10-02-2004, 02:24calcio, InghilterraPermalink
Avvert: io sono uno che, se dovesse parlare solo di quello che conosce bene, starebbe zitto sempre; ma mi diverto di più così. Se in questo pezzo ci sono strafalcioni, segnalatemeli, ve ne sarò grato.
In sé il calcio non significa niente: 22 persone che corrono intorno un pallone; ma se è per questo, diceva tale J. B. Priestley, anche l’Amleto è inchiostro su un pezzo di carta.
Quando poi ti volti indietro e ti accorgi che è già più di un secolo che gruppi di 11 persone si sfidano a pallonate e che la FIFA ha più membri dell’Onu (e forse, in questo periodo, più potere), capisci che un qualche senso dobbiamo trovarcelo. Per esempio, possiamo cercare di capire le “piccole differenze” tra noi e gli inglesi. Gli inglesi, probabilmente, non giocano a pallone meglio di noi. Ma hanno inventato il gioco e, sin dall’inizio, lo hanno usato in un modo diverso dal nostro. Cerchiamo di capire il perché.
Campionato e coppa
La Coppa Italia è inutile. In tutte le nazioni europee calcisticamente ‘mature’, le squadre professionistiche si incontrano in due forme di competizione: Campionato e Coppa. Sono due forme radicalmente diverse. Brutalmente, se il Campionato è la Prosa, la Coppa è la Poesia. In Italia abbiamo una pessima poesia, inutile e ridondante.
Il Campionato, per chi non lo sa, è una forma di torneo in cui ogni squadra incontra tutte le altre, due volte: una in casa e una in trasferta. Il Campionato principale, in Italia, è la Serie A, composta di 18 squadre, che si gioca in 34 giornate.
Caratteristica principale del Campionato è la prevedibilità. Il calendario viene pubblicato all’inizio della stagione, e contiene già le partite che si giocheranno nove mesi dopo. Nessuna squadra viene eliminata nel corso della stagione. I pareggi sono ammessi. Dopo un po’, è ovvio, una classifica comincerà a divaricare le squadre forti da quelle medie, le squadre medie da quelle deboli. Vince la squadra che ha più punti: le quattro squadre che ne hanno meno vengono retrocesse, cioè sostituite dalle squadre che sono arrivate prime in serie B. A un certo punto durante il Campionato può darsi che una squadra risulti già matematicamente vincitrice, o retrocessa: non per questo la competizione si interrompe. Questo avviene, naturalmente, per ragioni economiche: in teoria le società calcistiche in serie A hanno 17 incassi garantiti. Ma il risultato è che il Campionato diventa una incredibile metafora del lavoro quotidiano (non a caso finisce in estate e ricomincia in settembre). Le “giornate” del campionato scandiscono la nostra vita lavorativa: a volte sono noiose, a volte c’è il match clou, a volte i giochi sono fatti ma comunque bisogna continuare a lavorare, tanto i conti si fanno alla fine. E alla fine ci sono le scadenze: i più bravi premiati e promossi, i peggiori retrocessi, e in mezzo tutti noi, gente mediocre e poco organizzata che magari si è esaltata in un match importante ma non ha fatto i compiti quando andava in trasferta contro una provinciale: anche per quest’anno la Coppa Uefa ce la sogniamo.
Se il Campionato assomiglia alla vita di tutti i giorni, la Coppa ne è l’esatto contrario. La Coppa è l’avventura.
Non a caso lo schema-base delle Coppe ricalca quello dei tornei medievali: per esempio, se abbiamo 32 squadre, nel primo turno esse si sfidano nei “sedicesimi di finale”: le 16 vincenti negli ottavi; le otto vincenti nei quarti; le quattro vincenti nelle due semifinali; le due semifinaliste vincitrici in un’ultima finale. Non è consentito il pareggio (un tempo la partita si ripeteva, oggi sono previsti tempi supplementari e rigori); in quattro o cinque sfide una squadra arriva in finale. Le altre si fermano prima. Se il Campionato è la vita quotidiana, in cui tutti, bravi o mediocri, devono recitare la loro parte fino in fondo, la Coppa è l’Avventura di due sole squadre venute da lontano, che si fanno strada tra avversari mediocri (comparse che scompaiono subito) e s’incontrano finalmente nell’ultima sfida.
In Inghilterra la Coppa è (o è stata: le cose stanno un po’ cambiando) il trofeo più prestigioso. Sede della Finale era un non-luogo, uno stadio che non apparteneva a nessuna squadra e, come vedremo, a nessuna città: Wembley. Lo stadio della nazionale e della Coppa.
