Vediamoci a Emmaus

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25 settembre: Cleofa, il discepolo di Emmaus 

Caravaggio. 

Comincia tutto probabilmente con un paio di versetti del vangelo di Marco (16,12-13) in cui si riporta che Gesù Risorto, dopo essersi rivelato a Maria di Magdala, sarebbe apparso a due discepoli che andavano "verso la campagna". Tutto qui, Marco è notoriamente il più asciutto degli evangelisti. Qualche anno dopo Luca sembra in possesso di qualche informazione in più – sempre che non se le sia inventate; e il sospetto viene perché l'episodio che riporta è una delle pagine più belle di tutti i vangeli. I due discepoli, racconta, erano diretti verso Emmaus, una cittadina nei dintorni di Gerusalemme. Erano profondamente delusi per la morte di Gesù, "un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo", che era stato condannato a morte dal Sinedrio e ucciso dai Romani. Lungo la strada incontrano un viandante che domanda di cosa stiano discutendo; è Gesù stesso, ma i due non lo riconoscono e si stupiscono che non abbia afferrato al volo l'argomento. Quello che dei due si chiama Cleofa, o Cleopa, gli dice: "Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?", e gli riassume in breve la vicenda di Gesù. È un Vangelo nel vangelo, un resoconto brevissimo di cose che Luca ha già raccontato, ma viste da un occhio diverso: un occhio opaco, senza redenzione. I seguaci di Gesù avevano creduto in un profeta, pensavano che avrebbe "salvato Israele", ma lo avevano visto morire come morivano i peggiori malviventi, e anche le voci di una sparizione del corpo, che cominciavano a circolare tra le donne, non erano sufficienti a impedire ai due di tornare a casa. "O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette!", li apostrofa allora il Gesù in incognito; "non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?" E procede a spiegare tutto alla luce delle Scritture. I due non restano indifferenti, tanto che una volta arrivati a Emmaus invitano il viandante a cena, "ché si fa sera e il giorno sta per finire". Durante la cena, il Cristo finalmente si svela, nell'atto con cui aveva istituito il sacramento dell'Eucarestia: "lo riconobbero allo spezzare del pane". Nell'esatto istante in cui viene riconosciuto, Gesù scompare. "Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?»". I due tornano quindi immediatamente a Gerusalemme per raccontare la loro esperienza agli Apostoli, uno dei quali (Simon Pietro) ha nel frattempo assistito a un'analoga apparizione.

Gli esegeti hanno identificato Cleofa col marito o il padre di Maria di Cleofa, una delle tre (o quattro) Marie presenti alla morte di Gesù, prime testimoni della tomba vuota; e siccome Cleofa/Cleopa potrebbe essere la versione greca dell'aramaico Alfeo, è considerato il possibile padre di almeno due apostoli: Matteo di Alfeo, l'esattore delle tasse ed evangelista, e Giacomo di Alfeo, detto anche il Minore. Siccome poi quest'ultimo viene tradizionalmente considerato lo stesso Giacomo detto "fratello del Signore" che dopo la partenza di Pietro per Antiochia sembra assumere il ruolo del leader dei cristiani di Gerusalemme, Cleofa sin dai primi secoli è stato proposto come zio di Gesù, magari fratello di Giuseppe; se non addirittura secondo marito di Maria di Nazareth e patrigno di Gesù – questa cosa i cattolici la escludono, ma spiegherebbe il fatto che Giacomo fosse considerato suo fratello. Di tutti questi gradi di parentela qualche lettore ha discusso per secoli, senza notare che la storia raccontata da Luca non ne trae nessun giovamento, anzi; funziona molto meglio se il Cleofa della storia rimane un discepolo secondario, un seguace che aveva seguito la traiettoria di Gesù da una certa distanza, e non un parente stretto membro di un circolo interno che a Luca non interessava così tanto. Quel che gli premeva era documentare quel senso di smarrimento che i discepoli di Gesù avevano sperimentato nelle ore immediatamente successive alla crocifissione. Uno smarrimento che a un certo punto doveva essere svanito di schianto, con un atto di fede che è la vera nascita del cristianesimo. 

Quanto al nome dell'altro discepolo, anche qui la tradizione ne ha proposti tanti, ma ultimamente si tende a pensare che Luca volesse lasciarlo anonimo per aiutarci a immedesimarci: l'altro discepolo siamo noi lettori, che giunti a questo punto del Vangelo non abbiamo ancora capito cos'è successo; è necessario che scenda Gesù stesso a spiegarci una volta ancora. 

Un'altra cosa che non sapremo mai è dove si trovasse esattamente Emmaus. Secondo Luca era a undici stadi da Gerusalemme: un'informazione preziosissima, se avessimo mai capito quant'era lungo uno stadio in quel periodo e in quella regione. Senz'altro da Gerusalemme si poteva raggiungere a piedi in un giorno: ma in che direzione aveva marciato Cleofa, col suo compagno anonimo? Di Emmaus, in Palestina, ce n'era più di una: la più importante, variamente citata da Giuseppe Flavio nelle sue Antiquitates, era a più di cento stadi dalla capitale. Peraltro i romani l'avevano distrutta dopo la morte di Erode il Grande, ovvero poco più di trent'anni prima della crocifissione di Gesù. Del resto le città da quelle parti cadono e risorgono relativamente in fretta, e nel terzo secolo Emmaus, ribattezzata Nicopolis, avrebbe ottenuto dall'imperatore Eliogabalo lo status di città. In qualche manoscritto, invece di Emmaus, si legge Oulammaous: un luogo in cui, nella Genesi, Dio appare in sogno a Giacobbe. Potrebbe trattarsi di un tentativo di un copista di legare l'apparizione evangelica al tradizionale modello biblico, laddove quella del Vangelo di Luca è una sensibile rottura con la tradizione: il Gesù di Luca non appare a un importante patriarca, ma a due discepoli qualsiasi; e non in sogno, ma in carne e ossa, come un compagno di strada che siede a tavola e spezza il pane. Tutto è semplice e immediato, come nei sogni più vividi che facciamo prima del risveglio, dove le persone che abbiamo perso per strada sembrano così vere che riusciamo a toccarle. 

Così la Emmaus di Luca continua a sfuggirci, e noi continuiamo a cercarla. Dev'essere un posto qualsiasi – ecco perché non riusciamo a trovarlo: magari ci passiamo davanti tutti i giorni, è quel bar con un paio di tavolini che non ci sembra mai valga la pena di una consumazione. Un giorno al banco Dio ci attaccherà bottone, ci spiegherà serenamente cosa ci è successo fin qui, componendo tutti i misteri e i pasticci della nostra vita in una breve storia con un solo senso. E poi si leverà di torno: tanto a quel punto sapremo esattamente cosa fare, da chi tornare, per cosa lottare.

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Ricordiamoci di scordare Amalek

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1° settembre: Giosuè, sterminatore di Amalek. 

John Everett Millais

Quando mi capitò di scrivere un pezzo su Giosuè, dodici anni fa, esordii così: "Ecco un personaggio biblico che ormai nessuno pretende di considerare come realmente esistito".

Quanto poco ne sapevo.


A mia parziale discolpa, nel 2012 la Bibbia non sembrava un testo così importante ai fini della comprensione della situazione in Medio Oriente – nessuno poteva negare che fosse sul tavolo, ma nascosta da altri libri molto più moderni, manuali di strategia ed economia e Storia contemporanea, atlanti geopolitici, e persino quel vecchio Corano veniva aperto più spesso, sembrava più rilevante. Mentre chi citava versetti biblici denunciava la propria irrazionalità, ma soprattutto un'irrevocabile marginalità – persino Bush Secondo, quando aveva nominato Og e Magog al cospetto di Chirac, era parso un matto. Gli stessi difensori più accaniti del sionismo non si curavano molto di Esodo e Deuteronomio; raramente davano l'impressione di averli almeno letti. Non era da quei vecchi rotoli che lo Stato Ebraico traeva la propria ragion d'essere: piuttosto dalle persecuzioni moderne, e in primis dalla Shoah. 

Quanto al kahanismo, era ancora considerato un movimento estremista. Ancora per dieci anni il partito fondato da Meir Kahane sarebbe rimasto incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche del governo USA. Oggi viceversa i kahanisti stanno nel governo, Ben-Gvir qualche anno fa ha tolto il ritratto dello stragista assassino di Rabin dal tinello e ora è ministro della sicurezza nazionale: e come tale va a passeggio nella spianata delle moschee. Per dire quanto sia cambiato anche solo in pochi anni almeno il governo israeliano, e probabilmente la società che lo esprime. Una cosa che gli osservatori italiani, soprattutto quelli benevoli, sembrano non voler accettare – del resto che importanza può avere quanto a destra possa spostarsi il governo israeliano, se hai deciso a priori che tutto quello che Israele fa è giusto? Non importa che le immagini postate dagli effettivi dell'esercito accreditino la sensazione di una banda di fanatici prevaricatori: tanti anni fa hai imparato a dire che è l'esercito più morale del mondo e non puoi evidentemente cambiare idea in corsa. I soldati, peraltro, non fanno che ripetere che bisogna estirpare Amalek. Lo stesso Netanyahu lo ha dichiarato sin dal sette ottobre: e così all'improvviso ci siamo accorti che nella Bibbia un genocidio c'è, giustificato, documentato e più volte reclamato. 

Sì, è vero, l'avevamo sempre saputo. Ma per tanto tempo, davvero, non era sembrato così importante. Ogni popolo ha le sue leggende, chi è che se la prenderebbe oggi coi greci per come bruciarono Troia? Ecco, chi ti spiega che Amalek va sterminato, nel 2024, dovrebbe farci più o meno lo stesso effetto. E invece sembra tutto ok – cioè no, diciamo che una certa caduta verso l'irrazionale potrebbe essere giustificata dallo choc del sette ottobre, e prima ancora dal fatto che gli israeliani sono minacciati nella loro stessa esistenza più o meno dal... 1948, insomma da sempre, il che per carità non significa affermare che vivono come prigionieri nella stessa piccola terra che si sono conquistati con la violenza, perché sarebbe antisemita, e quindi... niente, ogni discorso su Israele finisce sempre su un terreno minato, anche quando provi a difenderlo non ti resta che tornare sui soliti punti sicuri da cui passano tutti.

La Bibbia è un testo straordinariamente stratificato, opera di mentalità diverse, che agivano in epoche diverse con priorità spesso contrastanti. Non tutto quello che contiene è leggenda, ma agli occhi di uno storico non è difficile riconoscere i personaggi totalmente leggendari, quelli che sono stati inventati per dimostrare uno o più assunti; tra questi, senz'altro Amalek e Giosuè. Non hanno nessuno spessore: fanno quello che è previsto che facciano, il primo attacca Israele e il secondo lo difende. L'autore non si cura nemmeno di definire perfido il primo e buono il secondo, perché in effetti non è in questione il Bene e il Male, qui. La questione è più ristretta: Dio ha scelto un popolo, chi lo attacca non merita di sopravvivere. 

Amalek appare di punto in bianco in Esodo 17,8 (Giosuè compare nel versetto successivo, come luogotenente di Mosè). "Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim". Non è chiaro da dove arrivi e nemmeno cosa sia. Potrebbe essere un popolo, come Israele, nominato col nome di un mitico capostipite: o anche semplicemente il capo di una banda di predoni. Non ci è dato saperlo: quel che importava all'autore del testo è dimostrare l'efficienza del Signore degli Eserciti, che porta gli israeliti alla vittoria – purché Mosè tenga le mani verso l'alto, rivolte a lui; e siccome col tempo si stanca, Aronne e Cur gliele sostengono. Solo così l'esercito guidato da Giosuè può trionfare. L'episodio rivela in questo la sua fonte sacerdotale: pregare è ancora più importante che combattere. Così all'improvviso com'è comparso, Amalek deve scomparire: non solo Giosuè stermina tutti gli amaleciti "a fil di spada", ma il Signore proclama a Mosè: "Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!" Avete capito bene, Dio dice a Mosè di scrivere su un libro il nome del tizio di cui vuole cancellare la memoria. È un paradosso che ha scervellato generazioni di esegeti, in un certo senso è il paradosso in cui stiamo vivendo: ricordare ciò che non dovrebbe essere più ripetuto, come se ricordare non fosse già un invito a ripeterlo. 

"Vi sarà guerra del Signore contro Amalek, di generazione in generazione!", proclama infine Mosè, il che smentisce quanto scritto poco sopra (Giosuè non li aveva sterminati tutti?) ma ci autorizza a pensare che Amalek, più che un popolo, sia chiunque si metta sulla strada del popolo di Dio. Altri amaleciti compaiono in effetti nei sequel della Torah, i libri dei profeti; siccome dovevano vivere tra Canaan ed Egitto (non troppo lontani da Gaza, insomma) vengono a un certo punto confusi con gli edomiti, che degli israeliti sono parenti in quanto discendenti di Esaù, il fratello a cui Giacobbe-Israele aveva sottratto sia la primogenitura sia la benedizione paterna. Compaiono comunque sempre in funzione di vittime predestinate, come le maglie rosse di Star Trek: l'episodio più interessante riguarda re Saul, personaggio enigmatico, l'Amleto degli ebrei. Il profeta Samuele l'ha unto re di Israele, ma poi se n'è pentito – ovvero, è il Signore che attraverso Samuele lascia trapelare un distacco crescente. E anche stavolta si contraddice, questo Signore, prima prendendo le distanze dalla violenza con cui il re infierisce sui Filistei, e poi sdegnandosi perché non stermina completamente, come richiesto, gli Amaleciti. Evidentemente certi popoli devono sparire e altri no, ma Saul sembra destinato a capire sempre male. A terminare lo sterminio provvederà il nuovo prediletto dal Signore, re Davide, anche lui unto dal profeta Samuele e più ligio agli ordini divini. Con lui gli amaleciti spariscono definitivamente; eppure nel libro di Ester il perfido Aman è definito "agaghita", ossia discendente di Agag, il re amalecita sconfitto da Saul. Aman è una figura importante del folklore ebraico: il prototipo dell'antisemita, dileggiato pubblicamente ogni anno in occasione della festa di Purim. E torniamo sempre lì: sul libro c'è scritto che Amalek deve scomparire, ma c'è scritto fin quasi alle ultime pagine, evidentemente Amalek non scompare mai: e tuttora ossessiona i sostenitori di un progetto, il sionismo, che per tanto tempo ci è sembrato così laico. In tutto questo forse c'è qualcosa che potremmo imparare, ma cosa.

Forse che le profezie si avverano. Giosuè non è mai esistito, e non ha mai sterminato Amalek, popolo immaginario che non ha lasciato nulla se non il suo nome (tramandato da quelli che dovevano farlo sparire). Eppure migliaia di anni dopo, nella stessa regione, un popolo cerca di fare sparire un altro popolo, perché ha letto la storia di Giosuè e Amalek. Potrebbe essere il finale di questo pezzo, ma non mi convince. Anni fa era diventata una pratica abituale accusare i musulmani di oggi di voler mettere in pratica lo stragismo descritto dal Corano. Ultimamente se ne parla sempre meno; forse qualcuno si è davvero accorto che nella Bibbia ci sono anche più stragi, a cercarle. Ma insomma l'idea che i libri facciano commettere le stragi mi ha sempre lasciato perplesso. Per me è nato prima l'uovo: la gente scrive i libri per giustificare le stragi che commette. Poi certo, il serpente si mangia la coda: i libri restano in circolazione, vengono letti in contesti sempre diversi e chi vuole giustificare altre stragi, se ha pazienza, prima o poi trova il libro adatto. Specie se qualcuno lo ha lasciato sul tavolo, sepolto tra altri libri che dovevano fornire soluzioni più razionali.

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La voce che chiama, nel deserto

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24 giugno: Natale di San Giovanni Battista (I secolo dC)

Bottega di Raffaello Sanzio

Non vorrei mettervi ansia, ma tra sei mesi è Natale, avete già pensato cosa regalare a questo e a quest'altro? (c'è un bellissimo libro della Utet, se lo prenotate adesso arriva di sicuro, si chiama Catalogo dei santi ribelli). Che manchino sei mesi lo si capisce dal calendario, e anche dal fatto che oggi si festeggi Giovanni Battista, che secondo il vangelo di Luca è nato sei mesi prima di Gesù: quindi quando i cristiani cominciarono a osservare il Natale di Gesù nel giorno della festa del Sole Vincitore (tre giorni dopo il solstizio d'inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi), il Natale di Giovanni andò a cadere tre giorni dopo il solstizio d'estate, ovvero quando le giornate cominciano ad accorciarsi. Non solo, ma essendo nato il 24 giugno, Giovanni dev'essere stato concepito tre giorni dopo l'equinozio di autunno, quando secondo Luca l'angelo Gabriele visita l'anziano Zaccaria e gli promette che sua moglie Elisabetta concepirà un bambino che diverrà un profeta (siccome Zaccaria è scettico, Gabriele gli toglie il dono della parola per tutti i nove mesi). Gesù, invece, si sa, viene concepito tre giorni dopo l'equinozio di primavera, il 25 marzo

È abbastanza chiaro che i due personaggi evangelici sono stati incastrati in un sistema di ricorrenze basato sul calendario solare, che lascia tracce nel folklore: nella Figlia di Iorio D'Annunzio riprende l'usanza l'abruzzese per cui le donne che vogliono maritarsi entro l'anno, la mattina del 24 devono svegliarsi presto per vedere nel sole nascente la testa (decapitata) di San Giovanni. Lo stesso Giovanni, ai discepoli che gli chiedono ragione del fatto che Gesù si sia messo a battezzare per i fatti suoi: risponde "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Giovanni 3,30), autorizzando una lettura sincretica; Gesù e Giovanni come due opposte polarità, estate e inverno, acqua e fuoco – anche quest'opposizione è messa in bocca a Giovanni, stavolta dall'evangelista Matteo (3,11): "Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco". Sempre in Matteo, Gesù invece definisce Giovanni come nuovo Elia (il profeta rapito in cielo su un carro fiammeggiante), il che potrebbe anche significare che si considera il nuovo Eliseo – il discepolo di Elia che aveva ereditato da lui "il doppio dello spirito". Nel quarto e omonimo vangelo però Giovanni, a domanda diretta dei sacerdoti, nega di essere Elia: uno dei tanti piccoli dettagli dissonanti che i vangeli conservano e che ci fanno sospettare che la situazione fosse molto più complessa. Una cosa curiosa è che quando i sacerdoti gli domandano di definirsi con più precisione, il Battista del quarto vangelo replica con una citazione quasi letterale di un altro vangelo, uno dei rari indizi che abbiamo che il quarto evangelista avesse letto almeno uno degli altri: si definisce infatti "voce di chi chiama nel deserto: preparate la via del Signore". È una citazione da Isaia (40,3), ma è anche il terzo versetto del vangelo di Marco. Diversi commentatori fanno notare che sia Marco sia Giovanni fraintendono Isaia, che non parlava di una "voce nel deserto", ma di una voce che chiede di "preparare la via del Signore nel deserto", ma forse si tratta di commentatori che sanno qualcosa che io non so, di ebraico o di antico greco, perché nella versione latina l'ambiguità c'è, quell'"in deserto" può riferirsi sia a "vox clamantis" sia "parate viam domini"; tutto sta dove metti la punteggiatura, salvo che la punteggiatura l'hanno messa secoli dopo, quindi di che stiamo a parlare. 

I vangeli di Giovanni e Marco hanno in comune anche la caratteristica di saltare tutta la narrativa dell'infanzia e cominciare il resoconto degli avvenimenti dal Battesimo di Gesù da parte di Giovanni. Un episodio che forse per alcuni cristiani delle prime generazioni aveva più importanza di quanta ne abbia adesso – sappiamo che a un certo punto tra le eresie fu incluso l'adozionismo, ossia l'idea che Gesù nasca soltanto uomo, e diventi figlio di Dio solo a partire dal battesimo. Bisogna concedere che l'ipotesi adozionista aveva il pregio di dare un senso a un episodio che altrimenti lascia perplessi: Giovanni battezzava i peccatori per purificarli dai peccati, ma se Gesù è già figlio di Dio, peccati non ne ha. Questa perplessità era già diffusa nel primo secolo, al punto che l'evangelista Matteo la lascia esprimere dal Battista stesso, il quale quando vede Gesù in coda per il battesimo afferma: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?", al che Gesù risponde: "Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Dal che è lecito dedurre che l'episodio del battesimo fosse davvero avvenuto, davanti a testimoni oculari che nessun evangelista poteva smentire, anche se sul significato c'erano interpretazioni diverse. Luca, l'evangelista che più sente la necessità di conciliare le versioni, sostiene che "tutto il popolo" si stesse facendo battezzare, insomma Gesù vi si sarebbe sottoposto non perché ne avesse bisogno, ma per rispetto nei confronti delle usanze e delle leggi del popolo: allo stesso modo sua madre aveva partecipato a una cerimonia di purificazione dopo il parto, benché in quanto vergine non ne avesse realmente bisogno.

Anni più tardi, all'apostolo Paolo capiterà almeno un paio di volte in Asia Minore di imbattersi in predicatori che "conoscono soltanto il battesimo di Giovanni" (Atti 19,2). Siamo ancora in una fase iniziale: i sacramenti non sono ancora stati definiti con chiarezza, eppure appare chiaro che "il battesimo di Giovanni" è qualcosa che gli apostoli di Gesù considerano imperfetto, o perlomeno incompleto: e però qualcuno lo sta diffondendo. Forse quella di Giovanni era una nuova religione, diversa da quella poi rielaborata da Gesù (e in seguito dagli apostoli). Può darsi che Giovanni, descritto dagli evangelisti con l'abbigliamento di eremita del deserto, facesse parte della setta degli esseni: ipotesi che viene spesso buttata lì come se spiegasse tutto, ah sì, gli esseni, laddove a parte il fatto vivessero già nel deserto (forse su suggestione di Isaia) e collezionassero preziosi rotoli noi degli esseni non sappiamo poi tanto. Praticavano il celibato – come Giovanni – e venivano sostanzialmente rispettati (forse persino protetti da Erode) malgrado rifiutassero uno o più testi della Torah. Erano inoltre divisi in sette, e Giovanni avrebbe potuto essere il membro o il fondatore di una di queste. Senz'altro il rito battesimale che praticava nelle acque del Giordano è qualcosa di nuovo, non previsto dai riti giudaici – e questo malgrado il padre Zaccaria appartenesse alla casta sacerdotale dei leviti, anzi fosse discendente di Aronne. La piccola comunità religiosa che ancora oggi si rifà agli insegnamenti di Giovanni – i mandei – pratica il battesimo settimanale per immersione come mezzo di purificazione dai peccati. Sono appena settantamila, sopravvissuti a diverse persecuzioni: vivono in una regione dell'Iran, ma parlano ancora un dialetto aramaico. Che i loro libri riflettano veramente la predicazione originale di Giovanni è un'idea suggestiva, anche se la filosofia di fondo è più simile alla gnosi o al manicheismo sviluppatisi in Medio Oriente nei secoli successivi.

I vangeli ci raccontano come Giovanni accetti di essere un semplice precursore, ma è possibile tra le righe intravedere almeno un momento in cui i battezzati dovettero scegliere: con l’uno o con l’altro. O Giovanni o Gesù. Non dicevano proprio le stesse cose. I discepoli di Giovanni digiunavano, quelli di Gesù no; Giovanni si lascia andare a commenti pericolosi sulla famiglia reale, Gesù cerca di non fare politica (ma poi finisce comunque nei guai). Forse Giovanni era stato il maestro di Gesù (è lui a battezzarlo), ma poi quest’ultimo aveva preso una strada sua, e l’incarcerazione di Giovanni lo mise nella condizione di ereditare un po’ del credito del predicatore rivale, che davvero in questo senso gli aveva aperto la strada. Eppure anche in carcere Giovanni continuò a diffidare del cugino (Luca li considera cugini: ma in nessun altro testo sembrano manifestare alcun tipo di familiarità), mandando i suoi discepoli a chiedere a Gesù se davvero è il Messia. Gesù non si limita a rispondere “sì”, ma invita i giovannei a verificare di persona: come si riconosce un Messia? Cosa dice il profeta Isaia al riguardo? I ciechi recuperano la vista? Fatto. Gli storpi camminano? Fatto. I lebbrosi guariscono? Questo a dire il vero in Isaia non c’è, ma crepi l’avarizia. Eccetera eccetera: i sordi odono, i morti resuscitano…”

“E gli schiavi?”

“Eh?”

“Isaia diceva anche qualcosa sugli schiavi da liberare”.

“Sì, benappunto, vi ho detto che i morti resuscitano”.

“No Isaia non parla di morti, parla di schiavi, schiavi da liberare, insomma la rivoluzione”.

“Siete voi che non capite Isaia, volete sempre buttarla in politica”.

“Sei tu che non vuoi far politica, hai paura di finire come Giovanni, lui sì che si è preso le sue responsabilità…”

“Giovanni lo stimo, ma non avete mica capito, qua si parla di resuscitare i morti, liberarsi dal giogo del peccato originale, altro che schiavi e mica schiavi, questa è un’idea che tra duemila anni ancora ne staranno a parlare”.

“E avranno ancora gli schiavi”.

“E pazienza, i poveri ci saranno sempre…”

“Giovanni non parla così”.

“Che importa di quel che dice Giovanni, tanto la storia la scrivono i vincitori, e il protagonista sarò io, e del vostro Giovanni si parlerà come di uno che non era degno di allacciarmi le scarpe”.

“Noi restiamo con Giovanni”.

“Perfetto, sparite, faccio già fatica a vedervi”.

“Buona resurrezione”.

“Ridete, ridete, ride bene chi ride per ultimo”.

Magari non andò esattamente così, però i giovannei non seguirono tutti Gesù. C’era un formicolio di sette e di bande armate, una vitalità complessa e indisciplinata che i Romani non capirono e che presto o tardi spazzarono via per farci un bel deserto e chiamarlo pace (di Giovanni riparleremo nel giorno in cui si celebra il suo martirio, il 29 agosto).

