In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Venezia «Fu-Turistica» in piazza contro i «grandi hotel del mare»

Manifestazione oggi in Laguna. Il comitato No Navi rivendica un futuro diverso per la Città dei Dogi
Uno striscione lungo due chilometri. Il più grande mai sollevato sotto il cielo della laguna di Venezia. A sorreggerlo sarà una catena umana che partirà dal terminal crociere di San Basilio per arrivare alla Punta della Dogana, snodandosi lungo l’intera fondamenta delle Zattere, la più grande della città. Non a caso, si tratta della riva che costeggia il canale della Giudecca. Il canale che sbocca davanti piazza San Marco dove solo la Pandemia è riuscita, per ora, a fermare l’inquinante via vai delle Grandi Navi. Una battaglia, questa contro i «Grand Hotel del Mare», che per gli ambientalisti veneziani del comitato No Navi, tra gli organizzatori della manifestazione, è emblematica per ridare futuro e dignità a questa che un tempo era la Città dei Dogi.

Un enorme e ininterrotto striscione preparato dalle attiviste e dagli attivisti degli spazi sociali veneziani come il Laboratorio Morion e Il Sale Dock, che vuole testimoniare tutta la grande voglia di ripartire dei veneziani. Ma «ripartire» imboccando una direzione ostinatamente contraria a quella seguita sino a ieri.
Il nome dell’iniziativa che si svolgerà questo pomeriggio, a partire dalle ore 17 alle Zattere, è già un programma: «Venezia Fu-Turistica». E’ una speranza di Venezia futura infatti, quella che prenderà voce dallo striscione che sventolerà sul canale della Giudecca. «Venezia può rinascere solo se si libererà da questo corto circuito di speculazione che l’ha trasformata in una città museo, se non addirittura in un parco divertimenti per ricchi turisti» spiega Marta Sottoriva, studentessa di Ca’ Foscari e una delle organizzatrici della mobilitazione. «La pandemia ci ha riconsegnato una città deserta, in piena crisi perché l’unica economia che conosceva era quella del turismo. Ma Venezia è molto di più: ci sono giovani che qui sono nati o che qui hanno studiato e che qui vogliono rimanere per costruire il loro futuro che è il futuro stesso della città. Ma questo futuro sarà possibile solo uscendo dalla monocoltura turistica, con interventi a favore della residenziali capaci di fermare gli speculatori che hanno trasformato le nostre case in alberghi e B&B».
Una novità della mobilitazione di questo pomeriggio è la sua forte componente giovanile e studentesca. Molte delle ragazze e dei ragazzi che hanno realizzato l’impegnativo striscione provengono dalle file di Fridays For Future che, per l’appunto, figura tra gli organizzatori dell’iniziativa. «Venezia sopravvive solo se sopravvive la laguna in cui è immersa aggiunge Marta Sottoriva -. La tutela dell’ambiente è fondamentale per una città come la nostra che vive dell’equilibrio tra terra e acqua. I cambiamenti climatici rischiano di farci affondare. Il Mose, lo abbiamo visto anche con l’acqua alta di una settima fa, eccezionale e assolutamente fuori stagione, non è la soluzione ma il problema. La strada da percorrere è un’altra, quella della difesa del territorio da mercificazioni e inquinamenti. Venezia deve diventare la capitale della Giustizia Climatica».
«La pandemia dovrebbe averci insegnato qualcosa spiega Mattia Donadel, portavoce del comitato Opzione Zero ed invece, proprio in piena emergenza la Regione e il Comune hanno approfittato per accelerare l’iter di approvazione di un nuovo mega impianto di incenerimento da realizzare a Fusina, proprio a ridosso della gronda lagunare. Alle Zattere diremo No anche a questo progetto. La ripartenza che vogliamo è ben diversa dal rifare gli stessi errori del passato che sono stati la causa e non la soluzione del problema».

No, il piano Colao di “verde” non ha proprio niente. E’ il solito regalo alle mafie e alle lobby del cemento

