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Fate colpo in società con il…
Leonardo’s Basic Culture Simulator!

Se lavorate dalle sei alle otto ore al giorno (e non dite di più, cazzeggiatori dissimulati che non siete altro), se passate un’ora nel traffico urbano e un’altra oretta e mezza nel traffico telematico, a evadere posta elettronica e leggere blog sempre interessantissimi, come questo; se appartenete a quella bolsa schiera di persone che non riescono a fare a meno di dormire almeno sei ore su 24; se mangiate, bevete, evacuate con la medesima banale regolarità; se avete una famiglia che gradirebbe in qualche modo interagire con voi nelle restanti ore del giorno (tacendo degli amici, della tv, dei concerti e di quando forse vale la pena di restare fermi a fissare il soffitto), la domanda sorge spontanea: che tempo vi resta per farvi una cultura?
Una cultura seria, dico, mica i fumetti.

“Adesso che ci penso hai proprio ragione, è da tanto che non leggo un libro, e l’ultimo era una scemenza pompata dal tale ufficio stampa, ma quando in società si parla di Dostoevskij mi faccio piccolo piccolo”.

Beh, non temere, amico utente! Sono qua per aiutarti col mio nuovo trendissimo progetto! Il Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base 1.0!
Come si usa? Facile. Tu impari a memoria la frase e non devi più leggere nulla dello specifico autore. Lo so che sembra assurdo, ma ti garantisco che funziona! Io lo sperimento da anni, e la gente mi porta rispetto. Provalo! È gratis!

Calvino, Italo: scrittore del Novecento. Ha scritto da qualche parte che bisogna essere leggeri, sempre molto leggeri. Ogni volta che qualcuno tira fuori la parola “leggerezza”, voi rubategli le parole di bocca ribadendo immediatamente: “Eh, sì, la leggerezza di Calvino”. La discussione si avvierà rapidamente alla conclusione.
(Calvino è uno degli scrittori italiani più complessi e pesanti, ma questo non occorre saperlo).

Pasolini, Pierpaolo: gay del Novecento. Quando i poliziotti menavano i sessantottini, lui stava coi poliziotti, perché erano veri proletari. Citarlo il giorno prima e il giorno dopo di qualsiasi scontro di piazza.
(Poi un giorno qualcuno, probabilmente più vicino a un poliziotto che a un sessantottino, gli passò e ripassò sopra con una macchina, ma questo non occore saperlo).

Brecht Bertolt: chi dice un comunista, chi un rapinatore, comunque del Novecento. Di lui bisogna saper recitare: “il vero ladro non è chi rompe una banca, ma chi la fonda”. È una frase che ti dà un tono, specie se ti trovano con una spranga davanti a un bancomat. Ha detto anche che, se tutti i posti sono occupati, bisogna sedersi dalla parte del torto. Cosa volesse dire non lo so, ma intanto accomodiamoci.

Manzoni, Alessandro: scrittore che si studia a scuola, quindi l’avete studiato anche voi, fa nulla se non vi ricordate il finale, tanto si sapeva fin dall’inizio che quei due si sposano. Cattolico, noioso, superato. La Divina Provvidenza, figurati. Una volta, al dipartimento d’Italianistica, una tipa mi disse che forse era gay.

Leopardi, Giacomo: poeta che si studia a scuola, di solito in quinta superiore a novembre (e le statistiche sui suicidi degli adolescenti levitano). Gobbo che viveva a Recanati e odiava tutti, tranne le donzellette già morte. Ha scritto poesie immortali sull’infelicità, però, diciamocelo, in quanto gobbo gli venivano facili.

Baudelaire, Charles: poeta dell’Ottocento. Eh, chissà che roba che si fumava. Ha scritto… ha scritto… ha scritto delle poesie indimenticabili, come per esempio… per esempio… il Battello Ebbro, non era suo? Ah, era di Rimbaud? Vabbè, tanto più o meno si fumavano la stessa roba.