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Eliseo e le sue orse

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14 giugno: Sant'Eliseo, profeta da non contrariare (IX secolo aC)


Quando Eliseo, dopo aver purificato le acque di Gerico, si mise in cammino verso il monte Carmelo, passando da Betel incontrò dei giovani che lo presero in giro: la strada era in salita e loro gli gridavano: "sali, calvo". Non l'avessero mai fatto. Non solo si prendevano gioco di un profeta di Dio, ma di quello probabilmente più permaloso. Insomma giudicate voi: Eliseo (dall'ebraico Elisha, "Dio è la mia salvezza") li maledisse nel nome del Signore e subito dal bosco uscirono due orse che li sbranarono tutti e quarantadue. E benché i glossatori in seguito abbiano tentato di dare al termine ebraico "ne'arim" ("giovani"), un significato più esteso ("disobbedienti"), è probabile che la versione originale sia la più sgradevole: non erano adulti, e se il profeta li ha maledisse si vede che se lo meritavano. 

Di miracoli, Eliseo ne ha fatti parecchi: è la sua specialità. Isaia ha la poesia, Geremia le rampogne, Ezechiele le visioni, Elia i miracoli, Eliseo ancora più miracoli. Alcuni sono persino più cruenti, ma non è difficile capire perché questo è il più famoso. Erano 42 ragazzi: non offendevano il Signore servendo gli idoli, come facevano i re di Israele e dintorni che Eliseo periodicamente ammoniva e puniva. Avevano solo mancato di rispetto a un profeta, ecco, questo era già intollerabile. 

Quando fece sbranare i 42, Eliseo era già abbastanza maturo da aver perso i capelli, ma come profeta si era appena messo in proprio. Il suo maestro, il grande Elia, era da poco salito al cielo su un carro di fuoco. Eliseo aveva avuto il privilegio di assistere all'evento coi suoi occhi, l'unico modo, secondo il maestro, di riceverne l'eredità. Eliseo aveva chiesto addirittura di "averne il doppio", richiesta molto ardita perché già Elia era conosciuto per i suoi prodigi spettacolari. Eliseo evidentemente sentiva di meritarselo; anni prima, quando Elia lo aveva fatto suo discepolo stendendogli il mantello addosso, Eliseo aveva abbandonato la sua casa senza quasi fiatare. Stava arando un campo, alla guida di un tiro di dodici buoi – un dettaglio che ci suggerisce che la sua famiglia fosse abbastanza benestante. A Elia chiese solo un momento per salutare i genitori; poi fece arrostire i buoi sul fuoco che appiccò agli aratri, sfamò i suoi servi e li congedò, il Signore lo chiamava. Non sappiamo se durante gli anni di apprendistato presso Elia abbia fatto dei miracoli; senz'altro, appena raccolse il mantello di Elia che era caduto dal carro di fuoco, divenne in grado di dividere le acque del Giordano e fare qualsiasi altra cosa. Un enorme potere nelle mani di un uomo un po' bizzoso, ma Eliseo era anche capace di atti di generosità e tenerezza. 

Quando passava dal villaggio di Sunem era spesso ospite di una signora che aveva riconosciuto in lui "l'uomo di Dio", e aveva fatto costruire una stanza apposta per lui, senza nulla chiedere in cambio. Eliseo, non sapendo come sdebitarsi, le promette che entro l'anno aspetterà un bambino. La sunammita non vuole crederci, il che è pericoloso; chi reagiva con scetticismo alle profezie di Eliseo a volte finiva molto male. Un soldato che non aveva creduto alla vittoria promessa, era finito schiacciato durante i festeggiamenti. Ma il caso della sunammita è diverso: non dubita del profeta, ma ha paura del suo stesso desiderio. Il bimbo nascerà, crescerà, e un giorno cadrà in coma dopo aver lamentato forti dolori alla testa. Quel giorno la sunammita cavalcherà fino al monte Carmelo, per prendersela con il profeta: "Avevo forse domandato un figlio al mio Signore? Non ti dissi forse: non m'ingannare?"  Così tutti noi genitori, quando scopriamo che l'ansia di perdere i nostri figli sorpassa la gioia di averli attesi, se avessimo nei pressi il profeta Eliseo, lo malediremmo. Ma il potente Eliseo, inflessibile coi re e i loro eserciti, quando la sunammita venne ad accusarlo, scese dal Carmelo e andò a rianimarle l'unico figlio, con una tecnica che somiglia alla respirazione bocca a bocca. Era un tipo così. Per fortuna che quel giorno nessuno gli fece notare che stava perdendo i capelli. 

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La festa della vergine, o anche no

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2 febbraio:  Presentazione del Signore, già purificazione della Vergine, insomma Candelora


Candelora è una festa intrisa di misteri, o perlomeno così mi suggeriscono di cominciare il pezzo. Nessuno è veramente sicuro di quel che si dovrebbe festeggiare. Il popolo l'ha sempre chiamata così, dal rito della benedizione delle candele che si compie durante le celebrazioni, e che forse, dico forse, ha un'origine pre-cristiana, ma soprattutto pre-elettrica, ai tempi in cui le candele erano un oggetto diffusissimo e a tutti familiare. Nella Germania medievale era l'ultimo giorno in cui si accendevano per i lavori domestici: dal 3 febbraio ci si sarebbe dovuti arrangiare con la luce del sole, ancora bassa all'orizzonte ma ormai decisamente trionfante sulle tenebre. Forse la festa aveva un senso anche economico: così come a Pasqua ci si disfaceva degli agnelli di troppo, a Candelora si finivano i mozziconi di candela che non aveva senso conservare per l'anno seguente.  

A volte si collega candelora ai lupercalia, la festa del dio Luperco/Fauno, protettore delle greggi, che però cadeva a metà febbraio ed è già un rito di fecondità (che ha lasciato tracce in altre due feste: carnevale e San Valentino). Candelora somiglia più a un rito di purificazione. All'inizio di febbraio i Romani festeggiavano in effetti i februalia in onore di Giunone, che nell'occasione si sovrapponeva alla dea Febris o Februa, e assumeva una funzione purificatrice (februare = "purificare"). Questo ci fa sospettare che almeno in Occidente i cristiani abbiano sostituito Giunone con la solita Maria di Nazareth: per molto tempo in effetti Candelora fu ricordata nei calendari come la festa della Purificazione della Vergine. Oggi non più, ed è interessante cercare di capire il perché. 

Una delle cose più curiose del calendario cattolico è che non esiste una festa di Maria in quanto vergine. Maria è festeggiata tutti i mesi, per tantissimi motivi, ma mai per la sua verginità. Al massimo come "Beata Vergine Maria Regina" (22 agosto), ma anche in quel caso l'enfasi è sul concetto di regalità, che condivide col figlio (San Cristo Re). Il primo gennaio la celebriamo come Madre di Dio, a ferragosto come Assunta in cielo, l'8 dicembre come Immacolata Concezione, ovviamente nove mesi prima il suo compleanno (8 settembre). Il 12 settembre festeggiamo il suo Santissimo Nome, mentre il secondo sabato dopo la Pentecoste è dedicato al suo Immacolato Cuore. Senza contare i tanti altri anniversari dei giorni in cui è apparsa in questo o quel santuario, o ha fatto questo o quel miracolo. Ad esempio in ottobre ha vinto contro i Turchi a Lepanto, da cui la Madonna del Rosario. E in dicembre è apparsa agli aztechi, da cui la Madonna della Guadalupe. Insomma le occasioni non mancano, ma una festa della vergine in quanto vergine non c'è. Vuoi vedere che fosse Candelora? E perché non la festeggiamo più? 

In effetti la Purificazione della Vergine è sempre stato un concetto problematico: una contraddizione in termini. Il significato di "vergine" è molto oscillato nei secoli – il che vedremo è parte del problema – ma credo siamo tutti d'accordo sul fatto che contenga in sé un'idea di purezza. Dunque che bisogno avrebbe avuto, una vergine, di essere purificata? Nessun bisogno. Le stesse Scritture non ne parlano – come del resto non parlano di tanti altri dettagli che all'inizio non sembravano importanti e su cui nei secoli si sono combattute battaglie teologiche che oggi osserviamo perplessi. L'unico appiglio era il vangelo di Luca, che nel secondo capitolo sembra voler rassicurare sul fatto che la Sacra Famiglia stesse osservando tutti i precetti della legge ebraica: all'ottavo giorno della nascita Gesù viene circonciso, e "quando venne il tempo della purificazione secondo la Legge di Mosè", portato a Gerusalemme per essere "offerto al Signore". 

Presentazione di Gesù al tempio, Giovanni Bellini

Luca non dice quando sia nato Gesù – tra parentesi, è curioso che un cronista così attento al dettaglio non sia riuscito ad accedere un'informazione del genere: forse era una data che non si accordava con nessuna profezia e quindi ha preferito lasciarla perdere. Però se si decide, come fecero i cristiani a un certo punto, di festeggiarne il compleanno il terzo giorno dopo il solstizio d'inverno, i conti sembrano miracolosamente tornare: non solo la circoncisione viene a cadere proprio alle calende di Gennaio, ma anche la presentazione di Gesù al tempio arriverebbe proprio il due febbraio (sappiamo però che la festa oscillò nel calendario, e che fino al VI secolo si sovrapponeva ai lupercalia più che ai februalia). La legge di Mosè, che Luca cita senza avventurarsi in dettagli, prescrive appunto un appuntamento al tempio dopo quaranta giorni dalla nascita, e trentatré dalla circoncisione. 

Luca utilizza l'episodio per raccontare l'incontro della Famiglia con due profeti, Simeone e Anna, che confermano la natura messianica del neonato. In Oriente sin dall'inizio Candelora veniva chiamata Hypapante, "incontro", ed era associata appunto all'incontro con Simeone e Anna. Sappiamo che era una festa molto importante già nel V secolo, dal resoconto della pellegrina Egeria, che racconta come a Gerusalemme "si accendano tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima". Il racconto di Luca però fa a pugni con quello di Matteo, secondo il quale la Famiglia sarebbe scappata immediatamente in Egitto dopo l'Epifania. Inoltre Luca, per quanto interessato a includere le liturgie ebraiche nella sua narrazione, non è che le conosca benissimo: la Famiglia doveva tornare al tempio non tanto per presentare il figlio, quanto perché la madre doveva sottoporsi a un rito di purificazione: nei quaranta giorni precedenti infatti era considerata impura, e sottoposta a una serie di limitazioni sociali (tra cui l'astensione dai rapporti). Maria non era però una madre come tutte le altre: di purificarsi non avrebbe avuto bisogno. O no? 

Vuoi vedere che in quei primi secoli Maria non fosse considerata una vergine 'vergine', e che 'vergine' fosse solo un modo iperbolico di alludere alla sua giovinezza, alla sua innocenza, così come se dico a una persona che è un angelo non intendo che gli sono spuntate le ali? Non sarebbe la prima volta che un'iperbole, un modo di dire, un errore, vengono male interpretati e diventano articoli di fede: sarebbe però il caso più spettacolare. L'errore qui lo avrebbero fatto i Settanta, leggendari traduttori della Bibbia dall'ebraico al Greco nel III secolo aC. La Lettera di Aristea racconta che fossero chiusi in settanta celle diverse, senza comunicazione; e nonostante ciò avrebbero prodotto settanta traduzioni assolutamente identiche. Se lo chiedete a me, faccio meno fatica a credere ad Adamo ed Eva e all'arca di Noè, comunque i Settanta traducendo una profezia di Isaia, scrivono che "una vergine (parthénos) concepirà e darà alla luce un figlio, e gli porrà il nome di Emanuele". Emanuele significa "Dio con noi": si tratta del Messia. Nell'originale greco però la vergine era "'almah", giovane donna: non necessariamente vergine. Da cui l'equivoco.

Ogni scusa è buona per rimettere questa foto

L'ossessione per la verginità fisica di Maria di Nazareth è in realtà un fenomeno relativamente moderno. Nei primi secoli la teologia era ancora abbastanza fluida, il che avrebbe consentito ai cristiani d'Occidente di immaginare un episodio in cui Maria viene purificata al tempio. Questo offriva un'occasione per riprendere la festa di Febris/Giunone purificatrice, cambiandone il significato, proprio come era successo il 25 dicembre con la festa del Sole Vincitore. È un'ipotesi. Quando poi cominciarono le guerre sulla natura del Cristo (solo umano, solo divino, più umano che divino, ecc.), a vincere fu un compromesso che, come molti compromessi, scontentava un po' tutti e soprattutto sfidava la verosimiglianza: Cristo era sia Dio sia uomo; in quanto uomo però era diverso da tutti gli altri, poiché privo di peccato originale. Nato da una donna, ma senza contributo dell'uomo, e soprattutto (ma questo nessuno osava metterlo nero su bianco) senza amplesso carnale: Maria non aveva avuto un rapporto sessuale con uno di quegli dei mascalzoni dell'Olimpo che si travestivano da uomini; in quel senso era da considerarsi vergine. Questo lasciava lo spazio ad altri interrogativi (ma era rimasta vergine anche dopo la nascita? Ed era nata con o senza il peccato originale?) che in millecinquecento anni poi i teologi si adoperarono a sbrigliare.

Nel frattempo non è che non ci siamo preoccupati di altre cose. In Francia hanno inventato le crêpes, il dolce tradizionale di Candelora. In Belgio i pancakes, un tipico caso di emulazione fallita ma comunque interessante. Da qualche parte in Germania si dava un'occhiata alla tana del riccio: se il sole era uscito da consentire all'erinaceida di proiettare la sua ombra, vi sarebbe stato un secondo inverno. Questa tradizione, trapiantata da immigrati tedeschi nel nuovo continente, avrebbe dato vita al Giorno della Marmotta: una celebrazione che ai miei coetanei è più familiare della Candelora.

La festa della purificazione della Vergine è resistita sul calendario fino al Concilio Vaticano II. La contraddizione in termini era risolta in modo abbastanza ragionevole: no, Maria non avrebbe avuto bisogno di purificarsi, ma c'era andata lo stesso perché la legge diceva così e le leggi vanno rispettate: non succede anche Gesù, pur concepito senza peccato originale, di farsi battezzare da Giovanni? Il catechismo di Pio X proponeva di leggere nell'episodio un "esempio di umiltà e obbedienza alla legge di Dio". La questione, come tutte quelle aventi a che fare col concetto di verginità della Madonna, a metà Novecento è stata insabbiata: nel Martirologio Romano non si legge più "Purificazione della Vergine", ma "Presentazione del Signore": insomma alla fine gli occidentali hanno dato ragione agli orientali, almeno su questo.

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Il sigillo dei profeti

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18 dicembre: San Malachia (VI secolo), sigillo dei profeti

"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro profanando l'alleanza dei nostri padri?" Malachia 2,10, sul muro sulla barriera difensiva che separa Israele e Cisgiordania.
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1027285

Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto. Se Edom dicesse: «Siamo stati distrutti, ma ci rialzeremo dalle nostre rovine!», il Signore degli eserciti dichiara: Essi ricostruiranno: ma io demolirò. Saranno chiamati Regione empia e Popolo contro cui il Signore è adirato per sempre. I vostri occhi lo vedranno e voi direte: «Grande è il Signore anche al di là dei confini d'Israele»
(Malachia 1,2-5)

Edom era un antico regno del Negev, a poche centinaia di km da Gaza. Per gli antichi ebrei gli edomiti erano discendenti da Esaù, il fratello che vendette la propria primogenitura a Giacobbe-Israele per un piatto di lenticchie; così come molti proprietari palestinesi in epoca ottomana vendettero terreni poco fruttuosi ai sionisti. Queste e altre coincidenze ci lasciano sempre sbigottiti. Si fa senz'altro un torto a proiettare le storie della Bibbia sulla storia contemporanea dello Stato di Israele; i motivi per cui sta distruggendo la Striscia sono tutti terribilmente razionali, il risultato inevitabile di una serie di errori commessi in settanta più anni. E tuttavia la Bibbia è ambientata proprio lì, e parla di popoli fratelli che si odiano. Il primo ministro democraticamente eletto cita Amalek, il nome di un antico popolo che osò attaccare gli ebrei mentre si insediavano nella Terra Promessa, e al quale giurarono guerra eterna, generazione su generazione, finché non fu effettivamente sterminato ed estinto. La Bibbia sta lì, e se la ride di tutti gli studiosi che ne mettono in discussione la storicità – forse in effetti non parla del passato, ma del futuro. Forse Mosè non ha mai riportato gli ebrei in Cananea, ma Zorobabele e Ben Gurion sì. Forse l'angelo di Dio non ha distrutto Sodoma e Gomorra, ma Gaza e Khan Yunis ormai sono colonne di sale. 

La Bibbia non va sottovalutata. Eppure tutti sanno come comincia (la creazione, Adamo ed Eva), ma nessuno ti saprebbe dire come finisce. In effetti dipende molto dall'ordine dei libri, che varia di traduzione in tradizione; in linea di massima le versioni cristiane dell'Antico Testamento tendono a posporre la sezione riservata ai profeti, l'ultimo dei quali è Malachia, già definito dagli ebrei "sigillo dei profeti". 

Malachia nella Cappella degli Scrovegni

Si tratta di un finale completamente arbitrario (anche nella Tanakh ebraica Malachia è l'ultimo profeta, ma ai profeti seguono altri libri). Malachia non è l'ultimo libro a essere stato composto, né contiene molti elementi che ci consentano di datarlo (persino il nome all'origine non era proprio: "Malachia" significa "il mio messaggero"). In effetti potrebbe adattarsi a qualsiasi momento della storia antica di Israele, tanto è esemplare di tutta la letteratura profetica nella sua alternanza di rimbrotti a un popolo peccatore e promesse di un futuro luminoso. 

Se però accettiamo, come abbiamo fatto per secoli, che Malachia sia l'ultimo profeta, non può che essere posteriore a Zaccaria e Aggeo che nel VI sec. aC si sono spesi per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme: il che significa che neppure la realizzazione del Tempio ha soddisfatto il Signore, di nuovo stomacato dei sacrifici come ai tempi di Geremia: "spanderò sulla vostra faccia gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità", dice. È l'ennesimo capitolo della psicosi di un popolo che qualunque cosa faccia non riesce a soddisfare il suo Dio, a meritare le sue promesse di grandezza. Stavolta i motivi della collera divina sono almeno definiti con chiarezza: i sacerdoti non sacrificano capi di prima scelta, com'è previsto dalle Scritture, ma "animali rubati, zoppi e malati". Non solo: ma gli israeliti non restano fedeli alle "donne della loro giovinezza", le tradiscono e praticano il divorzio. Quest'ultimo consente loro di risposarsi con le "figlie d'un Dio straniero". Questa avversione per i matrimoni misti è una delle ragioni per cui nella tradizione ebraica Malachia è stato associato a Esdra, il sacerdote che nell'omonimo libro aveva lanciato un allarme ancora più esplicito: gli israeliti che tornavano a Gerusalemme dopo la cattività babilonese si stavano mescolando con la popolazione locale, minacciando un progetto che evidentemente si basava sulla segregazione etnica. Malachia però è molto critico nei confronti della casta sacerdotale, di cui Esdra faceva parte; e sembra detestare la pratica del divorzio, laddove Esdra ottiene proprio che gli israeliti divorzino dalle mogli etnicamente scorrette.

L'idea di considerare Malachia come l'ultimo dipende probabilmente dal fatto che nel finale questo profeta gioca una carta molto impegnativa: in attesa di un trionfo del bene che assume sempre più caratteri escatologici, il Signore degli eserciti invierà "il profeta Elia", che secoli prima era stato salito al cielo sul carro del sole. La promessa di un Messia che riscatti il popolo di Israele, ricompensi i giusti e castighi i superbi col fuoco ("sta per venire il giorno rovente come un forno"), non era mai stata messa per iscritto con tanta chiarezza, al punto che quattro secoli più tardi, quando Gesù comincerà il suo ministero, molti vedranno in lui l'Elia promesso da Malachia. Gesù stesso identificherà Elia con Giovanni Battista (quest'ultimo almeno in un'occasione nega di essere Elia). Il testo di Malachia dunque presenta il finale più adatto per un Libro di cui si ha già intenzione di allestire un seguito: il cosiddetto cliffhanger, o finale sospeso. E se per i cristiani il seguito è noto, gli ebrei sono sospesi da allora.

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Il profeta (A)bacucco

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2 dicembre: Santo Abacuc, profeta (VI secolo aC)

C'era un vecchio dizionarietto dei santi della Tea edizioni che come sottotitolo aveva Da Abacuc a Zosimo, tutti i protagonisti della fede, insomma se non avesse altre qualità il profeta potrebbe sempre rivendicare di essere il primo tra i santi almeno in ordine alfabetico (un alfabeto che non lesse mai in vita sua). Purtroppo la Bibliotheca Sanctorum ricorda, prima di lui, una venerabile Aalaide, un Aaron (che poi sarebbe Aronne), un sant'Abachirion e un sant'Abaco. Abacuc è appena il quinto, ma anch'io volendo scrivere un sottotitolo a effetto partirei da Abacuc. È un nome che dà soddisfazione, ha quel suono da xilofono che suggerisce un trapestio di vecchie ossa, o una testa pelata percossa. A quanto pare il lemma "bacucco" nasce proprio da queste suggestioni, e dall'iconografia che a un certo punto stabilì che tra tanti profeti, Abacuc era uno di quelli più anziani e calvi, se non l'anziano e il calvo per eccellenza. Forse fu il successo della statua di Donatello, uno dei primi capolavori del Rinascimento, un'opera così cara al suo autore che secondo Vasari era solito giurare su di essa. I fiorentini che la ammiravano esposta su una delle nicchie del terzo ordine del campanile di Giotto la battezzarono "Zuccone", e benché non siamo completamente sicuri che ritraesse Abacuc (potrebbe anche trattarsi di Geremia) col tempo l'allitterazione Zuc-Cuc è risultata irresistibile. 

Così, per una pura associazione di suoni e significati, il profeta si è ritrovato una fama di vecchio brontolone piuttosto ingiusta, per un autore di poche parole ma molto incisive: il suo libro è brevissimo ma composto con una certa eleganza, e contiene almeno un paio di versetti che non ci hanno più abbandonato. Di fronte alla tragedia imminente (l'invasione neobabilonese), Abacuc accetta la lettura degli altri profeti: si tratta di una punizione collettiva che Dio impartisce al suo popolo disobbediente. Ma cosa sarà degli individui che hanno continuato a rispettare Dio e le sue leggi? Dovranno patire anche loro gli effetti della vendetta di Dio? Abacuc spera di no, e a un certo punto (capitolo 2, versetto 4) suggerisce che "il giusto vivrà per la sua fede". La frase sarà ripresa più volte da San Paolo, che darà un significato ultraterreno al verbo "vivrà", e costituirà l'architrave della teologia protestante: la giustificazione secondo la fede. 

L'altra citazione immancabile è il versetto finale del libro, in cui il Signore, comparso nella sua gloria a salvare i giusti, consente al profeta di salire verso lui con "passi di cerva": ci sono profeti che volano, ma Abacuc preferisce zampettare. Eppure è proprio lui che viene scelto da uno degli autori del libro di Daniele come protagonista di un volo miracoloso: in questo episodio (che riprende quello famoso della fossa dei leoni, ma è sicuramente un'aggiunta posteriore), Abacuc sta preparando una minestra "per i mietitori", il che ci sorprende perché fino a quel momento Abacuc ci era sembrato un intellettuale più che un addetto alla refezione. Può darsi che dopo l'invasione neobabilonese anche i profeti si fossero messi a sgobbare: comunque mentre preparava questa minestra, un angelo lo "afferrò per i capelli" e "con la velocità del vento lo trasferì in Babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni” in cui era stato gettato Daniele. Dunque, di tutti i profeti della Bibbia, Donatello avrebbe ritratto come calvo proprio quello che nella Bibbia viene afferrato da un angelo per i capelli. Ma insomma Daniele può finalmente mangiarsi una minestra, mentre l'angelo riporta immediatamente Abacuc in Palestina. Non è dato sapere cos'abbiano mangiato quel giorno i mietitori. 

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Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)

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19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)

Sesso con gli ortotteri!
Israele, la Palestina, come volete chiamarla, è una terra difficile. Che un Dio possa averla promessa a un popolo in cambio della sua fedeltà, è cosa che desta più di un sospetto. Ti promette fiumi di latte e miele, ti ritrovi con pietraie e laghi salati. Dev'esserci un errore, e non puoi che averlo commesso tu; forse non hai amato Dio abbastanza, dovresti impegnarti di più. Far fiorire il deserto – certo serve molta acqua, occorrerà occupare determinate oasi, scacciare determinati beduini, ma è Dio che ce lo chiede, implicitamente. Tra un pascolo e l'altro capita di imbattersi in rovine ciclopiche, i resti di antiche città che sembrano devastate da diluvi o da tempeste di fuoco – la ceramica si è fusa con le pietre – quel giorno Dio doveva essere molto arrabbiato e siccome ce n'è Uno solo, è lo stesso Dio che ti ha voluto esattamente qui. Meteore, inondazioni, guerre, e poi che altro? Beh, le locuste. Quegli insetti devastanti che Dio inflisse al Faraone per convincerlo a liberare il tuo popolo, ecco, a un certo punto lo stesso Dio le ha inviate a te. È quel che racconta il profeta Gioele nel suo breve libro, di datazione molto incerta: potrebbe essere stato scritto nell'800 come nel 300, un range di cinquecento anni nei quali la situazione più di tanto non cambia: accadono disgrazie, gli uomini domandano a Dio perché, Dio risponde che è colpa loro, ma che se si comporteranno meglio Lui li perdonerà. Questo però mediamente non accade e in breve arriva qualche nuova disgrazia. 

