La passione mancata di Bettino C.
22-01-2020, 01:40anniversari, Craxi, Ottanta, TheVisionPermalinkLa sera del 23 aprile del 1993 gli uomini della scorta di Bettino Craxi gli chiesero invano di uscire dal retro dell’Hotel Raphael. Nella piccola piazza antistante, già da un paio d’ore, si era formata una folla sempre più rumorosa che brandiva biglietti da mille lire (91 centesimi del 2020, al netto dell’inflazione). “Vuoi pure queste?", cantavano, "Bettino, vuoi pure queste?”, sull’aria di Guantanamera. Craxi, essendo Craxi, decise che non si sarebbe lasciato intimorire da quella che riteneva una manifestazione organizzata dai suoi avversari politici. Uscì dall’ingresso principale. E... si lasciò intimorire, eccome. “Ho provato per la prima volta sulla mia pelle lo squadrismo”, disse poi. Non c’è motivo di dubitare che si sia trattato di un vero choc per lui, al termine di una giornata particolarmente drammatica. Ma nel filmato il tragitto tra la porta dell’hotel e l’auto blu non dura più di quattro secondi, durante i quali gli agenti di polizia gli fanno da scudo umano. È vero, la piazza era piena (ma è anche abbastanza piccola). È vero, i manifestanti stavano tirando “di tutto! monetine, pezzi di vetro, di tutto!”, come gridò nel microfono l’inviata Rai Valeria Coiante. Ma non fu squadrismo, nel senso che il termine ha sui libri di Storia di cui Craxi era avido lettore: non fu l’azione di una banda armata nei confronti di un avversario politico inerme. Craxi era ben difeso, dalle forze dell’ordine di uno Stato che aveva appena deciso – con un voto del Senato – di non indagare su quattro delle sei accuse che i magistrati gli rivolgevano. La decisione era stata accolta con rabbia da una parte rilevante dell’opinione pubblica, e qualcuno aveva deciso di aspettarlo fuori dal Raphael. Tutto qui, e forse non sarebbe stato questo macigno sulla traiettoria politica di Bettino Craxi, se per una volta avesse deciso di essere un po’ meno Craxi e di uscire dal retro. In fin dei conti era il 1993, Craxi non era il primo leader politico a rimediare fischi e monetine, né sarebbe stato l’ultimo.
Perché non riusciamo a rivalutare Craxi? Nemmeno dopo vent’anni – vent’anni passati all’ombra di politici quasi sempre inferiori a lui per cultura e strategia – perché non riusciamo a dare allo statista quel che gli spetta? Cosa posso dire, è complicato. Forse per la mia generazione è una questione di imprinting. Nel 1993 io ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da sempre, cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; tra fan dei Duran Duran e fan degli U2 non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine, come tra Montecchi e Capuleti). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti delle fiction imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non significa che non avesse un senso detestarlo, mentre ci vivevi. Rifiutare l’estetica del disimpegno, rifiutare far caso alle crepe nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, e del resto eravamo davvero adolescenti. E Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcelo, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.
Ora, tutto questo è molto puerile, e abbiamo avuto trent’anni per rimetterlo in discussione. Trent’anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran: perché non Craxi? Che davvero, qualche argomento lo aveva.
A volte ho il sospetto che sia anche responsabilità dei craxiani... (continua su TheVision) una tribù ormai minuscola ma irriducibile, che a ogni anniversario si riversa in televisione e sui giornali impossessandosi dell’argomento. Non importa quanto tempo sia passato, e quante impressioni nel frattempo uno abbia accumulato: basta accendere la tv, sentirli parlare e le mani corrono al portafoglio, alla ricerca di altre mille lire che vorresti di nuovo brandire in favore delle telecamere. Un episodio che, capitasse oggi a un politico di rango analogo, sarebbe liquidato da un Salvini o da un Renzi con un #abbraccio o un #ciaone, a distanza di quasi trent’anni è ancora raccontato dagli orfani e dai vedovi di quella stagione con accenti epici.
Ogni tentativo di santificare Craxi si scontra con questo problema: la cosa più tragica che in Italia viene ricordata del declino di Craxi, l’apice della lotta al sistema politico corrotto che aveva contribuito a costruire, è stata una pioggia di monetine. Certo, se Craxi fosse rimasto in Italia avremmo visto scene ben più tragiche, ma lui per primo non se l’è sentita. Va biasimato per questo? Dopotutto era stato lui stesso a costruire il suo personaggio, con molta attenzione per i costumi e l’intonazione della voce.
