In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»

Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».

Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.

In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.

La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Monti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.

In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.

I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!

L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?

No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.

#Coronavirus and Climate Change. Or, in simpler words, #Capitalism

The widespread spread of the Coronavirus, which started in one city in China and spread rapidly throughout the planet, had at least the merit of making everyone understand what climate change had made few people understand. And that is that we all live on the same planet. The problems can in no way be circumscribed by borders that only exist for politics. Nor can they be militarized. Not even by building walls. The world is one and humanity, beyond any nationalist rhetoric, is also one. All the peoples of the world are interconnected. And so is the economy, culture, thought, migration, problems and emergencies such as this pandemic that has spread rapidly from China to the whole world. But not only all humanity is interconnected. We are also interconnected with the environment around us. As Ferdinand de Saussure said, “Tout se tient”, everything is connected. This is the first commandment of modern ecology.
Originally published by Global Project. Written by  Riccardo Bottazzo.
The Coronavirus and the global fears it has unleashed has confronted us with a reality that, when and hopefully soon the emergency will be overcome, can no longer be ignored. This, climate change – the other big issue that affects the whole planet – had failed to make it understood, despite the undeniable commitment of environmentalists, scientists and charismatic figures like our Greta. The questions, of course, were asked in a different way. The perception of individual risk, in the case of the virus, is much more immediate and natural, as well as considered closer both in space and time. Even the behaviors that are asked of us to overcome the emergency – avoiding contact, staying at home, often washing your hands, etc. – are much easier to perform than the actions that are asked of us to stop Climate Change, that is to change lifestyle, give up fossils, build a new economy. Or, if you prefer simpler and more direct words: bring down capitalism. You will realize that “washing your hands often” is an easier action to take!
“We need to radically review the current model of production and development, which is environmentally unsustainable, because we are destroying the planet’s biodiversity and wildly exploiting natural resources,” environmentalist Grazia Francescato pointed out in a nice interview published in Vita – But it is also unacceptable on a social level, because this type of globalization has caused an economic inequality never seen before (8 people in the world have more economic resources than half of humanity). In short, it is a matter of promoting what we environmentalists call ‘ecological conversion of the economy and society’, which also means making a cultural leap, creating a new collective consciousness.
Are we really sure that, precisely on the assumption that “Tout se tient”, the explosion of this pandemic has nothing to do with climate change and, consequently, with capitalism? Many scientific studies point out that sudden changes in temperature and related parameters, such as humidity, tend to favour the “species jump”, that mechanism by which the virus is transformed and transferred from an animal species (the bat, in the case of Covid 19) to humans. It is not yet certain in what percentage, climate change and temperature increase affect this mechanism, but a correlation is clear. A research by Giuseppe Miserotti for the association Medici per l’Ambiente has linked the explosion of the latest epidemics, from Sars to Aviaria, up to swine flu and the current Covid 19, with temperature peaks, at least 0.6 degrees above average, recorded in the areas in question. Even if we consider the most optimistic forecasts of global warming, there is little to be happy about! In circulation, says Miserotti, there are billions of dangerous pathogens, both in animals and frozen in the melting permafrost of the now former “eternal glaciers” of the poles. Pathogens that could be triggered precisely by rising temperatures.
But even without bothering Climate Change, it is no mystery that pollution attributable to fossil fuels kills even without causing extreme weather events. We cite, in this regard, only the most widely accepted research of the Medical Society Consortium, which highlights how known direct pathologies attributable to the consumption of fossil fuels combine at least four and a half million people every year! One wonders why we are so concerned about the Coronavirus! But even in this case, “washing your hands often” is an easier, more easily communicated and calming answer than “bringing down capitalism”. 

But, some say, the spread of this pandemic has at least had the merit of reducing, if not capitalism, at least greenhouse gas emissions. The skies of China – which I personally have never been able to see blue – have never been so clean. True. But that’s not good news. Antonio Guterres himself, Secretary General of the United Nations, has stressed that it is only a temporary phenomenon because the activities that caused the pollution have not been closed down and, already now that China has come out of the emergency phase, they are recovering with greater vigor, as if to recover lost time and money! Let us not delude ourselves, explained Guterres, that the virus is helping us in the fight against climate change. On the contrary, the risk is that the pandemic will invisibilize the issue of Climate Change and distract public opinion from the real great battle that humanity must fight to save this planet where “Tout se tient”, from the climate, to epidemics, to social justice. And this time no one will be able to tell us that it’s enough to “wash your hands often”.