La Coppa è l’Avventura – ma, come ogni avventura che si rispetti, dev’essere movimentata, e portare l’eroe di fronte ad avversari più forti di lui. E infatti nelle prime fasi della Coppa d’Inghilterra sono le squadre delle serie minori (anche i dilettanti) a sfidarsi: le vincitrici si scontreranno contro le squadre di primo rango. Siccome ogni partita eliminatoria prevede un’andata e un ritorno, la piccola squadra di provincia che riesce ad arrivare più avanti ha l’onore di portare una squadra di rango nel suo stadio privato (particolare non secondario, come vedremo: in Inghilterra quasi tutti gli stadi sono proprietà delle squadre). E la storia della Coppa d’Inghilterra è piena di imprese di squadre blasonate che affondano in qualche fangoso campo di provincia o di quartiere. Quando accade, la BBC è sempre sul posto: le imprese delle piccole meritano gli onori della telecronaca. L’Avventura sovverte, per qualche sabato, le gerarchie imposte dalla Vita Quotidiana. E questo anche economicamente: una squadra di quarta categoria che riesce a portare nel suo stadio un club della Premier League, guadagna in quei 90 minuti più che in tutto il campionato. Per i calciatori è anche un’occasione di mettersi in vetrina.
Nulla di questo in Italia. Fatta l’eccezione per alcuni tornei appena prima della Seconda Guerra Mondiale (nel 1940/41 parteciparono 156 squadre!), la Coppa Italia è una competizione tra le squadre professionistiche delle prime tre divisioni. Nessun rapporto con i professionisti dei club minori, figurarsi coi dilettanti. Nessuna impresa di “provinciale”. (Ma d’altro canto, in Italia chiamiamo “provinciali” anche squadre di città di primo livello, come Verona, Bologna, Perugia…). Nessuna occasione per i giocatori di queste squadre (e infatti in Italia ci si lamenta degli scarsi 'vivai'). Così alla fine quel che resta è una replica di alcune sfide di serie A, ridondante e poco sentita.
Qui la questione si fa sottile. Non è che in Inghilterra una squadra di dilettanti possa battere il Manchester United: ma è importante sapere che ne avrebbe l’opportunità. E che c'è un largo pubblico di sportivi neutrali pronto ad applaudire le imprese delle squadre minori. In Italia il Canicattì non può sfidare e battere la Juventus in un match ufficiale. Non ne ha il diritto. Il nostro calcio, oltre a essere meno poetico, è anche più classista di quello inglese. E, last but not least, economicamente molto più fallimentare (continua, con calma).
In sé il calcio non significa niente: 22 persone che corrono intorno un pallone; ma se è per questo, diceva tale J. B. Priestley, anche l’Amleto è inchiostro su un pezzo di carta.
Quando poi ti volti indietro e ti accorgi che è già più di un secolo che gruppi di 11 persone si sfidano a pallonate e che la FIFA ha più membri dell’Onu (e forse, in questo periodo, più potere), capisci che un qualche senso dobbiamo trovarcelo. Per esempio, possiamo cercare di capire le “piccole differenze” tra noi e gli inglesi. Gli inglesi, probabilmente, non giocano a pallone meglio di noi. Ma hanno inventato il gioco e, sin dall’inizio, lo hanno usato in un modo diverso dal nostro. Cerchiamo di capire il perché.
Campionato e coppa
La Coppa Italia è inutile. In tutte le nazioni europee calcisticamente ‘mature’, le squadre professionistiche si incontrano in due forme di competizione: Campionato e Coppa. Sono due forme radicalmente diverse. Brutalmente, se il Campionato è la Prosa, la Coppa è la Poesia. In Italia abbiamo una pessima poesia, inutile e ridondante.
Il Campionato, per chi non lo sa, è una forma di torneo in cui ogni squadra incontra tutte le altre, due volte: una in casa e una in trasferta. Il Campionato principale, in Italia, è la Serie A, composta di 18 squadre, che si gioca in 34 giornate.