Craxi in questo modo ha finito per impersonare quel tipo di eroe greco la cui hybris gli Dei non si stancano di punire. E di peccati ne ha commessi ben due: il primo è la la collusione con un sistema corrotto; il secondo è che per un intero decennio ha voluto e creduto di poter diventare il Mitterrand italiano, di mettere sotto scacco la DC e di poter profittare dell’esaurimento ideologico del PCI; ha creduto di poterci riuscire da solo, con una strategia attendista che faceva a pugni con quel “decisionismo” che credeva di impersonare. Per tutto quel tempo il suo partito non ha mai superato il 15% dei suffragi. Malgrado questo, Craxi puntava davvero alla Grande Riforma presidenziale: non molto diversamente da Renzi nel 2016 (che in questi giorni lo ha ricordato con una certa ammirazione) da Berlusconi in passato, riteneva che gli italiani, messi di fronte a una scelta secca tra lui e chiunque altro, avrebbero scelto lui. Si sbagliava, e non di poco: oggi lo sappiamo con certezza, ma non era poi così difficile capirlo anche allora. Gli elettori comunisti non gli avrebbero mai perdonato l’abolizione della Scala Mobile, e su un piano più tribale l’imboscata del Congresso PSI del 1984, quei fischi a Berlinguer da cui non aveva preso le distanze (anzi: “Se sapessi fischiare, fischierei anche io”). Gli elettori della sinistra DC non gli avrebbero mai perdonato il tradimento di De Mita, il patto col camper con Andreotti e Forlani, al punto da applaudire ai propri ministri che si dimettevano dal governo Amato piuttosto di non votare il decreto salvaberlusconi voluto da lui: quel momento che più di tutti preannunciava la fine della DC e della Prima Repubblica, se non già l’inizio dell’Ulivo.
Al di fuori del suo partito – trasformato a metà anni Ottanta in un’estensione del suo ego – Craxi era fortemente impopolare, ma non è mai sembrato preoccupato della cosa e forse non ne era nemmeno consapevole, come capita agli uomini potenti quando la salute declina e i cortigiani cominciano a stringere il cerchio. Fino a quella fatidica pioggia di monetine, che più che un linciaggio fu una doccia fredda. Gli italiani non si sono accontentati della versione dei fatti che ha reso in parlamento, incolpando l'intero sistema per sminuire le responsabilità dei singoli corrotti, per poi fuggire in Tunisia e fare il martire con vista mare.
In seguito abbiamo avuto più di un’occasione per riflettere sulla complessità di un sistema che si dice democratico ma che rende impossibile per i partiti finanziare le loro attività (situazione denunciata con impeto da Craxi sotto la voce ipocrisia, durante il discorso pre-monetine); abbiamo scoperto che i quotidiani funzionano davvero come macchine del fango, condannando gli indagati molto prima che se ne celebrino i processi; abbiamo verificato come i magistrati abusino spesso di intercettazioni e detenzioni preventive. Insomma abbiamo avuto tutto il tempo che ci serviva per ammettere che Bettino Craxi diceva la verità sulle profonde contraddizioni e le aberrazioni diffuse del nostro Paese. Ma abbiamo anche avuto tutto il tempo che serviva per riconoscere che quello che è stato tramandato come un linciaggio non lo è stato affatto: qualche monetina lo mancò di diversi centimetri, qualche manifestante gli sventolò da lontano banconote di mille lire. Craxi, che nel discorso del 29 aprile aveva accettato di rappresentare gli anni Ottanta italiani e ne rivendicava i progressi, rappresentava anche una classe dirigente che assistette impotente al quadruplicarsi del debito pubblico. Quello stesso debito che stiamo ancora pagando tutti, e che forse spiega meglio di tante parole quanto sia difficile riabilitarlo davvero (e quanto fosse facile cavarsi di tasca cento lire e lanciarle a un uomo antipatico, nell’aprile del 1993).
Perché non riusciamo a rivalutare Craxi? Nemmeno dopo vent’anni – vent’anni passati all’ombra di politici quasi sempre inferiori a lui per cultura e strategia – perché non riusciamo a dare allo statista quel che gli spetta? Cosa posso dire, è complicato. Forse per la mia generazione è una questione di imprinting. Nel 1993 io ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da sempre, cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; tra fan dei Duran Duran e fan degli U2 non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine, come tra Montecchi e Capuleti). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti delle fiction imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non significa che non avesse un senso detestarlo, mentre ci vivevi. Rifiutare l’estetica del disimpegno, rifiutare far caso alle crepe nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, e del resto eravamo davvero adolescenti. E Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcelo, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.
