James the Less (not the Least)

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3 maggio – San Giacomo “il minore”, apostolo (primo secolo).

(Rubens)
"Ma perché in questa Bibbia
tedesca non c'è la mia lettera?"

Giacomo, detto il Minore, detto il Giusto, detto il fratello del Signore, contiene in sé almeno tre enigmi: (1) davvero era fratello di Gesù?; 
(2) davvero era lui, e non quel pasticcione di Pietro, il capo della Chiesa di Gerusalemme?; 
(3) davvero è a causa della sua misteriosa Lettera, rigettata da Lutero, che il capitalismo si è sviluppato nel nord Europa invece che da noi? 

E a questo punto, se fossi Giacobbo, manderei la pubblicità. Ma per fortuna sono sul Post, dove la pubblicità, se c’è, a questo punto è già partita da un pezzo. Avete premuto la X rossa in alto a destra? Bravi. Ora vediamo un enigma alla volta.


1. Era il fratello di Gesù?

I fratelli di Gesù compaiono in tre vangeli su quattro. L’unico a non parlarne è proprio Luca, il più mariano di tutti: quello dell’arcangelo Gabriele, a cui la Madonna risponde “non conosco uomo!” All’idea di una Maria vergine prima durante e dopo la nascita di Gesù i cristiani si affezionarono presto: rimane questo piccolo problema, che di fratelli si parla in tre vangeli su quattro. Per i cattolici non sono proprio fratelli, è solo un modo di dire. Saranno cugini, amici, semplici conoscenti. Eppure la parola greca è proprio αδελφοι, adelphoi; certo, in tanti altri passi del Nuovo Testamento compare in senso figurato, ma sia in Matteo che Marco il contesto sembra riferirsi a una famiglia ristretta, con la quale il Messia ha quel classico rapporto conflittuale che si può avere con i consanguinei: lo prendono per matto (Mc 3,21); lo vengono a prendere, ma lui li rinnega (Mc 3,32-35).

Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».

Hai voglia a prenderli per cugini. Se la cavano meglio gli ortodossi, che immaginano dei fratellastri: Giuseppe, già vedovo, li avrebbe portati alla sacra famiglia in dote. Le due liste di fratelli, contenute in Marco 6,3 e Matteo 13,55, non combaciano perfettamente (Marco parla anche di “sorelle”, Matteo accenna a un padre “carpentiere”): ma in entrambe Giacomo è il primo. Ma è lo stesso Giacomo di Alfeo che compare in tutte le liste degli apostoli? Dopo una scenata così plateale come quella sopra citata, quante possibilità aveva un fratello o fratellastro di Gesù di essere ammesso nei Dodici? I cattolici considerano Giacomo il minore figlio di Alfeo, zio paterno di Gesù, e di Maria di Cleofa, una delle due o tre Marie che ruotano in modo non chiaro intorno agli apostoli. Di lui i vangeli non raccontano nient’altro: è un apostolo di seconda linea, nulla di paragonabile al Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni evangelista, evangelizzatore della Spagna, le cui reliquie faranno la fortuna di Santiago di Compostela. Diventerà invece importantissimo (a patto che sia lui e non un omonimo) dopo la morte e resurrezione di Gesù. 


2. Era lui il vero capo a Gerusalemme?


(Su google trovi tutto, anche il Concilio di Gerusalemme in versione Lego).

A questo punto si è capito che per i cattolici Giacomo è una figura scomoda. Non solo è presentato come fratello di Gesù: ma leggendo gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo si ha la sensazione che il vero capo della comunità cristiana di Gerusalemme sia lui. E Pietro? Pietro è senz’altro la figura di spicco tra gli apostoli in un primissimo momento, quando, come abbiamo visto, non sembra più nemmeno lui: parla scioltamente in tutte le lingue del mondo, si fa incarcerare senza battere ciglio, impone ai seguaci la comunione dei beni, ammazza i fedifraghi con lo sguardo… Ma è una fase di breve durata, che negli Atti termina più o meno in coincidenza con l’imporsi di un nuovo predicatore, Paolo.

