17-03-2004, 02:30calcio, crisi? che crisi?, Inghilterra, prodotto internoPermalink
Mario viaggia in Porsche
La fonte di questa storiella è attendibile; ugualmente, non mi va di sputtanare il protagonista, per cui non userò il suo vero nome o cognome: diciamo che è un calciatore molto giovane; che è famoso sia per le sue mattane che per il bel gioco che gliele fa spesso perdonare: e lo chiameremo, per comodità, Mario Antonietto.
Allora: Mario Antonietto viene invitato al matrimonio di un collega, in un’altra città: il promesso sposo chiede a un suo amico di andare a prelevarlo alla stazione. L’amico, comprensibilmente emozionato, tira a lucido il suo mercedes ultimo modello e va ad aspettare Mario Antonietto. Per riconoscerlo, non c’è mica bisogno di una foto (in effetti basta la figurina).
Ed ecco che il campione arriva: saluta, squadra la mercedes e… rifiuta di salirci sopra. Perché? Perché Mario Antonietto viaggia solo su Porsche.
(Il risultato è che arriverà tardi al matrimonio, su una Porsche noleggiata in quattro e quattr’otto dal malcapitato anfitrione).
Mentre il giovane Mario impartisce questa severa lezione di stile, a qualche centinaio di chilometri di distanza la sua squadra versa in pessime acque. Il proprietario, che ha versato milioni su milioni (perdendoli), è vecchio e stanco: vorrebbe vendere, ma i probabili acquirenti giocano a nascondino. Si aggiungano le ispezioni dei finanzieri; le tasse da dilazionare; la borsa, gli stipendi… questo è il mondo in cui lavora Mario Antonietto. Ma lui non lo sa ancora. È giovane e bravo, ed è convinto che il calcio possa dargli tutto, come dava tutto ai suoi predecessori. Se si affacciasse al finestrino sentirebbe l’ancien régime che scricchiola. Ma Antonietto viaggia solo su Porsche. Pressurizzata.
Nelle puntate precedenti (1 – 2) avevo cercato di distinguere tra un modello ‘britannico’ (il calcio come piccola economia reale: i club autosufficienti che producono e distribuiscono ricchezza) e uno ‘italiano’ (il calcio come economia non autosufficiente, foraggiata dallo Stato e dai capitalisti per motivi d’immagine). Forse il modello britannico era più sano, ma presentava anche molti più rischi: dipendeva esclusivamente dal favore del pubblico (dalla soddisfazione dei clienti). Abbiamo visto che già negli anni ’50 il modello italiano poteva permettersi di pagare di più i suoi giocatori: le stelle del campionato inglese, Charles, Greaves, Law, vengono tutti a giocare in Italia. Non sempre si trovano a loro agio, ma arrivano a guadagnare quattro volte il massimo consentito nel Regno Unito. Già, perché nel calcio britannico, come in tutte le economie liberali serie, ci si preoccupava di garantire la libera concorrenza: i club non potevano offrire a un giocatore più di un tot consentito (Maximum Wage).
Il Maximum Wage può sembrare una norma di buon senso: significa accettare che tutte le squadre di un torneo giochino non soltanto con lo stesso numero di giocatori, ma anche con le stesse risorse economiche alle spalle. Eppure in Inghilterra i giocatori lottarono per cinquant’anni (la prima protesta, organizzata da Billy Meredith, è del 1907) per abolire quello che consideravano “un contratto di schiavitù” (Jimmy Hill). Ci riuscirono soltanto nel 1961. Da allora i giocatori – che fino a quel momento erano stati effettivamente commerciati sottocosto – videro lievitare i loro prezzi. Anche grazie all’introduzione della figura dell’“agente”. Gli ingaggi sarebbero ulteriormente lievitati a partire degli anni ’90, grazie a Jean-Luc Bosman.