L'avanzo lasciato dal bruco l'ha mangiato il grillo;
l'avanzo lasciato dal grillo l'ha mangiato la cavalletta;
l'avanzo lasciato dalla cavalletta, l'ha mangiato la locusta.

In seguito i lettori poco famigliari con gli insetti migratori si sono ingegnati a considerare le locuste come una metafora, o anche solo l'allegoria di un esercito invasore; e però non è affatto improbabile che il profeta stesse documentando un fatto storico reale, una migrazione di cavallette della specie Schistocerca gregaria, dette volgarmente locuste del deserto, che da millenni infestano Nordafrica e Medio Oriente, creando gravi e periodici problemi a chi coltiva quelle terre così benedette da Dio. Addirittura Gioele potrebbe aver cercato di descrivere i quattro stadi della locusta: il "bruco" sarebbe la larva, il "grillo" la neanide, la "cavalletta" la ninfa e la "locusta" l'insetto adulto, in quella fase gregaria in cui abbiamo scoperto che la compagnia dei suoi simili gli dà una botta pazzesca di serotonina. Proprio così, aggregarsi per le locuste a un certo punto diventa una cosa piacevolissima, meglio del sesso. Non poteva inventarsi qualcosa del genere il Dio che ci ha creati? eh, ma ci ha creati a Sua immagine e così quando cominciamo a essere troppi in una terra che non ha abbastanza acqua, invece di provare piacere, ci ammazziamo. Forse è quello che Dio pretende da noi. Forse invece Dio si arrabbia in questi casi. Non è affatto chiaro. Molta gente al nostro posto impazzirebbe, noi no, non possiamo. Dio ci ha scelti per tutto questo, ci sta mettendo alla prova.

L'invasione delle locuste nel primo capitolo del libro di Gioele è davvero ben descritta, con toni più disperati che apocalittici; non è la solita minaccia di un profeta a un popolo che ha abbandonato il Signore. Tutto è già successo; il Signore è evocato soltanto in un secondo momento, quando Gioele sente la necessità di fornire ai suoi lettori una speranza. Se ci riaccostiamo a Lui, ci darà tutto (quello che ci ha tolto). Farà trionfare Israele su tutti i suoi nemici. Addirittura stenderà il suo Spirito su tutti noi, diventeremo tutti profeti (a causa di questa promessa inusuale, Gioele è considerato il profeta della Pentecoste). Può darsi che il libro di Gioele, per quanto piccolo, sia una collazione di testi diversi; una più antica lamentazione su un fatto storico (un'invasione di locuste) viene in seguito rimaneggiata da un profeta con una teleologia fin troppo chiara: ogni disgrazia è una prova che Dio ci manda affinché recuperiamo la fiducia in Lui. Il Quale un giorno verrà e risolverà ogni problema – nel frattempo ci manda le locuste.
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Il profeta che andò a putt

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Duccio di Buoninsegna
17 ottobre – Sant’Osea, profeta becco (VIII secolo avanti Cristo)

[2012]. Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita – esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell’oceano all’interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell’esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:

Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va’, prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».


Il libro del profeta Osea comincia così – e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all’ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l’attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:

La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d’Israele,
non ne avrò più compassione […]

Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».

Insomma l’Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L’Entità lo ha chiamato dall’Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all’aria aperta (sulle cime dei monti!), e l’Entità non ne può più. L’Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall’Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.



http://www.jaypinkerton.com/hosea.html

Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un’ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l’ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po’ caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell’Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d’amore appassionate, struggenti: c’è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa…


Ad Efraim (una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche)
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.


Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto:

La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.

Ne salto un altro:

Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;

Perdona, ma a me pare proprio il contrario. Mi sembri veramente, decisamente un uomo, un uomo che a un certo punto della vita forse si è messo con la donna sbagliata, o forse tutte le donne sono sbagliate per certi uomini, in certi momenti della vita, in ogni caso mi sembri un uomo che su questa cosa che tua moglie ha altri interessi ci deve ancora lavorare. E andare in giro dicendo che tua moglie è una puttana, e che l’hai sposata solo perché te l’ha ordinato il tuo dio, no, non ha l’aria di un progresso nella giusta direzione.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Ma perché si copre la tes

D’altro canto chi sono io per giudicare. Se Osea fosse stato semplicemente un marito becco in cerca di sfogo, i suoi rotoli si sarebbero persi da un pezzo. Per sopravvivere all’oblio, per consegnare al lettore del XXI secolo un documento vibrante sulla gelosia umana, Osea doveva fare il profeta, trasformare la sua frustrazione in metafora. Come lo pseudoSalomone a cui piacevano le more, e per mille anni abbiamo fatto finta che la moretta ben tornita del Cantico dei Cantici fosse un’allegoria della Chiesa; magari Osea voleva solo raccontarci come ci si sente quando si è furiosi per un tradimento. Di sicuro la furia sa esprimerla bene.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Magari è come certi che questa furia insanabile provano a trasferirla nella politica, o nella religione, nella prima rivendicazione identitaria che trovano sul loro cammino. In ogni caso è un uomo, di quasi tremila anni fa, ma già un uomo con sentimenti che riesco quasi a riconoscere, e a me gli umani interessano (Dio molto meno, cioè su Dio non saprei veramente che dire. Ma se è davvero lo stalker adombrato nel libro di Osea, siamo fottuti).

Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.
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L'apostolo dietro le quinte

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11 giugno: San Barnaba, apostolo e fundraiser (I secolo)

Paolo e Barnaba a Listra vengono scambiati per Hermes e Zeus (Nicolaes Pietersz) 

Barnaba potrebbe essere il santo più importante di cui non avete mai sentito parlare. Potrebbe persino aver inventato la Chiesa, così come di Paolo di Tarso si dice che abbia fondato il cristianesimo: ma del resto chi è che ha scoperto Paolo, chi è che ha garantito per lui presso gli apostoli, chi è che lo è andato a riprendere quando si era ritirato a vita privata, e lo ha gettato in quel calderone che era Antiochia, la metropoli del Medio Oriente dove appunto i seguaci di Paolo e Barnaba furono chiamati per la prima volta cristiani? È stato Barnaba. Che Chiesa avremmo avuto, senza Barnaba? Probabilmente nessuna Chiesa. Oppure saremmo tutti circoncisi. Difficile da dire. 

Barnaba è quel tipo di personaggio che vive tra le righe: in un libro non vengono quasi mai nominati, eppure senza di loro la trama non andrebbe avanti. Il libro in questo caso sono gli Atti degli Apostoli di Luca evangelista, in cui Barnaba viene nominato una ventina di volte, che non sono poi così poche. È uno dei rari personaggi che compare sia nella prima parte (ambientata a Gerusalemme, racconta la nascita di una setta basata sulla fede negli insegnamenti e nella resurrezione di Gesù di Nazareth), sia nella seconda, quella che racconta dei viaggi e della predicazione di Paolo di Tarso. Barnaba è il trait d'union: fu uno dei primi aderenti (e contribuenti) della comunità di Gerusalemme, e poi fu il mentore e il compagno di Paolo nei suoi primi viaggi. Di lui non viene riportato nessun discorso diretto: a differenza di Pietro e di Paolo, non è davvero importante quello che dice. L'importante è sempre quello che fa: le persone e le comunità che sceglie di appoggiare, nonché i soldi; sin dalla prima volta in cui compare, Barnaba si trova coinvolto in questioni di soldi. L'ipotesi è che l'economia fosse il suo campo specifico: altri parlavano, Barnaba decideva quanti soldi raccogliere, quanti soldi riscuotere. Pietro e Paolo erano star, Barnaba il loro procuratore? È solo un'ipotesi perché Luca, quando si parla di soldi, si muove sempre un po' a disagio e tende a riportare ricostruzioni improbabili. Altri avrebbero semplicemente rimosso l'argomento; in fondo se stai raccontando la nascita di un culto a chi vuoi che interessi l'economia? E invece a noi, duemila anni dopo, un po' interessa. 


Barnaba, ci spiega Luca, si chiamava Giuseppe (il soprannome Barnaba significherebbe "figlio dell'esortazione") ed era un levita originario di Cipro. Già in questi succinti dettagli possiamo immaginare una tensione fra tradizione e cosmopolitismo: i leviti erano l'antica casta sacerdotale ebraica, ma a Cipro senz'altro vivevano mescolati a greci e ad altri gentili. Può darsi che Barnaba si sia accostato al cristianesimo quando aveva già una profonda conoscenza delle tradizioni ebraiche che in seguito avrebbe cercato di superare; oppure può darsi di no, non tutti i leviti facevano più i sacerdoti, e di Barnaba sappiamo che aveva dei possedimenti, magari una rendita. Il fatto che in seguito abbia dimostrato insofferenza nei confronti di chi chiedeva di imporre i precetti levitici anche ai gentili convertiti al cristianesimo, mi ricorda irresistibilmente un altro personaggio che in sua presenza non viene mai nominato: Matteo-Levi, il pubblicano, autore del vangelo più polemico nei confronti degli ebrei. Per una interessante coincidenza, è anche il vangelo più attento alle questioni economiche, e si capisce subito che chi lo ha scritto ha un'esperienza sul campo molto più pratica e sgamata di quella di Luca. E quindi: potrebbe Barnaba essere Matteo-Levi? Che io sappia nessuno l'ha proposto, anche solo perché Matteo-Levi dev'essere per forza uno dei Dodici, mentre di Barnaba si legge chiaramente che si è aggregato al gruppo in seguito. È pur vero, come si dice, che nessuno li ha mai visti nella stessa stanza, ovvero mentre si parla di Barnaba e Paolo, Barnaba e Marco, Barnaba e Pietro... non si parla mai di Barnaba e Matteo. Una leggenda di molto successiva agli Atti racconta che secoli dopo il suo martirio, a Cipro, il corpo di Barnaba sarebbe stato trovato con in mano una copia del vangelo di Matteo. Dettaglio suggestivo, anche perché sarebbe stato molto più verosimile che Barnaba si portasse nella tomba il vangelo di Marco, che forse era addirittura suo cugino. O al limite quello di Luca, che negli Atti parla tanto di lui. Invece no: a Barnaba trovano in mano il vangelo di Matteo. È curioso, ma mille curiosità non fanno una prova.

Nel primo passo in cui compare, Barnaba sembra incarnare il seguace ideale di Gesù, quello che "vende tutto quello che ha e lo dà ai poveri" (Mc 10, 21): nel suo caso Barnaba possiede appunto un podere, lo vende e depone il ricavato "ai piedi degli apostoli". È il requisito richiesto a tutti gli adepti del nuovo culto (e somiglia sinistramente a quello che succede anche oggi a chi aderisce a un culto), ma Barnaba è l'unico di cui Luca fornisce nome e soprannome. Al suo esempio positivo segue immediatamente nel testo quello negativo: due coniugi, Anania e Saffira, dopo aver liquidato le loro proprietà, tentano di frodare gli apostoli tenendo per sé una parte del ricavato, ma Pietro in questa fase degli Atti è onnisciente e abbastanza terribile: al termine di due brevi colloqui in cui li accusa del loro misfatto, sia Anania che la moglie cadono morti. Questa è l'aria che tira in quella comunità che pochi versetti prima Luca ha definito "un cuore solo e un'anima sola".

Barnaba insomma il titolo di apostolo lo guadagna non con le parole, ma investendo tutto quello che possiede in una setta dove c'è gente che non si lascia sfuggire un centesimo. Il titolo comunque se lo meriterà coi fatti, anzi sin dall'inizio sembra uno degli apostoli più attivi: quando a Gerusalemme arriva la notizia che a Damasco si è messo a predicare il vangelo un certo Paolo (chiamato ancora col nome ebraico, Saulo), i capi della comunità decidono di mandare qualcuno fidato a indagare e scelgono proprio Barnaba. È un altro momento cruciale, perché Saulo sin dall'inizio è un predicatore sensibilmente diverso dagli apostoli originali: ha un approccio più ecumenico, una cultura diversa; non ha mai conosciuto Gesù, e fino a poco tempo prima i cristiani li perseguitava per ordine del Sommo Sinedrio. Inoltre, è improbabile che avesse venduto tutto quello che possedeva (anche in seguito si vanterà di vivere del proprio lavoro, forse di produttore di tendaggi). Barnaba avrebbe avuto più di un motivo per considerarlo un eretico, una minaccia alla purezza della Chiesa primigenia: e invece, dopo aver investito tutto quello che aveva in quella Chiesa, ora investe tutta la sua credibilità in questo nuovo eccentrico predicatore. Non solo garantisce per lui, ma sarà Barnaba a trovare lo spazio più adatto alle sue idee: Antiochia di Siria. 

La lettera agli Ebrei,
attribuita da Tertulliano
a Barnaba
Nel primo secolo è la città più grande di tutta l'Asia romana. Anche ad Antiochia, Barnaba giunge in missione per conto dei capi gerosolimitani: deve verificare se è vero che qualcuno si è di nuovo messo a parlare di Gesù Cristo in quella grande città senza prima chiedere il loro permesso, e cominciamo a capire che è un permesso che si paga. Barnaba scopre che è proprio così, ad Antiochia c'è già un gruppo di seguaci di Gesù, e come gli è già successo con Paolo, reagisce con entusiasmo: quell'entusiasmo che forse ha fatto tutta la differenza. Altri culti si sono ripiegati su sé stessi, temendo di snaturarsi di fronte a situazioni nuove; Barnaba ha convinto i seguaci di Gesù ad aprirsi a Paolo e poi ad aprirsi ad Antiochia, ma dopo Paolo e dopo Antiochia il culto di Gesù non sarebbe più stato lo stesso. Molti nuovi adepti non sono di origine ebraica e se anche volessero rispettare i precetti della Legge ebraica, probabilmente non li conoscono; però qualche tempo prima a Gerusalemme lo stesso Pietro apostolo ha iniziato a convertire i pagani, cominciando dal centurione Cornelio, e questo forse è quanto basta a consentire a Barnaba di dare il via libera alla nascita di questa nuova Chiesa che, date le dimensioni di Antiochia, è destinata a eclissare quella gerosolimitana. Qualcun altro al suo posto avrebbe almeno chiesto rinforzi dalla casa base; Barnaba invece decide di scomodare Saulo, che nel frattempo era tornato a casa sua, a Tarso: c'è bisogno di un predicatore dalla lingua pronta ma anche dalle idee aperte, qualcuno che non si formalizzi troppo sui precetti rituali. E poi c'è la profezia di Agabo, di cui abbiamo già parlato: in breve, proprio mentre Barnaba e Saulo/Paolo ad Antiochia stanno contribuendo a formare una comunità che è destinata a modificare per sempre le forme del cristianesimo (e sarà la prima al mondo a essere chiamata "cristiana") ecco spuntare dal nulla questo profeta che informa i membri della comunità di un'incipiente carestia "su tutta la terra". È abbastanza chiaro che si tratta di un pretesto, perché la raccolta fondi che viene organizzata su stimolo di Agabo non è destinata a tutta la terra, ma "ai fratelli abitanti nella Giudea", cioè ai membri della Chiesa gerosolimitana. È solo la prima di una serie di collette che verranno periodicamente organizzate in tutte le Chiese fondate da Paolo e Barnaba, il che ci fa sospettare che la comunità di Gerusalemme ormai fosse diventata la detentrice di una specie di copyright. Proprio come Barnaba per ottenere il titolo di apostolo aveva dovuto cedere il suo podere, anche le nuove comunità, per considerarsi Chiese ufficiali, dovevano autotassarsi e inviare generose offerte alla Chiesa originale 

Gli utilizzatori finali dei fondi raccolti dovrebbero sempre essere "i poveri", senonché il termine nasconde una certa ambiguità: non c'è dubbio che sin dall'inizio la comunità di Gerusalemme si fosse data anche una missione socio-assistenziale (molto presto erano stati nominati i primi diaconi, tra le cui mansioni c'era la distribuzione di pasti alle vedove), però potevano essere considerati "poveri" anche gli apostoli, predicatori di professione che per campare probabilmente attingevano dalla cassa comune. È possibile che col tempo i membri più anziani fossero visti dalle altre Chiese come un patrimonio da difendere – e da mantenere: erano i testimoni oculari della vita di Gesù. In attesa che qualcuno cominciasse a scrivere i vangeli, il Vangelo erano loro e valeva senz'altro la pena di autotassarsi per il loro mantenimento. Però non tutti gli apostoli pensavano di dover vivere di elemosina. Paolo, ad esempio, no: ci teneva molto a ribadire di aver sempre lavorato, e almeno una volta, scrivendo ai Corinti, domanda polemicamente se solo a lui e Barnaba non è riconosciuto "il diritto di non lavorare" (1Co 9,6). 

Quando nelle sue lettere Paolo parla di queste raccolte fondi, lo fa con un certo disagio – più che comprensibile in un teologo che preferirebbe toccare argomenti più alti. Si capisce che le ritiene necessarie, che non può esimersi dal sollecitarle, ma anche che non vorrebbe essere preso per il destinatario delle offerte o peggio, per un mero riscossore. Può darsi che a occuparsi più concretamente delle collette fosse il suo collega Barnaba, e questo spiegherebbe il senso del suo soprannome: l'"esortazione" riguarderebbe l'invito evangelico a donare tutto ai poveri, o almeno qualcosa (a proposito: ricordate che mestiere faceva Matteo-Levi prima di incontrare Gesù? Il riscossore, esatto). 

Da Antiochia, Paolo/Saulo e Barnaba intraprendono una serie di viaggi che rivelano una concezione ormai ecumenica del loro apostolato. Passano anche da Cipro, la terra d'origine di Barnaba, dove sono ospiti del proconsole Sergio Paolo. Quest'ultimo potrebbe avere addirittura adottato Saulo, visto che è a partire da questo incontro che negli Atti l'apostolo viene chiamato Paolo. Qui e altrove, sembra chiaro che Barnaba preferisce far parlare il collega, il quale è anche talvolta in grado di fare veri e propri miracoli – o di convincere il suo pubblico di averli fatti. Il che non significa che Barnaba risulti meno autorevole: quando passano dalla città anatolica di Listra, Paolo guarisce un paralitico e gli abitanti lo prendono per Hermes, il dio messaggero (e quindi quello con la parlantina più sciolta). Siccome nel mito di Filemone e Bauci, Hermes visitava il mondo in incognito e in compagnia di Zeus, Barnaba viene acclamato come Zeus; dopodiché Paolo deve con molta energia dissuadere gli abitanti dal sacrificare animali in loro onore.

Verso il 50 dC, Barnaba e Paolo tornano a Gerusalemme, non (solo) per riportare il denaro delle collette, ma perché bisogna decidere una volta per tutte come comportarsi coi neoconvertiti gentili, che erano sempre di più, ad Antiochia e altrove. Fino a quel momento a Gerusalemme avevano chiuso un occhio sul fatto che i neobattezzati non rispettassero i precetti del Levitico, e volte più per ignoranza che per scelta, ma la situazione andava normalizzata. I gerosolimitani si consideravano ancora ebrei a tutti gli effetti: il loro leader era Giacomo detto il Giusto, "fratello del signore". Tra di loro vi erano molti farisei, alcuni dei quali ad Antiochia avevano sparso la voce che per essere veri cristiani bisognava circoncidersi. Ora, per Paolo (e Barnaba) questo avrebbe significato chiudere bottega. Ormai il loro target erano i greci e gli abitanti delle città ellenizzate tra Siria e Asia Minore: gente storicamente ostile alla pratica della circoncisione. Sopravviveva in effetti nella nuova comunità una diatriba che aveva insanguinato la regione sin dall'invasione di Alessandro Macedone, ormai cinque secoli prima: i sovrani ellenistici avevano cercato di abolire la circoncisione, gli ebrei avevano reagito radicalizzandosi e riscoprendo le antiche tradizioni della Torah. Cinque secoli dopo, la circoncisione era ancora la pratica che in ogni città del Medio Oriente differenziava gli ebrei, e aveva consentito loro di mantenere un'identità etnico-culturale nel melting-pot prima ellenistico e poi romano. In ogni caso, a Paolo (e Barnaba) era chiaro che se gli ebrei non avrebbero mai smesso di circoncidersi, ugualmente i gentili non avrebbero mai accettato di farlo. Escludere dalla Chiesa i non circoncisi significava decretare uno scisma, e nessuna delle due parti se lo poteva permettere. A Paolo e Barnaba serviva l'investitura della Chiesa di Gerusalemme tanto quanto alla Chiesa di Gerusalemme serviva il denaro delle collette. Per cui alla fine toccò allo stesso Giacomo il Giusto trovare una formula di compromesso: ai gentili veniva richiesta l'astensione "dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia"; niente asportazione del prepuzio, il cristianesimo era salvo. Paolo e Barnaba avevano vinto, senonché pochi versetti dopo si separano, forse per sempre, perché?


Abbiamo due spiegazioni diverse, proprio come succede quando la separazione è reale e non inventata a tavolino da un cronista successivo; è ovvio che due litiganti vedono le cose in un modo diverso. Per Luca, che probabilmente viaggiò con Paolo ma ci teneva a consultare fonti diverse, il disaccordo verteva su Giovanni-Marco, il presunto autore del Vangelo più breve. Quest'ultimo è definito da Paolo nella lettera dei Colossesi "cugino di Barnaba" (ma si sa che i termini di parentela sono sempre ambigui nel Nuovo Testamento), e in precedenza aveva accompagnato i due apostoli in un viaggio, anche se non aveva voluto seguirli fino in Panfilia. Quando, dopo il concilio di Gerusalemme, Paolo propone a Barnaba di tornare sui suoi passi per controllare come stanno le comunità da loro fondate, Barnaba gli propone di prendere con loro anche Marco, ma Paolo dopo la Panfilia non si fida più e parte da solo; Barnaba invece se ne torna nella sua Cipro. Nella Lettera ai Galati però Paolo racconta di un litigio diverso, che magari non coincide con la separazione raccontata da Luca – in fondo capita a tanti colleghi e amici di litigare, riappacificarsi, litigare di nuovo. In questo caso però più che con Barnaba, Paolo se la prende con lo stesso Pietro, che ormai si è trasferito ad Antiochia e non ha più niente del Pietro terribile e infallibile della prima parte degli Atti; sembra tornato quello evangelico, sempre un po' oscillante tra il dire e il fare. Ad Antiochia, Pietro avrebbe smesso di seguire i precetti del Levitico, il che lo collocherebbe in una posizione più avanzata anche rispetto alle risoluzioni del Concilio di Gerusalemme: se ai gentili era concesso di non rispettare tutti i precetti del Levitico, questi però valevano ancora per i cristiani circoncisi come Pietro. In effetti, quando ad Antiochia arriva qualche vecchio cristiano da Gerusalemme, Pietro si ritrova a cena con loro e si rimette platealmente a rispettare i vecchi precetti. È probabile che stesse cercando di non scandalizzare nessuno: tutti i leader hanno bisogno ogni tanto di tenere i piedi in più scarpe. Ma Paolo ormai è in una posizione di forza che gli consente di polemizzare pubblicamente persino col primo tra gli apostoli: "Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?" Lo stesso Barnaba, scrive Paolo ai Galati, si era lasciato trascinare nell'ipocrisia di Pietro; insomma tra un Pietro forse addolcito dagli anni e preoccupato di non offendere nessuno, e un Paolo sempre più intransigente, Barnaba per una volta aveva scelto di stare col vecchio maestro; tanto il nuovo ormai non aveva più bisogno di sostegno. 

In seguito può darsi che il dissenso tra i due si fosse dissolto; scrivendo da Roma ai Colossesi, Paolo raccomanda loro di ricevere sia Marco sia Barnaba. Leggende successive attribuiscono a Barnaba una morte per martirio, inflitto a Cipro da ebrei innervositi dalla sua predicazione. Qualcuno già nell'antichità lo aveva proposto come autore della Lettera agli Ebrei, un testo che rivela una profonda conoscenza dell'ebraismo e già allora sembrava un po' troppo infiorettato perché lo avesse scritto Paolo. Così la pensava ad esempio Tertulliano, ma è difficile immaginare che il compagno taciturno di Paolo fosse uno scrittore più bravo di lui. A Milano sono convinti che Barnaba sia arrivato fin lì, e vi abbia fondato la prima Chiesa milanese; probabilmente si confondono con un discepolo omonimo. Sempre a Milano i chierici dell'ordine di San Paolo hanno iniziato a chiamarsi barnabiti verso la metà del Cinquecento, perché officiavano nella chiesa dedicata ai Santi Paolo e Barnaba.
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San Giusto sui monti profumati

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28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore


Biblioteca universitaria di Bologna


Il 28 maggio il Martirologio romano ricorda succintamente un San Giusto che "a Urgell, nella Spagna settentrionale... scrisse una interpretazione in chiave allegorica del Cantico dei Cantici e partecipò a vari concili spagnoli". Tutto qui, ed evidentemente basta.

C'è chi per andare in cielo si è fatto ammazzare nei modi più dolorosi: Giusto all'apparenza non sembra aver compiuto un sacrificio così grande, né gesta che facciano gridare al miracolo, ma bisogna ammettere che trovare una lettura allegorica per un testo che recita "i tuoi seni sono come cerbiatti al pascolo" (4,5) non è così semplice; ovvero sì, ma voi ci riuscireste restando seri? Io non ci riuscirei, ma viviamo in tempi molto diversi.