Non è che se li sia dimenticati. E’ che proprio non gliene frega niente. I cambiamenti climaticinon fanno semplicemente parte del bagaglio di conoscenze di un economista rampante come Vittorio Colao, che si è formato lavorando nelle più importanti aziende private del Paese. Non ultima la Vodafone, di cui è stato per tanti anni amministratore delegato. 
Nelle tredici parole chiave del piano che ha presentato al Governo, l’emergenza climatica non e neppure menzionata.  Eppure dovrebbe essere questa la base su cui impostare una vera ripartenza, approfittando di un momento come questo in cui la pandemia ci ha dato l’opportunità di ridisegnare l’economia del Paese e di avviarla verso una vera sostenibilità, ambientale e sociale. Ed invece, i cambiamenti climatici non sono neppure stati presi in considerazione. “Ripartire”, per il comitato di esperti guidati da Colao, vuol dire semplicemente ricominciare tutto come prima. Anzi, più di prima, come a voler recuperare da un punto di vista finanziario, il tempo perduto. Altro non si trova in quelle pagine che una “Colaoata di cemento”, come qualcuno l’ha definita. Il solito pastone di grandi opere utili solo a chi le fa, inquinamenti e cementificazioni a man bassa, con le inevitabili mercificazioni di ambiente e di diritti a contorno. Il tutto, da condurre sotto la solita logica del commissariamento, delle leggi speciali e della deroga a tutte le norme di tutela ambientale e di garanzia di trasparenza degli appalti e delle concessioni. Eccola qua, la “ripartenza” del Governo Conte. Niente da dire: un bel regalo alle mafie! 
L’incredibile, è che si stia cercando di farlo passare come un piano di rilancio improntato su una forte valenza ecologista! Ma basta scorrere le pagine del rapporto per capire che le cosiddette “grandi opere strategiche” – quelle che hanno inquinato e devastato l’Italia non soltanto dal punto di vista ambientale ma anche della democrazia – godranno di una autostrada privilegiata che neppure la famigerata legge Lunardi – Berlusconi si sarebbe sognata di concedere, bypassando tutte le (poche) norme di tutela ambientale che ancora resistono. 
Anche il capitolo dedicato alla gestione del patrimonio artistico, storico e culturale, è un incubo ad occhi aperti perché il piano prevede l’azzeramento di tutte le procedure speciali di tutela. E non si tratta di un semplice errore. La commissione sapeva benissimo cosa faceva. Il problema, come abbiamo scritto, sta alla base. L’idea di “bene comune” non è mai entrata nei piani di studi, e nelle teste, dei manager da aziende private che hanno steso il piano. Arte, paesaggio, ambiente sono visti solo come strumenti, o merci se vogliamo, da valorizzare solo nella misura in cui si rivelano utili a far ripartire l’economia da rapina che “ladrava” prima e che vorrebbe “ladrare” ancora. La stessa economia che è stata non soltanto la causa del problema ma il problema stesso.
Il piano Colao propone addirittura di bypassare tutti i collegamenti al Green Deal che l’Europa ha chiesto per l’accesso al Recovery Fund e concede ampia facoltà di andare in deroga alle norme di tutela comunitarie per le concessioni idriche, autostradali. Non sono state poste neppure limitazioni ai contributi dedicati alle multinazionali del fossile che oggi ammontano a 19 miliardi di euro. Anche sul capitolo sulla gestione dei rifiuti, viene legittimata la loro “trasformazione in energia”. Leggi: incenerimento.
Un piano, insomma, più nero che verde, e che va esattamente nella direzione opposta a quella delineata dagli accordi sul clima, verso la quale bisognerebbe puntare con decisione ed investire le nostre risorse.
Da notare che, in tutto il piano Colao, la parola “ambiente” viene usata solo collegata al termine “infrastrutture”. Il titolo della seconda scheda è proprio: “infrastrutture e ambiente, volano nel rilancio”. Ma le infrastrutture alle quali pensa l’ex amministratore delegato della Vodafone, l’ambiente se lo divorano! A questo punto, la scritta “rivoluzione verde” che compare nel logo iniziale e che, ci scommettiamo, gli è stata suggerita dall’Ufficio Marketing, sembra, più che una barzelletta, una presa per il sedere!
Ma c’è un’ultima, importante considerazione che sono in pochi ad averlo sottolineato. Nella scheda “Semplificazione procedure di aumento di capitale” troviamo addirittura una proposta chiamata “Voluntary Disclosure”, che sta per “rivelazione volontaria”. L’hanno scritta in inglese perché fa più figo e si capisce meno. Allo scopo di far emergere la cosiddetta “economia sommersa” e che è stata valutata da Colau sui 170 miliardi di euro all’anno, il piano prevede la possibilità per questi capitali di beneficiare di uno speciale condono per farli entrare nei circuiti finanziari e spingere la “ripresa”. Ma “economia sommersa” altro non significa che “soldi in nero”: denaro cioè che proviene da attività più o meno lecite, come evasione fiscale, tangenti, sottrazioni di bilancio, mancati pagamenti o addirittura narcotraffico! Denaro sporco che il piano Colao trasformerebbe immediatamente in denaro pulito perché la mafia – chi altri, se no? – potrebbe accedere al condono senza dover dare nessuna spiegazione sula provenienza illecita di questi capitali.
Una volta, si chiamava “riciclaggio”.

“Non brucerete il nostro futuro!” Marghera si mobilita contro l’inceneritore di Zaia & C.