Il giocatore belga più famoso del mondo (se la gioca con Vincenzino Scifo) è un centrocampista che non ha mai vinto nulla d’importante, salvo una sentenza alla Corte Europea di Giustizia. Bosman si era rivolto alla Corte dopo che la sua squadra (il Liegi) aveva rifiutato di cederlo al Dunkerque malgrado il suo contratto fosse scaduto. La Corte ci mise sette anni prima di deliberare, nel 1995, che il Liegi aveva contravvenuto alle leggi dell'Unione Europea sulla libera circolazione dei lavoratori (non delle merci, è importante) da uno Stato membro all'altro. In Italia la “sentenza Bosman” è famosa soprattutto per un suo corollario, che portò all’abolizione del tetto massimo di giocatori stranieri (comunitari). Da allora le grandi squadre italiane hanno fatto sistematicamente incetta di stranieri (anche perché a volte costavano meno e rendevano, in termine d'immagine, più degli italiani). Ma la “sentenza Bosman” ha fatto molto di più: ha messo il calciatore al centro dell’economia del calcio: specie il fuoriclasse, o quello che comunque attira l’attenzione. E' lui, da Bosman in poi, a decidere il proprio destino.
Se i campioni hanno avuto tutto da guadagnare dalla sentenza Bosman, chi ci ha rimesso? Le squadre medio-piccole, che fondavano la loro economia sul fiuto dei dirigenti: sulla loro capacità di trovare buoni giocatori, crescerli e rivenderli alle grandi squadre. Ma ora le grandi squadre possono aspettare il termine di un contratto per rilevare un “gioiellino”, senza pagare un soldo alla squadra che lo ha cresciuto. Così grandi squadre e “gioiellini” si spartiscono la torta. Ma la piccola squadra non ha più interesse a crescere nuovi gioiellini… sarà un caso, ma a partire dagli anni Novanta il campionato inglese, che storicamente era sempre stato più movimentato di quello italiano (l’albo d’oro registra tante squadre che emergono, vincono tutto, retrocedono, risorgono…) si è polarizzato nella sfida tra quattro-cinque grandi squadre (su tutte, il Man United di Ferguson): in un certo senso si è ‘italianizzato’.
Problema: se il mercato non finanzia più le squadre medio-piccole, ma solo i grandi giocatori e le grandi squadre; se nel frattempo il fenomeno degli hooligan rende necessaria il ridimensionamento degli impianti sportivi: dove troverà il calcio inglese i soldi per andare avanti? Risposta: i diritti tv. A partire dai ’90 il calcio cerca di vendersi sul piccolo schermo. È un processo a cui abbiamo assistito anche da noi: nel giro di pochi anni le trasmissioni televisive si sono moltiplicate. Nel Regno sono andati subito al sodo, cercando di piazzare i diritti del satellite. E ha funzionato?
Insomma. Con Murdoch ha funzionato. Ma Murdoch pagava solo le squadre della Premiership. Quelle delle divisioni minori si sono imbarcate in un affare con il canale ITV. È stato un disastro. Alcune squadre (Bury, York City) si sono trovate sul lastrico; la stessa sorte attendeva al varcale le squadre retrocesse dalla Premiership, che perdevano quindi i contratti con Sky (Derby, Watford); ma anche le squadre medio-piccole che lottano per restare in Premiership sono costrette a indebitarsi, perché i “gioiellini” costano troppo (è il caso del Leeds). Una delle ragioni della crisi è proprio questa: gli ingaggi dei giocatori. Le società si stanno indebitando per pagare la Porsche a Mario Antonietto.
Da che il mondo è rotondo (e la palla pure) ci si lamenta dei calciatori strapagati. Senza riflettere che in fondo guadagnano meno di molti banchieri e proprietari, sudando magari qualcosa di più. Ma proviamo a superare l’antico pregiudizio contro chi mette in mostra il suo corpo per vivere. Proviamo a pensare in maniera veramente aperta, moderna, liberale. È giusto che una persona che siede a una scrivania guadagni milioni d’euro al mese? Sì, se dalla sua scrivania fa girare miliardi. Se produce ricchezza, non importa se ne trattiene un po’. Se invece non ne produce, è solo un parassita: va rimosso.
E un calciatore? È giusto che Ronaldo prenda dieci, venti miliardi? (in realtà non so quanto prende). Dipende. Se il suo nome fa vendere abbastanza biglietti da mantenere uno stadio e chi ci lavora; se le sue giocate fanno vendere abbastanza magliette e scarpette da dare lavoro a migliaia di operai in tutto il mondo (un lavoro, si spera, umano e ben pagato), perché no? Ora, il problema è tutto qui: Ronaldo produce davvero tanta ricchezza? Il calcio è davvero quella gallina dalle uova d’oro su cui tutti hanno puntato negli anni ’90?