Coronavirus e Climate Change. Oppure, in parole più semplici, Capitalismo

La capillare diffusione del Coronavirus, partito da una città della Cina ed estesosi rapidamente in tutto il pianeta, ha avuto quantomeno il merito di far capire a tutti quello che i cambiamenti climatici avevano fatto capire a pochi. E cioè che viviamo tutti sullo stresso pianeta. I problemi non possono in nessun modo essere circoscritti da frontiere che esistono solo per la politica. Neppure militarizzandole. Neppure costruendo muri. Il mondo è uno solo e anche l’umanità, al di là di qualsiasi retorica nazionalista, è una sola. Tutti i popoli del mondo sono interconnessi. E così lo è l’economia, la cultura, il pensiero, le migrazioni, i problemi e le emergenze come questa pandemia che dalla Cina si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Ma non solo tutta l’umanità è interconnessa. Siamo interconnessi anche con l’ambiente che ci circonda. Come diceva Ferdinand de Saussure, “Tout se tient”, ogni cosa è collegata. E’ questo il primo comandamento dell’ecologia moderna. 
Il Coronavirus e le paure mondiali che ha scatenato ci ha posto di fronte ad una realtà che, quando e speriamo presto l’emergenza verrà superata, non può più essere ignorata. Questo, ai cambiamenti climatici – l’altra grande questione che investe tutto il pianeta – non era riuscito di farlo capire, nonostante l’innegabile impegno degli ambientalisti, degli scienziati e di personaggi carismatici come la nostra Greta. Le questioni, certamente, si sono poste in maniera diversa. La percezione del rischio individuale, nel caso del virus, è molto più immediata e naturale, oltre che considerata più vicina sia nello spazio che nel tempo. Anche i comportamenti che ci vengono chiesti per superare l’emergenza –  evitare i contatti, restare a casa, lavarsi spesso le mani, eccetera – sono molto più semplici da eseguire rispetto alle azioni che ci vengono chieste per fermate il Climate Change, e cioè cambiare stile di vita, rinunciare ai fossili, costruire una nuova economia. Oppure, se preferite parole più semplici e dirette: abbattere il capitalismo. Capirete che “lavarsi spesso le mani”, è una azione più facile da mettere in campo!

“Dobbiamo rivedere in modo radicale l’attuale modello di produzione e di sviluppo, che è insostenibile a livello ambientale, perché stiamo distruggendo la biodiversità del pianeta e sfruttando in modo selvaggio le risorse naturali ha sottolineato l’ambientalista Grazia Francescatoin una bella intervista pubblicata su Vita –  Ma che è inaccettabile anche a livello sociale, perché questo tipo di globalizzazione ha causato una disuguaglianza economica mai vista prima (8 persone al mondo hanno più risorse economiche della metà dell’umanità). Insomma, si tratta di promuovere quella che noi ambientalisti chiamiamo ‘conversione ecologica dell’economia e della società’, che vuol dire anche fare un salto culturale, creare una nuova coscienza collettiva”.
Siamo davvero sicuri che, proprio partendo dal presupposto che “Tout se tient”, l’esplosione di questa pandemia non abbia nulla a che vedere con i cambiamenti climatici, e, di conseguenza, col capitalismo? Molti studi scientifici mettono in evidenza che le variazioni repentine della temperatura e dei parametri ad essa collegati, come l’umidità, tendono a favorire il “salto di specie”, quel meccanismo per il quale il virus si trasforma e si trasferisce da una specie animale (il pipistrello, nel caso del Covid 19) all’uomo. Non è ancora certo in quale percentuale, i cambiamenti climatici e l’aumento della temperatura influiscono su questo meccanismo, ma una correlazione è sicura. Una ricerca di Giuseppe Miserotti per l’associazione Medici per l’Ambiente ha collegato l’esplosione delle ultime epidemie, dalla Sars all’Aviaria, sino all’influenza suina e all’attuale Covid 19, con i picchi di temperature, superiori perlomeno di 0,6 gradi sulla media, registrati nelle aree in questione. Anche a voler considerare le previsioni più ottimistiche sul surriscaldamento globale, c’è poco da stare allegri! In circolazione, sostiene Miserotti, ci sono miliardi di agenti patogeni pericolosi, sia negli animali che congelati nel permafrost in via di scioglimento degli oramai ex “ghiacciai eterni” dei poli. Agenti patogeni che potrebbero essere innescati proprio dall’aumento delle temperatura. 
Ma anche senza scomodare il Climate Change, non è un mistero che l’inquinamento imputabile alle energie fossili uccida anche senza bisogno di causare eventi meteorologici estremi. Citiamo, a tale proposito, solo la più recete ricerca del Medical Society Consortium che sottolinea come le patologie direttame note imputabili al consume di combustibili fossili accoppino almeno quattro milioni e mezzo di persone ogni anno! Vien da chiedersi come mai ci stiamo preoccupando tanto del Coronavirus! Ma anche in questo caso, “lavarsi spesso le mani” è una risposta più facile, più facilmente comunicabile e più tranquillizzante che “abbattere il capitalismo”. 
Ma, sostiene qualcuno, la diffusione di questa pandemia ha avuto perlomeno il merito di abbattere, se non il capitalismo, perlomeno le emissioni di gas serra. I cieli della Cina – che io personalmente non sono mai riuscito a vedere azzurri – non sono mai stati così puliti. Vero. Ma non è una buona notizia. Lo stesso Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha sottolineato che si tratta solo di un fenomeno temporaneo perché le attività che causavano l’inquinamento non sono state chiuse e, già adesso che in Cina si è usciti dalla fase emergenziale, stanno riprendendo con maggior vigore, come a voler recuperare il tempo, e il denaro!, perduti. Non illudiamoci, ha spiegato Guterres, che il virus ci aiuti nella lotta ai cambiamenti climatici. Anzi, il rischio è che la pandemia invisibilizzi la questione del Climate Change e distragga l’opinione pubblica dalla vera grande battaglia che l’umanità deve combattere per salvare questo pianeta dove “Tout se tient”, dal clima, alle epidemie, alla giustizia sociale. E stavolta nessuno ci potrà dire che basta “lavarsi spesso le mani”. 