Schopenhauer, Arthur: filosofo dell’Ottocento. Insegnava nelle stesse ore di Hegel per fargli dispetto. Diceva che tutto è vanità. Ai banchetti si abbuffava e tesseva le lodi del suicidio. Buttò una vecchietta giù dalle scale.

Wittgenstein, Ludwig: filosofo del Novecento. Ha scritto: “di quello che non si può parlare bisogna tacere”: è una frase che può venire molto utile, specie dopo le due del mattino. Picchiava i bambini.

Dostoevskij, Fëdor: scrittore dell’Ottocento. Nei suoi romanzi ci si interroga sul cos’è il Bene, così il Male, e se esista Dio: problemi che potevano venire in mente solo a un vecchio russo pazzo come lui. Forse ha s t u p r a t o dei bambini, ma non è sicuro.

Heidegger, Martin: filosofo del Novecento, uno dei più importanti. Ecco, io, se devo essere onesto, non ho mai capito assolutamente di cosa parlasse, e nelle conversazioni mi sono più di una volta rifugiato nel luogo comune: “Heidegger, ah, sì, quel nazista di merda”. Ma sotto sotto mi vergognavo. Poi, finalmente, domenica scorsa ho trovato sulla Repubblica un pezzo di Gianni Vattimo (pag. 35), e mi ci sono buttato con impegno:

La filosofia di Heidegger è una filosofia dell’emancipazione attraverso la riduzione del peso dell’essente a favore dell’essere. La frase di Sein und Zeit: “Essere, non ente, si dà nella misura in cui c’è verità; e verità c’è solo in quanto c’è l’esserci”, va letta, alla luce di tutta l’opera heideggeriana e anche dell’ermeneutica che si è sviluppata da lui, come un “imperativo” più che un indicativo. Dal resto non si può pensare che Heidegger voglia mai comunque “descrivere” o enunciare una qualche verità su come l’essere, le cose, l’esserci, è: giacché non ha mai creduto alla corrispondenza e dunque alla filosofia come descrizione dell’essere o del reale…

Heidegger dunque, beh…
Che nazista di merda
.

(volete collaborare alla prossima release del Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base?: scrivete!)
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La verità sul supplente di italiano

C’è gente che è passata di qui, ha letto il pezzo sulla lezione di Ungaretti, e si è commossa: che sensibilità, che stile, che fine pedagogia. Chissà com’è bravo, questo prof. E chissà come gli vogliono bene i suoi studenti.

La realtà, naturalmente, è ben’altra.
La realtà è che io sono un povero incompetente, con la tendenza a cacciarsi nei guai e ad accettare le offerte di lavoro più inverosimili. La realtà è che dopo cinque mesi ho la netta sensazione di non aver cavato un ragno dal buco.
L’unico sensibile miglioramento: da un po’ di tempo in qua non mi capita più di chiudere la porta dell’aula a chiave e minacciare di buttar la chiave dalla finestra. Ma è dura. È così dura.

Sapete quand’è che uno capisce che non ama il suo lavoro (coliche a parte)?
Quando si mette a fantasticare di come sarebbe bello, tutto sommato, fare il commesso in un ipermercato, girare coi pattini tra gli scaffali tutto il santo giorno, e d’estate c’è l’aria condizionata. O il benzinaio – che preoccupazioni ha un benzinaio, se non fuma? Se facessi l’autista di furgone potrei ascoltare la radio tutto il giorno. E anche in fonderia pagano bene…

A volte mi sembra di aver davanti dei marziani. Simpatici, per carità, ma io non ho l’abilitazione per insegnare italiano ai marziani. Ammesso che serva a qualcosa l’italiano su Marte.
E vado a letto col batticuore, e mi sveglio con l’angoscia. Ho fatto il carabiniere, e non andava bene; ho fatto il pagliaccio, e non andava ancora. Ho urlato ed era inutile, sono stato zitto e loro urlavano. Vien voglia di corrompere il bidello, che suoni la benedetta campana, o fuggire sulla tazza del cesso, come Lodoli, che è quello il posto del letterato nella scuola dell’obbligo.