Negli ultimi anni abbiamo scoperto che non lo è, almeno non lo è in Italia (ma anche l’Inghilterra si sta allineando). Non produce ricchezza: anzi, non è nemmeno autosufficiente. Ha continuamente bisogno dello Stato, che continua ad accollarsi le spese degli impianti sportivi (negli altri Paesi occidentali, ricordiamolo, gli stadi sono proprietà privata dei club). In passato lo Stato gestiva questi impianti con gli introiti del Totocalcio: in questo modo si poteva dire che il Calcio finanziasse sé stesso, anche se aveva bisogno dello Stato per fare i conti e distribuire le risorse. Quando il rubinetto del Totocalcio si è ossidato, i grandi club hanno puntato su diritti tv e merchandising e, di conseguenza, sui fuoriclasse che attirano l’attenzione. Nella speranza che creassero ricchezza. Speranza vana. Oggi, come cinquant’anni fa, il calcio italiano è un’economia in perdita. Non è nemmeno un’economia: è un bene di lusso di poche grandi famiglie che possono permettersi di dilapidare milioni di euro in spese di rappresentanza.
Tutto questo Mario Antonietto ancora non lo sa (e non vorrei essere in lui il giorno che glielo spiegheranno).
La fonte di questa storiella è attendibile; ugualmente, non mi va di sputtanare il protagonista, per cui non userò il suo vero nome o cognome: diciamo che è un calciatore molto giovane; che è famoso sia per le sue mattane che per il bel gioco che gliele fa spesso perdonare: e lo chiameremo, per comodità, Mario Antonietto.
Allora: Mario Antonietto viene invitato al matrimonio di un collega, in un’altra città: il promesso sposo chiede a un suo amico di andare a prelevarlo alla stazione. L’amico, comprensibilmente emozionato, tira a lucido il suo mercedes ultimo modello e va ad aspettare Mario Antonietto. Per riconoscerlo, non c’è mica bisogno di una foto (in effetti basta la figurina).
Ed ecco che il campione arriva: saluta, squadra la mercedes e… rifiuta di salirci sopra. Perché? Perché Mario Antonietto viaggia solo su Porsche.
(Il risultato è che arriverà tardi al matrimonio, su una Porsche noleggiata in quattro e quattr’otto dal malcapitato anfitrione).
Mentre il giovane Mario impartisce questa severa lezione di stile, a qualche centinaio di chilometri di distanza la sua squadra versa in pessime acque. Il proprietario, che ha versato milioni su milioni (perdendoli), è vecchio e stanco: vorrebbe vendere, ma i probabili acquirenti giocano a nascondino. Si aggiungano le ispezioni dei finanzieri; le tasse da dilazionare; la borsa, gli stipendi… questo è il mondo in cui lavora Mario Antonietto. Ma lui non lo sa ancora. È giovane e bravo, ed è convinto che il calcio possa dargli tutto, come dava tutto ai suoi predecessori. Se si affacciasse al finestrino sentirebbe l’ancien régime che scricchiola. Ma Antonietto viaggia solo su Porsche. Pressurizzata.
Nelle puntate precedenti (1 – 2) avevo cercato di distinguere tra un modello ‘britannico’ (il calcio come piccola economia reale: i club autosufficienti che producono e distribuiscono ricchezza) e uno ‘italiano’ (il calcio come economia non autosufficiente, foraggiata dallo Stato e dai capitalisti per motivi d’immagine). Forse il modello britannico era più sano, ma presentava anche molti più rischi: dipendeva esclusivamente dal favore del pubblico (dalla soddisfazione dei clienti). Abbiamo visto che già negli anni ’50 il modello italiano poteva permettersi di pagare di più i suoi giocatori: le stelle del campionato inglese, Charles, Greaves, Law, vengono tutti a giocare in Italia. Non sempre si trovano a loro agio, ma arrivano a guadagnare quattro volte il massimo consentito nel Regno Unito. Già, perché nel calcio britannico, come in tutte le economie liberali serie, ci si preoccupava di garantire la libera concorrenza: i club non potevano offrire a un giocatore più di un tot consentito (Maximum Wage).