DeCOALonize the planet

"Siamo l'antidoto al capitalismo”. Così si leggeva nel grande striscione che gli attivisti hanno appeso ai lunghi nastri che trasportano il carbone sin dentro la centrale. Nastri che, perlomeno per un paio d’ore, sono stati bloccati, causando lo spegnimento della caldaia ed una diminuzione della produzione.

Siamo a Fusina, a ridosso della laguna di Venezia. Qui, in una delle aree più inquinate d’Italia dove, quando durante ogni tornata elettorale si promettono bonifiche che puntualmente non vengono mai portate a termine, è situata una delle dodici centrali a carbone del Paese. La quinta più grande d’Europa.

Ed è proprio qui che, nella tarda mattinata di ieri, circa duecento attiviste e attivisti dei centri sociali del Nord Est hanno fatto irruzione, bloccando il cancello di ingresso, occupando i nastri trasportatori e salendo nelle strutture più alte per calare striscioni di protesta con scritte come “One solution: revolution” o “DeCOALonize the planet”.

"La concentrazione di CO2 in atmosfera nell’ultimo anno ha superato la soglia delle 415 parti per milione e continua a crescere. Il Pianeta sta letteralmente andando a fuoco. Gli effetti del surriscaldamento globale sono ormai evidenti a tutti e sembrano avanzare ad una velocità esponenziale. - ha spiegato Stella, una giovane attivista del cso Rivolta - La centrale di Fusina, dentro questo quadro, rappresenta per molti aspetti uno dei simboli della non volontà politica ed economica di affrontare la crisi climatica, anzi di voler continuare a speculare sulla devastazione del territorio”

“C’è un progetto di convertire questa centrale a metano - continua Stella -. L’Enel, proprietaria della centrale, pubblicizza questa operazione come un passaggio all’energia sostenibile dimenticando che anche il metano rimane sempre un combustibile fossile e un potentissimo gas serra. Non è questo il cambiamento to che vogliamo. Non è così che si ferma il climate change“.

L’iniziativa si è svolta pacificamente. Dopo tre ore di occupazione, le ragazze ed i ragazzi, hanno abbandonato i nastri e e si sono diretti in corteo verso i grandi siti di stoccaggio del carbone, a ridosso della laguna.

Ma non è solo la centrale a carbone, il problema dell’entroterra veneziano. Da tempo, la Regione Veneto col benestare del Comune di Venezia sta portando avanti il contestassimo progetto di riaprire un inceneritore, sempre nell’area di Fusina. Questo impianto di termodistruzione a cui mirano Ecoprogetto e i soci privati di Bioman e Agrilux, dovrebbe essere, nelle intenzioni dei suoi progettisti, il più grande del Veneto. “Ancora una volta per Marghera e per l’area metropolitana di Venezia - si legge in un comunicato dei centri sociali - si prospetta un futuro da pattumiera. Il nostro territorio è sommerso dallo smog e dai veleni ma ambiente e salute dei cittadini non contano mai niente quando di mezzo ci sono grandi affari”.

L’iniziativa si colloca in un percorso di avvicinamento al Venice Climate Meeting che si svolgerà nella città lagunare sabato 4 e domenica 5 aprile e che si propone in continuità col Climate Camp svoltosi a settembre al Lido. In quell’occasione, le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future e gli attivisti dei No Grandi navi avevano vissuto un “giorno da leoni” occupando per la prima volta nella storia della mostra del cinema ill tappeto rosso delle star.

Il muro colorato dai sogni del Venezia Mestre

Il murale del Bae, sulla strada per Venezia, sarà abbattuto e ricostruito. I mattoni dell’opera, dedicata al «papà» degli ultrà del Mestre, venduti per finanziare la resistenza in Rojava 

È lungo cento metri. I disegni e i colori forti e vivaci richiamano il folklore e le tonalità tipiche degli indigeni del centro America: il rosso del tramonto ed il verde della selva. I colori del calcio Venezia. Le grandi lettere che compongono la scritta «Bae per sempre» sono completate da due frasi scritte più in piccolo: «I sogni attraversano gli oceani» e «Dalla laguna alla selva Lacandona».