Quanto al famoso Ungaretti, ieri sono arrivati i compiti delle vacanze. Sentite un po’ – giusto per ristabilire la verità storica:

1) Secondo te, è una poesia allegra o triste?
triste

2) Cosa fa Ungaretti la notte di Natale?
Fa che non ha voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade

3) “Ho tanta stanchezza sulle spalle”. Perché è stanco?
Perché scrive molte poesie

4) “Gomitolo di strade”. Questa immagione è molto strana. Cosa vuole dire?
Doveva morire, invece no

Morale: sono più bravo a scrivere le cose che faccio che a farle. Non fidatevi di me, specie quando scrivo in prima persona.

***

Postilla su Wittgenstein (Ludwig):
Mi è venuta in mente un’altra cosa di lui: a un certo punto cercò di fare l’insegnante in una scuola media, ma non ce la fece. Fuggì, dopo aver bussato uno dei suoi scolari. Si rimise a fare il filosofo del linguaggio.
Beh, non è poi male, fare il filosofo del linguaggio. Almeno, dal di fuori parrebbe… bisognerebbe chiedere a Momo.
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Wittgenstein e wittgenstein

Poi alla fine vorrei dire una cosa: blog è una parola che non mi piace
Franco Bellacci

In questo pezzo si parla di due wittgenstein ben distinti, e a parte il nome non c’è proprio modo di confonderli.
E poi si parla di blog. Ogni tanto è inevitabile. Forse sapete già come il blog sia un virulento parassita dell’ego: si apre un blog per parlare di sé stessi, e col tempo si finisce di parlare soltanto del proprio blog. C’è chi prova a smettere, ma è dura. Io calo la dose, pian piano…

I due wittgenstein, dunque. Il primo è il blog di Luca Sofri, uno dei più letti e apprezzati in Italia. Sofri ha un’idea chiara su cosa sia (e cosa non sia) un blog, e la porta avanti da un po’ di tempo (senza nessuna acrimonia, bisogna dire):

Si ha ragione quando si dice che è difficile spiegare che cos'è un blog, ma è vero che dei punti fissi ci sono, condivisi da tutti quelli che ne hanno scritto e discusso. Un blog deve avere degli aggiornamenti periodici continui e attuali e deve contenere dei links […]

È chiaro che una definizione così taglia fuori qualche centinaio di blog italiani, compreso forse questo qui, che non linca qualcosa di decente da settimane.
Il che non è un dramma, in fin dei conti. Tra l’altro non ci ho mai tenuto a chiamarlo così. È un nome come un altro e non è nemmeno un granché. E il discorso potrebbe finire qui: non chiamatemi più blog, non aspettatevi da me un link al giorno e nemmeno uno alla settimana, fine.

Mi va invece di prolungarlo, perché leggendo la definizione di Sofri mi è venuto in mente (indebitamente) Wittgenstein: non il blog, ma quell’altro, il filosofo austriaco del linguaggio.
Dal quale io – che non sono mai stato una cima in filosofia – ho ricavato forse quest’unico insegnamento: le definizioni sono cose inevitabili, ma stupide. Nel senso che, dovendo usare una parola (“blog”, in questo caso), è inevitabile prima o poi chiedersi che cosa veramente questa parola significhi. Quale sia il suo significato preciso e definito. Beh, non se ne esce fuori. Almeno, questo è quello che cerca di spiegare Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche.

