In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

D’Alpaos: “Scandali e arresti non sono serviti a nulla. La salvaguardia è tutt’ora ostaggio della politica delgi affari”

Pubblico della grandi occasioni, questo o pomeriggio in sala San Leonardo, Venezia, per Luigi d'Alpaos. Il noto ingegnere e docente emerito di idraulica dell'ateneo patavino, era l'ospite d'onore dell'incontro organizzato dal comitato No Grandi Navi sul tema "Sos Laguna". Iniziativa che ha aperto ufficialmente la mostra multimediale, liberamente visitabile nella sala, dedicata alla salvaguardia della laguna di Venezia e al difficile problema di conciliare salvaguardia dell'ecosistema e la portualità.
D'Alpaos, come sua consuetudine, ha tenuta desta la platea con grafici e tabelle, sostenendo con dati e rilevazioni sperimentali le sue tesi.
La sua prima considerazione è stata che troppo spesso vengono confuse e mescolate senza criterio tra aspetti diversi inerenti la gestione della nostra laguna: difesa dalle acque alte, salvaguardie e portualità. 

Ognuno di questi aspetti, spiega D'Alpaos, meritano una analisi specifica, in particolare in condizioni critiche come una eventuale chiusura delle bocche di porto. Problemi squisitamente scientifici ma che sono stati sempre messi in secondo piano dalla politica. O meglio, da una politica asservita al partito degli affari.
"Sono oramai trascorsi quattro anni dallo scandalo che ha coinvolto, tra gli altri, i vertici del Consorzio Venezia Nuova. Sono arrivati i commissari. Tre commissari. Sarebbe stato preferibile uno solo, in modo da avere un referente certo e una responsabilità certa, Ma ne hanno voluto tre. Ad ognuno di loro sono stati affiancati tre cosiddetti suggeritori. Cosa è cambiato? Possiamo dire oggi con assoluta certezza che i problemi della salvaguardia restano, oggi come nel passato, sempre nello sfondo. Qualche magari vengono anche ricordati in qualche intervista, ma sono comunque secondari".
In quanto alla decisione del Governo di eliminare la figura istituzionale del Magistrato alle Acque, commenta D'Alpaos, "è stata un grave errore. I governanti hanno confuso l'istituzione con il mal operato delle persone che tra l'altro, loro stessi avevano messo dentro. Invece di sopprimere l'istituzione, meglio sarebbe stato metterla in grado di difendersi da una occupazione militare da parte della politica. Oggi come ieri, continuano a dominare i portatori di interessi privati che sostengono obiettivi funzionali a questi loro interessi, senza mai chiedersi quali siano le ricadute sull'ecosistema lagunare".

In altre parole, come gli ambientalisti hanno più volte ribadito anche in tempi non sospetti, quello che è marcio in tutto l'affare della salvaguardia, dal Mose alle bonifiche, non erano solo le mele ma tutto l'albero. Scandali ed arresti non hanno cambiato nulla.
"Doveva arrivare un'epoca nuova, ci hanno detto, ma sono arrivati soli i commissari e gli aiutanti dei commissari. E' stata soltanto la solita operazione gattopardesca. Il ministro si è vantato di aver messo degli uomini di fiducia. Sarebbe stato meglio degli uomini competenti in materia considerato che, quello che dovevano fare questi commissari era gestire una questione tecnici e scientifica".
Commissari che, spiega D'Alpaos, mancano tra le altre cose anche di tempismo, considerato che parlano quando non dovrebbero parlare e tacciono quando dovrebbero farsi sentire. Il brillante ingegnere idraulico ricorda un paio di esempi: il ventilato scavo di nuovi canali e la proposta di una chiusura differenziata delle bocche di porto.

Sulla prima questione, basterebbe ricordare i disastri conseguenti allo scavo del canal dei Petroli per rendersi conto che le autostrade d'acqua non sono compatibili con la morfologia lagunare.
In quanto alla chiusura differenziata, D'Alpaos ricorda che l'idea era già stata proposta al Comitatone "quando ancora questa era una istituzione seria, la scienza aveva il suo peso e davvero si ragionava di salvaguardia. Non come ora che è al massimo un Comitatino". Ipotesi interessante per quanto riguarda la difesa dalle acque alte ma improponibile per il gioco di correnti che si creerebbe ed i conseguenti movimenti di sedimentazioni.
Luigi D'Alpaos ricorda anche i dati e le previsioni di innalzamento del livello del mare studiate dall'Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change, premi Nobel per le fisica. Anche nella migliore delle ipotesi, quella devastante assurdità chiamata Mose sarebbe fuori gioco.

Dati e tabelle alla mano, l'ingegnere idraulico si è divertito a calcolare le ore in cui, in un ipotetico anno 2010, le bocche di porto dovrebbero rimanere chiuse. Se consideriamo lo scenario più auspicabile disegnato dall'ilcc, quello del contenimento della temperatura sotto i due gradi, in una stagione appena un po' ventosa, le bocche di porto saranno chiuse per circa sei mesi, Se poi dovesse avverarsi lo scenario peggiore, le porte dovrebbero rimanere sempre chiuse. E addio laguna.

"In queste condizioni come si fa a parlare di mantenimento della portualità? Chi è quell'armatore che manda una sua nave in porto chiuso per sei mesi all'anno e in balia di un po' di scirocco? Non c'è nulla da fare. E' tutta la filosofia con cui è stata realizzato il Mose che è sbagliata. Salvaguardia dalle alta maree e portualità sono inconciliabili tra di loro. E tutti coloro che si battono per far entrare le Grandi Navi in Laguna, magari scavando altri canali, sono destinati a rimanere delusi. Resta il perché di un progetto realizzato così male. Va bene incapacità, ma credo che nessuno poteva ignorare questi dati. Mi sono fatto l'idea che sapessero tutto sin dall'inizio e abbiano solo cercato pretesti su pretesti per prepararsi a quella grande abbuffata che altro non è stato il Mose".