Ora, tutto questo è molto puerile, e abbiamo avuto trent’anni per rimetterlo in discussione. Trent’anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran: perché non Craxi? Che davvero, qualche argomento lo aveva.
Ogni tentativo di santificare Craxi si scontra con questo problema: la cosa più tragica che in Italia viene ricordata del declino di Craxi, l’apice della lotta al sistema politico corrotto che aveva contribuito a costruire, è stata una pioggia di monetine. Certo, se Craxi fosse rimasto in Italia avremmo visto scene ben più tragiche, ma lui per primo non se l’è sentita. Va biasimato per questo? Dopotutto era stato lui stesso a costruire il suo personaggio, con molta attenzione per i costumi e l’intonazione della voce.
Craxi in questo modo ha finito per impersonare quel tipo di eroe greco la cui hybris gli Dei non si stancano di punire. E di peccati ne ha commessi ben due: il primo è la la collusione con un sistema corrotto; il secondo è che per un intero decennio ha voluto e creduto di poter diventare il Mitterrand italiano, di mettere sotto scacco la DC e di poter profittare dell’esaurimento ideologico del PCI; ha creduto di poterci riuscire da solo, con una strategia attendista che faceva a pugni con quel “decisionismo” che credeva di impersonare. Per tutto quel tempo il suo partito non ha mai superato il 15% dei suffragi. Malgrado questo, Craxi puntava davvero alla Grande Riforma presidenziale: non molto diversamente da Renzi nel 2016 (che in questi giorni lo ha ricordato con una certa ammirazione) da Berlusconi in passato, riteneva che gli italiani, messi di fronte a una scelta secca tra lui e chiunque altro, avrebbero scelto lui. Si sbagliava, e non di poco: oggi lo sappiamo con certezza, ma non era poi così difficile capirlo anche allora. Gli elettori comunisti non gli avrebbero mai perdonato l’abolizione della Scala Mobile, e su un piano più tribale l’imboscata del Congresso PSI del 1984, quei fischi a Berlinguer da cui non aveva preso le distanze (anzi: “Se sapessi fischiare, fischierei anche io”). Gli elettori della sinistra DC non gli avrebbero mai perdonato il tradimento di De Mita, il patto col camper con Andreotti e Forlani, al punto da applaudire ai propri ministri che si dimettevano dal governo Amato piuttosto di non votare il decreto salvaberlusconi voluto da lui: quel momento che più di tutti preannunciava la fine della DC e della Prima Repubblica, se non già l’inizio dell’Ulivo.
Al di fuori del suo partito – trasformato a metà anni Ottanta in un’estensione del suo ego – Craxi era fortemente impopolare, ma non è mai sembrato preoccupato della cosa e forse non ne era nemmeno consapevole, come capita agli uomini potenti quando la salute declina e i cortigiani cominciano a stringere il cerchio. Fino a quella fatidica pioggia di monetine, che più che un linciaggio fu una doccia fredda. Gli italiani non si sono accontentati della versione dei fatti che ha reso in parlamento, incolpando l'intero sistema per sminuire le responsabilità dei singoli corrotti, per poi fuggire in Tunisia e fare il martire con vista mare.
In seguito abbiamo avuto più di un’occasione per riflettere sulla complessità di un sistema che si dice democratico ma che rende impossibile per i partiti finanziare le loro attività (situazione denunciata con impeto da Craxi sotto la voce ipocrisia, durante il discorso pre-monetine); abbiamo scoperto che i quotidiani funzionano davvero come macchine del fango, condannando gli indagati molto prima che se ne celebrino i processi; abbiamo verificato come i magistrati abusino spesso di intercettazioni e detenzioni preventive. Insomma abbiamo avuto tutto il tempo che ci serviva per ammettere che Bettino Craxi diceva la verità sulle profonde contraddizioni e le aberrazioni diffuse del nostro Paese. Ma abbiamo anche avuto tutto il tempo che serviva per riconoscere che quello che è stato tramandato come un linciaggio non lo è stato affatto: qualche monetina lo mancò di diversi centimetri, qualche manifestante gli sventolò da lontano banconote di mille lire. Craxi, che nel discorso del 29 aprile aveva accettato di rappresentare gli anni Ottanta italiani e ne rivendicava i progressi, rappresentava anche una classe dirigente che assistette impotente al quadruplicarsi del debito pubblico. Quello stesso debito che stiamo ancora pagando tutti, e che forse spiega meglio di tante parole quanto sia difficile riabilitarlo davvero (e quanto fosse facile cavarsi di tasca cento lire e lanciarle a un uomo antipatico, nell’aprile del 1993).