Oggi abbiamo molto più rispetto per il senso letterale dei testi, per cui se un brano ci sembra un inno all'amore fisico, preferiamo leggerlo come tale. Troviamo deliziosamente piccante che nella Bibbia sia finito un fascicolo di poesie che si conclude con un invito a "correre sui monti profumati". Attenzione, non è che la Chiesa abbia mai negato che il Cantico (attribuito a Salomone ma più facilmente composto verso il VI secolo aC) fosse anche una composizione erotica. La Bibbia ha un che di enciclopedico, se la sessualità esiste è giusto che ne parli. Quello che si chiedeva a esegeti come Giusto era di provvedere a ulteriori chiavi di lettura, che a quel tempo erano state codificate: oltre al senso letterale vi era quello morale (che insegnamento di carattere morale si cela dietro questo testo?), quello allegorico (di quali avvenimenti più importanti questo testo è un'allegoria?) e quello anagogico che sinceramente mi è sempre sfuggito, a volte è un senso escatologico (cioè i "monti profumati" dovrebbero alludere in un qualche modo alla fine del mondo), ma siccome neanche i più bravi riescono a trovare l'apocalisse in qualsiasi versetto, talvolta è un livello superiore in cui il lettore entrerebbe in suprema comunione col testo e con Dio, quel tipo di riflessioni da cui dev'essere scaturita l'ermeneutica tedesca, io mi sono sempre tenuto a rispettosa distanza, no, neanche troppo rispettosa. Mi consola il fatto che anche Giusto si sia limitato all'allegoria, e in paradiso lui c'è andato, Heidegger non me lo immagino, è un limite mio. Almeno Giusto ha il buon gusto di tener fuori la vergine Maria da queste allegorie, una linea interpretativa che si insinua in Occidente verso il Duecento e sinceramente m'infastidisce, se avete deciso che è vergine perché deve mettersi a cantare "Ti farei bere vino aromatico,
del succo del mio melograno", dai, è la mamma di Gesù, di tutti noi, non vi dà fastidio? I mariologi certe volte mi fanno paura.

Oggi, dicevo, apparentemente ci facciamo meno menate: di fronte al testo ci chiediamo cosa significava per l'autore, per il suo pubblico (che nel tempo può essere cambiato), e cosa significa per noi: e finisce qui. Inoltre se troviamo del sesso siamo ben felici di sviscerarlo, per cui per noi quei cerbiatti sono seni, punto (gran parte del fascino del Cantico per i contemporanei sta nell'esotismo di chiara matrice mediorientale che traspare dalle metafore). Ci capita più spesso l'operazione opposta a quella che ha mandato in paradiso Giusto, ovvero cerchiamo il sesso anche nei libri dove a prima vista non c'è, io quando ero all'università avevo trovato il sesso in alcune poesie di Marinetti che erano sostanzialmente macchie d'inchiostro scombinate in tipografia, ero molto fiero di questa cosa. 

A distanza qualcuno sospetterà che siamo ossessionati dal sesso tanto quanto nell'Alto Medioevo erano ossessionati dall'allegoria ecclesiologica, ma non è questa la vera differenza. I lettori professionisti come san Giusto erano portati ad accumulare più chiavi di lettura sugli stessi brani non perché fossero meno svegli di noi (anzi) o considerassero il sesso un tabù; ciò che faceva la differenza era un'oggettiva scarsità di risorse – basti pensare che all'inizio del commento, Giusto si scusa coi committenti di averlo fatto scrivere in una calligrafia molto piccola perché a Urgell non aveva abbastanza pergamena, e chiede per favore se glielo possono copiare più in grande. 

Oggi noi se volessimo leggere considerazioni teologiche sul rapporto tra Dio e la Chiesa – nel caso abbastanza remoto in cui volessimo farlo – potremmo attingere da biblioteche di volumi di teologia. Nel VI secolo no, nel VI secolo bisognava arrangiarsi con la Bibbia, e se nella Bibbia c'era un rotolino di poesie erotiche, ebbene anche quelle poesie dovevano rendersi utili e suggerire contenuti morali e allegorici – insomma se sono nella Bibbia un motivo ci sarà, no? Gli ebrei che l'hanno inserita avranno avuto un buon motivo. Dal suo angusto studio di Urgell Giusto non poteva saperlo, ma gli ebrei da secoli si facevano la stessa domanda: cosa ci fanno quei cerbiatti al pascolo nella Bibbia? Dobbiamo far finta che non siano tette? La conclusione a cui erano giunti era più o meno la stessa: dev'essere un'allegoria dell'amore di Dio per Israele. Questo ci lascia oggi molto perplessi perché sia Dio sia Israele, nel Cantico, sembrano davvero ingrifati – testualmente "ubriachi d'amore", ma può darsi che siamo traviati da secoli di letteratura che ci ha convinti che la sessualità sia una cosa scandalosa. Alla fine i due innamorati sono sposi, la loro ebrietà è del tutto legittima, per cui se Israele dice a Dio corri mio amore sui monti profumati, ebbene, può darsi che la prima cosa che vi venga in mente siano due natiche, ma subito dopo il Golgota e il Sion. 

Non mi sembrate convinti. 

Immaginate di dover ripristinare la civiltà umana da un solo disco rigido, e che in quel disco rigido ci siano quaranta libri e tre film, tra cui un porno. La cosa più saggia sarebbe cancellare il porno, ma non lo farete – insomma, è l'ultimo porno dell'umanità, ciò che resta di milioni di sforzi di registi e performer, il valore storico è incommensurabile – no, cancellarlo non si può. Quindi la gente lo guarderà. E può anche darsi che la gente ogni tanto senta la necessità di guardare un porno, ma in una situazione emergenziale ha più bisogno di insegnamenti, quindi forse è meglio corredare il porno di qualche commento che ne spieghi il senso. Dunque intanto bisogna precisare che quelle persone sono sincere, che la loro relazione è legittima e ufficiale, inoltre si amano davvero, di un amore non solo fisico ma anche intellettuale e morale; e che anche se ogni tanto sembrano perdersi o non capirsi anche questo ha un senso; non solo, ma la felicità che traspare da alcuni dei loro atteggiamenti è una figura della gioia che ci attende se ci comportiamo bene con il prossimo, anzi, nel legittimo trasporto amoroso è possibile intravedere la passione con cui l'Ente Supremo ama la comunità dei suoi fedeli, oh, ehm, sarà difficile raccontare questa cosa senza arrossire. Ma chi ci riesce va in paradiso, promesso.
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Giona: ti sembra il caso di prendertela così?

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21 settembre – Giona, profeta suo malgrado

La Bibbia, letterariamente parlandone, non è che sia questo capolavoro: ma quello che la rende più verosimile di tanti altri libri è l'incoerenza. Bel paradosso. Non c'è dubbio che Iliade e Odissea siano più armoniche – e se poi parliamo di coerenza narrativa, Il Signore degli anelli lascia piste a tutte e tre. Ma se in giro nessuno crede più all'esistenza di Achille o Ulisse, e nessuno ha mai per un attimo preso sul serio l'esistenza di Sauron, è proprio perché si vede benissimo che sono storie con un inizio, una fine, e quasi sempre una morale. La Bibbia, beh, non proprio. La Bibbia è evidentemente una raccolta di libri scritti da mani diversissime, rivisti da traduttori e compilatori che avevano idee talvolta opposte, e messi assieme da editori che avevano criteri ancora diversi, e a fare tutto questo potrebbe esserci voluto un millennio: per cui alla fine più che una storia è uno scrigno pieno di roba che per quanto stia lì da secoli lascia sempre questa impressione di materiale raccolto alla benemeglio da qualcuno che stava scappando da un incendio, un'alluvione, una scorreria dei Caldei. Se apri l'Iliade trovi sempre duelli e litigi; se apri la Bibbia puoi trovare a distanze di poche pagine teorie sulla creazione, pagine di censimenti, storiacce di donne e predoni, dibattiti sul senso della vita, poesie d'amore, cronache storiche, profeti preoccupati dalla corruzione dei costumi, e il Libro di Giona: il quale potrebbe essere anche solo una presa in giro.

Dio parla con Giona, seduto fuori dalla città di Ninive, salterio armeno del XVII secolo, immagine di dominio pubblico

"Libro" poi si fa per dire, sono tre o quattro paginette, ma è come se mettessero tra virgolette tutto il resto della Bibbia: e se fosse tutto uno scherzo, di Dio o di chi racconta? I cristiani lo piazzarono verso la fine dell'Antico Testamento, perché Giona sembra il profeta più vicino a una certa concezione di Gesù, e Gesù stesso a chi gli chiedeva un "segno" aveva accennato al "segno di Giona" (Matteo 12,40): così come il profeta era rimasto nel ventre di un pesce per tre giorni e tre notti, così dopo tre giorni Gesù sarebbe riemerso dal mondo dei morti. Nella Bibbia ebraica invece la storia di Giona appartiene al libro dei Profeti Minori, di cui Giona sembra però una parodia. Mentre tutti gli altri libri profetici contengono, non sorprende, profezie, quello di Giona sin dalla seconda riga dimostra al lettore che vuole essere qualcosa di diverso: un racconto. C'è da dire che l'ipotetico del lettore della Bibbia a questo punto di profezie dovrebbe averne lette centinaia, per cui dopo aver ammirato lo stile di Isaia, la verve di Geremia, la visionarietà di Ezechiele, potrebbe essere subentrata una certa stanchezza – alla fine si tratta perlopiù di ammonizioni nei confronti di uno o più popoli che non amano Dio come dovrebbero; minacce, lamenti, prefigurazioni di sventura, non è che non ci siano variazioni sul tema ma insomma la canzone è quella.

Il libro di Giona parte appunto da questa saturazione. È una specie di pausa riflessiva organizzata da qualcuno che potrebbe essere vissuto anche parecchio più tardi e che questi profeti li conosceva bene, forse li leggeva di mestiere. In Giona le profezie sono date per scontate, stanno in due righe: quello che interessa all'autore è il contesto: come si comporta il profeta che le deve enunciare, e il pubblico che le ascolta? O meglio: come ci aspettiamo che si comportino? Ipotizziamo che si comportassero in un modo diverso: cosa succederebbe? E se il profeta non avesse voglia di fare il profeta? E se il popolo, che per definizione non ascolta mai il profeta e non si pente dei propri peccati, decidesse invece di farlo? Il libro di Giona è questo: un piccolo grande What If, un esperimento mentale e narrativo. Sarà anche per questo che a differenza di tutti i cartigli profetici che lo circondano, ci suona più contemporaneo. Gli altri profeti si lamentano, minacciano, vaticinano: l'autore di Giona racconta una storia e sorride.

1,1 Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: «Alzati, va' a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». 1,2 Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. 

Vedete, bastano davvero i primi due versetti. Il primo sembra in tutto e per tutto il classico incipit del profeta minore: il Signore parla a un Tale figlio di un altro Tale e gli ordina di andare presso la tal città di peccatori, che sta per essere distrutta come Sodoma, Gerico, Babilonia... a questo punto lo sappiamo bene cosa succede alle città che continuano a dispiacere a Dio malgrado gli avvertimenti  I nomi sono presi da altri libri della Bibbia, il che tradisce l'intento narrativo: un profeta di nome Giona è  brevemente menzionato nel Secondo Libro dei Re (dovrebbe essere vissuto nel IX secolo aC), mentre Ninive era stata una capitale dell'impero Assiro. Il secondo versetto spiazza tutto l'impianto, perché stavolta il profeta in questione disobbedisce: Dio gli ha dato una missione, Giona preferisce di no. Fin qui i profeti hanno sempre detto di sì al Signore, però con dubbi e timori che ci autorizzano a pensare che dire di sì al Signore sia qualcosa di faticoso, di eroico: ma l'eroismo implica una libera scelta. Se chi dice di sì al Signore è un profeta, una persona eccezionale, ne consegue che non possiamo essere tutti eccezionali, e che dunque a un uomo non eccezionale dovrebbe essere concesso rifiutarsi a Dio. Perlomeno Giona decide di scappare; il che è buffo, dato che il Signore è dappertutto.

Ma perché Giona non vuole obbedire? Non è subito chiaro, il che ha alimentato interpretazioni molto diverse, compresa quella nazionalista: Giona non vorrebbe convertire i Niniviti perché sono nemici degli Ebrei, e non tollererebbe l'idea che Dio per mezzo suo dia loro una possibilità di redimersi. È un'idea di San Girolamo, che Martin Lutero riprende in chiave antisemita: Giona rappresenterebbe l'ebreo geloso del suo Dio e dell'esclusiva alleanza che ha stretto col suo popolo. E però da nessuna parte nel piccolo libro si legge che gli Assiri stessero attaccando Israele: certo, da altri libri sappiamo che è storicamente accaduto, del resto tutti gli altri popoli nella Bibbia ci stanno apposta per attaccare e opprimere Israele. Ma l'autore non spende una sola parola per accreditare questa interpretazione: Giona non sembra avere a cuore il suo popolo o qualcun altro a parte sé stesso. È un uomo solo a cui Dio affida una missione, e che non la vuole. Può l'uomo rifiutare questo a Dio? Esiste insomma il libero arbitrio? L'autore di Giona non sembra crederci troppo: il profeta riesce a imbarcarsi, ma la nave va incontro a una furiosa tempesta. I marinai capiscono subito che un Dio ce l'ha con loro, e per riconoscere quale tirano a sorte. Viene ovviamente estratto Giona, che capisce di non avere scampo e propone di essere buttato in mare. I marinai non accettano subito l'idea: ma siccome la tempesta non cessa, si rassegnano (non dopo aver pregato il Dio di Giona perché li perdoni, loro in fondo non fanno che quello che è richiesto dalla divinità o dall'autore del racconto). Il sacrificio funziona: il mare si calma, Giona va a fondo ma Dio manda un enorme pesce a inghiottirlo.

Giona viene buttato a mare, Catacomba di Priscilla, foto di dominio pubblico

Nel ventre del pesce Giona intona un canto di speranza che è il vertice lirico del libro: "Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce". Giona sembra avere imparato la lezione: una volta rigurgitato dal pesce sull'asciutto, riceve di nuovo dal Signore l'ordine di servizio e si reca ubbidiente a Ninive.

La città è un incubo kafkiano, troppo grande per essere vera: per percorrerla tutta servono tre giorni di cammino, insomma Los Angeles, e Giona deve attraversarla continuando ad annunciare il preavviso di Dio: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". Quante possibilità ci sono che i Niniviti lo ascoltino? Se abbiamo già letto un po' di Profeti lo sappiamo: nessuna. La punizione è troppo solenne, i peccati evidentemente troppo gravi, la popolazione immensa, Giona è un uomo solo, e di malavoglia. Non possono salvarsi, è troppo tardi.

Ma se invece decidessero di ascoltare il Signore? Perché per la prima volta in tutto l'Antico Testamento, l'autore sceglie di percorrere questa via. I Niniviti si pentono tutti, dal primo all'ultimo e persino gli animali; lo stesso re smonta dal trono e si affretta a emanare un editto in cui impone a cittadini (e persino gli animali) di astenersi dal cibo, vestire di sacco ed espiare i gravi peccati che, tra l'altro, nessuno ha ancora spiegato quali siano, sono soltanto un mcGuffin per fare andare avanti la storia. Del resto, se Dio ha mandato Giona, significa appunto che voleva dare ai Niniviti un'ultima possibilità; se i Niniviti approfittano della possibilità, Dio non può che "pentirsi del male che aveva minacciato di far loro" e revocare la distruzione. Tutto è bene quel che finisce bene – salvo che Giona preferirebbe di no. È offeso a morte.

Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. Pregò il Signore: "Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!"

Che senso ha una scenata del genere? Se lo domanda persino Dio: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?" Una spiegazione è sempre quella nazionalista: i Niniviti sono nemici degli Israeliti e per averli salvati Giona si sente ora un traditore dei suoi... ma non convince. Forse Giona è scontento perché il libero arbitrio sembra andare in una sola direzione: Giona non era libero di sottrarsi alla missione, mentre i Niniviti sembrano liberi di sottrarsi col proprio pentimento a una catastrofe che Dio aveva già predisposto per loro. Oppure, semplicemente, a Giona l'idea di una catastrofe non dispiaceva. In effetti anche dopo il perdono di Dio, che cosa fa? Esattamente quello che ci aspetteremmo dal classico profeta di sventura: esce dalle mura e resta a una prudente distanza, a osservare se per caso non arriva un terremoto o un diluvio o un fulmine. E intanto chiede a Dio la morte.

Questa posa querula e accigliata è la definitiva presa in giro dell'atteggiamento convenzionale del profeta: l'autore di Giona li conosce bene e forse ha cominciato a domandarsi se sotto le loro barbe non covi una certa ipocrisia. È davvero così affranto, il profeta-tipo, di vedere il popolo andare in malora? Non ci sta provando gusto, perché questo lo rassicura del suo essere migliore? E questo compiacimento interiore, la sicurezza di avere ragione mentre il popolo sguazza nel torto, sarà cosa davvero gradita a Dio? Lo stesso Dio, da che parte dovrebbe stare: col profeta che si sente l'unico uomo giusto, o con un popolo peccatore che riconoscesse i suoi errori?

Giona e la balena, di Pieter Lastman, riproduzione di dominio pubblico (non lo sta inghiottendo, lo sta rigurgitando).

Dio ha salvato una città, anche grazie al lavoro di Giona: ma Giona avrebbe preferito di no. È stanco, ha la sensazione di avere lavorato molto senza ottenere quello che per un profeta è lecito attendersi: un bel disastro da contemplare sdegnato all'orizzonte. Fa anche un po' caldo, Giona cerca di ripararsi ma non c'è molta frasca nel deserto. Dio allora fa crescere per lui una pianta – non sappiamo di che specie, perché il suo nome, kikayon, compare solo qui in tutta la Bibbia. Spesso è tradotta come il ricino, ma non è così importante. L'importante è che questa pianta dà a Giona un po' di sollievo, addirittura di gioia. Allora Dio la uccide.

Sembra veramente che Dio se la prenda soltanto con Giona: tutti gli altri meritano il suo perdono, che siano marinai pagani o Niniviti peccatori. Solo Giona viene sempre tormentato, e quando ricomincia a lagnarsene, Dio ha la faccia tosta di chiederglielo: ma ti sembra il caso di lamentarti per una semplice pianta di ricino? Giona conferma di sì, che è sdegnato al punto di morirne: solo allora Dio gli svela di essere non essere che il protagonista di una parabola, un brontolone ideato apposta per servirGli su un piatto d'argento la risposta finale.

«Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?»

L'Antico Testamento sta per cedere il passo al Nuovo: il Dio che nei primi libri sembrava una presenza terribile, gelosa e vendicativa sembra diventato un altro, una persona talvolta imprevedibile ma di buon senso, disponibile a rivedere le sue decisioni, più affezionato ai peccatori che a chi fa loro tutto il tempo la morale. Ama persino gli animali, il Libro finisce con questa precisazione che sembra un'inezia e non lo è: anche loro si sono pentiti, anche loro meritano il perdono. Tutti lo meritano, persino Giona che dovrebbe scendere dal suo piedistallo e capire che Dio sta facendo per Ninive quello che ha fatto per lui quando era nel pesce: offrire una seconda possibilità. Se i primi autori della Bibbia avevano chiaramente un rapporto complesso con padri autoritari e bizzosi, si intuisce che i tempi sono cambiati, i padri si sono addolciti o comunque si sente in giro la necessità di padri buoni, misericordiosi, persino un po' ironici, padri che abbiano creato il mondo perché questo li rendeva felici, come l'ombra ci rende felici quando siamo nel deserto.

Non sappiamo se Giona abbia imparato la lezione: l'importante è che l'abbia intesa il lettore. Subito dopo comincia il Libro di Michea, un altro rotolo di furenti minacce per le genti di Samaria e Gerusalemme che non ascoltano la Parola del Signore. Insomma è stata solo una pausa di riflessione. Molto utile, per me almeno. Spero anche per voi.

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Gesù e i suoi fichi

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Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)
Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)
24 agosto - San Natanaele apostolo

Natanaele (in ebraico Dio ci ha dato) è un apostolo di Gesù, perlomeno nel vangelo di Giovanni; nelle liste degli altri vangeli non compare, ma è tradizionalmente identificato con Bartolomeo. Natanaele è di Betsaida come gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo: quando quest'ultimo comincia a parlargli del nuovo messia arrivato in paese ("Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe", Gv 1,45), Natanaele risponde sprezzante: da Nazaret non può venire niente di buono. Nazaret era in Galilea, Betsaida nella regione del Golan, entrambe zone molti periferiche per la mentalità giudaica del tempo, centrata sulla città del Tempio, Gerusalemme. Gesù però appena incontra Natanaele reagisce nel modo opposto: lo saluta come un "vero israelita in cui non c'è frode" (1,47). Natanaele perplesso domanda: come fai a conoscermi? La risposta è sibillina: "Prima ancora che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico" (1,48). Noi lettori non ci capiamo molto: cos'era successo di particolare sotto quel fico? Qualcosa di importante, perché Natanaele reagisce esclamando: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele" (1,49).

I miracoli del quarto vangelo sono un po' diversi dagli altri. Giovanni (se davvero fu lui l'autore) li chiama "segni" e li considera momenti fondamentali in cui Gesù si manifesta come Messia davanti a testimoni credibili. Alcuni studiosi pensano che l'evangelista abbia rielaborato una fonte precedente, il cosiddetto "vangelo dei segni", che avrebbe contenuto alcuni dei miracoli più spettacolari (le nozze di Cana, la resurrezione di Lazzaro). Accanto a questi però ci sono piccoli segni come il riconoscimento di Natanaele, che è il primo miracolo in assoluto e somiglia molto a quello che accadrà più tardi con la Samaritana: Gesù rivela al testimone qualcosa che soltanto lui può sapere. Di fronte a questo riconoscimento, le riserve del testimone crollano di schianto: non possono sussistere dubbi, Gesù è il Messia. Alla professione di fede di Natanaele, Gesù reagisce minimizzando: il meglio deve ancora arrivare. Credi in me solo perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico? "Tu vedrai cose maggiori di queste. In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo" (1,50-51). Il primo capitolo finisce così, promettendo effetti speciali e un lieto fine spettacolare, e sappiamo che l'evangelista manterrà. Ma il piccolo interrogativo iniziale non sarà mai risolto: cosa era successo a Natanaele sotto il fico? Cosa sapeva Gesù di lui, che noi forse ignoreremo per sempre?

Il fico è decisamente l'albero più enigmatico dei vangeli. Addirittura è l'unica creatura che Gesù maledice, in uno degli episodi più controversi, Marco 11,12-14. Il giorno prima Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme: ma siccome ha preso alloggio in un villaggio fuori dalle mura, Betania, ogni giorno gli tocca rientrare, scortato dagli apostoli. La mattina seguente, mentre rientra a Gerusalemme, si scopre affamato e "veduto di lontano un fico", cerca se tra le foglie per caso non ci sia un frutto. Il fico, si sa, è un albero generoso: anche molto prima della stagione, e molto dopo, se si ha pazienza qualcosa si trova. Eppure Gesù in quel singolo fico "non trovò niente altro che foglie", del resto Marco ha cura di annotare che non era ancora stagione. Spazientito, Gesù maledice il fico: "Nessuno mangi mai più frutto da te!" Entrato in città, Gesù manifesta in modo ancora più plateale il suo malumore: si reca nel Tempio e ne scaccia i mercanti con grande scandalo dei farisei (ma la folla sembra ammirarlo). L'indomani, ripassando sulla stessa strada, Pietro fa notare al maestro che il fico maledetto si è seccato. Gesù ne approfitta per spiegare che la fede in Dio può tutto, anche spostare le montagne. Gli apostoli di Marco sono i più perplessi dei quattro vangeli, e in questo caso la loro perplessità è la nostra: se Gesù era in grado di seccare un albero (e spostare una montagna), perché non ha semplicemente trovato un frutto di fico quando gli serviva?

Odifreddi is for boys, Bertrand Russell is for gentlemen (foto del 1954, pubblico dominio).

La maledizione del fico è l'unico vero miracolo eseguito da Gesù con un fine punitivo; in tutti gli altri casi Gesù guarisce, resuscita, salva, riconosce, provvede di beni di prima necessità (o voluttuari, nel caso delle nozze di Cana). Solo in questo caso punisce un essere vivente, il che provocò l'indignazione, tra gli altri di Bertrand Russell che ne parla in Perché non sono cristiano. Per Russell l'episodio dimostrerebbe una certa inferiorità morale dell'uomo Gesù rispetto ad altri maestri dell'umanità come Buddha e, ehm, Socrate. A riprova che la morale è molto meno stabile di quanto si creda; Socrate che per Russell era un uomo più retto di Gesù, oggi si ritroverebbe di nuovo nei guai con le autorità per quel problemino coi minori che già impensieriva gli ateniesi. Oltre a sovrapporre all'episodio del fico una sensibilità ecologica completamente sconosciuta al primo secolo, Russell rifiuta qualsiasi lettura simbolica dell'episodio; inoltre sembra aver voluto trovare il passo evangelico in cui Gesù sembra più capriccioso e vendicativo. Non sorprende che si tratti del Gesù di Marco, il più arrabbiato e il meno conciliante con gli apostoli.

Quel che lascia perplessi i lettori di ogni epoca è che Marco afferma chiaramente che non si trattava della stagione dei fichi, insomma quel che Gesù chiedeva alla pianta era anch'esso un miracolo: o forse è la pianta l'unica, tra le creature di Dio, che rifiuta la grazia di Gesù, il quale può seccarla ma non vuole compiere il prodigio opposto: renderla rigogliosa di frutti se lei non li vuole. Il simbolismo abbastanza ovvio per i lettori del Vangelo (ma non per Russell) è col popolo di Israele, che i profeti avevano più volte descritto come un albero da frutto, una vite o un fico. Gesù dunque sembra voler fornire agli apostoli una parabola mimata, nello stile tipico soprattutto del profeta Ezechiele: gli apostoli dovrebbero imparare qualcosa non dalle parole, ma dalle azioni del Maestro. L'albero di fichi è Gerusalemme: Gesù vi ha cercato invano qualcosa di buono, ma non è evidentemente ancora tempo; non resta che mandare tutto all'aria; non a caso Marco prosegue con la cacciata dei mercanti che porterà i farisei a decidere la morte di Gesù.