L'Italia sotto la neve. E sotto la neve, le Grandi Opere

La prima domanda da che viene in mente a chi ascolta un Tg o legge un giornale in questi giorni, è come sia possibile che basti una nevicata un po' più consistente del solito per mettere in ginocchio l'intero Paese. Non è neppure il caso di scomodate i Cambiamenti Climatici. Tanto per citare un argomento che, in quest'ultima campagna elettorale, tutti sembrano aver dimenticato pur se dovrebbe essere centrale nel programma di governo di ciascuna formazione politica. Ma queste ultime nevicate con i Cambiamenti Climatici hanno poco a che fare! Ci spiegano, i meteorologi, che ogni 5 o 6 anni, statisticamente, si abbatte sull'Italia un ciclo nevoso che sfora dalle medie stagionali e che si rivela particolarmente inteso se accompagnato dall'arrivo del freddo vento siberiano, il Buràn: Proprio come è accaduto quest'ultima settimana. Nessuna novità. Dieci anni fa il Buràn arrivò in ottobre - andate a ripescare i giornali di quei giorni! - e causò gli stessi identici disagio che viviamo ora: treni bloccati, scuole chiuse, traffico fermo e romantiche fotografie delle nostre città storiche ammantate da candide coltri di neve.
Chiedersi come mai in questo decennio non è migliorato niente è una domanda sbagliata. In realtà, le cose sono peggiorate. Soprattutto nelle grandi città, la romantica coltre di candida neve ha congelato tutte le attività umane. Roma è andata in tilt. Napoli pure. Milano sta passando i suoi guai. Anche Venezia è rimasta isolata, sia pure per colpa di un traliccio che il Buràn ha abbattuto proprio sul ponte della Libertà.

Colpa delle amministrazioni comunali, tutte tra l'altro, di diverso colore? Sì e no. Il problema è che gli enti locali sono sempre più poveri perché le "emergenze", vere o presunte tali, sono gestite dai poteri centrali. Già. Perché non c'è niente, in Italia, che meglio si presti a trasformarsi un una fonte di denaro e di potere politico come la gestione delle "emergenze". Fatto sta che i Comuni hanno sempre meno soldi da investire in operazioni di manutenzione quotidiana. Gli spazzaneve non spazzano più le strade, i tecnici non perdono più tempo a verificare la tenuta di sistemi di deflusso e lo stato dei piloni, e anche la posa del sale, che prima veniva sparso sulle strade al primo apparire della neve, oggi viene centellinato. A Venezia, che questa settimana è stata gratificata da una spettacolare nevicata, non è stato sparso come di consueto per calli e campielli. Meno costoso mettere un cartello con scritto "vietato salire" sui punti più rischiosi, come sull'oramai mitico ponte di Calatrava, su cui i ruzzoloni sono diventati oramai una barzelletta. E così, se qualcuno si azzarda a transitarci, cade e si fa male, sono affari suoi, che il Comune lo aveva avvertito. Invece di far causa al Sindaco, rischia una multa.

Un altro punto da sottolineare è quello delle ferrovie. Bastano due fiocchi di neve a paralizzarle. Eppure, che i treni possano viaggiare anche quando la neve cade fitta fitta e tutto gela, ce lo dimostra la Transiberiana. Perché solo in Italia i treni si fermano? Per lo stesso motivo per il quale il viaggiatore da "utente" si è trasformato in "cliente". Spostarsi per andare a scuola o al lavoro non è più un diritto ma un'occasione per far guadagnare le finanziarie che hanno investito nel settore. La Tav è un perfetto esempio di questa devianza. Il progetto non risponde ad una logica di utenza ma ad una logica finanziaria. In altre parole, e oramai lo ammettono anche le fonti governative, l'Alta Velocità non serve a migliorare o a rendere più accessibile la fruizione della tratta da parte dei viaggiatori ma a dirottare denaro pubblico, vagonate di denaro pubblico, ai soliti noti: politici corrotti, amministratori incompetenti, finanzieri truffaldini e aziende in odor di mafia. Sotto questa ottica, perché mai le Ferrovie dovrebbero spendere denaro o impegnare risorse tecniche per far marciare i treni dei pendolari anche sotto la neve? Il costo non vale il guadagno né le perdita.

E questa è l'ottica che sta alla base di tutto quel sistema degno di bancarottieri fraudolenti che altro non sono sono le Grandi Opere.

E' notizia di qualche ora fa che, sempre a causa del maltempo, in Toscana è stato attivato l'allarme per il rischio idrogeologico. Neanche questa è una novità. Che i fiumi straripino quando piove o nevica un po' più del normale accade tutti gli anni, in Italia. Una stima di Legambiente ha quantificato in un milione di euro per ogni giorno di emergenza, i disastri causati dalla mancata prevenzione del rischio idrogeologico. Senza contare i danni ai privati e la perdita di vite umane che non può essere quantificata in denaro. Eppure basterebbe investire 10 miliardi di euro in previsioni di spesa, spalmabili quindi negli anni a venire, per attivare un piano di intervento che metta in sicurezza i corsi d'acqua dell'intero Paese. Poco meno di quando ci è costato - fino ad oggi! - l'incompiuto Mose. Senza contare il centinaio di milioni all'anno che saranno necessari per la sua manutenzione, nel caso, tutt'altro che sicuro, che l'opera venga primo o poi conclusa.

Ma investire in prevenzione, messe in sicurezza e in piccoli interventi sparpagliati in tutto il territorio, dando lavoro a migliaia di persone, investendo nelle piccole imprese e delocalizzando le competenze alle amministrazione locali, non è appetibile ad un sistema finanziario che ha oramai esautorato la politica e decide sul futuro economico e anche sociale del Paese.

Sotto la neve, pane, sotto il cemento, fame, recita un detto. Ma in Italia, se scaviamo sotto la neve troviamo solo le grandi, devastanti ed inutili opere.