Il Maximum Wage può sembrare una norma di buon senso: significa accettare che tutte le squadre di un torneo giochino non soltanto con lo stesso numero di giocatori, ma anche con le stesse risorse economiche alle spalle. Eppure in Inghilterra i giocatori lottarono per cinquant’anni (la prima protesta, organizzata da Billy Meredith, è del 1907) per abolire quello che consideravano “un contratto di schiavitù” (Jimmy Hill). Ci riuscirono soltanto nel 1961. Da allora i giocatori – che fino a quel momento erano stati effettivamente commerciati sottocosto – videro lievitare i loro prezzi. Anche grazie all’introduzione della figura dell’“agente”. Gli ingaggi sarebbero ulteriormente lievitati a partire degli anni ’90, grazie a Jean-Luc Bosman.
Il giocatore belga più famoso del mondo (se la gioca con Vincenzino Scifo) è un centrocampista che non ha mai vinto nulla d’importante, salvo una sentenza alla Corte Europea di Giustizia. Bosman si era rivolto alla Corte dopo che la sua squadra (il Liegi) aveva rifiutato di cederlo al Dunkerque malgrado il suo contratto fosse scaduto. La Corte ci mise sette anni prima di deliberare, nel 1995, che il Liegi aveva contravvenuto alle leggi dell'Unione Europea sulla libera circolazione dei lavoratori (non delle merci, è importante) da uno Stato membro all'altro. In Italia la “sentenza Bosman” è famosa soprattutto per un suo corollario, che portò all’abolizione del tetto massimo di giocatori stranieri (comunitari). Da allora le grandi squadre italiane hanno fatto sistematicamente incetta di stranieri (anche perché a volte costavano meno e rendevano, in termine d'immagine, più degli italiani). Ma la “sentenza Bosman” ha fatto molto di più: ha messo il calciatore al centro dell’economia del calcio: specie il fuoriclasse, o quello che comunque attira l’attenzione. E' lui, da Bosman in poi, a decidere il proprio destino.
Se i campioni hanno avuto tutto da guadagnare dalla sentenza Bosman, chi ci ha rimesso? Le squadre medio-piccole, che fondavano la loro economia sul fiuto dei dirigenti: sulla loro capacità di trovare buoni giocatori, crescerli e rivenderli alle grandi squadre. Ma ora le grandi squadre possono aspettare il termine di un contratto per rilevare un “gioiellino”, senza pagare un soldo alla squadra che lo ha cresciuto. Così grandi squadre e “gioiellini” si spartiscono la torta. Ma la piccola squadra non ha più interesse a crescere nuovi gioiellini… sarà un caso, ma a partire dagli anni Novanta il campionato inglese, che storicamente era sempre stato più movimentato di quello italiano (l’albo d’oro registra tante squadre che emergono, vincono tutto, retrocedono, risorgono…) si è polarizzato nella sfida tra quattro-cinque grandi squadre (su tutte, il Man United di Ferguson): in un certo senso si è ‘italianizzato’.
Problema: se il mercato non finanzia più le squadre medio-piccole, ma solo i grandi giocatori e le grandi squadre; se nel frattempo il fenomeno degli hooligan rende necessaria il ridimensionamento degli impianti sportivi: dove troverà il calcio inglese i soldi per andare avanti? Risposta: i diritti tv. A partire dai ’90 il calcio cerca di vendersi sul piccolo schermo. È un processo a cui abbiamo assistito anche da noi: nel giro di pochi anni le trasmissioni televisive si sono moltiplicate. Nel Regno sono andati subito al sodo, cercando di piazzare i diritti del satellite. E ha funzionato?
Insomma. Con Murdoch ha funzionato. Ma Murdoch pagava solo le squadre della Premiership. Quelle delle divisioni minori si sono imbarcate in un affare con il canale ITV. È stato un disastro. Alcune squadre (Bury, York City) si sono trovate sul lastrico; la stessa sorte attendeva al varcale le squadre retrocesse dalla Premiership, che perdevano quindi i contratti con Sky (Derby, Watford); ma anche le squadre medio-piccole che lottano per restare in Premiership sono costrette a indebitarsi, perché i “gioiellini” costano troppo (è il caso del Leeds). Una delle ragioni della crisi è proprio questa: gli ingaggi dei giocatori. Le società si stanno indebitando per pagare la Porsche a Mario Antonietto.
Da che il mondo è rotondo (e la palla pure) ci si lamenta dei calciatori strapagati. Senza riflettere che in fondo guadagnano meno di molti banchieri e proprietari, sudando magari qualcosa di più. Ma proviamo a superare l’antico pregiudizio contro chi mette in mostra il suo corpo per vivere. Proviamo a pensare in maniera veramente aperta, moderna, liberale. È giusto che una persona che siede a una scrivania guadagni milioni d’euro al mese? Sì, se dalla sua scrivania fa girare miliardi. Se produce ricchezza, non importa se ne trattiene un po’. Se invece non ne produce, è solo un parassita: va rimosso.