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Psycho Facci
18-01-2011, 16:39Berlusconi, Craxi, giornalistiPermalinkForse non ci avete mai pensato, ma se in ogni testo uno scrittore si tradisce, se in ogni pagina lascia senza volere qualcosa di sé, certi giornalisti che leggiamo quasi tutti i giorni ormai dovremmo conoscerli meglio dei nostri parenti.
Ma probabilmente non è così. Comunque quella che segue è un'interpretazione psicoanalitica dell'ultimo fondo di Filippo Facci sul post. Non è molto scientifica, ma d'altronde chi lo è.
Facci conscio | Facci subconscio |
«Mi chiamo Silvio Berlusconi, ho quasi 75 anni, non sto più con mia moglie e ammetto che mi piace divertirmi come probabilmente solo gli uomini ricchi e potenti e proprietari di tre televisioni possono fare. | Mi chiamo Silvio Berlusconi, sono vecchio, ricco e potente, ho tre televisioni e faccio tutto quello che mi pare. |
Perciò ogni tanto organizzo delle serate esagerate, delle feste in cui giovani donne consenzienti non disdegnano la mia persona e tantomeno qualche favore che io faccio loro: e a questo mondo i favori, quelli pesanti, alla fine riguardano sempre soldi, lavoro e case. | Ho fatto e farò sesso in cambio di soldi, lavoro e case, perché faccio quello che mi pare. Se non siete d'accordo è perche non siete ancora sul mio libro paga: cazzi vostri. |
Vi racconto queste cose senza ipocrisia, la stessa che forse avrei potuto risparmiarvi nel promuovere improbabili leggi contro la prostituzione oltre all’elezione di personaggi che provengono dal mondo dello spettacolo, dove forse dovrebbero tornare. | Vi racconto queste cose senza ipocrisia, perché l'unico crimine che interessa a Filippo Facci è l'ipocrisia. Ho pagato una minorenne, delitto punibile con la reclusione da sei mesi a tre anni, (art. 600-bis del codice penale)? Convoco una conferenza stampa, ammetto tutto e sono a posto. Le cose vanno così, nel magico mondo di Filippo Facci. |
La mia verità alla fine è tutta qui, e mi spiace che il Paese debba perdere altro tempo dietro a queste cose: ma non sono certo io a dover dimostrare la mia innocenza in ordine ad accuse che giudico assurde, tipo quella di aver concusso telefonicamente dei funzionari di polizia, o quella di aver avuto rapporti sessuali consapevoli con una minorenne. Escludo di averlo fatto, dunque vediamo queste famigerate prove dei magistrati. | La mia verità alla fine è tutta qui: spetta ai giudici dimostrare che ho avuto rapporti sessuali consapevoli con una minorenne, perché la legge non ammette ignoranza, tranne nel mio caso, e ovviamente nel cervello di Filippo Facci. |
Per quanto vi riguarda, valutate e giudicate se io debba essere ancora il presidente del consiglio oppure no: in fondo lo fate da 17 anni, siete quasi maggiorenni». | Continuerete a votare per me, perché sono ricco, e ho questa stilosa, arrogante franchezza che vi piaceva così tanto a fine anni Ottanta, ti ricordi Filippo, quando ha chiuso il Paninaro e ti sentivi tanto solo, e c'era solo una persona che ti faceva sentire sicuro e protetto? Ti ricordi? Ti ricordi? |
Questo è il discorso che, in un mondo irreale, mi sarebbe piaciuto sentire da Silvio Berlusconi. | Filippo! Sono io! Sono Bettino! Sono tornato! Non ero mai andato via! La verità non mi ha affatto sepolto sotto una gragnuola di roventi monetine, sono stato qui tutto questo tempo, nascosto sotto il cerone dell'ometto ipocrita, sono il padre stronzo e protettivo che ti meritavi, Filippo! Potrai mai scusarmi per averti lasciato così tanto tempo solo? |
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17-01-2003, 03:07ascesa e caduta di S. Cofferati, avercela con D'Alema, cattiva politica, Craxi, DSPermalink
Nessuno gli vuole bene 2
10 mesi dopo...(6 marzo '02)
(premessa doverosa: non l’ho visto in tv, non ho potuto. Ma ho fiducia nei virgolettati della Repubblica).
C’è una cosa di cui bisogna dare atto a D’Alema: lui non è quel tipo di persona che vuol fare il simpatico a tutti i costi, no.