L'Eni pronta a trivellare l'Alaska


Abbattuti i vincoli di Obama, la multinazionale italiana è la prima azienda ad ottenere i permessi di ricerca petrolifera nel mare di Beaufort 

Di Donald Trump si può dire di tutto ma non che sia uno che non mantiene la promesse. "La nostra economia si è fatta grande grazie al petrolio - aveva dichiarato prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti - e al petrolio torneremo in grande stile!" Detto e fatto. Il presidente che ha chiuso le porte ai migranti provenienti dai Paesi Canaglia, ha spalancate quelle stesse porte ai petrolieri, da qualsiasi Paese provengano. Ed i più lesti ad entrare sono stati quelli nostrani, quelli dell'italianissima Eni che è diventata così la prima multinazionale autorizzata ad andar di trivella dove nessuno aveva mai trivellato prima: nelle incontaminate acque della baia di Prudhoe, nel mare di Beaufort che bagna le gelide sponde settentrionali dell'Alaska.

Proprio come aveva annunciato in campagna elettorale, il presidente tycoon ha lavorato sin dai suoi primi giorni alla Casa Bianca per affondare uno ad uno tutti i divieti sulle trivellazioni posti dal suo predecessore Barack Obama, che aveva tentato di dare una svolta green all'economia americana.
E se il petrolio è oramai ridotto agli sgocciolii anche negli ex ricchi giacimenti del Texas e delle terre artiche, ragione di più - suppone Trump - per incentivarne la ricerca, sostenendola anche con fondi statali, in luoghi dove fino a poco tempo fa l'attività non era neppure considerata conveniente, vuoi perché le condizioni climatiche rendevano l'estrazione proibitiva e poco remunerativa, o vuoi perché la particolare delicatezza dell'ecosistema comportava un inaccettabile rischio ecologico.
Caratteristiche queste che riscontriamo entrambe nell'Alaska. Uno degli ultimi paradisi (quasi) incontaminati della nostra terra e, allo stesso tempo, un ambiente difficile in cui operare. Tanto difficile che nel 2015, la Royal Dutch Shell che aveva un permesso di ricerca in quelle acque aveva preferito rinunciare all'incarico dopo l'insorgere di una serie di incidenti che solo per fortuna non si sono tramutati in disastri ambientali. Gli ambientalisti, all'epoca, avevano cantato vittoria sperando che con la rinuncia della Royal Dutch e con la svolta ambientalista di Barack Obama, fosse tramontato l'ultimo tentativo dell'uomo di trivellare l'artico.

Ed invece, c'è voluta l'elezione di Trump per scombinare tutto, tornare indietro di 20 anni ed aprire le porte ad una nuova esplorazione estrattiva in Alaska. A farsi avanti per prima, come abbiamo detto in apertura, è stata l'italianissima Eni: l'azienda creata da Enrico Mattei con lo scopo di dare una politica energetica al nostro Paese, e tramutatasi in seguito in una spa con il solo fine di far cassa per i suoi azionisti, attualmente guidata dalla presidente Emma Marcegaglia e dall'amministratore delegato Claudio Descalzi.

E' notizia di questi giorni che l'Eni, grazie alla svolta della nuova amministrazione presidenziale Usa, ha incassato anche il definitivo parere positivo del Bureau of Safety and Environmental Enforcement, dopo il contestatissimo da parte ambientalista nulla osta regalatogli lo scorso luglio dal Bureau of Ocean Energy Management. Per la multinazionale italiana si tratta di un doppio regalo natalizio targato Donald Trump. Non soltanto potrà estendere la ricerca petrolifera nella acque antistanti l'isola di artificiale di Spy, nella baia di Prudhoe, dove già possiede 18 pozzi in attività, ma potrà automaticamente contare sul rinnovo di questa concessione di estrazione. Concessione che, nei piani di Obama, avrebbe dovuto abbandonare per sempre.

"Concedendo a questa società straniera il permesso di trivellare il mare antistante l'Alaska, - ha dichiarato preoccupato Kristen Monsell, direttore dell'associazione Center for Biological Diversity che ha tentato di opporsi alle decisioni dei due Bureau - il presidente Trump sottopone il Paese e l'oceano ad un rischio ambientale gravissimo. Le condizioni in cui l'Eni deve operare sono tali da far temere alte probabilità di incidenti e di sversamenti che causerebbero danni irreparabili a tutto l'ecosistema costiero e anche a quello marino che, ricordiamolo, è fondamentale per l'equilibrio dell'intero pianeta".

Agli ambientalisti ha risposto Scott Angelle, presidente del Bureau of Safety, che ha citato il provvedimento America-First Offshore Energy Strategy firmato di pugno da Donald Trump: "Lo sviluppo di risorse responsabili nell’Artico è una componente essenziale per centrare l’obiettivo della dominanza energetica". E perché non si dica che l'amministrazione Trump non ha a cuore l'ambiente, ha promesso Angelle, "stiamo lavorando con gli autoctoni dell’Alaska e i nostri partner per un approccio bilanciato all’esplorazione di petrolio nell’Artico".

L'aspetto più ridicola di tutta questa triste faccenda - oltre al concetto trumpiano di "dominanza energetica" che vuol dire non aver intuito neppure alla lontana cosa stiamo rischiando tutti noi, passeggeri del pianeta Terra, con i cambiamenti climatici in atto - è proprio questo "approccio bilanciato". Per accontentare gli animalisti infatti, i permessi di esplorazione sono stati concessi solo per i mesi invernali, quando cioè le balene, le foche e gli orsi polari che per il resto dell'anno hanno l'abitudine di affollare la baia di Prudhoe, sono meno presenti! Metti caso che gli rovini il sonno…

E di tutto questo l'Eni che dice? Niente. Neppure un commento o una nota. Nel sito del Cane a Sei Zampe si continua a leggere di quante belle cose l'azienda mette in campo per lo "sviluppo sostenibile" in Ghana o per diffondere le energie rinnovabili in Angola. Parla di innovazione, di formazione e di lavoro per i giovani, discute in costosissimi convegni di "sicurezza, migrazione e lotta al terrorismo" (termini che, già accostandoli, non si fa un favore alla verità…), e progetta futuri "verdi" per porto Marghera. Cliccando qua e là troviamo anche un intero capitolo sui cambiamenti climatici e scopriamo che l'azienda "riconosce la loro evidenza scientifica" ed è "seriamente impegnata a contrastarli". C'è anche tutta una "strategy" per un futuro "low carbon" basato su uno studio di "governance & risk management" a sua volta basato su "cinque driver"… Ma sulle stazioni in Alaska nessuna notizia. Neppure un rigo. Neanche su foche, orsi e balene insonni.