Non hanno imparato niente. Non è bastata la devastazione industriale – e, per di più, fallimentare – di un’intera provincia a ridosso della laguna più bella del mondo. Non sono bastate le bonifiche mai arrivate. Non sono bastati neppure i continui allarmi chimici, l’ultimo dei quali poco più di 15 giorni fa: l’incendio alla 3V Sigma con tanto di invito a restare a casa con le finestra chiuse “in via precauzionale”. Non è bastato neppure un terrificante consumo di suolo che non ha uguali in nessun’altra Regione d’Italia, e, crediamo, neppure d’Europa. Consumo che periodicamente ci regala inondazioni, acque alte, falde infette, mafie ambientali ed inquinamento. Non è bastata neppure la pandemia che ha accoppato quasi 34 mila persone nel solo territorio regionale. Eppure, è stato scientificamente dimostrato  che le polveri sottili e, in generale l’inquinamento atmosferico non solo è un potente veicolo di trasmissione del virus ma è anche un fattore debilitante che abbatte la capacità del metabolismo umano di reagire. Tutto questo non gli ha insegnato nulla. Per i fautori dello “sviluppo a tutti i costi”, ripartire vuol dire ricominciare come prima e, possibilmente, più di prima. Come a voler recuperare ill tempo perduto. E’ questa la “normalità” invocata da Zaia & C. E pazienza se, come dicono i Fridays For Future, “era proprio questa ‘normalità’ la causa del problema”. 
Il progetto di un nuovo inceneritore a Fusina, portato avanti dalla Regione Veneto con la complicità dell’amministrazione comunale di Venezia, proprio in piena pandemia, è un perfetto emblema di questo critero di “sviluppo economico” che è la causa dei problemi che abbiamo sopra elencato. Problemi che, proprio in quanto tali, rappresentando una perfetta ed appetibile “merce” per nutrire questo capitalismo da fine mandato che riesce a trasformare in profitto per pochissimi l’ambiente, la salute, i diritti, la stessa vita ed i beni che appartengono a tutti. In Sudamerica, lo chiamano Terricidio. E l’inceneritore di Fusina è una sua bandiera. 
“Deve essere chiaro che noi non siamo contrari all’inceneritore perché lo vogliono fare a casa nostra, a Fusina, ma perché va in una direzione opposta a quella che porta alle tanto auspicate bonifiche di Porto Marghera e ad un ciclo virtuoso ed integrato della gestione dei rifiuti” ha spiegato Roberto Trevisan, storico portavoce dell’Assemblea contro il pericolo chimico. Lo ha spiegato ad una grande platea di oltre 600 persone che si sono radunate ieri pomeriggio in piazza Mercato, dietro al Municipio di Marghera. La mobilitazione è stata organizzata, oltre che dall’Assemblea, da Fridays For Future Venezia Mestre, Opzione Zero e Medicina Democratica. 600 persone che si sono radunate per costruire una mobilitazione popolare contro il progetto della Regione e del Comune rispettando rigorosamente le distanze ed i criteri della sicurezza per il contenimento della pandemia. Niente “salvinate” su questa piazza! 
L’incontro è stato benedetto da una bella giornata di sole che, diciamocelo senza vergogna, è riuscito a rinfrancarci dopo tutti questi lunghi giorni di chiusura. Una atmosfera di festa allietata dall’immancabile colonna sonora dei Pitura Freska. Come? Sì, c’era anche lui, il mitico Skardy, tra la folla!
Sullo sfondo del grande striscione “Non brucerete in nostro futuro” appeso sulla parte del municipio, l’incontro è stato aperto dai Fridays For Future che, proprio la mattinata avevano occupato in segno di protesta la sede di Veritas. Dopo Trevisan ha preso la parola Mattia Donadel di Opzione Zero che ha illustrato le iniziative di mobilitazione contro l’inceneritore: il ricorso al Tar, una giornata di informazione capillare rivolta a tutta la cittadinanza, il boicottaggio a Veritas a favore di gestori energetici più rispettosi dell’ambiente, la petizione on line che ha già raccolto più di 5 mila firme. “Ma anche se non riuscissimo a fermare l’iter burocratico, ci faremo trovare là, davanti ai cancelli di Veritas per bloccare i camion che trasportano i materiali per la costruzione dell’ecomostro. Non gli permetteremo di incenerire il nostro futuro”. 
Prima degli appelli dei medici pediatri che hanno chiesto di non mettere a repentaglio la salute dei bambini e degli interventi dei tanti comitati ambientali di Venezia e della Terraferma (il video integrale ripreso dai FfF è visibile sul nostro canale You Tube), ha preso la parola Gianfranco Bettin, presidente della municipalità e portavoce regionale dei Verdi che ha sottolineato la responsabilità dell’amministrazione fucsia che governa Venezia: “Non è solo il progetto dell’inceneritore che mettiamo in discussione ma la visione del rapporto tra industria e città che vuole imporci chi ci governa e che rappresenta un pericoloso ritorno al passato. Ricordiamoci che Marghera è il luogo in cui è stato messo nero su bianco, nel piano regolatore del ’62, che era legale bruciare qualsiasi sostanza anche nociva alla salute umana. Qui la Regione ha realizzato uno degli inceneritori più infami che abbiamo chiuso nel 2014 ma che per vent’anni ci ha avvelenato facendoci respirare diossina. Per questo, è doppiamente colpevole la decisone dell’amministrazione comunale e del sindaco Brugnaro di supportare dall’Interno il vecchio progetto del presidente Zaia di fare di Marghera la pattumiera del Veneto”. 