E un calciatore? È giusto che Ronaldo prenda dieci, venti miliardi? (in realtà non so quanto prende). Dipende. Se il suo nome fa vendere abbastanza biglietti da mantenere uno stadio e chi ci lavora; se le sue giocate fanno vendere abbastanza magliette e scarpette da dare lavoro a migliaia di operai in tutto il mondo (un lavoro, si spera, umano e ben pagato), perché no? Ora, il problema è tutto qui: Ronaldo produce davvero tanta ricchezza? Il calcio è davvero quella gallina dalle uova d’oro su cui tutti hanno puntato negli anni ’90?
Negli ultimi anni abbiamo scoperto che non lo è, almeno non lo è in Italia (ma anche l’Inghilterra si sta allineando). Non produce ricchezza: anzi, non è nemmeno autosufficiente. Ha continuamente bisogno dello Stato, che continua ad accollarsi le spese degli impianti sportivi (negli altri Paesi occidentali, ricordiamolo, gli stadi sono proprietà privata dei club). In passato lo Stato gestiva questi impianti con gli introiti del Totocalcio: in questo modo si poteva dire che il Calcio finanziasse sé stesso, anche se aveva bisogno dello Stato per fare i conti e distribuire le risorse. Quando il rubinetto del Totocalcio si è ossidato, i grandi club hanno puntato su diritti tv e merchandising e, di conseguenza, sui fuoriclasse che attirano l’attenzione. Nella speranza che creassero ricchezza. Speranza vana. Oggi, come cinquant’anni fa, il calcio italiano è un’economia in perdita. Non è nemmeno un’economia: è un bene di lusso di poche grandi famiglie che possono permettersi di dilapidare milioni di euro in spese di rappresentanza.
Tutto questo Mario Antonietto ancora non lo sa (e non vorrei essere in lui il giorno che glielo spiegheranno).
Comments
09-01-2004, 02:13calzature, nicchia, prodotto internoPermalink
These boots are made for…
(Gennaio, tempo di inventario, e anche questa prendetela con beneficio d’inventario)
Non è che proprio tutta l’economia italiana vada a rotoli: ci sono settori di nicchia che aumentano perfino il fatturato, per esempio i prodotti per pedicure. Voi fate abitualmente pedicure? No. Infatti è una nicchia.
Però è una nicchia in costante espansione: soprattutto i giovani, a quanto pare, ricorrono a cure di questo tipo perché hanno sempre più problemi ai piedi. E perché hanno problemi ai piedi? Buffo, nessuno lo sa esattamente. Magari è il tramonto dell’occidente, che serpeggia (e serpeggiando, s’attacca prima ai piedi che al resto).
Alcuni podologi, però, cominciano a dare la colpa alle scarpe sportive, quelle tutte bombate e foderate di plastica, che fanno sudare molto i piedi, finché le unghie non si rammolliscono e finiscono per incarnirsi. Così i giovani soffrono, e la nicchia aumenta il fatturato.
A questo punto credo che avreste il diritto a un riscontro, almeno a un link, ma non ho nulla da segnalarvi, mi spiace. L’ho sentita in un bar, mica vi posso lincare il bar. Magari si potesse.
(Gennaio, tempo di inventario, e anche questa prendetela con beneficio d’inventario)
Non è che proprio tutta l’economia italiana vada a rotoli: ci sono settori di nicchia che aumentano perfino il fatturato, per esempio i prodotti per pedicure. Voi fate abitualmente pedicure? No. Infatti è una nicchia.
Però è una nicchia in costante espansione: soprattutto i giovani, a quanto pare, ricorrono a cure di questo tipo perché hanno sempre più problemi ai piedi. E perché hanno problemi ai piedi? Buffo, nessuno lo sa esattamente. Magari è il tramonto dell’occidente, che serpeggia (e serpeggiando, s’attacca prima ai piedi che al resto).
Alcuni podologi, però, cominciano a dare la colpa alle scarpe sportive, quelle tutte bombate e foderate di plastica, che fanno sudare molto i piedi, finché le unghie non si rammolliscono e finiscono per incarnirsi. Così i giovani soffrono, e la nicchia aumenta il fatturato.