Quel dialogo tra sordi chiamato Cop 23


Doveva essere una Cop dai contorni essenzialmente tecnici, questa che si è aperta a Bonn lunedì 6 e che si svolgerà sino a giovedì 16 novembre. Una Cop senza grandi novità né particolari aspettative. Perlomeno prima che arrivasse Donald Trump a scombinare tutto. Doveva essere un incontro lontano dai fari della politica e circoscritto in contorni decisamente organizzativi per dare modo ai delegati dei 196 Stati che avevano ratificato l'accordo di Parigi, cui si è recentemente aggiunta anche la Siria, di accordarsi su come continuare quel percorso già avviato in Francia, stabilendo nei dettagli i contributi da versare, gli obiettivi e le misure da adottare per ridurre la produzione di gas climalteranti. Lo scopo di questa Cop 23, in altre parole, era quello di dare un contenuto dettagliato e pratico a quel famoso - e generico! - obiettivo di "mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2 gradi centigradi, meglio di 1,5, in più rispetto ai livelli pre-industriali" con il quale si terra concluso la sessione parigina.
Obiettivo questo, che già all'epoca a molti commentatori avevano definito "utopico" ma che rappresentava, quantomeno per i movimenti ambientalisti, una base di partenza e di lotta per poter esercitare pressioni sui loro Governi, fedeli al motto "pensare globalmente, agire localmente". Governi, c'è da sottolineare, sempre restii a tradurre in leggi quanto pomposamente sottoscritto negli accordi internazionali a salvaguardia dell'ambiente. Citiamo solo il caso dell'Italia che, dopo aver ratificato Cop 21 che metteva i fossili dalla parte sbagliata delle storia, rinnova le concessioni alle multinazionali per le trivellazioni del mare.
Citiamo l'Italia perché è il Paese in cui viviamo, ma gli Usa, stavolta, hanno fatto decisamente peggio. Già in apertura dellla conferenza, i delegati a stelle e strisce hanno pubblicamente dichiarato che loro sono entrati in aula "solo per tutelare gli interessi dei cittadini americani" e nient'altro. Come se gli Stati Uniti non facessero parte del pianeta Terra!

Non è un segreto che Donald Trump ritenga i cambiamenti climatici una bufala da complottisti e che non abbia nessuna intenzione di trattare su quello che ritiene "l'attuale livello di agiatezza americano", basato sull'economia fossile. I recenti cataclismi che hanno devastato anche il sud degli States, non gli hanno fatto cambiare idea. Avvenimenti naturali contro i quali, a parer suo, si può solo pregare dio.

Sin dai primi giorni del suo mandato, Trump ha cominciato a smantellare quanto di buono aveva fatto Obama in tema di ambiente, tra gli applausi delle multinazionali dei fossili che hanno negli Stati Uniti e nel Canada le loro trincee più forti. L'obiettivo del miliardario diventato presidente è ora quello di svincolarsi dagli impegni di Cop21. Non lo potrà fare subito, perché bisogna rispettare l'iter procedurale stabilito dalle Nazioni Unite ma sin da questi primi giorni di incontri è apparso chiaro che la delegazione Usa non ha fatto altro che complicare o addirittura respingere qualsiasi tentativo di lavorare per una soluzione comune.

Atteggiamento questo, che ha irritato in particolare i francesi che, probabilmente, nel rigetto statunitense dell'accordo di Parigi leggono un affronto personale alla loro "grandeur". La delegazione francese, con questo che è stato definito un vero e proprio "strappo diplomatico", ha già fatto sapere che intende organizzare un summit subito dopo questo di Bonn senza invitare gli Usa. Il che non è una cattiva idea. E' molto probabile che proprio l'atteggiamento negativo dei delegati Usa impedirà all'assemblea di risolvere uno dei nodi centrali di Cop 23. Ovvero, quello dei finanziamenti necessari a "rinverdire" l'economia: i famosi 100 miliardi di dollari all'anno. Dollari che, di sicuro, non saranno gli Usa a sborsare, pur se il Paese nordamericano è tra i maggiori produttori mondiali di emissioni climalteranti. Bisognerà, dice la Francia, sedersi ad un nuovo tavolo e rifare i conti senza i cugini d'oltreoceano.

Cop 23 si presenta quindi come un fallimento annunciato. Un fallimento che oltre a tutto lascia aperte tre pericolose domande: è realizzabile l'obiettivo di contenere i cambiamenti climatici entro i 2 gradi senza gli Usa? è pensabile di finanziare questo obiettivo senza il contributo economico degli Usa? Terza e fondamentale questione: come reagiranno le altre potenze mondiali - dalla Cina ai Paesi Arabi, ma mettiamoci anche l'Europa- nel constatare che il Paese più ricco e maggiormente inquinante rifiuta qualsiasi vincolo internazionale e si prepara a giocare sul panorama dell'economia mondiale senza regole e senza limiti imposti?

Sono pochi coloro che ancora si ostinano a trovare risposte positive a questi quesiti.

Eppure, Cop 23 era nato all'insegna del dialogo, della "talanoa". Parola che nella lingua parlata alle isole Fiji, cui spetta la presidenza del vertice, significa "parlare con il cuore". Sarà invece un incontro con sordi che hanno scelto di tornare a 20 anni fa, quando ancora i Cambiamenti Climatici erano una teoria come tante altre.
Per dirla con le parole di Patricia Espinosa, presidente dell'Unfccc, Cop 23 doveva essere "il momento per passare dalla speranza all'azione". Rischia invece di passare alla storia come il vertice in cui la speranza di contenere l'aumento di temperature entro i due gradi è definitivamente morta.

L'alternanza scuola lavoro va in crociera! Anche le compagnie navali hanno diritto ai loro studenti da sfruttare, o no?