Marghera, bruciato il libro che denuncia le ecomafie

Fatti e misfatti . "Cracking" di Gianfranco Bettin è stato incendiato e lanciato dentro i locali del municipio di Marghera, di cui l'autore è presidente. Sulle pagine bruciate svastiche e scritte che invocano "ordine"
Un libro imbrattato di insulti e di svastiche. Un libro dato alle fiamme e poi gettato dentro una finestra nel tentativo di intimidire chi lo ha scritto. Il libro in questione è “Cracking” (Mondadori) e il suo autore è Gianfranco Bettin. Il luogo è la sede della municipalità di Marghera, di cui lo scrittore è presidente. Il volume è stato gettato da ignoti proprio nel vano d’entrata delle scale che conducono all’ufficio di presidenza.
Non è ancora chiaro se lo scopo era quello di provocare danni o addirittura di appiccare il fuoco all’edificio, oppure se le fiamme altro non sono che una sorta di ulteriore affronto al libro che, ricordiamolo, racconta la storia romanzata di una protesta operaia sullo sfondo del petrolchimico veneziano, tra malavita organizzata, criminalità finanziaria e lotte per il lavoro e per l’ambiente.

A trovare il volume mezzo bruciato, martedì mattina, è stato il personale incaricato della pulizia che ha immediatamente informato il presidente della Municipalità e le forze dell’ordine che hanno avviato le rilevazioni e le indagini del caso. “Un gesto da non sottovalutare ha dichiarato il prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto nei confronti di uno studioso che che si è sempre battuto per difendere i cittadini e l’ambiente da ogni tipo di corruzione e di mafie”.
Un gesto vile che accumula nell’oltraggio Gianfranco Bettin all’intera comunità di Marghera. Le pagine risparmiate dalla fiamme, infatti, sono coperti di insulti non solo nei confronti dell’ambientalista, ma anche di tutta Marghera, descritta come luogo degradato e malavitoso, piena di drogati e assassini, oltre che fonte di inquinamento, invocando su tutta la zona il ripristino di “ordine e pulizia”.
Un programma politico, chiamiamolo così, piuttosto semplice ma che si sposa con le principali categorie di pensiero proprie dell’estrema destra. Quella delle “soluzioni finali”, per intendersi. Tra le pagine semi bruciate, infatti, campeggiano svastiche e altri simboli nazisti. Tutte le ipotesi sugli autori del gesto sono ancora aperte. Da quella fascista a quella di una semplice persona disturbata di mente, magari impaurita dal recente incendio alla 3V Sigma che ha sollevato sull’intera laguna una impressionante nube di fumo nero.
Senza dimenticare, come ha spiegato il prefetto, che tutto ciò potrebbe rivelarsi una vera e propria operazione di intimidazione, con tentativo di depistaggio verso una pista nera, da parte di quelle mafie ambientali che Gianfranco Bettin ha sempre coraggiosamente denunciato. Mafie che, proprio in questi tempi di fine lockdown,stanno cercando di cavalcare la crisi economica e la conseguente mancanza di liquidità di tante aziende per impossessarsi delle attività produttive venete.
“Non sappiamo ancora chi è stato - ha commentato lo scrittore -. Le indagini, come si dice, sono ancora in corso. Io stesso non so ancora bene come valutare questo gesto. Bruciare i libri è certamente un gesto nazista. Una azione violenta che accumula l’odio per me a quello per i libri ed a quello per l’intera comunità di Marghera, come fosse responsabile di una devastazione ambientale e, per certi versi anche sociale, che ha radici ben lontane da queste strade.
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Tra tanti dubbi, una cosa solo resta sicura: ne io né la comunità di Marghera che in questi anni ha dimostrato in mille modi di saper reagire al crimine e al degrado, ci lasceremo intimidire”.

Esplode una fabbrica chimica, disastro annunciato a Marghera

La Sigma va in fiamme. Nube tossica sul cielo di Venezia. Diversi operai feriti, due gravi. Gli allarmi ignorati sulla sicurezza


Alle 10,15 di ieri mattina, Venezia è improvvisamente tornata alla normalità. Un forte botto causato dall’esplosione di un serbatoio ha scatenato un violento incendio a Porto Marghera che ha devastato gli stabilimenti dell’industria chimica 3V Sigma, azienda specializzata nella produzione di solventi e sbiancanti per cementifici. Un’alta colonna di fumo nero e maleodorante si è alzata dal luogo del sinistro ed è rimasta visibile per tutta la mattinata sull’orizzonte della città.
La violenza dell’esplosione ha danneggiato anche alcuni appartamenti vicini alla 3V Sigma, spaccando i vetri delle finestre e danneggiando gli interni. Il bilancio delle vittime conta numerosi feriti e due operai ricoverati in gravissime condizioni per ustioni.
Proprio due di quegli operai che il 10 luglio di un anno fa erano scesi in sciopero contro la mancata osservanza dei protocolli di sicurezza da parte dell’azienda, comprese le norme antincendio, e che qualche giorno fa, costretti a lavorare anche in pieno lockdown, avevano denunciato ancora una volta i rischi che correvano nella loro attività, ricevendo come risposta da parte dell’azienda solo la minaccia verbale di una denuncia per diffamazione.
Un disastro annunciato, quindi, quello accaduto ieri mattina a Venezia. Un disastro dal quale i comitati ambientalisti e la stessa Municipalità presieduta dall’ambientalista Gianfranco Bettin, avevano più volte messo in guardia il Comune e la Regione. Sotto accusa anche la gestione dell’emergenza da parte dello stesso Comune e dell’ArpaV.