I movimenti sono importanti, ma non sono un fatto epocale. Firenze? Anche a noi è capitato di stare fino all'una di notte in un'assemblea, molte volte. E nessuno ha il monopolio delle passioni.
La tesi di questo pezzo è banale: D’Alema è una persona antipatica. Mi rendo conto che il travaglio della Sinistra meriterebbe ben più acute riflessioni, ma a volte bisogna anche attentarsi a dire che il re è nudo, putacaso qualcuno non se ne fosse accorto. D’Alema non è nudo: però è antipatico. Liberissimo di esserlo. Ma forse le persone antipatiche non dovrebbero fare politica.
Qui non è in discussione il suo pensiero politico. Ma anche le idee migliori servono ben poco, in mano alla persona sbagliata. In questi giorni ho sentito dire fino alla nausea frasi che iniziavano con “Cofferati” e finivano con “cuore-della-gente”: “Cofferati sa parlare al cuore della gente”, “Cofferati sa scaldare il cuore”, ecc., un frasario da Tamaro prestata alla politica. Ora, senza dubbio l’uomo ha le sue qualità, non si diventa leader sindacali per caso. Ma io credo che a questo punto chiunque sarebbe in grado di vincere un duello di simpatia con D’Alema.
E siccome anche lui lo sa – non è uno stupido – mi chiedo come abbia potuto acconsentire a un duello del genere. Se Cofferati ha critiche da fare ai dirigenti DS, il suo avversario naturale è Fassino. D’Alema dovrebbe mantenersi al di sopra delle parti, come si conviene al Presidente del partito. Ma lui non si stanca di ripetere che la carica di Presidente serve a poco o nulla. Il che, oltre a denotare uno scarso rispetto nei confronti delle istituzioni del suo Partito, è anche scarsamente credibile, da parte sua.
Per quella poltrona di presidente, infatti, D’Alema ha brigato parecchio. Non se n’è staccato nemmeno quando, dopo il disastro elettorale, tutti i dirigenti si sono dimessi. Sempre per il motivo che “tanto il Presidente serve a poco”, e quindi se ne sobbarcava lui…
Mi dispiace che Cofferati sia in collegamento da Milano, mi sarebbe piaciuto guardarlo negli occhi. Lo so che lavora alla Pirelli, ma anche noi lavoriamo.
D’Alema forse ignora (ma come fa?) qual è la percezione che l’italiano medio ha del Parlamento: un convitto di allegri scrocconi, insaziabili, di una certa età. Non si sarà mai accorto delle voci che girano su internet e nei bar, sui mille privilegi, gli stipendi continuamente ritoccati verso l’alto, gli aerei e i cinema gratis. Non ha mai fatto caso a certe battute sulle sue barche, sui suoi cuochi, sul suo paio di scarpe da un milione.
Ha visto coi suoi occhi una buona parte dei suoi colleghi franare nelle crepe di Tangentopoli. Ha visto un imprenditore digiuno di politica metter su un partito e vincere le elezioni in quattro mesi.
Tutto questo avrebbe dovuto insegnargli qualcosa. E invece no.
Cofferati, che ha visto le stesse cose, ha avuto il buon senso di non farsi cooptare nel ceto politico, di tornare nel mondo del lavoro, almeno simbolicamente. Diciamo la verità, da Cincinnato avrà fatto sì e no un mese: ma gli è bastato per conquistarsi una popolarità e un credito notevoli.
Io non credo che non ci sia un solo lavoratore italiano, che, alle nove di sera, sentendo D’Alema dire “anche noi lavoriamo” non abbia sentito dalle sue viscere nascere un pensiero: “ma quale lavoro, D’Alema, se non hai mai fatto un cazzo in tutta la tua vita”. Concetto discutibile, ma alle viscere non si comanda. Per l’ennesima volta: ma come si fa a dire cose del genere? O meglio: come si fa a dire cose del genere e nel frattempo considerarsi un grande comunicatore politico? Mistero (doloroso).
Sottovaluti il nostro mondo, non siamo burocrati. E nel vecchio Pci è capitato tante volte che un dirigente scaldasse il cuore, facesse piangere la gente con un discorso, ma non per questo sono diventati segretari del partito.
In questa frase ci sono tre gravi errori politici. Riuscite a trovarli?
1) Al giorno d’oggi non è educato dichiararsi nostalgici del “vecchio Pci”. (Soprattutto da parte di chi si è dato da fare per metterlo in pensione).