È LUNGO CENTO METRI, il murale del Bae, e se ne sta su quel muro che costeggia via Libertà da quasi vent’anni. Da quando, dopo la morte di Francesco Romor, avvenuta nel febbraio del 2001, a soli quarant’anni, i suoi amici dello stadio e del centro sociale Rivolta gli hanno dedicato l’opera.
Chi arriva in auto a Venezia non può fare a meno di passarci accanto e, se non è del posto, di domandarsi cosa abbia in comune la città dei Dogi con la selva messicana. Via della Libertà è l’unica strada di accesso al lungo ponte che collega Venezia alla terraferma. Impossibile non notarlo e non rimanere colpiti da quella lunga esplosione di colori sempre vivaci. Ogni anno, il giorno del compleanno del Bae, i suoi amici rimettono mano ai pennelli ed alle vernici per riportare il murale al suo originario splendore coprendo il grigiore dei fumi di porto Marghera che, da queste parti della laguna, sono perennemente in agguato.
REALIZZATO A RIDOSSO del ponte della Libertà, il murale del Bae è esso stesso un ponte verso la libertà. Quell’esplosione di colori che lo compongono non sono solo un benvenuto a tutti coloro che arrivano a Venezia ma anche una esortazione a continuare a sognare perché è «con i sogni che si attraversano gli oceani». Quegli oceani che il Bae non ha potuto attraversare perché è scomparso proprio mentre stava per partire per il Messico per partecipare alla marcia della dignità indigena, o del Colore della Terra, come l’aveva pittorescamente chiamata il subcomandante insorgente Marcos. Quell’anno, dai centri sociali del nord est, partì per il Chiapas un centinaio di ragazze e di ragazzi riuniti nell’associazione Ya Basta. Tutti col Bae nel cuore.
CALCIO E LIBERTÀ.

Francesco Romor, il Bae

La storia del Bae. «Lui sapeva tenere insieme tutto e tutti – ricorda l’amico Franz Peverieri -. Era il papà degli ultras delle curva del Venezia Mestre. Piena di ragazzi che vedevano nel calcio un qualcosa capace di regalare sogni. Abbracciavamo i colori delle nostre squadre sapendo che nulla avevano a che fare col colore della pelle. Alla base del nostro tifo c’erano valori e passioni scevre da fascismi, razzismi e xenofobia». Una strada che ha portato il Bae ed i suoi ragazzi dagli spalti del Penzo, lo stadio del Venezia, ai centri sociali del nord est. Dentro il Rivolta di Marghera, gli ultras ritagliarono un loro spazio di militanza quotidiana creando la famosa Osteria allo Sbirro Morto, di cui il Bae era il rinomato cuoco. «Sino agli ultimi istanti di vita, il Bae ha continuato il suo impegno che univa passione per il calcio e sete di giustizia. Quando è scomparso, abbiamo piantato un albero nel giardino del Rivolta e poi, quando siamo andati in Messico, lo abbiamo portato con noi, e lo abbiamo ripiantato dove lui avrebbe voluto andare: a Guadalupe Tepeyaca, nel cuore della Selva Lacandona. Un villaggio che gli zapatisti hanno restituito ai suoi abitanti, liberandolo da sette anni di occupazione militare da parte dell’esercito federale».
IN COLLABORAZIONE con Ya Basta, gli amici di Francesco realizzano il progetto chiamato «Lo stadio del Bae» di supporto alle comunità indigene della rebeldia zapatista. L’idea iniziale era di costruire uno stadio a lui dedicato, ma, in accordo con la Junta de Buen Gobierno, hanno realizzato molto di più: un acquedotto a Guadalupe Tapeyac, l’erbolario di medicina tradizionale al caracol de la Realidad, campi da basket, falegnamerie e officine e altri progetti come Agua para todos e la commercializzazione del caffè zapatista. Grazie al sostegno di tante associazioni legate al «futbol rebelde» italiane e anche europee, come gli ultras tedeschi del Sankt Pauli, lo Stadio del Bae riesce a raccogliere quasi 100 mila euro che negli anni successivi saranno devoluti alle comunità ribelli indigene. Tutti progetti che, con altre formule e con altri finanziamenti, ancora sono portati avanti dalle associazioni Ya Basta di tutta l’Italia.
LE RUSPE NON CANCELLANO i sogni.
Sogni che non finiscono mai, quelli rappresentati dal murale del Bae. Sogni che attraversano gli oceani ma che rischiano di crollare sotto le ruspe che dovranno aprire la strada al nuovo piano di viabilità varato dal Comune di Venezia. Già. Il murale del Bae dovrà essere abbattuto per fare spazio ad una nuova strada. I cantieri sono già stati aperti e, tra non molto, Venezia dovrò dire addio allo storico muro. Non sarà però un addio al murale.
Il valore sociale ed artistico di questo che è uno dei primi esempi di street art mestrina è stato riconosciuto anche da una amministrazione comunale come quella di Venezia che certamente non è molto sensibile alle battaglie che stavano a cuore a persone come Francesco Romor. L’assessore alla Viabilità, Renato Boraso, ha garantito che sarà concesso uno spazio uguale nel nuovo muro che fiancheggerà la strada. Un gruppo di consiglieri bipartisan ha aperto un confronto con Ya Basta e le associazioni dei tifosi del Venezia per trovare una soluzione comune. Anche il presidente della municipalità di Marghera, Gianfranco Bettin, ha invitato il Comune ad aprirsi al confronto con la famiglia e gli amici di Romor.
RESTA PERÒ UN MURALE da abbattere. Un murale su cui sono stati riversati, assieme ai colori, anche tanti sogni. «Abbatteremo il muro ma salveremo il murale, rilanciando le battaglie in cui Francesco credeva – conclude Franz -. E lo faremo usando la nostra creatività. L’idea su cui stiamo lavorando è quella di smontare l’opera e vendere i singoli mattoni. Il ricavato lo destineremo ad altri progetti di resistenza e di solidarietà». Quali? «Se il Bae fosse ancora con noi, il suo cuore oggi sarebbe nel Rojava, assieme ai curdi che combattono contro l’aggressione turca. Con gli amici di Ya Basta stiamo valutando come realizzare questo progetto. Il nostro amico, ne siamo sicuri, sarebbe contento».