L’allarme in terraferma è scattato con quasi un’ora di ritardo. Nella città lagunare, addirittura, dove la nube tossica si è diretta spinta dal vento, non sono neppure mai suonate le sirene. Irraggiungibili i siti della Protezione Civile e del Comune che solo alle 11,15 ha diffuso una nota in cui «in via prudenziale» invitava tutti i residenti a portarsi in un luogo chiuso, a chiudere le finestre sigillando i bordi con dei panni umidi, senza peraltro dare informazioni sulla natura dell’incendio e sulle sostanze che ammorbavano l’aria.
La paura è corsa sui social, dove i residenti postavano filmati e foto dell’impressionante colonna di fumo, chiedendosi quale fosse la portata del pericolo.
La situazione si è normalizzata solo dopo le 14, con la sirena del cessato allarme. Nel pomeriggio, gradualmente, anche il traffico automobilistico e quello ferroviario, interrotti in tutta l’area, sono tornati alla normalità. Anche il sindaco Luigi Brugnaro ha raggiunto l’area dove era scoppiato l’incendio per ribadire in una conferenza stampa che «la macchina comunale ha funzionato» e che contava di «riaprire quanto prima le strade che sono state chiuse, non appena avremo i dati dell’ArpaV sulla qualità dell’aria, così da poter far tornare le persone al lavoro».
La sua performance davanti alle telecamere è stata interrotta da alcuni attivisti del comitato contro il Rischio Chimico di Marghera che hanno chiesto un confronto col primo cittadino. Confronto negato perché Brugnaro si è semplicemente rifiutato di rispondere alle domande dei cittadini presenti. «Di fronte ad un disastro come questo che ha messo in pericolo tutta la città, il sindaco si preoccupa solo di far riprendere il prima possibile il lavoro agli operai – ha commentato Michele Valentini, portavoce del comitato Rischio chimico -. Gli obiettivi della sua amministrazione sono tutti qua: fare alberghi per i turisti, devastare la laguna per far spazio alle grandi navi e far lavorare gli operai.
La salute dei cittadini, l’avvio di una alternativa al turismo di massa, la tutela dell’ambiente e le famose bonifiche che Marghera attende da decenni sono temi che il suo programma elettorale non contempla nemmeno».
Le bonifiche, appunto. Dopo anni di progettazione e milioni di investimenti, la messa in sicurezza dell’area industriale di Venezia è ancora una utopia. Non solo. Comune e Regione stanno spingendo per la realizzazione di un nuovo, grande polo di incenerimento a Fusina. Sarà il più grande del Veneto e tratterà anche fanghi di depuratori e percolati di discariche contaminati da Pfas.
Un progetto contrastatissimo dagli ambientalisti. E viene da chiedersi se è questa la «normalità» alla quale Venezia vuole tornare dopo i mesi del coronavirus.

Il caso dell’hotel Monaco. Un motivo di più per chiedere una sanatoria. E subito!

“Ci mancavano solo gli stranieri” titola Libero. E sotto la notizia dei 100 richiedenti asilo dell’hotel Monaco trovati positivi al Covid19, le conclusioni che tira la testata diretta da Vittorio Feltri sono quelle razziste e xenofobe che, senza fatica, ci possiamo immaginare. E noi che abbiamo sottoscritto la campagna “Sanatoria subito!”, saremmo dei “pazzi” solo perché riteniamo che la maniera migliore di fermare il contagio sia quella di evitare i grandi assembramenti, come sono per l’appunto i centri per migranti dopo che i decreti sicurezza hanno spazzato via quello che di buono era stato fatto con l’accoglienza diffusa per affidare tutto il business migratorio alle grandi cooperative. Quelle che ogni tanto si guadagnano le prime pagine dei giornali per essere finite sotto inchiesta per reati di stampo mafioso. Ma anche la mafia per Libero è tutta colpa dei migranti. 