2) Continuiamo pure a parlare della “gente”, la povera “gente” che ama “scaldarsi il cuore” e “piangere” per un discorso. Lamentiamoci poi se la stessa gente ci considera dei freddi burocrati…
3) Chi è che vuole diventare segretario del parito? Cofferati? Ne ha mai parlato? A metter troppo avanti le mani si rischia di cadere.
“Sì, magari non sarà un grande comunicatore, ma ha altre doti: è un fine stratega, per esempio”.
Dissento. Mi pare che pochi politici italiani, messi alla prova, abbiano commesso tanti errori di strategia. Dalla Cosa2, alla Bicamerale, all’idea sciagurata di sostituire Prodi, alle sue sconcertanti scommesse con Berlusconi: “se tu fai meno voti di me alle amministrative ti dimetti da Presidente del Consiglio, ok?” “Ok!”
Se io, se noi avessimo fatto sul nostro posto di lavoro la metà degli errori tattici commessi da D’Alema, oggi saremmo a casa, con o senza l’articolo 18. Perché D’Alema è ancora lì?
Semplice: perché lui chiede scusa. Ogni tanto rilascia un’intervista e dice: quella volta mi sono sbagliato. Quell’errore non lo ripeterò.
Nessuno osa spiegargli che, a un certo livello di professionalità, non dovrebbero esistere seconde possibilità. Che la politica è un mestiere disumano, dove ci si gioca la faccia a ogni gradino. Almeno, per gli altri è così. Ma per lui?
Quando ebbe la brillante idea di rifondare il PDS, a 5 anni dalla nascita, D’Alema sapeva che in quella rifondazione si giocava la faccia; che in caso di fallimento avrebbe pagato in prima persona. E invece no. Il PDS è abortito nei DS: il vertice si è rimpastato, la base non ha capito, un flop conclamato. Colpa di D’Alema? No. Colpa dei colleghi invidiosi che non lo hanno compreso.
Quando ebbe l’idea balzana di farsi nominare segretario della Bicamerale, D’Alema sapeva di correre due grossi rischi: svendere la Costituzione a Berlusconi, o partorire un altro bel nulla. Sapeva che, in entrambi i casi, era in gioco la sua credibilità. Com’è andata a finire? Un disastro.
A quel punto chiunque altro si sarebbe pre-pensionato. Lui no. È ancora lì che parla di riforme. Che importa se Berlusconi non è credibile, spiega, anche l’Ulivo deve fare le sue proposte. Come spiegargli che, a questo punto, lui stesso non è molto più credibile di Berlusconi?
Infine, i fatti parlano: dal suo governo in poi, i DS hanno perso quasi tutte le elezioni. Sono ai minimi storici.
Ma D’Alema, sulla “Repubblica” di domenica, spiega che le elezioni, lui, non le ha nemmeno perse, perché a Gallipoli ha fatto un ottimo score: Io, Fassino, gli altri esponenti della maggioranza saremmo i perdenti! Ma i perdenti sono i Folena, i Mussi, candidato a Milano, mentre io facevo una durissima campagna elettorale a Gallipoli!
Ecco un’altra frase a cui non mi riuscirebbe di replicare civilmente. Per quanto mi sforzi di trovare argomenti educati (il problema non è a Gallipoli, ma il dato nazionale, le responsabilità dei vertici del partito e del governo, ecc.), c’è qualcosa in me che finisce per sbottare: ma perché allora non ti trovi un bell’ufficio da assessore a Gallipoli e non ti cavi fuori dai coglioni?
Mi rendo conto di scadere nel qualunquismo, e me ne scuso, ma credo anche che il qualunquismo di una nazione sia direttamente proporzionale all’antipatia della classe dirigente.
E lo dico perché ho sempre avuto la sensazione che in Italia, se ci fu una rivoluzione, fu una rivoluzione qualunquista, che dieci anni fa culminò con un assedio al grand hotel che era la residenza invernale di Bettino Craxi. Ora, Craxi ne aveva fatte di cotte e di crude. Ma se si fosse trattato solo di qualche conto in Svizzera, lo avremmo sopportato. No. Quello che ci fece sbottare fu l’antipatia. Bettino Craxi era un politico intelligente, ma arrogante, supponente, antipatico.
Morì in esilio, indignato e incredulo di aver pagato per tutti. Senza capire quale gran disgrazia sia, per un politico, l’antipatia.
Credo che il suo caso avrebbe dovuto insegnare qualcosa a qualcuno. Ma no, no, niente, mai niente, è inutile.
10 mesi dopo...(6 marzo '02)
(premessa doverosa: non l’ho visto in tv, non ho potuto. Ma ho fiducia nei virgolettati della Repubblica).