A Madrid è stato assassinato l’accordo di Parigi. Cop25 sarà l’ultimo crimine contro l’umanità

Cop25 ha chiarito una volta per tutte che i governi del mondo non sono in grado di mettere in campo una strategia adatta a contrastare i cambiamenti climatici. Al contrario della precedente conferenza svoltasi a Katowice, dove gli osservatori più ottimisti avevano giudicato in maniera positiva l’apertura di alcuni, generici, spazi di intervento verso un definitivo abbandono dei fossili, la conferenza di Madrid ha messo tutti d’accordo: Cop 25 è stata un completo fallimento. A nulla sono valsi i “tempi supplementari” di ben 42 ore giocati dopo la prevista chiusura dei lavori nel tentativo di salvare perlomeno la faccia. I rappresentanti dei 196 Paesi che hanno partecipato agli incontri, non hanno saputo, o voluto, trovare nessun accordo sui tre punti principali in discussione: la regolazione del mercato del carbonio, le compensazioni ai Paesi poveri e la quantità di Co2 che ogni singolo Paese dovrà impegnarsi a tagliare nei prossimi anni. Quei tre punti che a Katowice erano stati lasciati in sospeso e “rimandati a settembre”. Cioè alla prossima conferenza sul clima, questa di Madrid.
Come si temeva, non sono bastati i drammatici appelli degli scienziati (oramai non è rimasto più nessuno a sostenere tesi negazioniste) che hanno lanciato numerosi appelli al buonsenso, invitando i governi a dare retta alla scienza e non all’economia. Non sono bastate nemmeno le drammatiche notizie degli scioglimenti dei non più eterni ghiacciai artici o i fenomeni atmosferici sempre più estremi che si stanno verificando sempre più frequentemente in tutto il pianeta. A Venezia ne sappiamo qualcosa! Non sono bastate nemmeno i milioni di giovani che sono ripetutamente scesi nelle piazze di tutto il mondo a chiedere, in nome della “democrazia climatica”, una radicale svolta ecologista nella politica capace di ridare una speranza alla terra. Tutto questo non è servito a niente se non a dimostrare che i governi e la finanza procedono imperterriti in una direzione contraria a quella verso cui vanno la scienza, i cittadini consapevoli e pure il buon senso.
Il guaio è che sono i primi a tirarsi dietro il pianeta!

Quanto è accaduto a Madrid altro non è che un crimine contro l’umanità. Il peggiore. Non solo perché è il più cinico, il più cattivo e pure il più stupido. Questo rischia di essere il crimine “definitivo” contro l’umanità. Perché se l’aumento della temperatura non verrà in qualche modo contenuto, non ci sarà più posto per l’umanità sul pianeta Terra.

Sotto questo punto di vista, il genericissimo documento di intenti in cui si esprime la volontà di combattere in qualche modo i cambiamenti climatici, chiamato ipocritamente “Time for action”, appare solo come una crudele presa per il sedere. Senza considerare che, come ha sottolineato il noto ed apprezzato meteorologo Luca Lombroso, anche per questo documento assolutamente inefficace ai fini pratici, Brasile e Usa hanno avuto il coraggio di fare ostruzione! I primi perché hanno tutta l’intenzione di “monetizzare” la foresta amazzonica sino all’ultimo albero - e tanti saluti all’ultimo polmone verde rimasto su questa terra -, i secondi perché il loro presidente Donald Trump continua a sostenere tesi negazioniste in onore alle lobby delle energie fossili che lo hanno fatto eleggere.

Dopo questa Cop, di fatto, l’accordo di Parigi non esiste più. Solo l’Europa, grazie al nuovo Governo, qualcosa ha fatto approvando un percorso che dovrebbe condurci nel 2050 alla “neutralità climatica”, ovvero a zero emissioni. Ma l’Europa da sola non basta. Gli Stati Uniti, come hanno dichiarato da tempo, si stanno sfilando ed è possibile che nei prossimi incontri non parteciperanno neppure con un delegato. Cina, India, Russia, Paesi Arabi e il Brasile del presidente Jair Bolsonaro - guarda caso i Paesi che inquinano maggiormente e che sono stati tra i principali attori di questo fallimento - hanno ampiamente dimostrato che non sono disposti neppure e concedere una generica promessa a contenere le emissioni ed a limitare il consumo delle energie fossili.

Arrivati a questo punto, possiamo anche cominciare a discutere su cosa ed a chi servono queste conferenze sul clima se non a “dare un’opportunità ai Paesi di negoziare scappatoie”, come ha suggerito Greta.

Parte Cop25. E parte male. Arriverà peggio?