Ramo, frutto, seme e fiore del fico, da Wikipedia 

Lo stesso episodio torna in Matteo, molto più stringato (21,18-22) malgrado degli evangelisti Matteo sia il più critico nei confronti del popolo ebraico dal quale pure proveniva. Matteo omette il riferimento alla stagione: nel suo racconto il fico si secca immediatamente dopo la maledizione, e gli apostoli se ne sorprendono subito. Ed eccoci all'eterno dilemma su quale sia il primo vangelo: è Marco che prende da Matteo o viceversa? È Matteo che attenua l'episodio di Marco, ne stempera la lettura antiebraica concentrandosi piuttosto sull'aspetto prodigioso? O viceversa è Marco che legge di un piccolo miracolo in Matteo e decide di trasformarlo in una metafora storico-religiosa?

Sia come sia, né il racconto di Marco né quello di Matteo convincono Luca, che in un Gesù maledicente le piante si rifiuta di credere. Luca non capisce la profezia mimata (che del resto è un unicum in tutti i vangeli) e decide di trasformare l'intero episodio in una parabola (13,6-9): non è più Gesù a cercare i fichi, ma un "padrone" ("Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò"). Ma nemmeno a questo padrone l'ambientalista Luca concede di uccidere la pianta: intercede in suo favore il "vignaiolo": "Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai". Il padrone accetta la proposta; il fico per il momento è salvo. Il che oltre a introdurre un dualismo tra un Dio-padrone stanco di essere tradito e un Cristo-vignaiolo incline all'intercessione, conferma terribilmente i miei sospetti su Luca, l'evangelista mansueto come il bue, quello che cerca in ogni atto o detto di Cristo la pietà, la dolcezza. Il che sarebbe magnifico; non fosse che quando questa pietà e questa dolcezza non le trova, Luca se le inventa. Trasformare in una parabola un episodio della vita di Gesù, attestato in due vangeli (uno dei quali Luca conosceva sicuramente) dimostra una certa disinvoltura con le fonti: a Luca non interessa più se il Cristo originale stava emettendo una sentenza nei confronti di un popolo. Luca ha deciso che il suo Cristo sarà misericordioso: i valori che vuole trasmettere vengono prima della fedeltà ai testi originali.

La maledizione del fico, già completamente stemperata in Luca, scompare in Giovanni: il quarto vangelo del resto è il più diverso dei quattro. Può darsi che l'episodio di Natanaele ne sia un'ulteriore rielaborazione: senz'altro è l'unico passo in cui un fico riveste qualche importanza, e come la maledizione descritta da Marco e Matteo, mantiene un'irrisolvibile ambiguità: cos'è successo sotto il fico? Ora che sappiamo che l'albero può rappresentare il popolo di Israele, possiamo meglio inquadrare il saluto di Gesù al nuovo apostolo: "Ecco un vero israelita in cui non c'è frode". La situazione di Marco e Matteo apparirebbe capovolta: Gesù ha controllato l'albero e ha scoperto almeno un frutto senza difetto. Dunque Israele non merita la distruzione - certo, per autorizzare un'interpretazione del genere, Giovanni deve tenere il fico più distante possibile da Gerusalemme, che al momento della composizione del quarto vangelo era già stata rasa al suolo dai Romani. Sappiamo che il testo è l'espressione di comunità cristiane-ebraiche dell'Asia Minore (Efeso e dintorni) che a differenza dei lettori degli altri tre vangeli avevano mantenuto forti legami con la religione originaria e festeggiavano la Pasqua nella data prevista dalla religione ebraica. Due secoli più tardi, un esegeta proveniente dallo stesso ambito culturale, Afraate il Siriaco, collegherà la maledizione del fico all'episodio della Genesi in cui Adamo, dopo aver peccato disobbedendo a Dio, usa foglie di fico per nascondere la sua oscenità. Seccando il fico, Gesù avrebbe annunciato l'espiazione del peccato originale: dopo di lui non ci sarebbe stata più vergogna, né più bisogno di nascondersi. Tornando a Giovanni, il suo Natanaele forse serve ad affermare il concetto: Dio ci ha dato ancora un frutto; non si è scordato del suo albero prediletto, Israele; non lo ha trovato sterile, non lo ha maledetto, non lo ha seccato.

C'è un'ultima leggenda a cui non si può non accennare parlando di fichi e di Gesù: a un fico si sarebbe impiccato Giuda, il traditore, secondo una tradizione antica ma non attestata nei vangeli ufficiali. Oltre alla simbologia ormai chiarita (il frutto del tradimento penzola dall'albero maledetto), può trattarsi di un tentativo dei primi interpreti di mettere d'accordo due versioni diverse e ugualmente attendibili: secondo Matteo, Giuda si impicca per disperazione quando si rende conto che i farisei hanno intenzione di consegnare Gesù ai Romani per farlo condannare a morte (27,1-10). Luca però ha sentito una versione diversa, e negli Atti degli Apostoli la mette in bocca a Pietro (1,18): "Egli dunque acquistò un campo con il salario della sua iniquità; poi, essendosi precipitato, gli si squarciò il ventre, e tutte le sue interiora si sparsero". Come conciliare un Giuda impiccato con un Giuda squarciato dopo una caduta? Una possibilità è che Giuda avesse scelto per impiccarsi un albero che non avrebbe retto il suo peso: una pianta dai rami fragili, come il fico o un suo parente subtropicale, il sicomoro, che ha rami più spessi ma ugualmente soggetti a spezzarsi con poco sforzo. L'albero in questo caso è già simbolo di qualcos'altro: fragilità, incapacità di tenere fede alla promessa data (anche di reggere il peso della colpa), ipocrisia.

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Zaccheo, l'esattore buono

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20 agosto ─ San Zaccheo pubblicano (I secolo) 

Scendi che devi offrirmi 
un pranzo
I pubblicani nelle province Romane erano gli esattori delle tasse; non si trattava, malgrado il nome, di funzionari pubblici, bensì di privati in appalto che le tasse le anticipavano ai Romani, dopodiché avevano il tempo e l'agio di farsele restituire dalla cittadinanza. Era abbastanza ovvio che facessero la cresta, visto che campavano di questo. Siccome per il loro mestiere era necessario disporre di una buona liquidità, era anche probabile che molti di loro tra una campagna fiscale e l'altra esercitassero il lucroso mestiere di prestatori a interesse. Insomma, strozzini e amici delle guardie: non sorprende che la gente li detestasse, e invece Gesù li frequentava. Come le prostitute; ma mentre lo scandalo nei confronti della prostituzione è spesso un'attrazione ammantata di ipocrisia, gli esattori delle tasse la gente li odia davvero, non deve sforzarsi. 

Zaccheo è il pubblicano che si arrampica su un sicomoro, a Gerico, per riuscire a vedere Gesù che è appena entrato in città circondato dalla folla. In mezzo a tanti curiosi, Gesù lo riconosce e lo chiama per nome: "scendi subito, Zaccheo, perché oggi devo fermarmi a casa tua". L'episodio è attestato soltanto nel vangelo di Luca (19,1-10). E qui devo confessare una cosa: sto perdendo un po' la mia fiducia in Luca, man mano che invecchio. Fu il primo evangelista di cui abbozzai un profilo, all'inizio di questa cosa: ne ero entusiasta, era il mio evangelista preferito quasi da sempre (vabbe', la cotta giovanile per Giovanni è uno scotto inevitabile, è un po' come i Pink Floyd). Luca è un vero cronista, scrivevo, Luca fa le ricerche e cerca di organizzare il materiale, di non annoiare il lettore con dettagli inutili. Ma avvertivo anche che Luca è un liberal, con un'attenzione particolare per i deboli, gli oppressi e le donne: un tratto incredibilmente moderno, così moderno che a un certo punto ha cominciato a insospettirmi: è come se Luca riuscisse a trovare in ogni situazione l'angolazione perfetta per me. La santa più importante della cristianità, Maria, è un personaggio di Luca: è lui che racconta l'episodio dell'annunciazione (Matteo fa parlare l'angelo a Giuseppe); e lui che le mette in bocca le sublimi parole del Magnificat. Luca fa dire al suo Gesù: "beati i poveri". Non "beati i poveri in ispirito", come Matteo, no: per Luca devono essere beati i poveri, è di loro il Regno dei Cieli: un luogo dove evidentemente è previsto un minimo di giustizia sociale, Matteo non si poneva il problema, Luca lo inventa. Luca è l'evangelista che sente il bisogno di correggere la parabola dei talenti di Matteo, livellando completamente il budget concesso ai servi: i talenti diventano "mine", dal valore molto più modesto, e il padrone prima di partire li divide tra i servi in parti uguali, modificando così il significato di quella paginetta del vangelo che pare fosse l'unica a interessare davvero Margaret Thatcher. Ma come fa insomma Luca a conoscermi così bene? 

La spiegazione più semplice è che Luca mi conosca perché è lui che mi ha fatto così. L'attenzione per i deboli, l'interesse per le figure femminili che si sforza di far uscire dal cono d'ombra, il sogno della comunione dei beni prospettato negli Atti degli Apostoli, non sono cose moderne che riconosco in Luca: sono cose che Luca ha descritto, ed è anche grazie a lui che duemila anni dopo ne parliamo ancora. Ma le ha descritte dal vero o le ha proprio inventate? Quanto Cristo c'è davvero nel vangelo di Luca, quanto Luca c'è nel Cristo che ci piace?

Insomma dieci anni dopo non lo definirei più uno scrupoloso cronista. Che sia un liberal invece non c'è dubbio, è una cosa che traspare ad ogni confronto con gli altri tre autori e soprattutto con quello dei tre che aveva una vera ossessione per il denaro, al punto che tradizionalmente è identificato con Matteo, l'apostolo che faceva lo stesso mestiere di Zaccheo: ed è una coincidenza molto curiosa. L'episodio di Zaccheo è uno dei non pochissimi esempi in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: come se l'episodio della conversione del pubblicano Matteo non lo convincesse del tutto. Luca la conosce, l'ha riportata (anche se chiama Matteo "Levi", come del resto fa l'altro evangelista Marco), però è come se l'obiezione dei Farisei ("Perché mangiate e bevete con quelli delle tasse e con persone di cattiva reputazione?" lo mettesse in imbarazzo. Eppure il suo Gesù ha la risposta pronta: "Quelli che stanno bene non hanno bisogno del medico; invece ne hanno bisogno i malati. Io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori, perché cambino vita". Tutto giusto, ma è come se Luca sentisse che non basta, perché il suo Levi dopotutto è una comparsa, non torna più: come può essere sicuro il lettore che la vita l'abbia cambiata davvero? Così, per questa esigenza più didattica che biografica che Luca ha di essere chiaro, di non alimentare dubbi nel suo lettore, ecco che decide di far incontrare al suo Gesù un altro esattore, che la vita l'ha già cambiata: il piccolo Zaccheo, che è un pubblicano, certo, ma il meno esoso di tutti: come spiega al Salvatore a pranzo, "io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto".

Possiamo immaginare le obiezioni che avrebbe mosso Matteo, che il denaro lo conosceva in modo meno astratto di Luca: un pubblicano che desse metà del suo gettito ai poveri, quanto ci metterebbe a fallire? E chissà come erano delicati gli occupanti Romani con i rei di insolvenza. Oppure dovrebbe alzare le tasse a tutti, altra cosa rischiosa e in fin dei conti insostenibile. Cosa significa poi "se ho frodato, restituisco quattro volte tanto": truffi i tuoi debitori e poi ti penti subito? Gesù invece approva tutto: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo", e subito dopo racconta la parabola delle mine. Insomma l'episodio di Zaccheo è uno dei tanti in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: sembra volerlo interpretare, spiegare, conciliare con una sua idea di Cristo che poi ha avuto una straordinaria fortuna e tutto sommato è anche la mia idea: e però corrisponde molto di più alle idee di Luca che a quello che su di lui raccontano gli altri tre evangelisti. Questa cosa che Gesù frequentasse la feccia della società, come gli esattori, lo infastidiva: l'unico modo per farla rientrare nel suo quadro di Gesù era immaginare un pubblicano diverso da tutti gli altri, un campione di onestà e generosità.

Zaccheo è l'esattore generoso: molto più raro di una prostituta virtuosa, per cui ammetto di fare un po' più fatica a credere che Gesù l'abbia incontrato davvero. Poi, siccome si arrampica sul sicomoro che è un parente subtropicale del fico, potrebbe essere stato ripreso da Giovanni per creare la figura di Natanaele. Ma di quanto siano importanti (e ambigui) i fichi nei vangeli riparleremo presto.

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Hai mai visto il mio ippopotamo?

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Ci conosciamo?
10 maggio - San Giobbe, personaggio letterario (600 a.C:?) 

[2012]. Nelle seconde file del calendario cattolico, accucciati dietro le spalle di santi più ordinari per non dare troppo nell'occhio, ci sono personaggi incredibili. Per esempio c'è Edipo - in realtà non proprio Edipo, un Edipo tarocco made in Ungheria, lo abbiamo visto, e c'è Buddha, un'altra volta spiegheremo magari cosa ci fa Buddha. Ma il più incredibile secondo me è Giobbe. Come abbia potuto ritrovarsi il protagonista del libro di Giobbe nel martirologio della Chiesa cattolica nello stesso giorno di Sant'Alfio, San Filadelfio e San Cirino, onestamente non lo so. Giobbe non è un profeta e non è un patriarca in senso stretto, non è nemmeno chiaro se sia un ebreo (il suo Dio però è chiamato proprio JHWH). Il suo libro omonimo è uno dei capolavori letterari dell'Antico Testamento - anche se non si armonizza molto bene con quella collezione di leggende ancestrali e antiche cronache redatte alla benemeglio. Anche Giobbe forse all'inizio poteva essere un mito, una fiaba, ma si capisce che a un certo punto uno o più scrittori ci hanno rimesso le mani. E almeno uno di loro doveva essere bravo davvero, perché la Genesi parla di Abramo, l'Esodo di Mosè, ma Giobbe parla ancora di noi, dopo tremila anni. E contiene anche la risposta di Dio all'Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena, scusate se è poco.

La trama la sapete, no? No? Cioè l'Odissea sì, i promessi sposi sì, e Giobbe no? C'è qualcosa che non va nella nostra educazione. Poi per carità, Omero è ok, ma non è che ti capiti così spesso di organizzare massacri di Proci, né di volerti sposare contro la volontà di un signore feudale; mentre un'imprecazione alla Giobbe prima o poi sfugge a tutti, e l'Unica Domanda ce la poniamo più o meno tutti i giorni. Per dire, negli ultimi tre anni gli americani lo hanno riciclato in un paio di film, entrambi molto apprezzati (A Serious Man e The Tree of Life). Certo, se la mettiamo su questo piano i fumetti della Marvel battono Giobbe 5 a 2, ma per un prodotto di nicchia non è comunque un risultato da buttar via. La trama, dicevamo.

Nel paese di Uz (deserto del Negev?) Giobbe è un uomo giusto che fa tutto quello che deve fare un buon ebreo. (Il fatto che non sia identificato come un ebreo secondo alcuni è un modo per evitare la censura, visto che tra lui e Dio accadranno eventi spiacevoli: un'altra ipotesi è che dietro a Giobbe ci sia un mito più antico, di origine mesopotamica). Nel frattempo, alla corte di Dio... ecco, già questo è incredibile. Non si è mai vista la corte di Dio fin qui nella Bibbia: si sono visti roveti ardenti, carri rotanti, ma un Dio che tranquillo riceve i suoi cosiddetti "figli" (angeli?) è un unicum, solo in Giobbe assistiamo a scene così. Non solo, ma tra questi "figli" c'è Satana, nella sua prima apparizione pubblica. Non è ovviamente il Satana cristiano con le corna o la coda, non è visto come un nemico di Dio (anzi prende ordini da lui). Al limite è l'unico in grado di reggere una conversazione con l'Ente supremo. Da dove vieni, gli chiede infatti l'Ente, e Satana: Me ne sono andato a spasso per la terra. "Hai visto Giobbe? Lui sì che mi vuol bene, eh?" "Per forza ti vuol bene, gli hai dato tutto: una casa, una famiglia, gli affari vanno bene... prova a togliergli qualcosa, e vedrai se non ti maledice". L'Ente accetta la scommessa: "Vai pure, levagli quel che vuoi". Satana insomma è una specie di pubblica accusa che punta il dito sull'umanità (la parola forse in origine significava avversario, accusatore); più che il diavolo, l'avvocato del diavolo, con la missione di mostrare a Dio quanto gli uomini facciano schifo. Per questo bazzica la terra, mentre gli altri angeli se ne vanno per i cieli. Dunque Satana prende il migliore degli uomini, e in pochi minuti gli toglie la famiglia, il raccolto, la casa, tutto... tranne la moglie. La moglie gliela lascia (qui io ci sento un'ironia fortissima, ma forse sovrainterpreto).


"Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta..." (A Serious Man)

Giobbe reagisce come un vero santo: quel che il Signore mi ha dato, il Signore me lo può togliere, sia benedetto il Signore. Nell'alto dei cieli Dio gongola: visto che avevo ragione io? Non è male questa umanità, dopotutto. Satana non fa una piega, anzi rilancia: in realtà, dice, non lo abbiamo ancora toccato. Sì, gli abbiamo tolto tutto, ma gli abbiamo lasciata salva la pelle, l'unica cosa che agli umani interessi realmente. Dammi il permesso di rovinargli la salute, e vedrai se non ti maledice. Dio accetta, e Satana si affetta a coprire il sant'uomo di piaghe dalla testa alla punta dei piedi. Da uomo ricco e potente, Giobbe si ritrova nudo nella polvere a grattarsi le pustole con un coccio di terracotta, e in più la moglie che gli dice: Ma che aspetti a morire bestemmiando? Taci cretina, dice più o meno Giobbe; e non bestemmia.

Questo è l'antefatto in prosa, e sta in due paginette. Secondo alcuni è il nucleo iniziale della storia, a cui si ispirò il poeta (o i poeti) del poema successivo. Secondo altri è un'aggiunta posteriore, il che cambierebbe tutto, perché, per esempio, Satana nel resto del libro non compare più, e della scommessa nessuno fa più menzione. Se togli il prologo, il libro inizia con questo Giobbe, uomo giusto che non ha fatto nulla di male, che giace nella polvere cosparso dalle piaghe,  domandandosi il perché. Il perché lo sa il lettore - c'è una scommessa in ballo - ma forse la scommessa è un'aggiunta posteriore, il tentativo abbastanza romanzesco di un copista di razionalizzare lo scandalo di un libro che comincia con un uomo che non maledice Dio, no, ma maledice il giorno in cui è nato. Oggi possiamo leggere Giobbe come il libro in cui Dio scommette sull'uomo, ma forse c'è stato un periodo in cui Giobbe era semplicemente il libro che si chiedeva: perché esiste il male? Perché comportarsi bene, visto che Dio non ti premia, anzi? Un problema molto attuale, come si vede. 

Tante coccole

Si sa come lo risolsero i cristiani: inventarono la vita eterna, come ricompensa per tutta le sofferenze che ci capita di espiare nel mondo. In un certo senso Dio scommette davvero su di noi (e Satana tiene banco): ci manda delle prove, e noi dobbiamo tener duro. Per la verità ai tempi di Gesù l'idea circolava già da qualche secolo, la difendevano per esempio anche i farisei. Pare che non ci credessero invece i sadducei, la fazione legata alla casta sacerdotale, più tradizionalista (e infatti in Luca 20 cercano di prendere in castagna Gesù domandando cosa succede nel Regno dei Cieli alle vedove risposate: la risposta del messia, devo dire, non è troppo convincente). Ma nei libri più antichi dell'Antico Testamento, di vita eterna non si parla se non per vaghissimi accenti. Lo stesso Giobbe sembra dare per scontato che la vita sia una sola, al punto che si ritrova a invidiare una pianta, che "se viene tagliata ributta, e continua a gettare polloni... L'uomo, invece, quando muore, giace inerte: quando un essere umano spira, non esiste più". Ma se non c'è una ricompensa in un altro mondo, ed evidentemente non ce n'è una neanche in questo, che senso ha comportarsi bene? Il dibattito era acceso. Il grosso del libro di Giobbe è esattamente questo: un dibattito. Inconcludente, come è giusto che sia. I capolavori, fateci caso, sono tutti inconcludenti: i grandi scrittori non hanno nessuna pretesa di ficcarti in testa le loro idee, mica sono dei distributori automatici di idee. Al massimo costruiscono un congegno, te lo fanno provare, e tu magari con quel congegno alla verità ci arrivi da solo.

(William Blake) Silenzio, non si sente la Saggezza.


Il nucleo centrale del libro ha un ritmo molto meno concitato: niente più angeli o demoni o scommesse divine, ma una lunghissima contesa dialettica tra Giobbe e tre saggi, Elifaz, Bildad e Zofar, che uno si aspetta all'inizio siano venuti a consolarlo, e invece no: vengono a fargli la morale, perché Giobbe, ehi, se ti è andato tutto così male, un motivo sotto sotto ci sarà. Ognuno di loro pronuncia tre discorsi, per un totale di nove (alcuni forse andati persi), magnificando Dio e la sua onnisciente giustizia, e Giobbe replica ogni volta, mandandoli a quel paese mentre si gratta le pustole. Il libro di Giobbe è anche l'antenato dei flame su internet: i saggi blandiscono, insultano, rigirano frittate, continuano a ribadire gli stessi argomenti fino alla noia, e tutto il repertorio che potreste immaginarvi se a una certa ora della notte su facebook un vostro amico scrivesse: "aiutoooooo o xso la kasa la famiglia la salute ma xkEEEEEEEEEE'? DOVE' DIO ALL'ORA????"

Entità onnipotenti che fanno una scommessa sulla natura dell'uomo, mi ricordano qualcosa.

Secondo alcuni i tre saggi rappresenterebbero tre diverse scuole di pensiero dell'epoca, ma per un orecchio moderno la differenza è impercettibile, sembra che ripetano tutti la stessa cosa: soffri? Devi aver offeso Dio in qualche modo. Magari non te ne sei accorto. Magari stavi per farlo e Dio ti ha fermato in tempo. Magari sono stati i tuoi figli, ecco perché Dio li ha fatti fuori. Magari sono stati i tuoi antenati, sì, c'è chi pensa che Dio punisca i figli per le colpe degli antenati, anche se al riguardo i profeti non sono d'accordo. Tu comunque sei fortunato, poteva andarti peggio, raccomandati a Dio e vedrai che tutto si sistema. Giobbe è famoso per la pazienza, ma questi tre lo fanno uscire di testa. "Perché non tacete?", dice a un certo punto, "quella sì che vi sarebbe contata come sapienza". Rendetevi conto. Giobbe fa parte di una famiglia di libri dell'Antico Testamento definiti "sapienziali", che contengono tutti i suggerimenti per vivere una vita pia e benedetta dal Signore. Il prototipo dei libri sapienziali è il noiosissimo Libro dei Proverbi, una sequela di saggi consigli del tipo, non dire il falso, guardati dalle donne malvagie... che forse tremila anni fa non suonavano così banali, ma a differenza di Giobbe sono invecchiati malissimo. I Proverbi avevano avuto svariati tentativi di imitazione nei secoli successivi, ma Giobbe è un'altra categoria: è un libro antisapienziale, un testo che ospita le tirate sapienziali dei tre dotti personaggi solo per il gusto di replicare a tutti e tre: non avete capito niente, la vita non va come vorreste voi, l'unica cosa veramente saggia nei vostri sproloqui è il silenzio tra una parola e l'altra.

Comunque vanno avanti per trenta capitoli, con Giobbe che ribadisce la sua innocenza. A un certo punto c'è una specie di intervallo, un elogio della sapienza un po' spiazzante, forse inserito in un secondo momento. Poi, mentre Giobbe continua a professarsi innocente, ecco che appare dal nulla un quarto sapiente, di cui nessuno fin lì aveva parlato. È un giovane, si chiama Elihu, e sostiene di esserci stato sin dall'inizio, ma di non aver parlato fino a quel momento per rispetto nei confronti della maggiore età dei tre insopportabili. Ma dopo aver visto che né Elifaz, né Bildad, né Zofar, sono in grado di smontare la sicumera del pustoloso Giobbe, Elihu prende la parola e se la tiene per altri cinque capitoli che, ve lo dico, non sono il migliore argomento in favore del ricambio generazionale: Elihu è ottuso quanto gli altri tre, ma in più ha pure l'arroganza del maestrino con tanta teoria in testa e poco rispetto per la pratica. Giobbe non capisce, Dio è misericordioso, chiunque glielo può dire, lo sanno tutti, eccetera eccetera. Giobbe tace. Immagino che continui a grattarsi, ma non c'è modo di saperlo, il libro non contiene repliche a Elihu. In effetti nessuno risponde a Elihu in tutto il testo: nemmeno Dio che nel finale rimprovererà gli altri tre, ma di Elihu non dirà niente. Il sospetto, insomma, è che l'intervento del quarto saggio sia un'aggiunta posteriore, di un giovane scriba che ricopiando il testo deve aver pensato: questi tre vecchi sbabbioni avrebbero anche ragione, ma non riescono a difenderla! Ci penso io. Benedetta gioventù.