C’è una cosa di cui bisogna dare atto a D’Alema: lui non è quel tipo di persona che vuol fare il simpatico a tutti i costi, no.
I movimenti sono importanti, ma non sono un fatto epocale. Firenze? Anche a noi è capitato di stare fino all'una di notte in un'assemblea, molte volte. E nessuno ha il monopolio delle passioni.
La tesi di questo pezzo è banale: D’Alema è una persona antipatica. Mi rendo conto che il travaglio della Sinistra meriterebbe ben più acute riflessioni, ma a volte bisogna anche attentarsi a dire che il re è nudo, putacaso qualcuno non se ne fosse accorto. D’Alema non è nudo: però è antipatico. Liberissimo di esserlo. Ma forse le persone antipatiche non dovrebbero fare politica.
Qui non è in discussione il suo pensiero politico. Ma anche le idee migliori servono ben poco, in mano alla persona sbagliata. In questi giorni ho sentito dire fino alla nausea frasi che iniziavano con “Cofferati” e finivano con “cuore-della-gente”: “Cofferati sa parlare al cuore della gente”, “Cofferati sa scaldare il cuore”, ecc., un frasario da Tamaro prestata alla politica. Ora, senza dubbio l’uomo ha le sue qualità, non si diventa leader sindacali per caso. Ma io credo che a questo punto chiunque sarebbe in grado di vincere un duello di simpatia con D’Alema.
E siccome anche lui lo sa – non è uno stupido – mi chiedo come abbia potuto acconsentire a un duello del genere. Se Cofferati ha critiche da fare ai dirigenti DS, il suo avversario naturale è Fassino. D’Alema dovrebbe mantenersi al di sopra delle parti, come si conviene al Presidente del partito. Ma lui non si stanca di ripetere che la carica di Presidente serve a poco o nulla. Il che, oltre a denotare uno scarso rispetto nei confronti delle istituzioni del suo Partito, è anche scarsamente credibile, da parte sua.
Per quella poltrona di presidente, infatti, D’Alema ha brigato parecchio. Non se n’è staccato nemmeno quando, dopo il disastro elettorale, tutti i dirigenti si sono dimessi. Sempre per il motivo che “tanto il Presidente serve a poco”, e quindi se ne sobbarcava lui…
Mi dispiace che Cofferati sia in collegamento da Milano, mi sarebbe piaciuto guardarlo negli occhi. Lo so che lavora alla Pirelli, ma anche noi lavoriamo.
D’Alema forse ignora (ma come fa?) qual è la percezione che l’italiano medio ha del Parlamento: un convitto di allegri scrocconi, insaziabili, di una certa età. Non si sarà mai accorto delle voci che girano su internet e nei bar, sui mille privilegi, gli stipendi continuamente ritoccati verso l’alto, gli aerei e i cinema gratis. Non ha mai fatto caso a certe battute sulle sue barche, sui suoi cuochi, sul suo paio di scarpe da un milione.
Ha visto coi suoi occhi una buona parte dei suoi colleghi franare nelle crepe di Tangentopoli. Ha visto un imprenditore digiuno di politica metter su un partito e vincere le elezioni in quattro mesi.
Tutto questo avrebbe dovuto insegnargli qualcosa. E invece no.
Cofferati, che ha visto le stesse cose, ha avuto il buon senso di non farsi cooptare nel ceto politico, di tornare nel mondo del lavoro, almeno simbolicamente. Diciamo la verità, da Cincinnato avrà fatto sì e no un mese: ma gli è bastato per conquistarsi una popolarità e un credito notevoli.
Io non credo che non ci sia un solo lavoratore italiano, che, alle nove di sera, sentendo D’Alema dire “anche noi lavoriamo” non abbia sentito dalle sue viscere nascere un pensiero: “ma quale lavoro, D’Alema, se non hai mai fatto un cazzo in tutta la tua vita”. Concetto discutibile, ma alle viscere non si comanda. Per l’ennesima volta: ma come si fa a dire cose del genere? O meglio: come si fa a dire cose del genere e nel frattempo considerarsi un grande comunicatore politico? Mistero (doloroso).
Sottovaluti il nostro mondo, non siamo burocrati. E nel vecchio Pci è capitato tante volte che un dirigente scaldasse il cuore, facesse piangere la gente con un discorso, ma non per questo sono diventati segretari del partito.
In questa frase ci sono tre gravi errori politici. Riuscite a trovarli?
1) Al giorno d’oggi non è educato dichiararsi nostalgici del “vecchio Pci”. (Soprattutto da parte di chi si è dato da fare per metterlo in pensione).