Paolo, come si è visto, ha tutto un altro stile, e pur essendo anche lui ebreo preferisce rivolgere la sua predicazione ai gentili. Fino a quel momento il cristianesimo era sostanzialmente un’eresia ebraica, praticata da giudei che continuavano a seguire le prescrizioni rituali della Torah. Per Paolo tutto questo è roba vecchia, zavorra che impedisce alla buona novella di decollare tra i gentili. Pietro è meno estremo, e sappiamo che non cesserà di colpo l’osservanza dei vecchi precetti, ma il sogno che ha fatto in Atti 10,9-16 lo ha spinto sulle stesse posizioni di Paolo. Quindi, se Paolo e Pietro sono d’accordo, chi è che non ci sta? Chi è che li convoca a Gerusalemme, al cosiddetto primo Concilio, per trovare un accordo? Giacomo il Giusto. Il contesto rende chiaro che Giacomo è il rappresentante della comunità ebraico-cristiana; l’ultima parola, seppure conciliante, spetta a lui (At 15,19-21):

Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue. Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe.
Paolo, che pure è il rappresentante dell’istanza opposta, ha un profondo rispetto per Giacomo. Nella lettera ai Galati, dove racconta tutto il dibattito dal suo punto di vista, lo chiama “apostolo” ma non sembra considerarlo uno dei dodici originali. Lo definisce, invece, “fratello del Signore”, (Ga 1,19), e “colonna della Chiesa” (2,9):

…e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.
Notate l’ordine delle colonne: Giacomo, Cefa (=Pietro) e Giovanni. Giacomo è di nuovo il primo della lista. Paolo parla di Giacomo anche nella prima lettera ai Corinzi, nominandolo tra coloro a cui è apparso Gesù risorto (anche in questo caso il suo nome è separato da quello degli dodici apostoli). Pietro non parla di Giacomo nelle sue lettere (ne ha scritte molto meno), ma sempre da Paolo sappiamo che doveva avere una certa soggezione per il personaggio: quando alcuni seguaci di Giacomo arrivano ad Antiochia, lui si rimette a osservare i precetti ebraici. Paolo se ne accorge e s’infuria – ecco, Paolo s’infuria con Pietro, mai con Giacomo.

Che Giacomo il Giusto fosse un personaggio di primo piano lo si capisce anche da alcuni testi del primo secolo. Papia di Ierapoli chiama Giacomo vescovo di Gerusalemme. Nel vangelo di Tommaso (uno degli apocrifi più antichi, non le favolette dal secondo secolo in poi) Gesù lo nomina capo della Chiesa. Invece il vangelo apocrifo che gli è attribuito è una classica fanfiction del secondo secolo, con leggende che partono dalla nascita di Maria. Gli storici della Chiesa, a partire da Egesippo, elaborano da queste poche informazioni la figura di un ebreo-cristiano onorato e stimato da tutti, tanto che il sommo sacerdote che ordina di lapidarlo (o di gettarlo dal tetto del tempio) cade in disgrazia anche presso gli ebrei. Di lì a poco Gerusalemme viene devastata dai Romani (70 dC): della comunità ebraico-cristiana si perdono le tracce, la Chiesa che sopravvive è quella de-giudaizzata di Paolo (e Pietro). La figura di Giacomo perde consistenza. Di lui, come abbiamo visto, resta una manciata di versetti in tutto il Nuovo Testamento. E una letterina, ammesso che l’abbia scritta davvero lui. Però anche quella letterina, a ben vedere, è una bomba. Con una miccia molto lunga: per far esplodere l’Europa ci metterà millecinquecento anni, più o meno.

Max Weber
era Max Weber.
3. È colpa della sua Lettera se la Merkel e i banchieri ci tengono per le palle?

Naturalmente non abbiamo nessuna certezza che l’Epistola di San Giacomo Apostolo sia davvero sua. Sua di chi, poi? Di Giacomo il fratello di Gesù (o il cugino?), di Giacomo il minore apostolo, di Giacomo il Giusto forse vescovo di Gerusalemme? Di uno solo dei tre, o di due? Vi risparmio l’infinito dibattito tra chi sostiene che l’attribuzione a Giacomo sia soltanto un espediente dell’autore per conferire maggiore importanza alle sue parole, e chi ritiene che tutto sommato la lettera potrebbe anche essere stata scritta nel primo secolo da un ebreo che masticasse un po’ di greco. Il testo non è neanche particolarmente giudaizzante: certo, contiene riferimenti a personaggi poco noti dell’Antico Testamento (Raab la meretrice!), ma più che al Levitico sembra richiamarsi al buonsenso. Dopo aver letto Paolo è acqua fresca, insomma. Il passo più famoso – quello che più facilmente faceva infuriare Lutero – è 2,14-18:

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in sé stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.
A me è sempre piaciuta tantissimo, quell’esortazione ai limiti della sgarberia: hai fede? Mostramela. Io non so se ce l’ho, ma guarda le mie opere: quelle esistono, si possono toccare. Qualcuno ha voluto trovare in questi versetti una critica neanche velata alla dottrina di Paolo sulla salvezza per mezzo della fede. Per Paolo gli uomini (tutti, non solo gli ebrei) erano peccatori, finché Cristo non li aveva salvati: bastava credere in lui, bastava avere fede, e tutto sarebbe andato a posto. Inoltre i tempi stavano per finire, quindi non aveva molto senso occuparsi di cose troppo terrene. Per la verità Paolo era tutto meno che un guru ieratico e sfaticato (continuava a mantenersi fabbricando tende), e lui stesso talvolta si lamentava dell’inerzia di alcune comunità cristiane.