William Blake - Giobbe, l'ippopotamo e il coccodrillo

Quando Elihu cessa di parlare - nell'indifferenza totale - la parola passa a... Dio. Sul serio. Di punto in bianco, senza complimenti, il Signore esce dalla tempesta e parla a Giobbe. A questo punto uno si aspetta una specie di premiazione per aver fatto vincere una scommessa contro Satana: sbagliato, di scommessa non si parla più, forse Dio un po' si vergogna, ma più probabilmente la scommessa non c'è mai stata, è un'aggiunta posteriore, un pretesto. Va bene, pensa allora il lettore, comunque visto che siamo nella Bibbia, e che qui parla Dio direttamente, forse finalmente avremo una risposta alla Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena: perché l'uomo giusto soffre? Col cavolo. Dio non perde tempo a rispondere. È passato soltanto a ribadire la sua incommensurabile superiorità: cos'è che chiedi, Giobbe, cosa pretendi di voler capire? Vuoi interrogarmi, sei forse il mio maestro? Vai, cingiti i fianchi, fammi le domande, dai. Tu senz'altro conosci le misure della terra, sai come si fanno girare le stelle durante la notte, e dov'è il deposito estivo della neve... Giobbe capisce che l'ha fatta grossa e chiede scusa, ma ormai Dio è un fiume in piena: Giobbe, ma tu hai un'idea di quante cose ci sono in cielo e in terra, tutte fatte da me? Sei tu che cacci la preda per la leonessa, che sazi i leoncini? Hai mai visto, che so, il coccodrillo? Hai mai visto l'ippopotamo? All'inizio per la verità si traduceva col misterioso termine "Behemoth", ma nelle versioni più recenti Behemoth è sempre più chiamato semplicemente "ippopotamo". Ecco, questo è il punto in cui secondo me poteva anche finire il libro di Giobbe. Ogni volta che ci chiediamo perché esiste il male, perché Dio lo consente, sapete come vi risponde Dio nella Bibbia? Con un'altra domanda: hai mai visto l'ippopotamo? 

Giobbe viveva nel Negev, è ovvio che non ne ha mai visto uno. E allora cosa vuole, cosa pretende? Uno che non ha mai visto un ippopotamo, né un tranvai o un'equazione di Maxwell, pensa di poter interrogare Dio sul segreto della Creazione? L'universo è complesso ed evidentemente non gira intorno all'uomo: perché poi chi l'ha detto che l'universo sia fatto su misura per l'uomo, che l'uomo sia il figlio prediletto di Dio? Ah, la Genesi? Il Dio di Giobbe sembra vederla in un modo diverso. Invita a considerare gli ippopotami. Sono effettivamente bestie meravigliose. Quando sono sott'acqua sono morbide e aggraziate: quando ne escono sono terribili, leoni ed elefanti si guardano bene dal disturbarli. I cuccioli sono adorabili, gli anziani sono maestosi; vivono nella Rift Valley più o meno da quando nella stessa zona una sottospecie di scimmie è scesa dagli alberi, e se non si sono molto evoluti nel frattempo, forse è perché erano già perfetti così. E anche Dio, perché dovrebbe creare a sua immagine e somiglianza questi scimpanzè mal addestrati? Se uno ci pensa, la terra sembra più fatta per gli ippopotami che per gli uomini. Magari è l'ippopotamo che Dio ha creato a sua immagine e sua somiglianza, forse insomma Dio somiglia un po' più all'ippopotamo che all'uomo, e per farti un'idea di Dio un documentario sugli ippopotami in Kenya è più utile di tutta quanta la Bibbia. Forse Dio ha creato la terra per gli ippopotami, affinché l'ippopotamo ne godesse ogni giorno della sua santa vita. E l'uomo?

Esatto, sono l'essere perfetto, il fine ultimo della creazione. Altre domande?

Magari è solo un effetto collaterale. Una sottospecie di scimpanzé con una straordinaria manualità. Dio potrebbe averlo creato affinché producesse splendidi documentari sugli ippopotami: ma bisognava prima inventare il cinema, fare la rivoluzione industriale, le manifatture, l'artigianato, la fusione del ferro e prima del bronzo, e l'agricoltura: nella mezzaluna fertile servivano buoni agricoltori come Giobbe, disposti a sopportare i rovesci della fortuna, affinché millenni dopo Dio potesse guardarsi un documentario sugli ippopotami ben montato e illuminato. Però questa cosa a un contadino come Giobbe non gliela puoi spiegare, è un possidente dell'età del bronzo, i suoi bisnonni avevano ancora parenti sugli alberi. Come spiegare a una formica perché stiamo dando il veleno sul battiscopa del terrazzo, senti, niente di personale, ma tu sei meno di nulla per me, non vali neanche la pena di schiacciarti con un dito. Giobbe questa cosa la capisce, e china la testa. Anche se sul significato del suo ultimo versetto (42,6) non c'è consenso tra i critici: forse si cosparge di polvere in segno di umiltà, sta chiedendo scusa, forse sta rinnegando JHWH. Ognuno traduce a modo suo.

Ma il Libro non finisce qui. C'è un'aggiunta in prosa, in cui Dio riabilita totalmente Giobbe, sbugiardando i tre insopportabili barbogi, e raddoppiando le sue ricchezze: nuove terre, nuovi figli e figlie (bellissime), nuova fiducia in un mondo migliore. L'ex pustoloso campa 140 anni e conosce i suoi bis-nipotini. Dovrebbe essere un finalino rassicurante, ma per il lettore moderno l'effetto è strano, sembra tutto un capriccio di Dio, un mettersi a giocherellare con una formica sul terrazzo. Perché Dio si comporta così? Forse perché Giobbe, nella sua totale e riconosciuta inadeguatezza, è comunque riuscito a sostenere una conversazione con Dio? Più probabilmente perché il Giobbe degli ultimi versetti non è più il Giobbe inquietante di 42,6. È invece lo stesso Giobbe del prologo, quello che ha fatto vincere a Dio una scommessa un po' puerile, rivoltandosi nella polvere per giorni e giorni senza mai bestemmiare Dio. Così alla fine prologo e finale si rivelano per quel che sono: una cornice rassicurante, che pretende di spiegare quello che Dio si guarda bene da dettagliare agli umani: il giusto soffre perché Satana lo tenta, ma basta tener duro. Il vero Giobbe, il Giobbe del poema centrale, su una cornicetta così ci avrebbe sputato. Ma probabilmente senza la cornicetta rassicurante Giobbe nella Bibbia non ci sarebbe mai arrivato, tantomeno nel calendario cattolico, e io non vi avrei mai raccontato la sua storia, che contiene la risposta di Dio all'Unica Vera Domanda Che Valga La Pena (perché il giusto soffre?) E la risposta è (ricordatevene quando vi capiterà di subire qualche malanno palesemente ingiusto): Hai mai visto l'Ippopotamo?

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Il poeta preferito di Gesù

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9 maggio – Isaia, profeta e poeta

Sappiamo che Gesù sapeva leggere (Luca 4,16). Conosciamo anche il suo scrittore preferito. Basta ascoltare quel che dice, basta ragionare su quel che fa: Gesù è un lettore di Isaia. Lo conosceva bene, lo citava spesso, a volte forse gli usciva di bocca senza neanche che se ne accorgesse. Si vede che lo aveva letto molto. Un lettore laico e spassionato potrebbe aggiungere: lo aveva letto troppo. Isaia potrebbe avergli fatto l'effetto che Chateaubriand e Balzac facevano a Emma Bovary; potrebbe averlo ridotto nel modo in cui i poemi cavallereschi ridussero Don Chisciotte. I Profeti avevano descritto il mondo, ma ora si trattava di cambiarlo: dopo aver letto Isaia, meditato Isaia, sognato Isaia, il carpentiere di Nazareth a un certo punto decise di vivere Isaia. Questo significava anche vivere poco, cosa di cui forse non si rese conto che in seguito.

Quadri ritrovati Monaco
Don Chisciotte e Sancio Panza 
(Honoré Daumier).

Del resto di che autore ci si poteva appassionare, nella Galilea del primo secolo? Parlando di poesia, la Bibbia non è che ne trabocchi. Qualche salmo ispirato (i migliori assomigliano proprio allo stile di Isaia), qualche proverbio azzeccato, un paio di libri che ancora oggi ci sorprendono (Qohelet, Giobbe), e il resto è prosa. La poesia del resto non era lo scopo iniziale dei redattori e dei compilatori. In principio c'era soprattutto da fare storytelling, world building, mettere insieme un po' di leggende e raccontarle in modo non troppo romanzesco e non troppo infantile, tagliando  le contraddizioni, gli errori di continuity. Poi – siccome si parla di un contratto tra Dio e il suo popolo – c'è tutto il capitolato, le leggi e le norme e persino le risultanze di un censimento. Sono le pagine meno eccitanti, ma danno un tocco di realismo. Ai primi cinque libri, attribuiti a Mosè e chiamati Torah, "insegnamento", seguono i Neviìm, i Profeti, una raccolta che all'inizio sembra voler proseguire il racconto storico. Documentano l'invasione della Terra Promessa (Libro di Giosuè), il successivo periodo anarco-tribale (Libro dei Giudici), la nascita di una monarchia unitaria (Libro di Samuele), il momento di massima gloria con l'erezione del tempio di Salomone, la secessione tra regni di Israele e Giuda, la decadenza e le ripetute sconfitte belliche, fino alla deportazione degli ebrei in Babilonia (Libro dei Re), il vero momento cruciale di tutta la Bibbia: l'esodo al contrario.

Qui si interrompe la storia del passato e comincia quella del futuro. La seconda parte infatti ospita i libri più propriamente profetici: Isaia, GeremiaEzechielei Minori. E anche se questi profeti testimoniano da punti di vista diversi la stessa storia contenuta nella prima parte, la descrivono come se dovesse ancora accadere e i migliori ci restituiscono proprio questa sensazione: che tutto debba ancora accadere. Gli ebrei non sono ancora in Babilonia, i cantori del Tempio devono ancora appendere le cetre alle fronde dei salici. Persino gli Assiri devono ancora devastare il Paese da nord. Tutto è già scritto, eppure tutto deve ancora succedere e attenzione: potrebbe ancora non succedere. Dipende dal Popolo Eletto, nel quale il lettore tende a identificarsi, non fosse altro perché come accade nei romanzi di formazione egli è il prediletto di Qualcuno ma ha un'inveterata tendenza a non seguirlo e cacciarsi nei guai. Se solo smettesse di sacrificare a idoli falsi, se solo riconoscesse il Signore come unico Dio, se solo cominciasse a onorarlo come si onora un buon padre, e rispettasse i suoi insegnamenti... e mentre leggiamo sappiamo che non succederà; non quella volta almeno; ma capiamo anche che stavolta tocca a noi.

Come notava un lettore attento come Girolamo, lo stile di Isaia è così lucido che il suo futuro sembra già un passato. Come ha suggerito qualche critico in seguito, questo potrebbe dipendere banalmente dal fatto che le profezie di Isaia sono profezie post eventum, ovvero scritte (o rieditate) dopo i disastri che illustrano. Questo è probabilmente vero per tante pagine in cui si dà conto delle scorrerie degli Assiri e poi della dominazione Babilonese, e persino del successivo periodo Persiano (c'è persino un cantico in onore di Ciro scià di Persia, liberatore di Israele). Sappiamo che Isaia, chiunque fosse, viveva in un piccolo regno destinato a cadere come un vaso di coccio tra i vasi di ferro del tempo, gli imperi che in una fase di crisi tendevano a estendere il loro controllo sulle zone periferiche. Così succedeva ciclicamente da secoli: poco a est di Gerusalemme si potevano vedere le rovine di misteriose città già millenarie come Gerico; fantasticare sul Dio terribile che doveva averle distrutte e sui peccati immondi che gli antichi cittadini dovevano avere commesso per meritare tanta vendetta. La raccolta di Isaia comincia con uno dei brani più scioccanti, dando voce a un Dio letteralmente stomacato dal fumo di sacrifici che non può apprezzare.

"Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. [...] Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue!" (Isaia 1,11-15).

L'Isaia di Michelangelo, con quei piedoni impressionanti (Cappella Sistina).

Questo Dio deluso e arrabbiato, al lettore della Bibbia ormai è familiare. Eppure nessuno gli ha prestato la voce così bene come il profeta-poeta Isaia, al punto da avvalorare il sospetto che sia lui ad averlo immaginato per primo, nell'VIII secolo avanti Cristo, in un luogo e in un tempo in cui il più rigido monoteismo era ancora in fase di formulazione. Gli idoli di pietra legno e gesso (Isaia 44), sono ancora divinità stimate e adorate da gran parte della popolazione; l'idea di rigettarli come manufatti, distruggerli e imporre un unico Dio non rappresentabile è promossa dalla corte di Gerusalemme, presso la quale l'Isaia storico dovrebbe avere avuto un ruolo ufficiale. Se fosse nato nel 765, avrebbe potuto assistere direttamente o indirettamente alla catastrofe del 722: l'invasione assira che pose termine al Regno di Israele di Samaria e Galilea e alla deportazione delle Dieci Tribù Perdute. In seguito gli assiri si sarebbero spinti fino a Gerusalemme; ma proprio le preghiere di Isaia e del pio re Ezechia avrebbero sgominato l'esercito invasore, causando 185mila morti in una notte (38,36). Se questo dettaglio appare poco verosimile, in compenso gli archeologi hanno scoperto che negli anni seguenti all'invasione Assira la popolazione di Gerusalemme e dintorni crebbe drasticamente, probabilmente perché molti ebrei dei territori occupati a nord si erano riversati a sud. Le distruzioni che Isaia immagina, potrebbe averle viste davvero, o essersele fatte raccontare da qualche profugo. Non sono ancora immaginazioni apocalittiche e macchinose come nei profeti più tardi: sono papiri impestati di lacrime sincere, dolore autentico e autentica angoscia perché Isaia e i suoi seguaci hanno la sensazione che tutto possa succedere di nuovo, se Israele non capisce la lezione.

In quel giorno, sette donne afferreranno un uomo e diranno: "Noi mangeremo il nostro pane, ci vestiremo delle nostre vesti; facci solo portare il tuo nome! Togli via da noi il disonore!" (4,1).

Dopo il ritiro degli Assiri, Isaia fa ancora in tempo ad avvertire re Ezechia che Gerusalemme sarà preda dei Babilonesi (39,5); Ezechia però ormai è anziano e si addirittura si rallegra – tratto dissonante e verosimile – perché ci vorrà ancora qualche generazione e lui non ci sarà più (39,8).

Il profeta invece va avanti, anche se non è più l'Isaia storico (secondo una leggenda il successore di Ezechia, l'empio Manasse, lo avrebbe fatto segare in due nel tronco dove si era nascosto). Metà del suo libro in effetti è da attribuire a una "scuola di Isaia", un seguito di discepoli che condivide col maestro non solo il monoteismo rigoroso e l'angoscia per il futuro, ma anche lo stile. I discepoli riprendono anche il concetto messianico, l'idea che le sorti di Israele dipendano da un prescelto. Il maestro aveva previsto che nascesse da una vergine, lo aveva chiamato Emanuele ("Dio con noi"), (7,14) e lo aveva collegato alla dinastia reale di Giuda (il "tronco di Iesse", padre di David, 11,1). Nei papiri dei successori il Messia diventa una figura più drammatica, assume il titolo di "Servo del Signore" e assume i tratti di una vittima sacrificale. "Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità" (53,4-5).

Le profezie del libro si estendono per tre secoli, fino al ritorno degli ebrei da Babilonia consentito dallo scià Ciro il Grande a partire dal 538 aC. E anche in seguito, perché mentre i libri storici fanno il loro tempo, un buon libro di poesia è per sempre: cinque secoli dopo ancora Gesù ci trovava qualcosa di fresco e interessante. Sarebbe mai uscito da Nazareth, avrebbe mai abbandonato la stabile attività di carpentiere, se a un certo punto non si fosse lasciato conquistare dall'idea di un Regno di rettitudine dove l'agnello riposerà col leone? Se in lui non avesse iniziato a serpeggiare il sospetto di essere lui il Servo del Signore, il prescelto che doveva essere schernito e flagellato prima di portare la giustizia sulla terra? Persino quella scelta discutibile di consegnarsi alle guardie del Sinedrio; di farsi processare davanti a un procuratore Romano senza dire una parola a sua difesa, assume un senso se si rilegge Isaia 53. Gesù potrebbe aver semplicemente amato così tanto le profezie di quel libro da decidere di realizzarle – a prezzo della sua vita, certo, i lettori veramente affezionati queste cose le fanno.

E se fosse davvero andata così, questo cosa ci insegnerebbe: che la Bibbia è un equivoco? Un profeta del settimo secolo scrive una serie di messaggi per mettere in guardia politici e credenti da una possibile invasione da nord e sulla necessità di stringersi intorno al monarca di una dinastia blasonata; però li scrive così bene che secoli dopo la gente continua a leggere i suoi versetti completamente decontestualizzati, continua ad aspettare un Messia anche se la stirpe di David si è estinta, e a sognare la caduta di Babilonia – Babilonia nel frattempo è effettivamente caduta, ma Isaia è così bravo a scriverne che speriamo tutti che si riferisca a qualche altra città tronfia e arrogante, speriamo tutti che ancora si realizzi, lo speriamo così tanto che ogni tanto succede, e ogni volta che succede è la prova che Isaia non sbagliava. Il suo libro è una profezia che si autoavvera.

Gabriele "D'Annunzio" Rapagnetta

I poeti hanno spesso ragione. Suona un po' retorico e molto crociano, ma se ci riflettete. Tutto quello che a distanza di secoli riconosciamo come poesia, è sempre qualcosa di talmente lucido che riusciamo a specchiarci. Noi in teoria non abbiamo più nulla in comune con Publio Virgilio Marone, ma agnosco veteris vestigia flammae sappiamo tutti cosa vuol dire, sappiamo tutti che è vero e lo è per tutti noi, e lo sarà ancora per qualche generazione. E se non piangi, di che pianger suoli? Di me medesmo meco mi vergogno. Ô vraiment marâtre Nature. The bustle in a house the morning after death. E l'infinita vanità del tutto. I poeti dicono la verità, tranne ovviamente D'Annunzio. No, in realtà la maggior parte dice sciocchezze (come D'Annunzio), e infatti smettiamo di leggerli, perché dopo un po' le pietre colorate ci stancano, mentre di quelle che ci specchiano non ci liberiamo mai. Per distinguere il diamante dal coccio di vetro, più che occhio e gusto ci vuole tempo, tantissimo tempo. È peggio che piantar datteri: tu verga pure i tuoi versicoli e spera che ogni tanto qualcuno li ristampi, ma già sai che ci vorranno secoli per capire se hai eretto davvero un monumentum aere perennium, o sottoscritto tonnellate di carta da macero.

Isaia ce l'ha fatta. Anche se non avete mai aperto una Bibbia in vita vostra: ugualmente qualche suo verso lo conoscete, e vivete in un mondo cambiato dai lettori di Isaia. Oppure avete visto Matrix, o qualsiasi altra saga che abbia per protagonista il Prescelto, ecco: quella è un'idea di Isaia. Potrebbe essere il poeta più antico che conoscete: se la gioca con Omero. Quest'ultimo è senz'altro un miglior narratore, un più attento osservatore, soprattutto quando c'è da descrivere fatti di sangue cui deve avere assistito direttamente. Isaia è meno trucido: la violenza non lo attira, preferirebbe che i nemici fossero annientati direttamente da Dio nel modo più astratto e pietoso possibile, senza spargimenti di sangue. Insomma non ha fatto il militare, Isaia; ma ci ha regalato in fondo a tanti papiri intrisi d'angoscia l'immagine di un mondo di pace e soprattutto l'ipotesi che quel mondo non sia un ricordo di un passato perduto – come per i Greci e poi per i Romani – ma qualcosa che può ancora avvenire: un seme che darà frutto, un regno di rettitudine.

"Certo, ancora un po' e il Libano si cambierà in un frutteto, e il frutteto sarà considerato una selva. Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall'oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo di Israele. Perché il tiranno non sarà più, sparirà il beffardo, saranno eliminati quanti tramano iniquità, quanti con la parola rendono colpevoli gli altri, quanti alla porta tendono tranelli al giudice e rovinano il giusto per un nulla" (29,17-22).

È un'idea per cui vivere, anche se spesso si tratta di vivere tragicamente e poco. Ma è un'idea. Isaia l'ha immaginata, Gesù l'ha vissuta, i suoi seguaci hanno continuato a imitarlo per secoli, ed eccoci qui. Babilonia può cadere da un giorno all'altro, Dio lo ha già fatto più volte, può rifarlo. Dipende solo da noi. Il Signore ha già spezzato la verga degli iniqui, il bastone dei dominatori, di colui che percuoteva i popoli nel suo furore, con colpi senza fine, che dominava con furia le genti con una tirannia senza respiro. Riposa ora tranquilla tutta la terra: ed erompe in grida di gioia.

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Geremia, e altre geremiadi

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1 maggio – Geremia, profeta (650-580 aC)

A Geremia capitò, nel quinto mese del quarto anno di Sedecia (ultimo re di Giuda), di essere contestato pubblicamente da un altro profeta, Anania figlio di Azzùr, da Gàbaon. Nel tempio di Gerusalemme, sotto gli occhi dei sacerdoti e del popolo, Anania annunciò che la dominazione babilonese aveva i giorni contati; nel giro di due anni i deportati a Babilonia sarebbero tornati a casa, gli arredi saccheggiati restituiti al Tempio. Ora Geremia da anni non faceva che spiegare il contrario: contro i Babilonesi di Nabucodonosor II ogni resistenza era inutile, e soprattutto contraria al volere dell'unico Dio. E siccome alle sue parole nessuno sembrava volersi rassegnare, Geremia aveva tentato con il linguaggio degli oggetti; si era fatto montare sul collo un giogo (Geremia 27,2), come una bestia di soma, e con quel giogo sul collo, emblema dell'egemonia babilonese, si recava nel Tempio a testimoniare la volontà del Signore. Finché non arriva questo Anania da Gabaon e non osa spezzargli il giogo davanti a tutti, gridando: "Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Io romperò il giogo del re di Babilonia!" (28,2). E Geremia?

Il Geremia di Michelangelo (Cappella Sistina).

E Geremia non oppone resistenza, anzi, per un attimo sembra lasciarsi convincere. "Così sia! Così faccia il Signore! Voglia il Signore realizzare le cose che hai predette", risponde ad Anania (28,5). Credo sia l'unico caso un tutta la Bibbia in cui profeta afferma che preferirebbe aver torto, che si verificassero le profezie di qualcun altro. Geremia aggiunge però un'obiezione. Da sempre, spiega ad Anania, i profeti annunziano sventure: "guerra, fame e peste". Un profeta di cose buone è una relativa novità e quindi "sarà riconosciuto come profeta mandato veramente dal Signore soltanto quando la sua parola si realizzerà" (28,8): insomma circostanze eccezionali (la pace, la vittoria contro i nemici) richiedono prove eccezionali. Poi Geremia "se ne va per la sua strada" (28,11), magari in cuor suo sperando che il Signore queste prove le fornisca, che il Signore per una volta confermi il profeta di pace e sbugiardi lui e tutti i colleghi uccelli del malaugurio. Niente da fare: appena il Signore gli rivolge la parola è per rivolgere un messaggio ad Anania: "Tu hai rotto un giogo di legno ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro" (28,13). Anania muore di lì a poco, e nel giro di qualche anno Nabucodonosor, innervosito dalle tresche di Sedecia con gli Egizi, rimanda le sue truppe a Gerusalemme, distrugge il Tempio, completa la deportazione. Geremia non sbagliava mai. Ma ecco, non ci provava gusto. È un dettaglio importante.

"Da grande penso che farò il profeta", Linus avverte Charlie Brown in una striscia del 1970. "Dirò verità profonde, ma nessuno mi ascolterà". "Se nessuno ti ascolterà, perché parlare?" "Noi profeti siamo molto ostinati" ("stubborn"). Tutt'altro che digiuno di Scritture, Linus ha un'immagine ben precisa di che tipo di profeta vuole essere. Non un'autorità sacerdotale come Samuele, né un supereroe come Elia. Non un detective sagace e integerrimo come Daniele, non un poeta ispirato come Isaia né allucinato come Ezechiele. Per Linus essere profeti significa soprattutto essere "ostinati": significa essere Geremia. È lui il profeta tipo. Gli altri sono troppo lirici, o visionari, o protagonisti di storie epiche o edificanti. Geremia non è un personaggio, è un uomo. Dio lo ha scelto per recare notizie perlopiù cattive, senza riguardo per la salute del messaggero. Malgrado sia predestinato dalla nascita ("Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo... ti ho stabilito profeta delle nazioni", 1,5), Geremia sin dall'inizio si schermisce ("Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane", 1,6). Ma non c'è niente da fare. "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me" (20,7). Per forza: ogni volta che parla, deve proclamare: "Violenza! Oppressione!", ed è il primo a stancarsene. Dio gli invia profezie non solo per Giuda, ma per tutte le nazioni grandi e piccole: e sono tutti oracoli di sventura, tutti messaggi pericolosi. Non può nemmeno sposarsi. "Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno" (20,8).

Geremia ha una verità dura da consegnare: il popolo di Giuda sarà punito per i suoi peccati. Esso ha abbandonato l'unico Dio, rivolgendosi a idoli osceni come Baal, che talvolta pretendono ancora sacrifici umani (19,5). Il Signore non li ha mai richiesti, anzi ne è orripilato. Se il popolo non ascolta Geremia, l'invasione da nord sarà inevitabile. "Ecco, io porrò per questo popolo pietre di inciampo, in esse inciamperanno insieme padri e figli; vicini e amici periranno" (6,21). È chiaro che con un messaggio simile Geremia rischiava di passare per un agitatore al soldo dell'invasore ("Tu passi ai Caldei!", 37,13). Il suo libro non si dà molta pena di confutare questa impressione: più volte arrestato e fustigato dai funzionari del re di Giuda, gettato in una cisterna dove rischia di morire di sete e fame (38,6), Geremia viene liberato proprio dai Babilonesi ed è lo stesso Nabucodonosor a fornirgli una scorta armata (39,12). Mentre re Sedecia viene imprigionato a Babilonia (l'ultima cosa che vede, prima di essere accecato, sono i suoi figli sgozzati dal boia), a Geremia è risparmiata anche la deportazione in Mesopotamia, dove fu condotta gran parte della classe dirigente del regno di Giuda. Geremia scrisse loro di non preoccuparsi, di far figli e accettare la nuova situazione, comunque transitoria: anche Babilonia sarebbe caduta, nel giro di settant'anni. Non sbagliava nemmeno su questo, ma è forte il sospetto che questa e altre profezie siano ritoccate a posteriori dagli scribi. Il suo libro, uno dei più disordinati della Bibbia, mescola gli oracoli a episodi di vita vissuta, con enormi lacune e vistose ripetizioni. Proprio questo disordine ci dà la sensazione che quella di Geremia sia storia, ambigua e incompleta com'è sempre la storia, e non una favola a lieto fine. Elia è probabilmente un mito, Isaia il nom de plume di più poeti, Giona un racconto edificante: ma Geremia dev'essere esistito davvero. La cisterna in cui viene gettato sembra molto più vera di quella già traslata in fiaba in cui i figli di Giacobbe gettano il fratello Giuseppe; o l'immaginosa fossa dei leoni, in cui un imperatore di fiaba getta il profeta Daniele. Geremia potrebbe essere il modello umano di tanti eroi biblici, compreso Mosè che come lui è scelto da Dio anche all'inizio se non sa parlare. Anche Giobbe, che brontola il suo destino in una discarica di fango e cenere, gli somiglia un poco; così come il profeta Osea a cui Dio dà però il permesso di sposarsi (purché con una prostituta). Giona invece è già una parodia.