2) Continuiamo pure a parlare della “gente”, la povera “gente” che ama “scaldarsi il cuore” e “piangere” per un discorso. Lamentiamoci poi se la stessa gente ci considera dei freddi burocrati…
3) Chi è che vuole diventare segretario del parito? Cofferati? Ne ha mai parlato? A metter troppo avanti le mani si rischia di cadere.
“Sì, magari non sarà un grande comunicatore, ma ha altre doti: è un fine stratega, per esempio”.
Dissento. Mi pare che pochi politici italiani, messi alla prova, abbiano commesso tanti errori di strategia. Dalla Cosa2, alla Bicamerale, all’idea sciagurata di sostituire Prodi, alle sue sconcertanti scommesse con Berlusconi: “se tu fai meno voti di me alle amministrative ti dimetti da Presidente del Consiglio, ok?” “Ok!”
Se io, se noi avessimo fatto sul nostro posto di lavoro la metà degli errori tattici commessi da D’Alema, oggi saremmo a casa, con o senza l’articolo 18. Perché D’Alema è ancora lì?
Semplice: perché lui chiede scusa. Ogni tanto rilascia un’intervista e dice: quella volta mi sono sbagliato. Quell’errore non lo ripeterò.
Nessuno osa spiegargli che, a un certo livello di professionalità, non dovrebbero esistere seconde possibilità. Che la politica è un mestiere disumano, dove ci si gioca la faccia a ogni gradino. Almeno, per gli altri è così. Ma per lui?
Quando ebbe la brillante idea di rifondare il PDS, a 5 anni dalla nascita, D’Alema sapeva che in quella rifondazione si giocava la faccia; che in caso di fallimento avrebbe pagato in prima persona. E invece no. Il PDS è abortito nei DS: il vertice si è rimpastato, la base non ha capito, un flop conclamato. Colpa di D’Alema? No. Colpa dei colleghi invidiosi che non lo hanno compreso.
Quando ebbe l’idea balzana di farsi nominare segretario della Bicamerale, D’Alema sapeva di correre due grossi rischi: svendere la Costituzione a Berlusconi, o partorire un altro bel nulla. Sapeva che, in entrambi i casi, era in gioco la sua credibilità. Com’è andata a finire? Un disastro.
A quel punto chiunque altro si sarebbe pre-pensionato. Lui no. È ancora lì che parla di riforme. Che importa se Berlusconi non è credibile, spiega, anche l’Ulivo deve fare le sue proposte. Come spiegargli che, a questo punto, lui stesso non è molto più credibile di Berlusconi?
Infine, i fatti parlano: dal suo governo in poi, i DS hanno perso quasi tutte le elezioni. Sono ai minimi storici.
Ma D’Alema, sulla “Repubblica” di domenica, spiega che le elezioni, lui, non le ha nemmeno perse, perché a Gallipoli ha fatto un ottimo score: Io, Fassino, gli altri esponenti della maggioranza saremmo i perdenti! Ma i perdenti sono i Folena, i Mussi, candidato a Milano, mentre io facevo una durissima campagna elettorale a Gallipoli!
Ecco un’altra frase a cui non mi riuscirebbe di replicare civilmente. Per quanto mi sforzi di trovare argomenti educati (il problema non è a Gallipoli, ma il dato nazionale, le responsabilità dei vertici del partito e del governo, ecc.), c’è qualcosa in me che finisce per sbottare: ma perché allora non ti trovi un bell’ufficio da assessore a Gallipoli e non ti cavi fuori dai coglioni?
Mi rendo conto di scadere nel qualunquismo, e me ne scuso, ma credo anche che il qualunquismo di una nazione sia direttamente proporzionale all’antipatia della classe dirigente.
E lo dico perché ho sempre avuto la sensazione che in Italia, se ci fu una rivoluzione, fu una rivoluzione qualunquista, che dieci anni fa culminò con un assedio al grand hotel che era la residenza invernale di Bettino Craxi. Ora, Craxi ne aveva fatte di cotte e di crude. Ma se si fosse trattato solo di qualche conto in Svizzera, lo avremmo sopportato. No. Quello che ci fece sbottare fu l’antipatia. Bettino Craxi era un politico intelligente, ma arrogante, supponente, antipatico.
Morì in esilio, indignato e incredulo di aver pagato per tutti. Senza capire quale gran disgrazia sia, per un politico, l’antipatia.
Credo che il suo caso avrebbe dovuto insegnare qualcosa a qualcuno. Ma no, no, niente, mai niente, è inutile.