Giacomo ha la stessa preoccupazione: si fa presto a dire fede, ma di cos’è fatta la fede? Puoi mostrarmi la tua fede senza neanche un’opera? Possiamo pensare che in un contesto ebraico le “opere” consistessero soprattutto nel rispetto formale di una serie di precetti, ma col tempo il testo ha assunto un valore universale: la fede si esprime attraverso le opere di bene. Niente opere, niente fede. Lutero non ci voleva credere. “Lettera di paglia”, la chiamava. Al di là dei suoi scrupoli da filologo, basta conoscerlo un po’ per capire che si trattava per lui della paginetta più indigesta del Nuovo Testamento. Dopo che Paolo ha insistito, per più di una dozzina di lettere, nella giustificazione mediante la fede, cosa viene a dirci questo cosiddetto Giacomo? Che la fede si mostra attraverso le opere? Ma a chi la dobbiamo mostrare? L’unico a cui interessa è Quello che ce l’ha donata. E quindi quali opere: l’obolo di San Pietro? Vogliamo costruire chiese sempre più grandi e addobbate? Vogliamo coprire di un altro po’ di ori e di argenti i sacerdoti della grande Babilonia? Vogliamo mettere all’incanto un altro po’ di indulgenze? Lutero tolse la lettera dal suo canone. Robaccia buona a far ingrassare i papi e i papisti.

Qualche secolo più tardi Max Weber, cercando di capire perché il capitalismo sia nato in certe zone dell’Europa (i Paesi Bassi, l’Inghilterra) giunge a un’ipotesi arcinota, anche se contro-intuitiva: è stato il protestantesimo, la dottrina della giustificazione mediante la fede. Nella sua versione hard, quella di Calvino, secondo il quale il cristiano è predestinato alla nascita. Io perlomeno la trovo contro-intuitiva perché la prima volta che ne ho sentito parlare ho pensato che essere calvinisti fosse una pacchia: Dio ti ha già salvato, quindi puoi fare quel che ti pare, compreso un bel niente. Dove si vede che è inutile versare il calvinismo in una botte cattolica. Oppure Weber si sbaglia (tuttora se ne discute): se Calvino invece di Ginevra avesse predicato a Milazzo, non ne avrebbe comunque cavato fuori nessun embrione di capitalismo. Chi lo sa.

Però la sua ipotesi è quantomeno ingegnosa. I calvinisti, spiega, si ritrovano soli davanti a Dio, senza nessun intermediario: chi assicura loro di essere i prescelti? Il segno della grazia è il successo professionale, che si raggiunge attraverso il duro lavoro. Fin qui nulla di nuovo, anche la borghesia italiana sin dal medioevo dei comuni aveva trovato nel lavoro una strada verso l’auto-affermazione. E infatti in Italia il capitalismo moderno stava quasi per nascere. Cosa lo aveva bloccato? La necessità di mostrare le opere. Il mecenatismo. La beneficenza. Ma anche soltanto il lusso, lo sfoggio dei propri beni, la corsa verso l’alto delle famiglie che aveva portato cittadine ancora minuscole a coprirsi di inutili torri. Opere. Bisognava fare opere. Senza le opere, non sei nessuno. C’è scritto nella Bibbia. La Bibbia dei cattolici.

Nelle Bibbie dei protestanti no, non c’è scritto. I calvinisti lavorano duro, ma che se ne fanno dei loro guadagni? Il mecenatismo è una distrazione da papisti decadenti. La beneficenza è ok, finché è un modo di mostrare la propria perfezione cristiana, ma col rischio sempre incombente di mantenere i poveracci, che sono poveracci perché Dio non li ha scelti, pussa via. Il lusso viene da Satana. E quindi, insomma, Dio ci benedice con somme sempre più alte di liquido, ma dove le mettiamo? Le reinvestiamo. Non abbiamo scelta, tutti i sistemi per spenderlo sono demoniaci, non ci resta che… inventare il capitalismo moderno. Per Weber, perlomeno, le cose erano andate così. La sua ipotesi è stata smontata più volte. Ma resta una bella storia da raccontare, proprio come le misteriose vite dei Santi. Alla prossima.
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