Parte male, Cop 25. Parte senza uno degli attori principali, responsabile del 14,3% delle emissioni totali di climalteranti: gli Stati Uniti d’America. Non è un mistero che presidente Donald Trump sia un negazionista convinto. Più volte, nella sua campagna elettorale, finanziata dalle multinazionali più inquinanti del paese, ha sottolineato che il “modello di vita americano” non può essere oggetto di trattativa. La sua decisione di uscire dagli accordi di Parigi, e quindi anche dalle Cop, altro non è che una logica conseguenza della sua politica. A Madrid gli Usa faranno solo una comparsata affidata alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, che non farà che ribadire le posizioni del suo presidente. Proprio come se gli Stati Uniti d’America si trovassero su un altro pianeta, lontano qualche anno luce, e non su questa nostra Terra colpita da uno stravolgimento climatico globale come il Climate Change.
Parte male anche dal punto di vista organizzativo, questa Cop. Santiago del Cile, che doveva ospitare i lavori, ha dato forfait per i noti problemi interni (il Governo cileno è impegnato a massacrare i manifestanti che chiedono democrazia) e ha passato all’ultimo momento il testimone a Madrid. L’organizzazione rimane comunque competenza del Cile, ed è tutto da vedere come sono riusciti a spostare in poche settimane tutto il “circo” non soltanto in in altro Paese ma anche in un altro Continente.

Parte male, questa Cop, proprio quando avrebbe dovuto partire bene. Ci siamo già giocati i famosi “dieci anni di tempo per invertire rotta” assegnati dalle Cop precedenti. L’accelerata che il clima ha preso in questi ultimi anni sono tali da aver convinto anche i negazionisti più irriducibili. Tranne, ovviamente, Trump e la sua ciurma di capitalisti petroliferi e giornalisti venduti che lo sostiene. A nulla sono serviti gli appelli degli scienziati e gli ultimi rilevamenti che hanno sottolineato come il punto di non ritorno sia sempre più vicino. E stiamo parlando del punto di non ritorno per evitare la scomparsa della vita umana sulla terra, perché quello relativo ad una epoca di sconvolgimenti ambientali, e quindi anche sociali, lo abbiamo già oltrepassato da un pezzo. I dati che arrivano dai ricercatori artici fanno paura e si teme l’innescarsi di un effetto domino dalle conseguenze inimmaginabili con lo scioglimento anticipato dei ghiacciai dei poli.

L’umanità è ad un bivio. E ce lo spiega anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: “Entro la fine del prossimo decennio saremo su uno dei due percorsi: uno è quello della resa, in cui abbiamo il punto di non ritorno, altra opzione è il percorso della speranza, un percorso di risoluzione, sulla strada della neutralità del carbonio entro il 2050”.

Punto fondamentale della Cop sarà quello di mettere in atto tutti meccanismi necessari a mantenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro i 2 gradi centigradi e di arrivare al 2050 con un mondo ad emissioni zero. Ma se continua così non ce la faremo mai. Lo afferma senza possibilità di equivoci lo stesso Guterres: “Molti Paesi non stanno rispettando tali impegni. E i nostri sforzi per raggiungere questi obiettivi sono assolutamente inadeguati”.

Come aiutare, o costringere!, i Paesi partecipanti a rimanere all’interno dei parametri fissati a Parigi, sarà il punto focale di questa Cop. I Governi del mondo dovranno darsi delle regole per rendere operativo il famoso articolo 6, quello dei crediti di carbonio, degli accordi parigini. Non sarà una questione semplice. Sopratutto in un momento come questo in cui il capitalismo – vero responsabile dei cambiamenti climatici – ha occupato i punti chiave del pianeta con marionette del calibro del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, o del suo equivalente statunitense. Per tacere dei Paesi produttori di petrolio la cui ricchezza e potenza è tutta centrata sul fossile, e che non hanno nessuna intenzione di cambiare rotta.

Parte male quindi, Cop 25, e rischia di arrivare peggio, pure se solo alla fine dei lavori potremmo dire se ne sarà uscito qualcosa di concreto. Ma quanto meno, gli incontri saranno una occasione per riflettere sul clima e dare spazio mediatico a scienziati ed ambientalisti. D’altra parte, da un pezzo abbiamo chiaro che quello che non fa e non farà mai la politica, lo potranno fare solo i Fridays for Future. Gli unici d aver capito che nei cambiamenti climatici ci siamo già dentro e che il momento per abbattere una economia di rapina ancora artigliata ai fossili à qui ed ora.

Unite o separate? Venezia e Mestre ci riprovano per la quinta volta

E con questo sono cinque. Per la quinta volta, i residenti di Venezia sono chiamati ad esprimersi sulla divisione dell’attuale Comune in due amministrazioni autonome, una per Venezia e una per Mestre. Si tratta di un referendum solo consultivo ma legittimato dal Consiglio di Stato e, pur se con qualche resistenza, anche dalla Regione Veneto che ha stanziato gli 800 mila euro necessari allo svolgimento della consultazione. Se vincerà il Sì, la città d’acqua e la Terraferma si separeranno, ognuna con un suo sindaco e una sua amministrazione, proprio come chiede la legge di iniziativa popolare numero 8 che sta alla base del referendum. Se vincerà il No, o l’astensione, tutto rimarrà come adesso.
Siamo al quinto referendum sullo stesso tema, scrivevamo in apertura. La tenacia dei separatisti, tra le calli di Venezia e le strade di Mestre, è diventata ormai proverbiale. L’ultima chiamata alle urne, nel 2003, è stata annullata per il non raggiungimento del quorum, appena il 39 per cento. Avrebbero comunque vinto gli unionisti con il 66 per cento dei voti. Le precedenti consultazioni, avvenute nel 1979 (affluenza 80%), nel 1989 (74%) e nel 1994 (68%), hanno ugualmente visto trionfare i No ma con percentuali sempre decrescenti. In ordine: 72%, 58% e 56%.