Sotto il titolone, per la cronaca, troviamo un’altra balla: “Sbarcati 467 clandestini, con Salvini erano quasi azzerati”. Non è vero. Gli sbarchi non erano affatto azzerati quando il ducetto legaiolo era ministro degli Interni. Lo dicono i numeri e pure il sindaco (leghista) di Lampedusa. Ma i colleghi di Libero sanno bene che se ripeti tante volte una bugia, qualcuno finisce per crederla una verità. E questa storia dell’hotel Monaco pare perfetta per rovesciare la frittata, e far diventare bianco il nero e nero il bianco. Nel caso, la storiella pare perfetta per trasformare i migranti in untori, le vittime in carnefici, il dritto per lo storto. 
Ma cosa è successo all’hotel Monaco, una struttura alberghiera situata nella zona industriale di Verona, trasformato dal 2014 in un centro di accoglienza richiedenti protezione internazionale? E’ successo quello che noi dalle pagine di questo sito, abbiamo sempre denunciato: le concentrazioni di migranti sono ingiuste per chi ci finisce dentro, dannose per un vero processo di inclusione, inutilmente costose, socialmente pericolose perché alimentano la percezione di insicurezza dei cittadini, utili solo per chi fa campagne xenofobe e deve dimostrare che “non funziona niente” e “i clandestini sono tutti delinquenti”. Non potevamo sapere che sarebbe arrivato il Covid19, altrimenti avremmo aggiunto anche “a forte rischio di diffusione di un eventuale contagio”. 
Poi è cambiato il Governo, ma le politiche sui migranti sono rimaste le stesse. Ed è arrivata anche la pandemia. Ma questa non l’hanno portata i migranti ma gli uomini d’affari che andavano su e giù tra l’Italia e la Cina. Cosa che ha spiazzato parecchio la nostra destra. Come fare per continuare ad addossare la colpa ai “clandestini”? Il caso dell’hotel Monaco cade a fagiolo. Eccoli trasformati tutti in untori. La struttura di accoglienza è assediata da un cordone di forze dell’ordine che neanche se ci fosse nascosta dentro l’intera “cupola” della mafia. Se avete stomaco, andate a leggervi i commenti sotto gli articoli web dei giornali locali che hanno riportato la notizia. C’è chi chiede alla polizia di sparare a vista, chi il lanciafiamme liberatorio. 
Tutto normale. In momenti di smarrimento come questo, la vigliaccheria prende il sopravvento sulle anime più semplici. I migranti, i “neri”, i “clandestini” sono feticci perfetti per sfogare le nostre paure. Un meccanismo che i “giornalisti” di Libero conoscono bene. Ai colleghi che gestiscono le pagine web dei giornali locali invece, vorrei ricordare che la nostra deontologia proibisce di lasciare commenti razzisti sulle pagine e che vanno immediatamente bannati. Invito i lettori a segnalare ogni violazione ai probi viri dell’Ordine dei Giornalisti. 
“Siamo indignati per come è stata gestita la conduzione dell’hotel Monaco – spiega Daniele Todesco dell’Osservatorio Migranti Verona – La struttura era attenzionata sin dall’inizio dell’epidemia e non è immaginabile che non sia stato previsto un piano. Dentro ci sono 147 migranti. Alcuni lavorano in cooperative. Come è possibile che si sia arrivati a questo punto? Le concentrazioni sono sempre negative ma in tanto di pandemia, rischiano di mettere in pericolo tutti, migranti e non. Il vero problema è la densità abitativa della struttura, per altro ‘benedetta’ dalla Prefettura non solo al Monaco”. 
Già. Densità abitativa. E si ritorna alla questione della chiusura per decreto del precedente Governo Lega & 5 Stelle, dei piccoli centri di accoglienza per raggruppare i migranti in grosse strutture con taglio di operatori e di servizi, e conseguente trasformazione dei mediatori in sorveglianti.
L’Osservatorio ha inviato una formale richiesta di chiarimenti al prefetto di Verona, Donato Cafagna: “Chiediamo chiarezza, perché riteniamo che le persone ospitate all’interno dell’Hotel non siano state trattate in modo rispettoso”. 
Il comunicato inviato al Prefetto è volutamente garbato. In  realtà, ci sarebbe da incazzarsi parecchio sul fatto che i migranti dell’hotel Monaco abbiano saputo, solo attraverso la stampa, che un centinaio di loro è stato trovato positivo al tampone. Tranne pochi di loro, nessuno sa ancora l’esito del suo test. Positivi e negativi continuano a vivere assieme senza che nessuno li abbia neppure informati delle precauzioni da adottare per non essere contagiati o per non diffondere il contagio! Più che in modo “poco rispettoso”, sono stati trattati in maniera vergognosa e discriminatoria! Oltre a tutto, riteniamo che, informare la stampa prima dei diretti interessati, sia una grave violazione dei diritti delle persone sottoposte a tampone e, per i colleghi giornalisti che hanno riportato la notizia, anche una violazione del codice di deontologia professionale riguardo alle norme sulla privacy e sui dati sensibili. 
Ma c’è molto di più che una “semplice” violazione della privacy. “Perché non si è provveduto immediatamente a separare coloro che erano risultati positivi dai negativi?” chiede l’Osservatorio Migranti. In questo modo decine di persone sono state lasciate a rischio di contagio e, probabilmente, ora sono tate contagiate. I principi di sicurezza che valgono per le vite dei cittadini italiani, non valgono evidentemente per le vite degli stranieri. 
Un doppio errore. Perché, anche a voler prescindere dalla palese ingiustizia, dovremmo aver imparato che il Coronavirus non rispetta i confini nazionali e non guarda neppure se hai la carta di identità o il permesso di soggiorno in regola. Queste sono idiozie da umani, lui è un virus “democratico”. Per questo bisogna rispondergli tutti insieme perché tutti siamo parte della stessa umanità. Le regole anti contagio che valgono per gli italiani devono valere per tutti coloro che si trovano a vivere accanto a noi. Aspettiamoci, nel prossimo futuro, altri casi come questo dell’hotel Monaco. Sono costruiti ad arte per cavalcare paure e fomentare irrazionali divisioni. Ma la risposta che dovremo dare è sempre la stessa: sanatoria subito!