Caratteristica principale del Campionato è la prevedibilità. Il calendario viene pubblicato all’inizio della stagione, e contiene già le partite che si giocheranno nove mesi dopo. Nessuna squadra viene eliminata nel corso della stagione. I pareggi sono ammessi. Dopo un po’, è ovvio, una classifica comincerà a divaricare le squadre forti da quelle medie, le squadre medie da quelle deboli. Vince la squadra che ha più punti: le quattro squadre che ne hanno meno vengono retrocesse, cioè sostituite dalle squadre che sono arrivate prime in serie B. A un certo punto durante il Campionato può darsi che una squadra risulti già matematicamente vincitrice, o retrocessa: non per questo la competizione si interrompe. Questo avviene, naturalmente, per ragioni economiche: in teoria le società calcistiche in serie A hanno 17 incassi garantiti. Ma il risultato è che il Campionato diventa una incredibile metafora del lavoro quotidiano (non a caso finisce in estate e ricomincia in settembre). Le “giornate” del campionato scandiscono la nostra vita lavorativa: a volte sono noiose, a volte c’è il match clou, a volte i giochi sono fatti ma comunque bisogna continuare a lavorare, tanto i conti si fanno alla fine. E alla fine ci sono le scadenze: i più bravi premiati e promossi, i peggiori retrocessi, e in mezzo tutti noi, gente mediocre e poco organizzata che magari si è esaltata in un match importante ma non ha fatto i compiti quando andava in trasferta contro una provinciale: anche per quest’anno la Coppa Uefa ce la sogniamo.
Se il Campionato assomiglia alla vita di tutti i giorni, la Coppa ne è l’esatto contrario. La Coppa è l’avventura.
Non a caso lo schema-base delle Coppe ricalca quello dei tornei medievali: per esempio, se abbiamo 32 squadre, nel primo turno esse si sfidano nei “sedicesimi di finale”: le 16 vincenti negli ottavi; le otto vincenti nei quarti; le quattro vincenti nelle due semifinali; le due semifinaliste vincitrici in un’ultima finale. Non è consentito il pareggio (un tempo la partita si ripeteva, oggi sono previsti tempi supplementari e rigori); in quattro o cinque sfide una squadra arriva in finale. Le altre si fermano prima. Se il Campionato è la vita quotidiana, in cui tutti, bravi o mediocri, devono recitare la loro parte fino in fondo, la Coppa è l’Avventura di due sole squadre venute da lontano, che si fanno strada tra avversari mediocri (comparse che scompaiono subito) e s’incontrano finalmente nell’ultima sfida.
In Inghilterra la Coppa è (o è stata: le cose stanno un po’ cambiando) il trofeo più prestigioso. Sede della Finale era un non-luogo, uno stadio che non apparteneva a nessuna squadra e, come vedremo, a nessuna città: Wembley. Lo stadio della nazionale e della Coppa.
La Coppa è l’Avventura – ma, come ogni avventura che si rispetti, dev’essere movimentata, e portare l’eroe di fronte ad avversari più forti di lui. E infatti nelle prime fasi della Coppa d’Inghilterra sono le squadre delle serie minori (anche i dilettanti) a sfidarsi: le vincitrici si scontreranno contro le squadre di primo rango. Siccome ogni partita eliminatoria prevede un’andata e un ritorno, la piccola squadra di provincia che riesce ad arrivare più avanti ha l’onore di portare una squadra di rango nel suo stadio privato (particolare non secondario, come vedremo: in Inghilterra quasi tutti gli stadi sono proprietà delle squadre). E la storia della Coppa d’Inghilterra è piena di imprese di squadre blasonate che affondano in qualche fangoso campo di provincia o di quartiere. Quando accade, la BBC è sempre sul posto: le imprese delle piccole meritano gli onori della telecronaca. L’Avventura sovverte, per qualche sabato, le gerarchie imposte dalla Vita Quotidiana. E questo anche economicamente: una squadra di quarta categoria che riesce a portare nel suo stadio un club della Premier League, guadagna in quei 90 minuti più che in tutto il campionato. Per i calciatori è anche un’occasione di mettersi in vetrina.
Nulla di questo in Italia. Fatta l’eccezione per alcuni tornei appena prima della Seconda Guerra Mondiale (nel 1940/41 parteciparono 156 squadre!), la Coppa Italia è una competizione tra le squadre professionistiche delle prime tre divisioni. Nessun rapporto con i professionisti dei club minori, figurarsi coi dilettanti. Nessuna impresa di “provinciale”. (Ma d’altro canto, in Italia chiamiamo “provinciali” anche squadre di città di primo livello, come Verona, Bologna, Perugia…). Nessuna occasione per i giocatori di queste squadre (e infatti in Italia ci si lamenta degli scarsi 'vivai'). Così alla fine quel che resta è una replica di alcune sfide di serie A, ridondante e poco sentita.
Qui la questione si fa sottile. Non è che in Inghilterra una squadra di dilettanti possa battere il Manchester United: ma è importante sapere che ne avrebbe l’opportunità. E che c'è un largo pubblico di sportivi neutrali pronto ad applaudire le imprese delle squadre minori. In Italia il Canicattì non può sfidare e battere la Juventus in un match ufficiale. Non ne ha il diritto. Il nostro calcio, oltre a essere meno poetico, è anche più classista di quello inglese. E, last but not least, economicamente molto più fallimentare (continua, con calma).
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