Gli ultimi sondaggi che sono girati sul web, vedono trionfare il club dell’astensione e degli indecisi ma con una leggera percentuale di Sì tra coloro che hanno manifestato l’intenzione di andare votare. Sono comunque tutte statistiche raccolte prima dei giorni dell’Acqua Granda. Tutto da vedere se e come la drammatica settimana del 12 novembre influirà sul referendum e sull’affluenza. Di sicuro, il tema della separazione non è stato al centro del dibattito politico degli ultimi giorni, tutto centrato su “Mose sì, Mose no” e sui progetti di difesa della città dall’assalto, che minaccia di essere sempre più frequente, delle maree e dei cambiamenti climatici.

Per i separatisti, il primo scoglio da superare sarà quello del quorum. Sotto accusa, il sindaco Luigi Brugnaro che ha espressamente invitato all’astensione e che ha fatto tutto quello che poteva fare, e anche qualcosa di più, per silenziare un referendum che lo priverebbe quantomeno di metà Comune. In caso di vittoria del Sì, il sindaco di Venezia sarebbe obbligato infatti a levare le tende ed a scegliere dove presentare una sua ipotetica candidatura futura. Il suo invito a disertare le urne ha suscitato le ire della senatrice Cinque Stelle Orietta Vanin che ha denunciato tutta una serie di censure operate dall’amministrazione. Ed in effetti, anche a voler prescindere dal fatto che per pescare un tabellone per le affissioni devi girare tutta la città e quando lo trovi è un formato ridotto, ai separatisti sono stati negati, e senza neppure la briga di una giustificazione, anche gli spazi pubblicitari a pagamento dell’azienda municipale dei trasporti. Ancora più grave la rimozione forzata da parte dei vigili urbani degli striscioni separatisti che alcuni privati cittadini avevano appeso alle loro finestre. Tutte operazioni che la Vanin ha giudicato come un attacco ai diritti politici e civili dei cittadini.

Dei 5 Stelle va detto che da un iniziale “votate secondo coscienza” si sono convertiti al separatismo dopo l’entrata a gamba tesa di Grillo che nel Blog delle Stelle ha invitato a votare Sì perché “altrimenti tutto rimane uguale”.

Ancora più acrobatica la posizione della Lega, convinta separatista nei referendum precedenti, oggi astensionista ed allineata alle posizioni del sindaco che sostiene in maggioranza.

Andare a votare per rispetto dell’istituzione referendaria ma votare No è la posizione del Pd, dei Verdi e, in generale, della sinistra, pur con qualche voce discordante. Una su tutti, quella dell’ex candidato sindaco Felice Casson che propende per il Sì. Per il No anche Confindustria, Cna e Cgil. ”Se fosse un referendum per l’autogoverno di Venezia voterei subito Sìto - ha spiegato Tommaso Cacciari - Ma questa consultazione punta solo ad indebolire tanto Mestre quanto la città lagunare che diverrebbe marginale e non avrebbe più voce in capitolo né sui cieli, né sulle acque perché Porto e Aeroporto resterebbero al di fuori della sua competenza”.

«Non chiamatelo maltempo». A Venezia, il Friday for future con gli stivali

La crisi climatica è qui ed ora. Le ragazze ed i ragazzi di Fridays for Future lo scrivono nello striscione che apre il corteo di Venezia. Portano tutti gli stivali ai piedi perché, nell’ex laguna dei Dogi, l’emergenza non è ancora finita. Dal codice rosso di «alta marea eccezionale», le acqua alte sono passate al codice arancio di «sostenuta». Che significa comunque un buon 30% della città a mollo. E vista con gli occhi di chi ha l’acqua alle caviglie, la crisi climatica acquista tutto un altro carattere di emergenzialità. Per tutti, tranne che per l’amministrazione comunale di Venezia e della sua maggioranza negazionista che continua a rifiutarsi di votare una mozione di emergenza climatica, come chiedono i FfF, nonostante nei giorni della acqua granda, nell’atrio di Ca’ Farsetti ci si potesse navigare in gondola.
Proprio per questo suo immobilismo, il Comune è stato il primo bersaglio dei manifestanti che lo hanno simbolicamente chiuso col nastro rosso delle emergenze. «Venezia è il perfetto paradigma della crisi ambientale che stiamo attraversando – ha spiegato Sofia Demasi di FfF -. Una città sorta su un meraviglioso equilibrio tra terra e mare che è stato progressivamente devastato da grandi opere come il Mose. Decretare la morte della laguna, sbarrandone gli accessi al mare per sei mesi all’anno, come farebbe il Mose se riusciranno un giorno a farlo entrare in funzione, non può essere una soluzione accettabile. Non possiamo pensare di sopravvivere noi, mentre crolla l’intero ecosistema. È l’intero pianeta che deve sopravvivere. Ma su questo obiettivo, i nostri politici sono assolutamente inadeguati».