Geremia era il mio profeta preferito, da ragazzino – affermazione patetica, mi rendo conto, ma a qualcuno potrebbe essere utile sapere che i bambini pensosi che cercano ruoli modello nell'Antico Testamento non sono soltanto una fantasia di Charles M. Schulz; che per esempio io a dodici anni mi misi a leggere la Bibbia, così, perché Harry Potter non era ancora stato pubblicato, per provare a me stesso che ne ero capace, e perché a dire le solite preghiere mi annoiavo. La lessi tutta un paio di volte e mi annoiai comunque molto – specie coi Numeri e i Profeti, che con i loro annunci di sventure sono parecchio ripetitivi. Perfino il sublime Isaia, letto a dodici anni nel dopopranzo in attesa di DJ Television, non rendeva quanto avrebbe dovuto. Ma in generale lo potrei dire per quasi tutti i libri migliori che ho letto: li ho letti troppo presto, troppo in fretta, senza capirci troppo; però almeno li ho letti. Geremia era il mio preferito perché mi sembrava davvero solo contro tutti, con una verità catastrofica ma necessaria, da somministrare a un popolo ottuso. È imbarazzante, ma in lui mi riconoscevo. Bastava accendere la tv – e l'accendevo subito dopo – per trovarmi davanti a un'umanità garrula che rideva, ballava inconsapevole su una polveriera di euromissili. Poveri stolti, mi dicevo, e avrei voluto come Geremia recarmi da tutti i potenti della Terra con un calice di amare rivelazioni, da ingollare fino alla feccia (4,28).  "Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Bevete e inebriatevi, vomitate e cadete senza rialzarvi davanti alla spada che io mando in mezzo a voi. Se poi rifiuteranno di prendere dalla tua mano il calice da bere, tu dirai loro: Dice il Signore degli eserciti: Certamente berrete!"

Poi posavo il Libro, accendevo la tv e c'era lui, il sacerdote del Serpente.

Quel che più mi faceva infuriare è che anch'io, anch'io avrei dovuto pagare le conseguenze dello sconsiderato ottimismo della generazione che mi precedeva: "i padri mangiarono l'uva acerba e i denti dei figli rimasero allegati", avrebbe detto Geremia (31,29). È il concetto di colpa collettiva, che il profeta mette nero su bianco sui suoi papiri; la causa delle disgrazie dei contemporanei è sempre l'empietà dei genitori. Dio non tratta con gli individui, ma coi popoli: la condanna è collettiva e cosi è il perdono, che può subentrare soltanto se tutta la collettività muta il suo comportamento. Nessuno si salva da solo, nemmeno il prescelto Geremia, che solo una volta si permette di obiettare a questo atteggiamento divino ("Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia") ed è un passo importante (12,1), il primo dell'Antico Testamento in cui si pone la domanda fondamentale: "Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?" Tutto il libro di Giobbe non sarà che una variazione sulla domanda complementare: perché invece i giusti soffrono? Tutto il Vangelo, volendo, non è che un tentativo di risposta. Oggi il concetto di colpa collettiva è respinto dal diritto, eppure il debito che ci schiaccia è sempre quello che accumularono i nostri genitori; l'inquinamento che ci surriscalda è la conseguenza di due secoli di scelte sventate che prima o poi ci presenteranno il conto. Di Geremia ce n'è ancora tanti in giro, tutti con qualche seguace e molti più detrattori. Anch'io devo dire li tollero sempre più a fatica: vuoi perché su questa polveriera nel frattempo ci sono invecchiato, scavandomi per quel che potevo un cantuccio confortevole; vuoi perché in loro riconosco alcuni tratti discutibili di me stesso, e non posso che diffidarne: vuoi perché per la maggior parte sono davvero cialtroni che scambiano qualsiasi congiuntura politica o economica per un segno della fine dei tempi: e nella foga di ammonirci con le loro geremiadi finiscono davvero per prestarsi alla propaganda straniera, scambiando il primo Putin che trovano per un novello Nabucodonosor.

Madrid, Spagna
Lei invece mi sta simpatica.

Lo stesso Geremia non mi fa più tutta questa impressione. Ormai riconosco il personaggio, il predicatore professionista con un'agenda politica. Che possa davvero aver lanciato anatemi a tutte le nazioni senza protettori importanti, mi sembra sempre meno probabile; nel frattempo ho acquisito qualche nozione sul contesto, tutte quelle congetture che inevitabilmente erodono i monumenti dei profeti e degli eroi. Geremia compare sulla scena in uno dei momenti più ambigui e cruciali della storia di Israele: il regno di Giosia, nella seconda metà del VII secolo. È un periodo di crescita demografica per Giuda, il piccolo Stato intorno a Gerusalemme, un fenomeno che le cronache bibliche non registrano ma che gli archeologi collegano alla fine del più settentrionale regno di Israele, invaso dagli Assiri nel 720. Gli Assiri secondo la Bibbia avrebbero deportato altrove gran parte della popolazione ebraica: le famose Dieci Tribù Disperse. L'ipotesi degli storici è che invece molti profughi si siano trasferiti a sud, nel piccolo regno di Giuda, creando una tensione sociale che la Bibbia descrive come un'interminabile guerra di religione. Si contrappone una popolazione idolatra – che accanto a JHWH riconosce altri Dei tra cui una "regina del cielo" che forse è sua moglie – e una fazione monoteista di origine settentrionale che predica un monoteismo integrale, riconosce soltanto JHWH e liquida ogni altra divinità come superstizione, e durante l'infanzia del re Giosia (intronato a otto anni) prende il potere, forse con un colpo di Stato. Gli idoli vengono distrutti, i sacerdoti non ortodossi eliminati: durante i lavori per il restauro del Tempio, viene scoperto un misterioso Libro (il Deuteronomio?) che chiarisce i termini di una dimenticata alleanza del popolo ebraico con l'Unico Dio. Giosia dedica il suo regno alla riforma religiosa, ma il suo è pur sempre un piccolo regno tra le potenze del Medio Oriente. Quando muore in battaglia, durante un'incursione egiziana, il potere passa al figlio Ioacaz, che (probabilmente su pressione degli invasori) pone termine alle persecuzioni religiose: il popolo è di nuovo libero di adorare gli idoli degli invasori e magari di mescolarsi con loro.

Nabucodonosor II, che in tutti i quadri ostenta una lunga barba e in questa incisione no.

Geremia proviene evidentemente dalla classe dirigente che ha creduto nel progetto teocratico di Giosia e ora deve farsi una ragione del suo fallimento. In questo gli intellettuali sono straordinariamente creativi, anche se alla fine tendono a raggiungere la stessa conclusione: la colpa non è mai del leader che si erano scelti, quanto del popolo che in lui non ha creduto abbastanza. Nel frattempo l'impero Assiro ha conosciuto una rapidissima decadenza e ora le due potenze egemoni sono l'Egitto e la (Neo)Babilonia di Nabucodonosor. Il  regno di Giuda si trova proprio in mezzo ai due, in un passaggio obbligato strategicamente necessario per entrambi. Negli anni della predicazione di Geremia Giuda è già vassallo di Babilonia, ma la tentazione di ribellarsi e passare dalla parte degli Egizi è molto forte. C'è chi parla di trasferirsi direttamente in Egitto, e creare là un nuovo focolaio per la comunità ebraica. Geremia è assolutamente contrario, o meglio lo è il Signore che parla attraverso la sua bocca: chi si recherà in Egitto verrà spazzato via e assimilato (42,15-18), chi si ribellerà verrà massacrato. Solo chi si arrende a Babilonia potrà sperare di sopravvivere al disastro. Le accuse di essere al soldo dell'oppressore babilonese colpivano il segno: forse anche per smentirle il profeta acclude nel suo Libro l'atto di acquisto di un terreno (4,6-15), un investimento voluto ovviamente da Dio per dimostrare che ci sarà un futuro per gli ebrei in Israele, ma anche un modo per dimostrare che non intendeva rifugiarsi a Babilonia. Alla fine Geremia continua a essermi simpatico: era un uomo del suo tempo che vedeva inevitabile una rovina e si sforzava di renderla il meno disastrosa possibile. Resistere ai Babilonesi avrebbe solo complicato le cose; gli Egizi non davano nessun affidamento: meglio arrendersi, accettare la deportazione, cercare nel disastro un'opportunità. Invece di chiamare i contemporanei all'ennesima rivolta fallimentare, Geremia si guarda intorno, trova la soluzione meno peggiore e l'addita a chi ha la pazienza di dargli retta. Agli Ebrei che si arrendono, il profeta deve garantire che la resa è onorevole, e che la deportazione non è la fine della storia di Israele, anzi un nuovo inizio. E in effetti fu così, anche qui Geremia non si sbagliava. Senza più Tempio, senza più re, coi libri sacri ancora in fase di elaborazione, Geremia deve trovare una nuova dimensione per un popolo che non sa come esprimere la sua identità, e contribuisce a inventare qualcosa che stiamo usando ancora adesso: l'interiorità, il "cuore". "Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me" (9,22-23). I nuovi Israeliti non si riconosceranno dai sacrifici e dalle pratiche esteriori, ma da come meditano e riconoscono la volontà del Signore. Alla circoncisione fisica, Geremia sovrappone o contrappone una circoncisione del cuore (9,24).

Geremia lo lessi troppo presto, come la Bibbia e tutti i libri che vorrei ricordare meglio oggi. Sapete come funziona a quell'età: mi sembrava di vivere in mezzo a una folla di gente che non vedeva il disastro a cui andava incontro. Avrei voluto metterli in guardia e al contrario di Geremia ero anche convinto di avere le parole giuste: così mi misi a scrivere, ma poi rileggendo dopo un po' mi accorgevo di risultare pretenzioso e antipatico e buttavo via, e ricominciavo con un altro stile e poi buttavo via di nuovo e a furia di buttare via sono arrivato fin qui, sulla rubrica dei Santi del Post. Non mi ricordo neanche bene qual era il disastro che trovavo imminente – forse la guerra termonucleare, o il buco dell'ozono. Comunque sono qui. Di parlare di Violenza e Oppressione mi sono stancato da un pezzo, e se qualcuno ogni tanto si prendesse la briga di affrontarmi in pubblico e spezzarmi questo giogo che porto sulle spalle, io gli sarei molto grato: e volentieri me ne andrei per la mia strada.

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Un ciceroniano a Betlemme

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Lionello Spada, passi la penna d'oca
 e il tappeto ikea, ma GLI OCCHIALI?
30 settembre - San Girolamo (347-420), padre della Chiesa.

[2012]. Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa, in mancanza di foto patinate? 

Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo  - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla  ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.

L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile calcolare quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.

È da un po' che scrivo storie di santi sul Post. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di qualche tempo mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani.

Ai tempi del suo primo disperato pellegrinaggio nel deserto - durante il quale altri suoi amici erano morti di stenti - Girolamo aveva fatto un incubo, dopo una di quelle sere in cui prima di andare a letto si era messo a leggiucchiare un po' di Plauto, così, per prender sonno. Il sogno lo aveva catapultato alla corte di Cristo Re, che lo aveva interrogato: "sei forse tu cristiano?" "Mi sembra di sì", aveva risposto Girolamo, tremebondo. "Mi sembri piuttosto ciceroniano", aveva risposto il dio-magistrato, e ne aveva disposto l'immediata flagellazione. Girolamo, sanguinante, aveva promesso che non avrebbe toccato un autore pagano mai più, mai più: da lì in poi solo libri sacri. In pochi sogni come in questo vediamo un uomo tradirsi.

Perché il dio flagellatore aveva ragione: Girolamo era più di ogni altra cosa ciceroniano, e nessun digiuno, nessuna penitenza lo riuscirono a cambiare davvero. Sotto quella pelliccia puzzolente, il monaco traduttore era rimasto Eusebius Sophronius Hieronymus, una spia del classicismo greco-romano, infiltrata nel cuore più profondo del cristianesimo trionfante: la piccola cella di Betlemme dove stava prendendo forma la Vulgata. Nel giro di due secoli il testo avrebbe sbaragliato la concorrenza, diventando per un buon millennio l'unica Bibbia leggibile in Europa. Il libro di Dio, ma anche un po' di Cicerone. No, mettiamola così: il ciceronianesimo di Girolamo è un virus, rimasto in sonno per secoli prima di attivarsi. Finché il supporto rimase la pergamena, e i lettori poche migliaia in tutto il continente, quasi nessuno ci fece troppo caso. Ma quando arrivò Gutenberg, e la stampa a caratteri mobili, il virus dilagò. Era il virus del pensiero critico.

Come animale da compagnia, un leone vegetariano. Il problema coi leoni vegetariani è che mangiano chili di cespugli al giorno, e hanno continuamente una spina da farsi cavare, e tu intanto stai cercando di capire le unità di misura del Levitico

Ci sono stati nella Storia dell'uomo altri traduttori di libri sacri. Siccome i libri di questo tipo durano molto, e nel frattempo non cambia solo la lingua, ma anche la cultura, il modo di pensare... di solito tradurli è l'occasione per riammodernarli un po', magari per riscrivere intere parti da capo. Girolamo sapeva bene, per esempio, che quando i greci avevano tradotto la Bibbia ebraica, l'avevano un po' aggiornata, togliendo magari qualche riferimento messianico che loro non capivano e che invece a lui premeva molto. Girolamo crede, indiscutibilmente crede, che l'autore della Bibbia ebraica sia Dio, e che quindi sia necessario ripartire da là: ma l'ebraico è difficile, e Girolamo non si fida veramente di nessuna delle sue fonti: non degli ebrei suoi contemporanei, non dei Greci, non del saggio Origene che aveva fatto uno splendido lavoro accostando tutte le traduzioni conosciute, ma era anche lui in odore di eresia... Diffidando di tutti, Girolamo è costretto a metterli a confronto, e a inventare un metodo filologico che poi ci servirà a restaurare tutti i classici, Cicerone incluso.

Ma quel che forse è più importante, e che lo rende il Santo dei traduttori, è che Girolamo diffida anche di sé stesso. Altri, prima di lui, avevano risolto i dilemmi di interpretazione lasciandosi semplicemente ispirare dalla Divinità. Lui no, lui traduce a senso, anche quando il senso magari non gli piace. Non è un profeta, non cerca Dio nella sua testa: Dio sta fuori, Dio ha scritto un libro, Girolamo deve capire cosa c'è scritto senza lasciarsi tentare dal demone dell'interpretazione. Nelle sue mani, la Bibbia diventa latina, ma non si evolve. Non si adatta alla cultura della civiltà tardoantica. Rimane un ingombrante centone di miti ebraici totalmente sganciati dalla quotidianità dei cristiani: qualcosa di oggettivamente difficile da manovrare, che rimarrà per secoli incastonato nella liturgia come un meteorite piovuto dal cielo. Nella maggior parte del testo, il Dio di cui si parla non è quello dei cristiani: a volte è buono e misericordioso, altre volte è mandante di genocidi; il più delle volte non si capisce cosa pretenda e con chi ce l'abbia, tutti i popoli di cui si parla sono lontani nella Storia e nella geografia. Dopo un migliaio di pagine così (intervallate da qualche salmo commovente, qualche onesta riflessione sulla condizione umana, qualche poesiola d'amore, qualche proverbio abbastanza banale), arriva Gesù - ma persino le storie di Gesù non sono affatto raccontate in modo univoco e coerente. C'è un sacco di contraddizioni, e Girolamo le avrebbe potute risolvere: chi meglio di lui?

Un piccolo esempio, di cui abbiamo parlato altre volte: i fratelli di Gesù. Tutti quelli che nei secoli hanno difeso la verginità della Madonna, si sono scontrati contro quei versetti in cui si dice, chiaramente, che Gesù aveva dei fratelli. Non c'è niente da fare, il testo dice così: hai voglia a dire che magari gli evangelisti intendevano "cugini", "amici", "discepoli", no: c'è scritto fratelli, punto. Ma chi l'ha scritto? Girolamo era nella stanza dei bottoni (o meglio nella cella dei papiri), Girolamo avrebbe potuto cambiare. Certo, ci sarebbe stata qualche polemica, Agostino avrebbe storto il naso... ma nel giro di qualche secolo tutto sarebbe stato risolto, un testo meno contraddittorio avrebbe fatto comodo a tutti. Bastava convincersi che quel "fratelli" era un evidente sinonimo di cugini, le religioni sono piene di gente che si convince di cose così, ma Girolamo non era quel tipo di fanatico. Tradusse "fratelli", e "fratelli" rimase. Sotto quella pellaccia livida di tutte le frustate che si autoinfliggeva per aver esagerato a condire la lattughina, sotto tutto il suo cristianesimo furioso e militante, Girolamo Eusebio Sofronio era rimasto un filologo. Classico. Ciceroniano. Se oggi leggiamo la Bibbia, e ci troviamo i migliori argomenti per non dare retta ai preti, lo dobbiamo a lui, che poteva sostituirla con un bel catechismo edificante, ma non ne era in grado. Tra l'amore per la Chiesa e quello per la lettera del testo, Girolamo scelse il secondo, e lo sapeva: almeno nei sogni.

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Lazzaro che morì due volte

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29 luglio - San Lazzaro, amico di Gesù

(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
[2014] Tutti dobbiamo morire, e secondo la dottrina cristiana Gesù a tempo debito ci resusciterà. Tranne Lazzaro: lui è stato risorto prima. Così presto che è probabilmente già rimorto. Ma perché con lui Gesù si è comportato così? A prima vista sembrerebbe una debolezza: Lazzaro ha un trattamento di favore perché... è suo amico.

Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell'ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all'estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.

Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po' prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta ("Sono passati tre giorni, puzzerà"). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l'ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.

Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Certo, ci sarebbe l'episodio della figlia di Giairo, "capo di una sinagoga", riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell'amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.
...e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
La decisione di risorgere Lazzaro non è una semplice debolezza, ma parte di un piano. I tre giorni di attesa sono fondamentali, non solo perché preannunciano la morte di Gesù, ma perché legalmente sono necessari affinché la resurrezione non possa essere derubricata a risveglio da un coma (quel che era successo nel caso della figlia di Giairo). Anche il dettaglio della puzza non è un semplice tocco di realismo: il testo vuole eliminare qualsiasi dubbio sul fatto che quella di Lazzaro sia stata una resurrezione, non una guarigione. Gesù ha scelto il suo amico per farne il cardine di tutto il Vangelo.

Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto "vangelo dei segni", e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i "segni" necessari affinché credano che lui è il Messia - e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono... i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l'ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l'inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L'idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:
"Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione".
Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l'attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani – che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. "Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero", dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero. Tutto l'episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po' di sentimenti qua e là).

Wake up dead man ((Caravaggio)
Wake up dead man (Caravaggio)
Giovanni è l'evangelista più filosofico, lo sanno tutti; mastica un po' di gnosi, e scrive molto bene; ma da un punto di vista meramente narrativo, sembra un autore di fanfiction - un lettore dei vangeli precedenti che si mette a ricamarci sopra perché molti episodi lo hanno lasciato insoddisfatto - inoltre crede di aver trovato dei buchi di sceneggiatura e non li sopporta. Perché Gesù non scoppia mai in lacrime? Non sarebbe bello se avesse un amico? Tra le domande che il fan-Giovanni si pone ce n'è una fondamentale: perché Gesù non ha mai resuscitato un morto? Ok, ha resuscitato sé stesso, ma solo alla fine. E però, molto prima della fine, ai discepoli di Giovanni Battista che gli chiedevano se fosse veramente il Messia aveva detto:
Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano.
Questo è Matteo 11, ma i morti che risuscitano chi sono? In Matteo non ci sono! Ok, la figlia di Giairo, ma possiamo veramente contarla? Con lo stesso Gesù che afferma "non è morta ma dorme"? Insomma qui c'è un buco, bisogna riempirlo. Ma con cosa?

Un altro tratto tipico degli autori di fanfiction è il riutilizzo di nomi e personaggi minori. È un modo per sentirsi più 'canonici', vicini all'originale che stanno rielaborando. Giovanni evangelista riprende così le due sorelle Marta e Maria, già protagoniste di un breve e famoso diverbio nel vangelo di Luca; e le provvede di un fratello di cui nessuno fin qui ha sentito parlare, ma a cui Gesù voleva un bene dell'anima. Se il personaggio-Lazzaro è un'assoluta novità, il suo nome non è tuttavia nuovo: Eleazar ("Dio è il mio aiuto") era già il nome di un lebbroso in una parabola dei sinottici, costretto a mendicare davanti alla casa del ricco Epulone: da lui viene il termine "lazzaro" come sinonimo di "lebbroso" (da cui "lazzaretto"), nonché l'accrescitivo "lazzarone" . Poi Epulone finisce all'inferno e non può nemmeno supplicare che Lazzaro dal paradiso gli allunghi un po' d'acqua, tra i due oltremondi non vi è nessuna convenzione. Battezzando "Lazzaro" l'amico di Gesù, il Fan-Giovanni può anche alludere al luogo dove Lazzaro sarebbe stato nei tre giorni tra la morte e la prima resurrezione: il paradiso. Una questione che lasciava perplessi alcuni teologi, secondo i quali l'amico di Gesù non poteva che essere stato all'inferno: il paradiso era ancora chiuso. D'altro canto, il Lazzaro del vangelo di Giovanni non è un lebbroso, non è un mendicante; forse il fan-Giovanni stava soltanto cercando un nome di origine ebraica, per evitare di inventarsene uno che rischiasse di suonare falso a un orecchio più allenato del suo.

Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Lazzaro dunque dovrebbe morire e resuscitare una prima volta per risolvere un'incongruenza narrativa dei vangeli sinottici, e dimostrare incontrovertibilmente che Gesù è il messia. Giovanni dà particolare importanza dei "segni", i miracoli rivelatori; laddove gli altri evangelisti li snobbano un po', ammettendo in alcuni casi che Gesù li facesse controvoglia e li considerasse con sufficienza. La gente lo avrebbe dovuto seguire per quel che diceva, e non per i pani o i pesci, o un lebbroso guarito o un paralitico rialzatosi dalla sedia. Per Giovanni invece i "segni" sono fondamentali, e Lazzaro è il più importante.

Un altro indizio del carattere fittizio dell'amico di Gesù è la sua improvvisa scomparsa: così com'era apparso, fa sparire subito le sue tracce. Che fece durante la passione dell'amico? E dopo la resurrezione? Non si sa. Di sicuro non era coi Dodici, ma gli Atti degli Apostoli di lui non dicono niente (per forza, li aveva scritti Luca prima che Giovanni partorisse il personaggio). È lo stesso Fan-Giovanni a suggerirci una spiegazione: i sacerdoti del sommo sinedrio volevano far accoppare anche lui, magari ci sono riusciti. Un'altra teoria, ma molto più tarda, è che Lazzaro sia stato occultato dai proto-cristiani proprio perché il sinedrio gli dava la caccia. Paolo di Tarso lo avrebbe portato a Larnaca, nell'isola di Cipro, di cui Lazzaro sarebbe diventato il vescovo fino alla sua seconda morte, trent'anni dopo. La leggenda orientale dice che non sorrise mai, per tutto il tempo, a causa di quello che aveva visto nei suoi tre giorni da morto. Dunque era stato all'inferno. Solo una volta gli sarebbe scappato un sorriso - davanti a un ladro di vasellame - dopo aver sentenziato: "L'argilla ruba l'argilla".

L'ipotesi occidentale, che i lettori di Dan Brown magari conoscono, è che Lazzaro sia miracolosamente approdato con le due sorelle nel Midi della Francia, diventando il primo vescovo di Marsiglia. La devozione dei marsigliesi fu tale che nel 1204, durante la Quarta Crociata, (detta anche saccheggio di Bisanzio) si portarono a casa le reliquie. Poi le persero, forse anche in seguito a una riflessione: se davvero le sue ossa erano custodite a Bisanzio, Lazzaro non avrebbe mai potuto evangelizzare Marsiglia. In ogni caso i suoi resti si possono venerare ad Autun e a Vézelay in Borgogna - oltre che naturalmente a Larnaca. A Vendome invece c'è un'ampolla con le lacrime che Gesù avrebbe pianto davanti al suo amico. Forse perché sapeva di averlo lasciato scendere all'inferno, anche solo per tre giorni. Oppure perché davvero gli voleva bene.
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Esdra e l'invenzione d'Israele

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13 luglio - Esdra (V secolo a.C.), sacerdote.

[2014]. I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
Trent'anni di lobbying per ottenere una provincia autonoma,
e appena arrivate qui vi accoppiate con le indigene. È sconfortante.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro sottoscrive l'editto, chissà se ci avrà pensato più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di suggellare tante altre tavolette o papiri che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica. La prima cosa che fa quando arriva è stracciarsi le vesti in segno di protesta: i capifamiglia gli hanno appena accennato il problema dei matrimoni misti.
Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello, mi sono strappato i capelli e i peli della barba e mi sono seduto costernato. Quanti tremavano per i giudizi del Dio d'Israele su questa infedeltà dei rimpatriati, si radunarono presso di me.
Matrimonio Israele
È tuttora una questione spinosa.