Si chiama "alternanza scuola lavoro" ed è l'ultimo inchino del Governo italiano ad una insostenibile economia che si nutre di disastri sociali e ambientali. Con la scusa di "imparare un mestiere" e di "abituarsi alla vita da adulti", ragazze e ragazzi delle scuole superiori vengono distolti dallo studio e spediti a fare i camerieri al Mac Donald o in qualche posto infame dove, anche una volta diplomati, non avranno nessuna possibilità di essere assunti. La cosa ci ha pure una sua logica. Questa economia da collasso planetario ha bisogno di manodopera gratuita per tirare avanti come noi dell'aria che respiriamo. E tanti saluti a tutto il resto, buono solo a fare tanti titoli di giornale come: "Quattro minorenni violentati durante lo stage", "Gravissimo l'incidente dello studente spezzino"… ma i giornalisti, si sa, esagerano sempre. Intanto, le imprese ringraziano che risparmiano non poco assumendo meno lavoratori con sempre meno garanzie sociali, sfruttando i giovani senza nessuna garanzia sociale.
Adesso, che un protocollo di intesa alternanza scuola lavoro venga stipulato tra il Miur, il ministero dell'Istruzione, e un museo allo scopo di tenere aperte le sale che dal Governo di soldi per la cultura non ne arrivano più (devono darli alle banche), fa comunque schifo. Che un protocollo di intesa alternanza scuola lavoro venga stipulato tra il Miur e una compagnia croceristica, e che per farsi sfruttare gratis gli studenti devono pure pagarsi la "crociera", è una cosa che fa venir voglia di prendere un mitra in mano anche a San Francesco.
Non ci credete? Leggete in allegato il protocollo che il ministero ha stipulato con il Grimaldi Group, compagnia che possiede 10 navi tra traghetti e passeggeri.

Lo scopo naturalmente è quello di "Rafforzare il rapporto tra scuola e mondo del lavoro, con particolare riferimento agli indirizzi specifici dell'Istruzione tecnica e professionale" tramite "la realizzazione di percorsi formativi a bordo delle navi Grimaldi". Certo, lavorare su una nave costa! Mica più andare a lavorare gratis! Per fortuna ci fanno lo sconto: "Per la permanenza a bordo delle navi, Grimaldi si impegna a ridurre al minimo i costi a carico degli studenti (vitto, alloggio e assicurazione) assorbendo interamente i costi del personale preposto alla formazione".
E poi ci sono pure i premi finali: "Individuazione degli studenti meritevoli del I ciclo a cui sarà conferita la nomina di Ambasciatore dell'alternanza scuola/lavoro nell'ambito del progetto Grimaldi Educa". Un progetto, come è lecito aspettarsi, più green di così non si può e che mira a "promuovere le visite guidate e i viaggi d'istruzione con il mezzo navale, al fine di perseguire obiettivi di sicurezza, economicità e salvaguardia dell'ambiente". Proprio così. Avete letto bene. Salvaguardia dell'ambiente. E tu vallo a spiegare a San Francesco che si sta caricando il mitra, adesso!

Venezia in festa, Grandi Navi ferme in porto

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Alla fine le hanno fermate. Le Grandi Navi se ne sono rimaste ormeggiate alle banchine del porto e hanno evitato di transitare lungo il canale della Giudecca, risparmiandosi così¬ un altro "scontro navale". Il comitato aveva schierato in acqua una flottiglia di circa una trentina di imbarcazioni tre remi e motore, pronto a dare battaglia corsara. Cosa forse ancora più importante, i dirigenti delle compagnie di crociera hanno preferito risparmiare ai turisti a bordo lo sberleffo del migliaio di cittadini sulle rive delle Zattere, pronti a "salutare" con sfottò vari e gesti poco educati la loro presenza non gradita.
Gli altoparlanti della Msc Musica - 92 mila 409 tonnellate di stazza lorda -, della Norwegian Star - 91 mila e 740 - e delle loro sorelle minori hanno avvisato i passeggeri che potevano ritirare le valige a causa del ritardo accumulato. Solo a sera inoltrata, quando il comitato ha dichiarato conclusa la manifestazione, le Grandi Navi sono potute uscire dal porto e prendere il mare. Per questa volta, i turisti a bordo non hanno potuto godere dello spettacolo della città  dei Dogi vista dall'alto. Che poi è uno dei principali motivi per cui pagano il prezzo del biglietto.
"Ci siamo ripresi la città  - ha spiegato Tommaso Cacciari -. Hanno avuto vergogna a far vedere cosa pensano i veneziani di questo turismo che mercifica e svilisce tutta Venezia".
Finale di manifestazione con un attacco "pirata" alla marittima, con le imbarcazioni che si sono avvicinate al molo per gridare "fuori le navi dalla laguna". Anche per informare i passeggeri del perché del ritardo (mica glielo spiegano gli altoparlanti delle navi che Venezia non li vuole¦)
Sul palco, tanta musica con Cisco, i 99 Posse, il divertentissimo e tutto veneziano! - Coro delle Lamentele e altri.
Tanta voglia di divertirsi e di fare festa, anzi, di fare la festa alle Grandi Navi, anche in fondamenta, dove la pioggia e la giornata da "climate change" (ma chi se lo ricorda un settembre così?) non ha fermato la voglia degli attivisti di lottare per un mondo dove la priorità  sia la tutela dell'ambiente e non gli interessi delle finanziarie.
Un mondo tutto da costruire. Passo dopo passo, lotta dopo lotta. Con la consapevolezza, maturata anche in queste giornate di discussione con tanti comitati e associazioni da tutta Europa, che il nemico è uno solo, sia che si chiami Pfas, Muos, Tap, Tav o Stuttgart o qualche altra grande opera, costosa, inutile e devastante.