Neanche il virus ferma la caccia! La Regione Veneto autorizza i cacciatori di andare in deroga alla quarantena

Andrà tutto bene. Restiamo a casa. Scuole chiuse, musei, cinema, teatri, pizzerie (che voglia di una Margherita cotta su forno a legna), bar, anche le chiese. Anche la sinagoga sotto casa mia. Tutto chiuso. Ed è giusto così. Niente passeggiate, niente visite agli amici. Neanche la zia ultra novantenne che vive da sola, possiamo andare a trovare. Non possiamo neppure slegare la barca per una vogata in laguna per goderci questi primi tepori primaverili. E anche chi vive dall’altra parte del ponte, deve lasciare la bicicletta che ha oliato per tutto l’inverno ferma in garage. Ma va bene. Facciamo tutti la nostra parte per fermare il diffondersi della pandemia. Tutti? Tutti tutti? No, non tutti. Ci sono categoria che per le quali le deroghe alla legge che vale per tutti, più che eccezioni sono costanti. Sto parlando dei cacciatori. Quello che vale per tutti, per loro conta come un fico secco. Un uomo non può portare il suo bambino a prendere un po’ di sole, ma se quest’uomo gira con un fucile a tracolla per andare a sparare a degli animali, allora tutto gli è concesso. Anche andare in deroga alle disposizioni di quarantena! 

E così, signore e signori, pure in una emergenza planetaria come quella che stiamo vivendo, la caccia deve continuare! 

“Mentre l'Italia è in piena emergenza Coronavirus - si legge in un comunicato diffuso da associazioni ambientalista come Enpa, Lac, Lav, Lipu e Wwf - molte Regioni, approfittando del comprensibile e basso livello di attenzione della opinione pubblica, stanno emanando provvedimenti a favore della caccia, a partire dalle leggine incostituzionali fino alle autorizzazioni per l'attuazione di piani di ‘controllo’ della fauna, che consentiranno ai cacciatori selecontrollori di uscire sul territorio in totale disprezzo ai provvedimenti restrittivi assunti dal Governo”. 

Il Veneto governato dal leghista Luca Zaia, come è lecito aspettarsi, è in prima fila nell’attivare i cosiddetti “piani di controllo della fauna selvatica” che altro non sono che strumenti legislativi per consentire ai cacciatori di sparare allo sparabile. Nessuna limitazione per gli uomini con la doppietta. Nessun “200 metri da casa”. Loro possono spostarsi dove vogliono ed entrare pure nel tuo fondo privato se solo pensano che ci possa essere un animale da accoppare. 

Stesso discorso per l’altra Regione governata dalla Lega: la Lombardia. La giunta di Attilio Fontana ha addirittura fatto di peggio e si è attivata per impugnare una ordinanza del Tar che chiedeva la sospensione della caccia alla volpe! Come se in Lombardia non ci fossero cose più urgenti da fare che lavorare per consentire ai cacciatori di dedicarsi al loro divertimento preferito! 

Decisioni come queste che lasciano esterrefatti! Come ambientalisti non possiamo non sottolineare che l’inquinamento e le devastazioni all’ecosistema, di cui la caccia è l’esempio più emblematico, sono tra le cause più accreditate non solo per la diffusione del virus ma anche per il cosiddetto fenomeno dello ‘spillover’, ovvero il salto che permette al patogeno di trasferirsi da specie all’altra, dal pipistrello all’uomo. 

Ma l’aspetto più triste e sconsolante della vicenda, è che neppure quanto sta accadendo riesce ad insegnare qualcosa ai nostri cacciatori. In un momento in cui tutti siamo chiamati alla massima responsabilità, loro continuano pensare ad una cosa sola: sparare, sparare, sparare.

Ponte Galeria sbarrato. "Ospiti" senza protezioni e abbandonati da tutti

“Sono chiusi in stanze da otto persone. A nessuno di loro è stata data una mascherina o i guanti protettivi. Impossibile anche solo pensare di mantenere la distanza di sicurezza negli spazi comuni o nella mensa. E gli operatori sociali e le forze dell’ordine attorno a loro sono nelle stesse identiche condizioni”. Così si sfoga Carla Livia Trifan, 22 anni, romana, operatrice sociosanitaria in attesa di occupazione, che ha contattato LasciateCIEntrare in seguito all’appello per una sanatoria dei migranti irregolari lanciato dalla nostra associazione e da Legal Team Italia, Progetto Melting Pot Europa e Medicina Democratica.
“Tenerli in queste condizioni non ha nessun senso e rischia solo di far espandere ancora di più il contagio. O li liberano tutti o li sistemano in un posto sicuro”. Carla si riferisce ai migranti “ospiti” del centro Ponte Galeria a Roma: 40 donne e 75 uomini, compreso il suo fidanzato. “Lo hanno fermato il 3 marzo – racconta -. Appena l’ho saputo ho chiamato la polizia per chiedere spiegazioni. Lui è nato in Tunisia ma vive in Italia sin da quanto aveva 14 anni. Ora ne ha 26 ma non è ancora riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana. La polizia mi ha detto di stare tranquilla, che era solo un controllo, ma intanto lo avevano già portato al centro”.