Buoni solo a fare passerelle in piazza San Marco, spiegano dai loro megafoni i FfF, mentre la città è invasa da una acqua granda che non si vedeva da mezzo secolo. Ma «non chiamatelo maltempo», afferma l’hastag scelto dai manifestanti per i social. Non è l’acqua che ha devastato Venezia ma le conseguenze di uno sviluppo devastante che ha mercificato la laguna, asservendola agli interessi delle Grandi Navi e del porto industriale, scavando grandi vie d’acqua incompatibili con la morfologia del fondale.

Ma se Venezia rimane comunque una città sotto i riflettori del mondo, i ragazzi di FfF non hanno dimenticato che i fenomeni meteorologici estremi, che oggi sono straordinari ma che domani saranno ordinari, hanno colpito anche aree che non godono della stessa attenzione mediatica. Cartelle e striscioni in solidarietà con la Liguria, la Toscana, il Trentino, la Sicilia e la Basilicata sono stati appesi in campo San Geremia, davanti ala sede della rai Regionale. «Ma non chiamatelo maltempo – conclude Sofia -. Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica e ne usciremo solo cambiando il sistema».

Venezia e New York, destino comune sancito dai Fridays for Future

Appuntamento a Park Avenue. Domani in laguna nuova alta marea: quarto codice rosso negli ultimi 10 giorni

Anche a New York, i Fridays For Future si sono mobilitati per la salvaguardia di Venezia, e si sono dati appuntamento per il loro sit in del venerdì a Park Avenue, davanti al consolato italiano. «Venezia è sommersa – hanno scritto in un tweet – e sta pagando l’inazione del Governo e della Regione del Veneto di fronte ai cambiamenti climatici».

Un destino comune, quello della Città dei Dogi e della Grande Mela. Entrambe le città sono considerate tra le più a rischio per l’innalzamento del livello dei mari. Ma è anche l’ennesima dimostrazione di come Venezia sia sempre al centro dell’attenzione mondiale. «La nostra città ha una innegabile dimensione globale – ha spiegato marco Baravalle del comitato No Grandi Navi -. Non è solo un simbolo, ma anche un chiaro paradigma di un pianeta condotto alla deriva da un sistema produttivo predatorio e mercificatore. Ma proprio per le sue peculiarità, Venezia ha tutte le carte in regola per riscattarsi e dimostrare che acqua, terra ed esseri umani possono coesistere in un unico ambiente come era ai tempi della Serenissima, prima che il capitalismo anteponesse gli interessi industriale a quelli della salvaguardia della città e si cominciasse ad interrare le barene per far spazio alla zona industriale».

Ristabilire questo perduto equilibrio morfologico, piuttosto che continuare in una politica di grandi opere devastanti che non sono la soluzione ma la causa del problema, è quanto chiedono Fridays For Future e il comitato No Navi che questo pomeriggio alle ore 17, in una assemblea cittadina in sala San Leonardo, chiameranno alla mobilitazione per domenica pomeriggio.

Mobilitazione che si svolgerà proprio dopo un’altra grande marea. Domenica mattina, alle 8,45, sono previsti infatti 140 centimetri di acqua alta. Il che comporterà l’allagamento di perlomeno il 60 per cento delle calli e dei campielli. Certo, siamo lontani dal picco di 187 centimetri registrato martedì, ma rimane comunque una “alta eccezionale” col rischio che lo scirocco ci faccia un’altra volta lo scherzo di spingere un altro fronte d’acqua dentro la laguna. In ogni caso, siamo al quarto «codice rosso» nei soli ultimi 10 giorni.

«I miei concittadini sono attoniti e muti – spiega Andreina Zitelli -. Attoniti perché non avevano mai assistito ad una tale frequenza di acque alte. Muti perché hanno capito che la politica non li salverà. Governo, Regione e Comune continuano a parlare del Mose e della necessità di realizzarlo al più presto. Ma nessuno sa, se e quando sarà pronto. I test sono ancora tutti da fare e hanno già detto che in situazioni critiche come quelle di martedì, nessuno potrebbe prevedere l’effetto delle onde sulle paratoie, col rischio di cedimento e di far spazzare la città da uno tsunami. Tutta l’operazione è in mano a enti che perseguono interessi privati come il Porto. Nessuno affronta il problema vero: cosa fare per difendere sin da ora e con un progetto che guardi al futuro climatico che ci attende, la laguna dalle alte maree. L’unica soluzione è quella di alzare i fondali e riportarli come erano una volta per rimediare agli errori passati. Bisogna fare entrare meno acqua e meno velocemente».

Sospendere i finanziamenti milionari al Mose per dirottarli verso opere atte a ripristinare la morfologia lagunare e salvaguardare il costruito, è quanto chiederanno i manifestanti che domenica daranno vita ad un corteo con partenza da campo Santa Margherita alle 14. La manifestazione si farà anche in caso di acqua alta, assicurano. Perché, come cantano i No Tav per la Val di Susa, “La laguna paura non ne ha”.
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