Voci dal Sale. Democrazia e giustizia climatica per dare un futuro alle terra

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Tante voci, tante narrazioni, tanti vicende di lotta e resistenza, quelle che sono riecheggiate ieri pomeriggio negli antichi magazzini del Sale della Serenissima, nella prima delle due giornate dedicate alla Giustizia Climatica, organizzata dal comitato Contro le Grandi Navi di Venezia. Tante voci ma una sola storia comune. Quella di chi difende la democrazia dal capitale, l'ambiente dalla mercificazione, i diritti dal sopruso. In altre parole, di chi difende la vita dalla morte, di chi apre strade perché l'umanità abbia un futuro in questo pianeta e chi le chiude.
Già, perché i cambiamenti climatici sono una realtà che nessuno oramai si ostina a negare. Neppure quei pochi potenti che, niente affatto disinteressatamente, affermano di non crederci. La "benzina" degli uragani che hanno investito i Caraibi e il sud degli Stati Uniti non è altro che l'aumento di vapore acqueo nell'atmosfera dovuta alla presenza sempre più massiccia di sostanze climalteranti.
Quelle sostanze di cui, per il 3% almeno, sono responsabili le Grandi Navi. Una percentuale addirittura rimasta fuori dagli accordi di Parigi perché queste navi solcano mari internazionali. Mari di nessuno, mari da inquinare a piacimento, mari dove non vi sono leggi, secondo la logica del capitale. Mari che sono un patrimonio comune, secondo gli ambientalisti, da difendere e conservare perché le generazioni abbiamo un futuro.

Ed è qui che si gioca la partita che ha in palio il futuro dell'umanità, sotto attacco da una economia che dopo aver divorato in pochi decenni quasi tutte le energie fossili che si erano formate in ere geologiche, pretende di infilare nel tritacarne del consumismo ambiente, diritti e dignità. Proprio in questa ottica - vita contro la morte - gli amici napoletani che si battono contro le discariche nella loro terra, hanno coniato l'efficace termine di Stop Biocidio. Basta uccidere la vita. Perché, in Campania, di discarica si muore. Interi territori sono stati occupati e colonizzati dalle mafie dello smaltimento dei rifiuti tossici. Zone senza legge, dove lo Stato è assente. Dove malavita organizzata, capitalismo e politica corrotta hanno stretto un patto sulla pelle dei cittadini che ricorda per molti versi la situazione in cui sono precipitati tanti Paesi sudamericani. E capita che chi non ce la fa più, fugga all'estero. Proprio come quelle famiglie che, più per disperazione che per umorismo partenopeo, hanno chiesto asilo politico alla Svizzera. Anche l'Italia ha i suoi migranti climatici!

L'uso indiscriminato e senza legge del suolo per il deposito di sostanze tossiche nel napoletano, ha un equivalente nel Veneto. Quando prende voce in assemblea, tocca al collettivo resistenze ambientali raccontare dell'inquinamento da Pfas che ha avvelenato le falde acquifere di un bacino di utenti di circa 800 mila persone. Senza nessun controllo da parte di chi doveva controllare, nonostante le denunce degli ambientalisti e della gente che si ammalava e moriva, l'azienda Miteni di Trissino, specializzata nell'impermeabilizzazione di tessuti, ha avvelenato oltre 200 chilometri quadrati appartenenti a ben 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo.

Ma sono anche racconti di resistenza, quelli che si sentono nel Sale. Resistenza da parte di politici onesti come i sindaci della Valsusa che raccontano lo scempio che la Tav sta facendo delle loro valli e della loro impotenza a porvi freno, pur essendo i rappresentanti, democraticamente eletti, dei loro concittadini. Resistenza e disobbedienza civile degli oltre 40 mila (quarantamila, avete letto bene!) bretoni che si sono messi di traverso per bloccare la realizzazione di un aeroporto inutile e devastante come quello di Notre Dame des Landes. Nonostante il Governo avesse deciso che non sarebbero stati realizzati più aeroporti in Francia, in quanto il territorio del paese era sufficientemente coperto dalla rete aerea, le multinazionali edili hanno fatto pressione sino a che quello stesso Governo dovette decidere che "prima però bisogna fare l'ultimo". Prevedendo una reazione dei cittadini, la polizia ha organizzato una grande operazione antisommossa e l'ha chiamata "operazione Cesare". Brutto nome nella terra di Asterix! Infatti, la contromobilitazione popolare, dedicata infatti, al noto gallo bevitore di pozione magica, ha portato in campo per ben tre volte 40 mila cittadini che hanno impedito la realizzazione dei cantieri. Anche senza bevanda magica!

Tante voci, dicevamo in apertura, ma una unica storia, se, invece del dito che indica, si guarda la luna. Per questo l'assemblea svoltasi ieri al sale è stata importante. Per avere un obiettivo comune, è indispensabile avere anche un linguaggio comune. "Ho sentito tanti racconti oggi - ha sintetizzato in chiusura dell'assemblea Tommaso Cacciari -. Racconti che parlavano delle lotte che si stanno portando avanti in Germania, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia, delle battaglie nel Salento, e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. E ancora Lisbona, Barcellona, Napoli, la Valsusa, le Marche… e mi sembrava che stessero parlando di Venezia. Perché la battaglia è solo una e racchiude in sé tutte le nostre battaglie per la difesa della democrazia dal basso, dei diritti dei migranti, della tutela della salute e del territorio: quella per la giustizia climatica, quella contro il neo liberismo, per una società più giusta e aperta. La battaglia per dare un futuro all'umanità".

E alla fine… festa in fondamenta con un banchetto degno di quelli di Asterix! Proprio come si faceva una volta a Venezia, quando non c’erano le Grandi Navi e la laguna apparteneva ai veneziani e non alle Compagnie di Crociera!

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Pfas: il pericolo è reale. Lo ammette anche la Regione Veneto. Con almeno 4 anni di ritardo!

