da Trump, "I will make my final decision on the Paris Accord next week!" (Prenderò la mia definitiva decisione sull'accordo di Parigi la prossima settimana) è già una pietra tombale. Se avesse capito la posta in gioco o se gliene fregasse qualcosa del problema del clima che cambia, non starebbe a pensarci su una settimana.
Gli scenari che si aprono a questo punto sono inquietanti. Se gli Usa se ne vanno, il club di Cop21 perderà la maggior fonte di investimenti che serviva a coprire le conversioni verso una economia sostenibile dei Paesi meno industrializzati. Secondo punto: la maggior potenza industriale del mondo, svincolata dai limiti di inquinamento posti da Obama, comincerà ad inquinare la terra senza limiti. Quella stessa terra dove camminiamo pure noi. E il clima che cambia non guarda frontiere o "nazioni". Terzo punto: cosa faranno l'Europa e le altre potenze mondiali? E' lecito attendersi che di fronte ad un produzione statunitense svincolata da ogni limite di emissioni di Co2, gli altri gruppi industriali si sentiranno penalizzati e premeranno per avere le stesse possibilità di "sviluppo" - termine da scrivere sempre con le virgolette - delle concorrenti a stelle e strisce. Insomma, senza gli Usa, quell'ultimo salvagente all'umanità che erano gli accordi di Parigi rischia di andarsene a fondo.
Perché di questo parliamo quando parliamo di cambiamenti climatici: della possibilità che ha l'umanità di continuare a vivere su questo pianeta.
E la domanda che bisogna porsi è: chi deve decidere sul futuro del mondo? E' giusto che spetti a quei sette personaggi interpretare i bisogni e le aspirazioni di tutta la razza umana? La questione è tutta qua e può essere rinchiusa in una sola parola: democrazia.
Chiediamoci: chi sono quei sette capi di Stato e chi rappresentano? I Paesi più industrializzati del mondo? E allora come mai non c'erano la Russia, l'India e, soprattutto, la Cina? Per il presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, i sette di Taormina sono i rappresentanti dei "Paesi che associano economia di mercato a democrazia". A parte il fatto che i due termini non possono essere associati per niente, il Gentiloni non l'ha detta giusta. Il vero comun denominatore di questi sette Paesi, è l'aspirazione alla continuazione di un sistema di governance globale ad ispirazione capitalista ed occidentale. E questo non è né giusto né ragionevole, considerando che il cambiamento climatico è una questione da affrontare solo globalmente. Insomma, il teatrino andato in scena a Taormina è tutto il contrario di quello che noi chiamiamo democrazia.
Certo, a parte Gentiloni (l'Italia elettoralmente fa sempre storia a sé), tutti gli altri leader sono stai "democraticamente" votati in regolari competizioni elettorali nei rispettivi Paesi. Anche Mussolini lo è stato. Basta questo a mettere chi vince al timone dei destini di tutto il mondo? I cambiamenti climatici non sono per nulla democratici. Tu puoi democraticamente eleggere un presidente che non ci crede ma il clima continuerà lo stesso a mutare. Se tutti gli scienziati affermano che se non spingiamo l'economia oltre della dittatura dei fossili, la temperatura aumenterà sino a mettere in pericolo la sopravvivenza dell'umanità, democrazia significa cercare tutti insieme una strada per ottenere il risultato di rallentare il cambiamento climatico. L'economia finanziaria non dovrebbe aver voce in questo processo. A Taormina, invece, è successo l'esatto contrario. L'esatto contrario di quello che per noi è democrazia.

Chiusura zapatista (una storia vera)
Me ne stavo a La Garrucha (Chiapas, Messico, America, pianeta Terra) stravaccato sull'amaca a ragionare con un "compa" della Giunta di Buon Governo. Il tipo mi racconta che era appena andato a San Cristobal ad ordinare un sistema di filtraggio dell'acqua per un paese là vicino. Ci avevano investito una bella cifra per il budget del municipio e lo avevano deciso di punto in bianco. La cosa mi stupì alquanto. Da quelle parti, "platicano", ciò discutono, su ogni problema per ore ed ore sino a che tutta la comunità è d'accordo. Noi diremmo: "ti prendono per sfinimento". E lo fanno anche su questioni assolutamente risibili come, che so?, la composizione del desayuno caliente, la colazione calda per i bambini che vanno a scuola (c'è pure una speciale commissione sul problema). Sul sistema di filtraggio che costava una sbarellata di pesos invece… nada! Gliene chiedo la ragione e quello mi guarda come si guarda un imbecille: "E che c'è da discutere sull'acqua? Si lavora perché sia potabile, sufficiente per tutti e… basta".