A questo punto credo che avreste il diritto a un riscontro, almeno a un link, ma non ho nulla da segnalarvi, mi spiace. L’ho sentita in un bar, mica vi posso lincare il bar. Magari si potesse.
05-02-2001, 17:37copywrong, il cliccatore, l'era dell'ottimismo, multinazionali maledette, prodotto internoPermalink
Piccola proprietà intellettuale (inc.)
Oggi è passato Andrea e volevo passargli questa proposta per un business, era lui che me ne chiedeva sempre. Anche se ha l’aria di essere l’idea giusta nel momento sbagliato…
Sappiamo che nei prossimi mesi il gratuito su internet andrà ridimensionandosi: da luglio napster inizierà a chiedere soldi agli utenti – intanto stanno studiando il modo di inibire il comando “copy” sui siti, ecc.. Chissà, forse qualcuno comincia a pensare che l’utente medio sia pronto al grande passo: diventare un acquirente di file. Sarà vero?
Su wordtheque la maggior parte degli acquirenti erano gli stessi autori. Siccome gli spettavano il cento per cento dei diritti, si creavano situazioni paradossali (gente che telefona protestando: “mi hanno addebitato l’acquisto ma non mi hanno ancora accreditato la vendita”, ecc.). Il servizio è sospeso (non serve a niente e costa burocrazia), ma almeno ha dimostrato che persone anche a digiuno di computer, pur non avendo alcuna intenzione di acquistare on line, possono essere interessati a vendere. Dopotutto, perché no? Oggi il medio utente può mettere qualsiasi cosa on line, ma gratis. Perché non offrirgli una vetrina?
Attenzione: non si tratta di diventare ‘editori’. Non bisognerebbe prendere nessuna percentuale sulle vendite: non è bello, e, soprattutto, non conviene. Invece ci si fa pagare il servizio. Che cosa significa? Che si guadagna qualcosa anche coi file che nessuno venderà mai (e forse sono la maggioranza).
Può sembrare una semplice riedizione delle case editrici-bidone, quelle che da sempre stampano ‘on demand’, o per meglio dire, a spese dell’autore. Ma, oltre che la spesa sarebbe molto inferiore, oltre che sarebbe comunque opportuno mantenere una soglia (bassina) di qualità, potrebbe trattarsi del luogo ideale per l’utente medio che non è necessariamente uno scrittore, artista o programmatore maledetto, ma che ha del materiale a disposizione e vuole non tanto farci soldi, quanto vedere riconosciuta la propria proprietà intellettuale. Dandogli il 100% dei diritti noi gliela riconosciamo: nulla gli vieta di cedere a un editore vero, se ne incontra uno interessato, grazie al nostro sito-vetrina.
Alla fine quel che conta veramente non è ‘vendere’. Quel che conta è mettere le proprie cose in vetrina, proteggendosi però dal copia-incolla selvaggio.
A vedere bene si tratta di un nuovo modo per vedere internet. Non più la zona franca del tutto è gratis (ma non lo è mai stato), ma nemmeno l’ennesimo centro commerciale in mano alla grande distribuzione. Un più umano bazar dove chiunque esibisce la propria mercanzia. Chiunque di noi potrebbe almeno sperare di mettere da parte qualche soldo extra con qualcosa realizzato nel proprio tempo libero: un libro, una canzone in mp3, un programmino per dare da mangiare ai pesci rossi sullo screen-saver, ecc..
L’obiezione è sempre: “Ma chi comprerà questa roba?”
La risposta è: “Chi se ne frega, noi non ci facciamo pagare per i file che vendiamo, noi ci facciamo pagare la vetrina”.
Comunque per i primi due anni almeno bisognerebbe fare tutto gratis, per lanciare la cosa come si deve.
Il maggior pregio del progetto, mi pare, è l’esiguità delle spese: occorre soltanto attivare un contratto con una banca per l’e-commerce, e mantenere un portale efficiente. Nessun magazzino: si venderebbero soltanto file.
La cosa che principalmente mi sfugge è il ruolo della SIAE in tutto questo. Soprattutto per quanto riguarda gli mp3, che sarebbero il mercato più promettente (gli esordienti interessati a commerciare il proprio demo), ecc..
Beh, che ne dite?