66. Consider for example the proceedings that we call "games". I mean board-games, card-games, ball-games, Olympic games, and so on. What is common to them all? -- Don't say: "There must be something common, or they would not be called 'games' "-but look and see whether there is anything common to all. -- For if you look at them you will not see something that is common to all, but similarities, relationships, and a whole series of them at that. To repeat: don't think, but look! --

(Non trovate che sia molto espressivo e scorrevole, Wittgenstein tradotto in inglese? In italiano l’ho sempre trovato piuttosto pesante).
Don’t think, but look!, ci dice Wittgenstein. E prosegue dimostrando come nessuna definizione di “game” possa includere tutte le cose che chiamiamo con quel nome. In certi giochi si vince o si perde, in altri no; alcuni si fanno da soli, altri in competizione; e così via.

And we can go through the many, many other groups of games in the same way; can see how similarities crop up and disappear.
And the result of this examination is: we see a complicated network of similarities overlapping and cries-crossing: sometimes overall similarities.


“Un complicato tessuto di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano”, in luogo di una definizione chiara e concisa, data una volta per tutti da un vocabolario o da un consiglio di saggi. Wittgenstein parlava di “gioco”, ma con i blog non è la stessa cosa? Ci sono blog con i link, blog senza link, con commenti, senza commenti, personali, collettivi, blog di personaggi più o meno famosi, blog di gente qualunque. Se potessimo esaminarli tutti, probabilmente non troveremmo nessuna caratteristica comune. Eppure, in un qualche modo distinguiamo in ciascuno di loro quello che lo stesso Wittgenstein chiamava “aria di famiglia”: il complicato tessuto di somiglianze (e dissomiglianze) di cui sopra.

Da Wittgenstein in poi io non mi sono più preoccupato molto di definire le cose che faccio. Preferisco fare quello che mi riesce di fare. L’ansia delle definizioni credo che andrebbe lasciata ai lanciatori di tendenze, che a scadenze fisse devono scoprire qualcosa di nuovo e farci un titolo. Un paio di anni fa si parlava di E/N, oggi di blog, domani sarà la volta di qualcos’altro: con tutto il rispetto, è una cosa che non mi appassiona (tanto io continuerò più o meno a fare le stesse cose, temo). Lo stesso Creatore del cielo e della terra – se mi passate l’immodesto paragone – non si è mai preoccupato di dare un nome a nessuna creatura. Ha preso il primo scimpanzé spelacchiato che passava e gli ha detto: pensaci tu (Genesi 2,19).

Ma torniamo all’altro Wittgenstein, cioè Sofri: perché ha tanto a cuore i link?

(sempre dal ludk web): ... I blogs, invece, hanno i links, e questa è la loro ricchezza: il rimando al mondo fuori dal sito, al resto delle cose che circolano, alle notizie, a quello che avviene altrove).

Che è una cosa condivisibile: un sito con link al mondo esterno dà sempre una migliore impressione, come d’aria fresca (purché sia davvero il mondo esterno, e non una cerchia più o meno ristretta di bloggatori sodali). Ma non so se sia quell’impressione a tenerci davanti al monitor alla costante ricerca di nuovi blog.
Prendiamo lo stesso Wittgenstein (il blog). Perché ha tanto successo? Perché contiene ottimi rimandi alla stampa anglosassone? Perché sa dare risalto anche ai blog degli umili mortali? Può darsi. Personalmente io lo visito quasi tutti i giorni, e clicco forse sul cinque per cento dei suoi link. Eh, non vi aspetterete che mi sciroppi un fondo del Washington Post al giorno (mi domando chi sia in grado di farlo).
È chiaro che a me (solo a me?) interessa qualcos’altro. E che quel qualcos’altro è un certo tipo di stile, che trovo lì, (e altrove), nel modo di metter già i titoli, le battute, le cazzate e le cose un po’ più importanti. Una scrittura. Che è quello che m’interessa, ahimé, forse più dei contenuti.
Insomma, i blog possono parlare di sé o parlare d’altro – e probabilmente è meglio quando parlano d’altro – ma sono comunque individui. Non ci si affeziona a loro per quello che dicono, ma per il modo in cui lo dicono. Che poi dicano qualcosa d’interessante, è un piacevole optional (io ci sto lavorando).
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