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Ci sono voluti quattro di proteste e di denuncia degli ambientalisti. Ci sono voluti decine e decine di studi scientifici che dimostravano l'alto rischio per i residenti dovuto alla presenza dei Pfas nell'acqua potabile, prima di far muovere la Regione Veneto, più attenta a promuovere un insulso referendum consultivo a suon di milioni di euro (14 per l'esattezza) che alla salute dei cittadini. Per tacer della tutela dell'ambiente.
Da decenni, tonnellate di sostanze perfluoro-alchiliche, i cosiddetti Pfas, utilizzate per produrre tessuti impermeabili, sono stati versati nelle falde della nostra Regione da aziende come la Miteni di Trissino, nel vicentino, contaminando un area che si estende per circa 200 chilometri quadrati e tocca 4 province venete; Vicenza in particolare, ma anche Verona, Padova e Rovigo. Un bacino di circa 800 mila residenti vittime della contaminazione!
"Che i Pfas fossero pericolosi per la salute lo si sapeva da tempo - ha commentato la portavoce nazionale dei Verdi, Luana Zanella -. Anche in nome di un elementare principio di precauzione, l'amministrazione regionale avrebbe dovuto agire per tempo. Invece, in nome della logica del profitto che caratterizza la giunta di centrodestra che governa il Veneto, l'avvelenamento è stato coperto. Solo ora che se ne vedono i risultati sulla salute delle persone e che una ricerca ha stabilito l'alta percentuale di veleni presenti nel sangue dei giovani che hanno bevuto acqua contaminata, il governatore Luca Zaia interviene. E come è che interviene? Prendendosela con Roma! Tutto fumo negli occhi per coprire l'incapacità di gestire qualsiasi problema ambientale".


Sulla pericolo dei veleni rilevati nel sangue dei giovani in Veneto è intervenuto anche il coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli. Purtroppo è solo la punta di un iceberg di un problema drammaticamente diffuso in tutto il Paese che e' stato finora sottovalutato dal ministero della Salute e da quello dell'Ambiente - ha sottolineato l'ambientalista in una intervista all'Ansa. - Sono milioni in tutto il Paese le persone che vivono in aree da bonificare, il cui sangue è stato contaminato da inquinanti che causano malattie e problemi seri alla salute, tra i quali il cadmio, l'arsenico, il piombo, Ddt e Pcb, il Tbbp-A e il Pbde, i perfluoroctani (Pfc) e, ultimi arrivati, il Pfas e il Pfoa. Da Priolo a Porto Torres in Sardegna, dalla Valle del Sacco nel Lazio fino a Taranto con l'Ilva passando per la Laguna di Grado e Marano in Friuli Venezia Giulia, arrivando ai casi attuali in Veneto i danni ambientali e alla salute dei cittadini sono enormi e da sempre sottovalutati".
Una situazione drammatica purtroppo dimostrata da molte indagini scientifiche. Alcune di queste hanno rilevato fino a 73 sostanze chimiche artificialiche dovrebbero stare da tutt'altra parte che nel sangue umano.
"Le persone analizzate da una indagine condotta dalla Detox-Svelenati, avevano età comprese tra dodici e 92 anni e appartenevano a tre generazioni diverse: nonne, mamme e figli. Ciascun componente familiare è risultato contaminato da un insieme di almeno 18 sostanze pericolose".
Due sono le cose da fare, secondo i Verdi: controllare più severamente le aree industriali a rischio e promuovere una serie di monitoraggi epidemiologici per avere una chiaro quadro della situazione.
"Ma se non si avvia un grande piano di bonifica delle aree inquinate - conclude il leader dei verdi - e di conversione ecologica delle industrie inquinanti si rischia di dover fare i conti con un problema che coinvolgerà sempre più persone".

A Venezia le “Giornate europee dei movimenti per la difesa dei territori”

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Sabato 23 e domenica 24 settembre si terranno due giornate per dire No al passaggio di quei villaggi turistici galleggianti che altro non sono le Grandi Navi da crociera low cost. Ma non solo: saranno due giornate dedicate alla difesa dei territori, alla giustizia ambientale e alla democrazia.
Le Grandi Navi inquinano Venezia tanto da farla diventare la terza città città più inquinata d’Italia per polveri sottili, e devastano i fondali della laguna espellendo ad ogni passaggio tonnellate di sedimenti vitali. “Venezia è uno strano luogo dove ambiente e città sono la stessa cosa e non è possibile difendere né l’uno né l’altra senza fare i conti con il grande tema della democrazia – spiega Marco Baravalle, portavoce del comitato No Grandi Navi -. In questa città, dove le strade sono fatte d’acqua, battersi per la salvaguardia dell’ecosistema lagunare significa automaticamente battersi per il diritto alla città, per la difesa del suo spazio pubblico, per evitare la distruzione di uno stile di vita unico che è prezioso patrimonio comune”.

Una battaglia emblematica, quella che gli ambientalisti portano avanti a Venezia, una città che per mille anni ha saputo mantenere quel fragile equilibro tra terra e mare che dà vita alla laguna.
Per questo all’appello lanciato dal comitato No Grandi Navi hanno aderito in tanti e da tutta Europa. All’assemblea che si svolgerà sabato pomeriggio ai Magazzini del Sale, parteciperanno delegazioni del movimento tedesco contro Stuttgard 21, di Ciutat per a qui l’habita Palma delle isole Baleari, di portoghesi di Academia Cidadã e del Comitè francese contre la construction de l’aereporte de Notre Dame des Landes. Non potevano mancare i No Tav della Val di Susa, i No Muos siciliani, i No Tap del salento ed i napoletani di Stop Biocidio. L’elenco completo ed in continuo aggiornamento delle adesioni si può leggere in questa pagina.
La sera, dopo l’assemblea, cena e festa in fondamenta con grandi tavolate davanti al canale della Giudecca. Come si faceva una volta, quando a Venezia ogni tre case non c’era un B&B o un albergo.
Punto focale della due giorni, sarà domenica pomeriggio, col concerto dei 99 Posse, Cisco e altri che si esibiranno sul pontile galleggiante, e con la manifestazione “par tera e par mar”, a piedi o in barca, lungo le Zattere. Lungo quelle stesse rive i cui “masegni” crollano e smottano a causa dello spostamento d’acqua causato dal via vai di questi condomini galleggianti.