Forse non ci si farebbero i miliardi, ma secondo me è un buon inizio. C’è l’aspetto proditorio che deve avere ogni buona iniziativa imprenditoriale (fare soldi sulle velleità creative della gente); e allo stesso tempo c’è anche un’idea globale, politica, contro la distribuzione massificata, per la piccola proprietà intellettuale, geee…
Oggi è passato Andrea
Sappiamo che nei prossimi mesi il gratuito su internet andrà ridimensionandosi: da luglio napster inizierà a chiedere soldi agli utenti – intanto stanno studiando il modo di inibire il comando “copy” sui siti, ecc.. Chissà, forse qualcuno comincia a pensare che l’utente medio sia pronto al grande passo: diventare un acquirente di file. Sarà vero?
Su wordtheque la maggior parte degli acquirenti erano gli stessi autori. Siccome gli spettavano il cento per cento dei diritti, si creavano situazioni paradossali (gente che telefona protestando: “mi hanno addebitato l’acquisto ma non mi hanno ancora accreditato la vendita”, ecc.). Il servizio è sospeso (non serve a niente e costa burocrazia), ma almeno ha dimostrato che persone anche a digiuno di computer, pur non avendo alcuna intenzione di acquistare on line, possono essere interessati a vendere. Dopotutto, perché no? Oggi il medio utente può mettere qualsiasi cosa on line, ma gratis. Perché non offrirgli una vetrina?
Attenzione: non si tratta di diventare ‘editori’. Non bisognerebbe prendere nessuna percentuale sulle vendite: non è bello, e, soprattutto, non conviene. Invece ci si fa pagare il servizio. Che cosa significa? Che si guadagna qualcosa anche coi file che nessuno venderà mai (e forse sono la maggioranza).
Può sembrare una semplice riedizione delle case editrici-bidone, quelle che da sempre stampano ‘on demand’, o per meglio dire, a spese dell’autore. Ma, oltre che la spesa sarebbe molto inferiore, oltre che sarebbe comunque opportuno mantenere una soglia (bassina) di qualità, potrebbe trattarsi del luogo ideale per l’utente medio che non è necessariamente uno scrittore, artista o programmatore maledetto, ma che ha del materiale a disposizione e vuole non tanto farci soldi, quanto vedere riconosciuta la propria proprietà intellettuale. Dandogli il 100% dei diritti noi gliela riconosciamo: nulla gli vieta di cedere a un editore vero, se ne incontra uno interessato, grazie al nostro sito-vetrina.
Alla fine quel che conta veramente non è ‘vendere’. Quel che conta è mettere le proprie cose in vetrina, proteggendosi però dal copia-incolla selvaggio.
A vedere bene si tratta di un nuovo modo per vedere internet. Non più la zona franca del tutto è gratis (ma non lo è mai stato), ma nemmeno l’ennesimo centro commerciale in mano alla grande distribuzione. Un più umano bazar dove chiunque esibisce la propria mercanzia. Chiunque di noi potrebbe almeno sperare di mettere da parte qualche soldo extra con qualcosa realizzato nel proprio tempo libero: un libro, una canzone in mp3, un programmino per dare da mangiare ai pesci rossi sullo screen-saver, ecc..
L’obiezione è sempre: “Ma chi comprerà questa roba?”
La risposta è: “Chi se ne frega, noi non ci facciamo pagare per i file che vendiamo, noi ci facciamo pagare la vetrina”.
Comunque per i primi due anni almeno bisognerebbe fare tutto gratis, per lanciare la cosa come si deve.
Il maggior pregio del progetto, mi pare, è l’esiguità delle spese: occorre soltanto attivare un contratto con una banca per l’e-commerce, e mantenere un portale efficiente. Nessun magazzino: si venderebbero soltanto file.
La cosa che principalmente mi sfugge è il ruolo della SIAE in tutto questo. Soprattutto per quanto riguarda gli mp3, che sarebbero il mercato più promettente (gli esordienti interessati a commerciare il proprio demo), ecc..
Beh, che ne dite?
Forse non ci si farebbero i miliardi, ma secondo me è un buon inizio. C’è l’aspetto proditorio che deve avere ogni buona iniziativa imprenditoriale (fare soldi sulle velleità creative della gente); e allo stesso tempo c’è anche un’idea globale, politica, contro la distribuzione massificata, per la piccola proprietà intellettuale, geee…
Comments (1)