L’iter per il suo rilascio si complica con l’arrivo della pandemia. Le date del processo slittano a non si sa quando. Intanto lui è ancora dentro. Carla va portargli vestiti puliti e generi alimentari. “Gli servono cibo scaduto che puzza. Chi può si fa fare la spesa dagli operatori o si fa aiutare dagli amici fuori”. Ma il 18 marzo entra in vigore il decreto di chiusura sanitaria e le porte di Ponte galeria vengono sbarrate. “Sono andata a portargli un po’ di cibo. Avevo la mascherina, i guanti e l’autocertificazione. Sono stata fermata dalla polizia che mi ha spiegato che la mia non si poteva considerare una emergenza e mi mi hanno minacciato di denuncia. Tra l’altro, loro non avevano né guanti né mascherine e mi si sono avvicinati a meno di un metro di distanza”. Adesso, Carla può sentire il suo fidanzato solo per telefono. Lui ha una scheda, che si paga, con la quale la può chiamare una volta al giorno da una cabina situata dentro la struttura. “Mi ha detto che un ragazzo che stava là è stato trovato positivo. Ora è in isolamento. Ma quanto ci metteremo a capire che, con questa epidemia, liberarli tutti è l’unica cosa da fare?”

Crociera da incubo, la nave Costa Victoria in cerca di un porto

Coronavirus. Paura a bordo, 1.400 persone tra passeggeri e personale sperano di attraccare al più presto
Doveva essere una spensierata crociera all’insegna della mondanità in «ambienti eleganti e confortevoli», studiati apposta per «regalarti il massimo del benessere, del comfort, del divertimento», come si legge nel sito della compagnia. Ma per i 718 passeggeri della Costa Victoria si è rivelata un incubo. Un incubo che ancora non si sa come, e dove, andrà a finire.

La grande nave era salpata da Venezia il 5 gennaio e qui avrebbe dovuto concludere il suo lungo viaggio attorno al mondo a fine marzo, dopo aver fatto scalo nei principali porti dei cinque continenti, dalle Barbados alle Antille Olandesi, dalle coste dell’Ecuador a quelle della Polinesia. L’esplosione della pandemia ha scombinato i programmi e l’elegante nave si è vista sbarrare, uno dopo l’altro, l’accesso di tutti i porti di destinazione. La crociera è finita prima del tempo ed ora la grande nave sta facendo precipitosamente ritorno alla casella di partenza, dove giungerà il 28 marzo.

I comunicati della compagnia in cui viene ripetuto che non ci sono contagiati a bordo sono smentiti dalle mail di passeggeri e lavoratori di bordo. «A Dubai, il 7 marzo, sono state fatte imbarcare anche persone che venivano da aree a rischio» si legge. «Molte persone vanno in giro tossendo pesantemente e non abbiamo nessuna certezza. La situazione è complicata e c’è paura. Non sono stati distribuiti dispositivi di protezione personali. Gli spettacoli sono stati sospesi per evitare la vicinanza, ma si continuano ad ammassare persone nei ristoranti».

A bordo ci sono solo due medici e un paio di infermieri. «Aiutateci» è l’appello che lancia uno dei 790 lavoratori di bordo. «È assurdo far sbarcare 1.400 persone in un’area pesantemente colpita dal virus: se risultassimo contagiati andremmo ad aggravare una situazione sanitaria già compromessa dall’attuale emergenza. Noi non vogliamo mettere in pericolo nessuno. Solo tornare a casa». I passeggeri vorrebbero sbarcare in un porto del sud, Bari o Napoli. Ma la nave che mercoledì è entrata nel canale di Suez, sta facendo rotta verso l’alto Adriatico. Due le ipotesi sulla destinazione finale: Trieste o Venezia. Nessuna certezza viene dalla compagnia di crociere che, dopo qualche giorno di sospensione dell’attività, ha già annunciato che la stagione turistica riprenderà regolarmente e ha già messo in vendita sul suo sito biglietti per partenze dal 1 aprile.

Chi non ha nessuna voglia di ripartire ma vorrebbe solo sbarcare, sono i passeggeri della Victoria, molti dei quali sono australiani e sono convinti, come assicurano anche i mass media del loro Paese, che la destinazione finale della nave sia rimasta quella, già prevista, di Venezia: uno dei focolai della pandemia. Costa Crociere non conferma ma nemmeno smentisce. Lo stesso presidente della Regione Veneto si è dichiarato contrario all’attracco della nave alla marittima di Venezia. «Non siamo dei lazzaroni – ha dichiarato Luca Zaia – ma non sappiamo quanti siano i contagiati a bordo che hanno bisogno di cure e non siamo nelle condizioni di poter garantire nulla perché siamo in emergenza».

«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»

Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».

Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.

In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.

La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Monti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.

In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.

I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!

L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?

No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.
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