Sulle orme di chi non dimentica

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Tante scarpe appese ad un filo, tra le fronde degli alberi di Ca' Bembo liberata. Sotto, le stampe delle loro suole. Ciascuna con una frase, un pensiero, un ricordo, una speranza. Sono le orme di chi non vuole dimenticare suo padre, sua madre, suo figlio. Vittime innocenti di un crimine che ha come primo responsabile lo Stato. Sono i desaparecidos della frontiera del Messico. Gente scomparsa nel nulla. Venduti a peso di carne umana a latifondisti, narcotrafficanti, magnaccia. Fatti a pezzi per incrementare il mercato di organi, usati come capri espiatori nelle galere o cavie da laboratorio, schiavizzati in fabbriche illegali, prostituiti nei postriboli. Numeri secondi solo alla guerra in Siria. Più di 30, forse anche 40 mila scomparsi, secondo le recenti stime delle associazioni per i diritti umani. Perlomeno centomila ammazzati negli ultimi dieci anni. Da quando cioè, Stati Uniti e Messico dichiararono la cosiddetta "guerra al narcotraffico" che ha ottenuto il solo risultato - che poi è quello che si prefiggeva! - di consegnare il Paese centroamericano alle multinazionali della droga e creare una "pattumiera" sociale ed economica a ridosso degli States. Proprio come a ridosso delle nostre case ci sono i contenitori della differenziata. Perché, sia chiaro a tutti, che se le pistole che uccidono sono tenute dai narcos, ad armare queste pistole ed puntarle è lo Stato messicano. Partiti al governo ed opposizioni, polizia ed esercito sono spartiti tra i tanti cartelli mafiosi. E quando qualche narcotrafficante viene trovato accoppato per un regolamento di conti, non è raro scoprire che apparteneva all'esercito o alla polizia o che era stato addestrato in uno di quei campi dove gli specialisti della guerra statunitensi preparano le forze che dovrebbero combattere i trafficanti di narcotici.


Ecco perché Messico, fare domande è molto più rischioso che commettere un omicidio. Lo sanno bene tutti i colleghi giornalisti che ogni giorno rischiano la vita. E lo sapeva bene Javier Valdez Cárdenas, accoppato lunedì 15 maggio sotto il giornale che dirigeva. E' il settimo giornalista messicano ucciso quest'anno.

E lo sanno bene, che a far domande si rischia la pelle, anche i genitori degli scomparsi. Lo sa bene Ana Enamorado, madre di un ragazzo di 17 anni fatto sparire nel niente. Più volte minacciata di morte perché si ostina a percorre la strada che doveva aver percorso anche suo figlio, mostrando a tutti coloro che incontra la foto del suo ragazzo. E, ad ogni passo che compie, ad ogni orma che lascia, non può fare a meno di chiedersi se il suolo che calpesta non sia in realtà la tomba di suo figlio.

Le orme di chi continua a cercare sono state trasformate in una esposizione artistica - Huellas de la Memoria - che vuole essere, prima di tutto, un grido di dolore su quanto avviene alla frontiera del Messico, dallo scultore Alfredo Lopez Casanova. L'esposizione itinerante è esposta a Venezia, tutti i pomeriggi sino a domenica, nello splendido giardino di Ca' Bembo, in fondamenta del rio di San Trovaso, che gli studenti del Lisc, Liberi Saperi Condivisi, hanno recuperato e restituito alla città. A portare la mostra in laguna, sono stati gli attivisti dell'associazione Ya Basta Edi Bese.

Di seguito, l'intervista di Camilla Camilli a Ana Enamorado.



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