Anche la terraferma dice No alla Grandi Navi in laguna

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"Difendere la laguna di Venezia che è anche la nostra laguna, certamente. Ma ci sono anche altri importanti motivi per cui, noi che viviamo in Terraferma, parteciperemo attivamente alle due giornate di mobilitazioni contro le Grandi Navi". Michele Valentini, portavoce del cso Rivolta, apre così l'assemblea di preparazione alle iniziative di sabato 23 e domenica 24. L'incontro si è svolto ieri sera nella sala del Laurentianum di Mestre gremita di cittadini. Il risultato del referendum autogestito di giugno, che ha visto centinaia di residenti di Mestre e Marghera recarsi alle urne per ribattere che le Grandi Navi devono restarsene fuori dalla laguna e che non devono essere effettuati altri scavi, spiega Valentini, "dimostra la grande voglia che hanno i cittadini di riprendersi in mano la città e di tornare ad immaginare un futuro per il loro territorio. Marghera è stata assassinata da un sistema economico fallimentare che ha portato devastazione e malattie. Domenica andremo a Venezia per dire a gran voce che a porto Marghera. vogliamo le bonifiche e non un'altra mega opera come un nuovo porto inquinante".
"Cinque anni e mezzo dopo il decreto Clini che, perlomeno per qualche mese, ha fermato il passaggio delle Grandi Navi - ha spiegato Stefano Micheletti, portavoce di Ambiente Venezia - ci è toccato sentire di tutto. Prima lo scavo del Concordia subito bocciato dalla Via, poi il Tresse, assolutamente inadatto per la commistione tra traffico commerciale e turistico. Poi è arrivato il Vittorio Emanuele, e poi il porto a San Leonardo. Tutte sparate senza una progetto sotto, neppure di massima. La verità è che prendono in giro la cittadinanza. Annunciano riunioni del Comitato che puntualmente vengono rinviate. Tutto per lasciare le cose come stanno. E intanto l'Unesco minaccia di depennare Venezia dalla lista dei luoghi patrimonio dell'umanità e afferma chiaro e tondo che le Grandi Navi non sono compatibili con la salvaguardia di Venezia. Governo, Regione e Comune non lo degnano neppure di una risposte, continuano a proporre 'soluzioni' già bocciate. Ed intanto le Compagnie entrano nella Vtp spa, alla faccia dell'evidente conflitto di interessi. A noi non interessa una 'soluzione' che risparmi il passaggio delle navi davanti al bacino di San Marco. Noi vogliamo le Grandi Navi fuori dalla laguna semplicemente perché, con la tutela della laguna, queste sono incompatibili".

Tommaso Cacciari, portavoce del laboratorio Morion, ricorda i tanti incidenti, da Genova al Giglio, che hanno funestato queste enormi carriole dei mari. "Eppure non è neppure questo l'aspetto peggiore. Il vero problema, a nostro avviso, è l'erosione della laguna. Un problema già messo in evidenza dopo l'acqua granda del '66 e che è peggiorati nel corso degli anni". Cacciari ricorda le immagini che l'astronauta Samantha Cristoforetti ha scattato dallo spazio e che mostrano due enormi "baffi" di sedimenti in uscita dalle bocche lagunari. "La laguna perde sei milioni di metri cubi all'anno o di sedimenti. La Serenissima lo sapeva e sapeva come porre rimedio con interventi come la deviazione dei fiumi quando questi rischiavano di interrare la laguna. Lavoravano per mantenere un difficile equilibrio tra terra e mare. Oggi questo equilibrio è stato spezzato e abbiamo con condannato la laguna diventare un braccio di mare". "Una grande nave sposta mediamente 135 mila metri cubi di acqua per il principio di Archimede. Quando quest'acqua batte sulle fondamenta, le tira giù. Ma questo sarebbe anche il male minore, perché una fondamenta può essere ricostruita. Quando arriva nelle barene invece è peggio, perché innesca un effetto tsunami. Ogni volta che uno di questi mostri passa per la laguna, se ne porta via un pezzo. Il che comporta meno resistenza durante i passaggi di marea, il che significa altra laguna che si disperde in mare, in un circolo vizioso. L'equilibrio è spezzato e la laguna è oggi solcata da vero e propri fiumi, come sa chi va in barca". "Chi amministra - conclude Cacciari - non ha imparato niente, oppure, semplicemente, non gli interessa imparare. Non p un caso che il Mose sia nato dalla sola corruzione per la sola corruzione. Continuano a proporre altri scavi. Scavi senza progetto che hanno il solo scopo di mantenere le cose come stanno".
Chiusura per Marco Baravalle, portavoce del Sale, che ha presentato l'assemblea di sabato che vedrà protagoniste più di una quarantina tra associazioni e movimenti provenienti da tutta Europa. "L'obiettivo non è quello di costruire una ennesima rete di resistenze ambientali ma di aprire una spazio pubblico di livello europeo per parlare di giustizia ambientale. Un tema che contiene in sé tutte le tematiche per le quali ci siamo battuti in questi anni. A partire dalla quotidianità di una città simbolo come Venezia, vogliamo aiutare i comitati ad uscire dalla sindrome Nimby e trovare un linguaggio comune. Lo scrittore Amitav Ghosh, che ci ha scritto per manifestare solidarietà alla nostra iniziativa, afferma che l'uomo oggi è diventato un agente geologico e non se ne rende conto. Oramai siamo entrati in una era che alcuni scienziati hanno battezzato Antropocene. Dobbiamo agire e pensare con questa consapevolezza che, sia pure lentamente, si sta facendo largo tra la gente. Ce ne rendiamo conto proprio con la nostra battaglia contro le Grandi Navi. Quotidianamente ci arrivano richieste di interviste, articoli, interventi, filmati da tutto il mondo. A parte la stampa italiana, tutti i media hanno capito che Venezia è una città simbolo. Una città che ha una dimensione globale proprio in virtù delle sue particolarità locali. Una città che alcuni, come le compagnie di crociera o il sindaco, vorrebbero ridurre ad un distretto del turismo 'mordi e fuggi'. A questa idea perdente, noi opponiamo una idea di città radicalmente diversa. Il favore con cui tutti seguono la nostra battaglia è una dimostrazione che il futuro sta dalla nostra parte".
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