Esdra rimane seduto e costernato diverse ore, fino al sacrificio serale. Poi cade in ginocchio e prorompe: "Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo" e bla bla bla, insomma stava andando tutto bene, e che mi fanno? Cominciano a sposarsi con le donne del luogo. Ora non dico che vadano sterminate – come c'è pur scritto che avremmo fatto un millennio fa in quel rotolo che abbiamo messo assieme a Babilonia – ma sposarle, farci i figli... l'assimilazione culturale... e nel giro di due o tre secoli finisce che mangiamo maiale pure noi, e poi come faranno gli archeologi del Duemila a capire se in tale insediamento ci stavano i canaaniti o gli israeliti? [sul serio, l'unica differenza spesso sta nei resti di ossa di maiale].
Ma ora, che dire, Dio nostro, dopo questo? Poiché abbiamo abbandonato i tuoi comandi che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: Il paese di cui voi andate a prendere il possesso è un paese immondo, per l'immondezza dei popoli indigeni, per le nefandezze di cui l'hanno colmato da un capo all'altro con le loro impurità. Per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni del paese e lasciare un'eredità ai vostri figli per sempre...
Va avanti così per molti altri versetti, ma insomma il senso è chiaro. Mentre piange e si dispera, intorno a lui si forma un crocchio di fedeli che cerca di consolarlo. Alla fine uno di loro (Secania, figlio di Iechiel) prende la parola: dai Esdra, possiamo ancora salvarci. Che ne dici se divorziamo tutti quanti in una volta, e rimandiamo le nostre mogli infedeli ai loro genitori? E i figli? Anche i figli naturalmente. Al che Esdra, snif, si calma un po': dite che è possibile? Massì, Esdra, che ci vuole. Un bel divorzio collettivo, magari per ogni moglie offriamo anche un ariete in sacrificio. E va bene, mi avete convinto. Ma d'ora in poi guai a chi sgarra."Con Ezra", spiega ancora Liverani, "si conclude l'elaborazione della Legge, si chiude anche l'elaborazione storiografica, cessano di agire i profeti, il sacerdozio di Gerusalemme ha pieni poteri".

Lo Utah dei mormoni, l'Etiopia dei rastafariani, la Guyana di Jim Jones. Tutte queste terre promesse, senza Esdra, ci sarebbero state? Probabilmente sì; è difficile immaginare che un oscuro sacerdote ebraico-babilonese a cavallo tra sesto e quinti secolo a.C. sia la causa di tutto. Più probabilmente è solo il primo sintomo di qualcosa che ci portiamo dentro: il retaggio di millenni di nomadismo, una propensione ancestrale ad andarcene da qualche parte dove finalmente saremo soli, saremo puri, saremo noi. Poi ci arriviamo e c'è sempre qualcun altro.
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Perché non avete orecchie

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25 aprile - San Marco evangelista (primo secolo)

[2012]. Un profeta grida nel deserto e battezza i peccatori nelle acque del Giordano; tra di loro vi è un nuovo giovane predicatore, che dopo una quarantena nel deserto si mette a proclamare una buona novella, attraverso parabole enigmatiche e profezie di sventura.
Basilica di York, Eire.
Gli va meglio con le guarigioni miracolose: usa sistemi un po' singolari, (fango, sputi), ma tutto sommato funzionano. Un paio di volte si ritrova a dover moltiplicare pani e pesci per le folle che si radunano ad ascoltarlo. Quel che dice però non è sempre chiaro, nemmeno ai dodici collaboratori più stretti, che a volte hanno troppa soggezione per chiedere spiegazioni. In seguito il predicatore viene accusato di sedizione, arrestato e fatto uccidere. Ma il terzo giorno le donne trovano nel sepolcro, al posto del corpo, un ragazzo vestito di bianco che parla di resurrezione, e scappano impaurite. Questo è in breve il Vangelo di Marco, che se non si trovasse mimetizzato in mezzo agli altri risulterebbe un testo abbastanza inquietante: c'è un Gesù senza Natale e senza Pasqua, sempre un po' arrabbiato perché la gente non capisce. Alla fine di diversi episodi, miracoli o parabole, c'è quel classico versetto alla Marco, come “E si meravigliava per la loro incredulità”, “Chi ha orecchie per intendere intenda”. Solo i bambini lo smuovono un po' dal suo sempiterno cipiglio (“a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”). Insomma è un tizio burbero, con un cuore che lascia vedere solo a sprazzi:
Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse:“Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia”.
L'episodio c'è anche in Matteo, dove Gesù concede anche un complimento (“Donna, davvero grande è la tua fede!”). In Marco si limita a dire “va'”, e poi passa ad altro. Non è così difficile mettersi nei panni degli apostoli, sempre timidi e vagamente terrorizzati, “stupiti in sé stessi” “Essi però non comprendevano, e avevano timore a chiedere spiegazioni”. Marco è l'evangelista del leone, e il suo Gesù sembra davvero un re leone nella gabbia di un'umanità che non lo capisce. “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” (9,19). L'unico Vangelo che suggerisce al lettore che Cristo sulla terra abbia avuto fretta di andarsene.

Ragioni per cui amo Wikipedia.
È anche il più breve: nessuna genealogia, nessuna storia sull'infanzia di Gesù (al punto da far sorgere più di un sospetto di adozionismo: Gesù diventerebbe figlio di Dio solo col battesimo nel Giordano, quando si sente una voce dal cielo dire “Tu sei il Figlio mio prediletto”). All'inizio non era inclusa nemmeno – cosa più sorprendente – un'apparizione di Gesù risorto: solo questo ragazzo vestito di bianco che dice alle donne “Non abbiate paura, Gesù è risorto, andate a dire a Pietro che vi precede in Galilea”. Al che le donne scappano terrorizzate “e non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. La versione più antica finisce così: non molto promettente, per il testo fondativo di una religione. Del resto, se le donne non l'hanno detto a nessuno, come facciamo a saperlo? Logica e sintassi greca dell'ultima frase ci lasciano il sospetto che esistesse un seguito, andato perduto quasi subito e rimpiazzato a volte con un solo versetto, a volte con una paginetta che è quella che di solito troviamo nelle nostre traduzioni.

In questo finale Gesù appare di nuovo a Maria di Magdala, che lo dice agli apostoli (“Ma essi non vollero credere”), poi a due di loro (ma gli altri “non vollero credere”) e alla fine a tutti gli undici a tavola “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore”. Il finale lungo probabilmente non è di Marco, ma come si vede è coerente con il suo protagonista: neanche una parola gentile (Ehi, che piacere ritrovarvi, scusate se vi ho fatto prendere paura con questa cosa della passione e morte...) Del resto Cristo è un re, poche smancerie.

Magari è anche il contesto romano, la necessità di conferire al figlio di Dio un’aura di imperiale autorità: se Marco è lo stesso Marco che Pietro chiama suo figlio (=discepolo) nella sua prima lettera (“La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta. Anche Marco, mio figlio, vi saluta”), e se è vero che Babilonia in realtà è Roma, il suo Vangelo sarebbe nato nell’Urbe o comunque pensato per i cristiani della comunità romana. Lo lascerebbero pensare gli errori di geografia (la Palestina di Marco sembra un fondale di cartone, con laghi monti e città alla rinfusa), i tentativi non sempre riusciti di spiegare abitudini e ritualità ebraiche che Matteo dà per scontate, e un versetto: “Il Sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il Sabato?” che è difficile immaginare sulle labbra di un Gesù davvero ebreo (nella Genesi persino Dio si riposa, nel primo sabato della creazione). Qualcuno si è spinto a trovare echi di Marco nel Satyricon di Petronio, come se la cena di Trimalcione fosse una parodia delle prime mense cristiane. Marco sarebbe dunque lo stenografo di Pietro: il suo Vangelo sarebbe il tentativo di dare una forma scritta coerente agli aneddoti che Pietro predicava (aneddoti in cui, come abbiamo visto, Pietro non ci fa quasi mai una bella figura). Ma Pietro a Roma potrebbe anche non esserci mai arrivato, “Babilonia” potrebbe essere Antiochia o Persepolis-Ctesifonte, tanto più che il Vangelo è scritto in greco (con qualche latinismo).


The Jefferson's Cut

Oltre a essere il testo più breve, è quello con meno materiale originale. Questo si può spiegare in due modi: il suo Gesù burbero potrebbe essere il più antico, quello da cui hanno attinto gli altri (meno Giovanni), addolcendolo un po’. Ma potrebbe anche essere un bignamino di Luca o di Matteo o di entrambi, in versione semplificata per un pubblico che non aveva dimestichezza con gli usi e i luoghi della Palestina. Il dibattito è sconfinato: comincia praticamente nel terzo secolo e arriva ai giorni nostri. Oggi l’ipotesi più condivisa dai critici è che Marco sia una delle fonti di Luca e Matteo, insieme a un altro testo che non ci è arrivato (la famosa “Fonte Q”). Ma anche Marco potrebbe avere attinto a Q, o viceversa, oppure potrebbero esserci più fonti diverse, è un caos interpretativo. Se vi intriga il suggerimento è: risolvervelo da soli; tanto i testi dei Vangeli li trovate ovunque, in qualsiasi traduzione. Non c’è neanche bisogno di una copia della Bibbia intonsa e un rasoio, come quello di Thomas Jefferson, che si fece un vangelo personale sforbiciando i versetti che per lui non avevano senso. È il dibattito filologico più antico della Storia ed è completamente gratis, approfittatene! (Wikipedia in questo caso mi sembra un buon punto di partenza; non può esserci tutto ma c’è un sacco di roba). Magari per scoprire che l’ipotesi di partenza, la cosiddetta “priorità marciana”, rimane una delle più probabili e suggestive: in questo caso il Gesù più vicino all’originale sarebbe un predicatore scontroso che salta fuori un po’ dal nulla e nel nulla scompare, senza che nessuno tra gli apostoli e le donne abbia ben capito il senso di tutta la storia.

Dopo Roma, la tradizione vuole Marco in missione nel Nordest per conto di Pietro: dopo aver battezzato il primo vescovo di Aquileia (forse la quarta città italiana per popolazione), un naufragio lo avrebbe sospinto nella laguna veneta. A questo punto una voce gli avrebbe detto: Pax tibi Marce, evangelista meus, dopo il martirio riposerai qui. Chissà Marco come dev’esser stato contento del suo palustre sepolcro promesso, sotto il cielo grigio topo che ha la laguna deserta nei giorni di tempesta (Venezia sarebbe sorta solo qualche secolo dopo). Invece in un qualche modo lo ritroviamo ad Alessandria d’Egitto, di nuovo in missione, martirizzato dai pagani. Le sue reliquie arrivano effettivamente a Venezia nel nono secolo, contrabbandate in un recipiente di carne di maiale che i saraceni avrebbero avuto orrore a perquisire.

"Non possiamo portarlo un attimo fuori e fare le fotocopie?"
Un altro dei rari versetti di Marco che non si ritrovano negli altri Vangeli parla di un ragazzo misterioso che fugge senza mantello al momento dell’arresto di Gesù. Non si sa chi sia e perché fugga; non se ne riparla più; non è strano che Luca e Matteo lo abbiano tagliato (sempre che Marco non sia venuto dopo e non lo abbia aggiunto). Un’ipotesi è che quel ragazzo fosse lo stesso Marco, che qui voleva segnalare la sua presenza come testimone oculare. Però Marco lo chiama con una parola, “neaniskos”, che nel suo testo torna una volta sola: quando si parla di un altro misterioso ragazzo, quello ritrovato dalle donne nel sepolcro di Gesù. È lo stesso ragazzo? Che senso avrebbe? Il Vangelo di Marco sembra un giallo aperto: c’è un protagonista che continua a dirti: non capisci? Non capisci? Neanche così capisci? In che altro modo te lo posso spiegare? Come se dall’altra parte del filo ci fosse un Ente superiore che cerca di comunicare delle ovvietà a un babbuino. E tu ti senti un po’ un babbuino: la soluzione è a un passo, ma ci devi arrivare da solo. Verranno altri evangelisti più completi e accomodanti, con la soluzione alla fine, ma forse il più riuscito è quello che dice: sono un enigma, risolvetemi (stupidi).

Oggi è anche ovviamente la festa della Liberazione. Il venticinque aprile è un giorno molto particolare, che purtroppo spesso si prepara con una serie di polemiche sull’apertura dei negozi. Io non lo so se sia giusto o no tenerli aperti. Però credo che tutte le feste, compreso il 25 aprile, siano fatte per l’uomo, non l’uomo per il 25 aprile. Almeno io l’ho capita così, ma magari non ho capito niente. Buona Liberazione.
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Chi ha paura del profeta Ezechiele

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.



(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).

Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.

C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?

Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Così mi magnificherò e mi santificherò e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, e riconosceranno che io sono l’Eterno».
Dis donc mais tu rigoles, n'est-ce pas?
Seguono in Ezechiele 39 i dettagli su dove scavare una fossa comune grande come una città, perché di Magog non resterà un solo superstite: il profeta calcola che solo per seppellire i nemici gli ebrei ne avranno per sette mesi. “Cosí da quel giorno in poi la casa d’Israele riconoscerà che io sono l’Eterno”, un Eterno che quando c’è da distruggere non bada a spese, tanto poi a pulire c’è la casa d’Israele, ma vabbe’, dettagli. Chirac a questo punto ha un brivido: sul serio il presidente degli Stati Uniti mi ha chiamato per farmi un sermone apocalittico? Sul serio pensa che io, il punto di arrivo del più laico dei sistemi educativi, possa bermi una profezia escogitata quasi tre millenni fa? Oppure, il che è peggio, è in buona fede! cioè queste per lui non sono solo le chiacchiere che si dicono e si ascoltano per raccattare voti nella Bible Belt, ci crede veramente in Gog e Magog e compagnia bella? Devo insomma pensare, con la mia cultura laica e illuminista, che l’unica superpotenza mondiale è governata da un mattoide fanatico? E suo padre, il petroliere, lo sa? La Francia non entrò nella Coalizione dei volenterosi, questo lo sapete tutti. Ma ci resta il dubbio: quello di Bush fu il discorso sincero di un cristiano “born again”, o un semplice modo di dire mal calibrato? Magari Bush voleva soltanto parlare un po’ colorito, attingendo al suo vocabolario di riferimento, che nel suo caso è la Bibbia così come nel caso di Berlusconi è un libro illustrato di barzellette sconce.


Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?

Anche di carte come queste, su google images
ce n'è un fottio. Ognuno è il Gog e Magog di qualcun altro.
Credo che dovremmo. La Bibbia è un libro sacro, che Dio l’abbia dettata o no. Non ha così importanza: se uno o più popoli si scelgono un libro sacro, quello diventa sacro per forza. Se contiene delle profezie, alcune si avvereranno. Non è solo statistica (in fondo, che ci vuole a immaginare un’invasione del nord da qui a un migliaio d’anni): un popolo che crede in una profezia prima o poi la fa avverare. Il problema con la Bibbia è che molte profezie finiscono con enormi fosse comuni, e anche al popolo di Dio viene pronosticato un futuro da becchini intensivi.
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…

Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.

Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.

Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:

«In quel giorno avverrà che darò a Gog, là in Israele un luogo per sepoltura, la valle di Abarim, a est del mare; essa ostruirà il passaggio ai viandanti, perché là sarà sepolto Gog con tutta la sua moltitudine; e quel luogo sarà chiamato la Valle di Hammon-Gog.

La casa d’Israele, per purificare il paese, impiegherà ben sette mesi a seppellirli.

Li seppellirà tutto il popolo del paese, ed essi acquisteranno fama il giorno in cui mi glorificherò», dice il Signore, l’Eterno...
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E un re perplesso scrisse l'Alleluja

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29 dicembre, San Davide Re e Profeta¹

Fu una segreta melodia
che suonò Davide al suo Dio,
– ma a te, lo so, la musica già annoia –
dal Do lei sale al Sol maggiore
e sale ancora (ma in minore)²,
e un re perplesso scrisse l’Alleluja:

Alleluja, Alleluja.

Credevi, ma chiedesti un segno:
era sul tetto a farsi un bagno³,
e mai ci fu una notte meno buia...
Ti legò al tavolo in tinello
ruppe il trono, i tuoi capelli
ti strappò, e di bocca un’alleluja!

Alleluja, Alleluja.

Dici che ho preso un nome invano:
non so cosa ci sia di strano.
(Non so neanche quale nome Lui ha).
Ogni parola ha la sua luce,
che importa a quale dai la voce:
sia santa o sia perduta, è un’alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Feci il mio meglio, non granché:
non ero pronto a entrare in te;
l’amore non è un tema che si studia.
Ma ad ogni sciocco errore mio
renderò sempre lode a Dio,
e sulle labbra avrò solo: alleluja.

Alleluja, Alleluja.

Io queste stanze le rammento4
ho già spazzato il pavimento:
amarsi, sai, non è un inno alla Gioia.
Che importa se dalla ringhiera
sventola la tua bandiera?
Io sento solo un gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja.

E se mi chiedi se c'è un dio
quel che in amore ho appreso io
è a fare fuori il primo che ti incula5.
Perciò non è un pianto stasera
quel che senti, o una preghiera:
è solo un crudo e gelido Alleluja.

Alleluja, Alleluja6.

1. Non so perché il calendario cattolico festeggi re David il 29 dicembre, però è da anni che mi intestardisco a scrivere un testo italiano cantabile per questa canzone dalla storia bizzarra, che grazie a un cartone animato e al titolo apparentemente liturgico è entrata a far parte del repertorio nuziale in Italia: esatto, c'è gente che la vuole sentir cantare al proprio matrimonio. Benché parli di frustrazione affettiva e sessuale? O proprio per questo motivo? E ho sfidato la prosodia e il ridicolo perché voglio informare questo tipo di gente dell'errore, o perché continuava a girarmi in testa e non ne potevo più? A volte tradurre una canzone è un modo per ammazzarla. Non spesso, ma è probabilmente il mio caso.

2. Naturalmente non è obbligatorio suonarla in Do, io una volta a un matrimonio l'ho suonata in Do ma non vuol dire. Se avete una traduzione migliore fatevi avanti, coraggio.

3. Dopodiché mi sono chiesto: ma sul serio Betsabea, una donna sposata, si faceva il bagno nuda sul tetto a rischio di invaghire un sovrano in grado di inviare il marito in missione suicida? E infatti no, è Davide che sta sul tetto del suo palazzo reale, da dove può vedere ciò che gli altri non sospettano. Apparentemente è un malinteso causato dalla struttura del verso "You saw her bathing on the roof", ma a quanto pare questa brutta diceria su Betsabea dura da secoli (su Internet trovi decine di blog che difendono l'onore di Betsabea) (su Internet trovi di tutto).

4. Queste ultime due strofe Cohen le scrisse ma non le incise; si trovano invece nella versione di Jeff Buckley che è poi quella che scatenò l'hallelujah-mania.

5. Lo so, lo so, ma una volta che mi è venuta in mente non sono più riuscito a non sentirla così nella mia testa. Voi senz'altro avete una traduzione migliore di overthrew ya, non è vero? È il colpo di grazia alla canzone moribonda, mettiamola così. Provate a suonarla a un matrimonio, adesso.

6. [Le tre di un mattino di fine dicembre, ti scrivo per dirti che qui è come sempre. Fa freddo in città però non si sta male, qui fuori c'è musica, è ancora Natale. E tu? Stai in campagna? E fai il solitario? E vivi di niente? Spero almeno tu tenga un diario].
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Dalla padella alla Rivelazione

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27 dicembre - San Giovanni Evangelista (10?-100?)

Giovanni è il primo e l'ultimo. Primo degli apostoli di Gesù, dopo aver seguito per qualche tempo l'altro Giovanni, il Battista; ultimo a morire, dopo aver sperimentato il tentato martirio (a Roma provarono a friggerlo nell'olio), l'esilio, il delirio psichedelico dell'Apocalisse, e il declino fisico: negli ultimi suoi anni correva voce che non sarebbe morto prima del Giudizio Universale. Poi effettivamente morì, lasciandoci i due libri più enigmatici del Nuovo Testamento.

Il tempietto di San Giovanni in oleo
(San Giovanni all'olio!), nel luogo dove si
tentò invano di friggere l'evangelista.
La forma del tempietto (forse di Bramante,
sicuramente rimaneggiato da Borromini),
richiama la padella.
Il primo è il quarto Vangelo – qui si potrebbe aprire una parentesi sulla bizzarria di una religione, come il Cristianesimo, basata su un Annuncio (eu anghélionEvangilium) di cui però non ci rimane una sola versione, come sarebbe opportuno quando si manifesta il Divino, ma tante, tutte un po' discordanti tra loro: il che finisce per inoculare un germe di senso critico nel nucleo stesso della cristianità. La filologia, che con tanti difetti è già una scienza, l'hanno dovuta inventare gli stessi cristiani, per capire come fossero andate realmente le cose, e comunque non ci sono riusciti: ogni tentativo di riorganizzare la vita di Gesù in una sola narrazione coerente non deve aver funzionato, visto che già nel secondo secolo la Chiesa si ferma sui quattro Vangeli: quattro come i punti i cardinali, diceva Sant'Ireneo; come i piedi di un tavolino, aggiungo io, che comunque lo sistemi un po' traballa. Dipende anche dalla superficie.

Di solito dondola sul lato Giovanni. Il suo Gesù, pur richiamando chiaramente quello degli altri tre cosiddetti sinottici, dice e fa cose piuttosto diverse. Quasi nessuna parabola, quei raccontini che in Luca Marco Matteo erano il fulcro di una predicazione molto concreta, rivolta anche agli umili. Il Gesù di Giovanni invece si spende in densi discorsi sulla sua natura divina e umana; a cominciare da quell'Inno al Logos che apre il Vangelo e che imbarazza i cristiani saltuari alla Messa di Natale: cos'è questo trattatello filosofico sul Verbo fatto Carne, perché non ci raccontate la storia del bimbo nella mangiatoia tra il bue e l'asino? Con Giovanni, l'aquila che può fissare il Sole, si capisce che non è più tempo di favole ai bambini. Il suo Vangelo è l'ultimo a essere stato composto (ma è il primo di cui ci restano tracce su un papiro) e risente già delle polemiche teologiche della fine del primo secolo: condanna gli adozionisti e ispira gli gnostici, se non ruba loro qualcosa. Poi c'è la questione dei miracoli. Giovanni li chiama segni e li mette in una luce diversa: nei sinottici Gesù guarisce chi crede in lui e risolve i problemi di chi ha già fede. Invece il Gesù di Giovanni cambia l'acqua in vino, risuscita Lazzaro, moltiplica pani e pesci, affinché la gente creda: addirittura dopo morto è disponibile a farsi mettere le dita addosso da Tommaso, l'apostolo scettico.

Un episodio indicativo della diversità di Giovanni è il perdono dell'adultera, il brano famosissimo in cui Gesù dice ai lapidatori “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”: attualmente si trova nel quarto Vangelo, ma gli studiosi sono concordi nel ritenerlo spurio, una paginetta piegata e infilata alla bell'e meglio in un capitolo giovanneo, che come stile assomiglia piuttosto a Luca. Luca però era un vangelo per tutti, compresi coloro che avrebbero potuto equivocare l'episodio e considerarlo un'autorizzazione al meretricio, sia mai! Così a un certo punto l'episodio in Luca potrebbe essere stato censurato. Ma era comunque un meraviglioso brano di vangelo, e allora alla fine qualche manina non necessariamente santa l'ha messo lì, dov'è più difficile che qualche povero di spirito lo noti: tra i discorsi del Gesù di Giovanni.

Forse la differenza principale coi sinottici riguarda la Passione. Giovanni non è il solo evangelista a ricordare dettagli discordanti, ma è l'unico a dedicare ai fatti di Gerusalemme metà del suo libro. All'ultima cena Gesù lava i piedi agli apostoli e tiene un lungo discorso in cui ribadisce tutti i suoi insegnamenti, ma non spezza il pane: si limita a offrirne un pezzo a Giuda, dicendo “Fa' quel che devi fare”, e in quel momento “Satana” entra nell'apostolo.

Di queste e altre differenze facciamo fatica a renderci conto: di solito il Gesù che impariamo a conoscere è un mix di sinottici e Giovanni. A Messa ogni anno si legge un sinottico diverso, e ogni tre anni si ricomincia da capo: Giovanni invece si legge tutti gli anni, un po' ogni tanto, il prezzemolino per darsi un tono. Invece se si prova a leggere il Nuovo Testamento dall'inizio alla fine si resta frastornati: proprio quando più o meno ti sembra di aver raccolto tre deposizioni, con qualche dettaglio discordante ma tutto sommato coerenti, ecco che arriva Giovanni, che sostiene di essere un testimone oculare, e si ricorda tutt'altro. Siccome siamo nati scettici, e credere ci costa fatica (ne riparleremo), la prima conclusione è che Giovanni stia facendo fan fiction: il suo, invece di essere l'ultimo Vangelo, sarebbe il primo romanzo storico con Gesù protagonista: un racconto accurato e verosimile, con alcuni personaggi davvero ben tratteggiati (fantastico Ponzio Pilato, dice cinque cose e sono tutte memorabili: Sei tu il re dei Giudei? Quid est veritas? Costui o Barabba? Ecce Homo! Quel che ho scritto ho scritto). Un romanzo composto su misura per un pubblico del Secondo Secolo, più esigente di quello delle generazioni precedenti che si contentavano di parabole. In alcune pagine, come nella resurrezione di Lazzaro, si ha l'impressione di trovarsi davanti a un Gesù tridimensionale, non più un guru piovuto dal deserto: un uomo, con amici da consolare e perfino amiche – ecco, troppo bello per essere vero. D'altro canto, se Giovanni fosse un romanziere, avrebbe pure dovuto attingere informazioni su Gesù: e allora perché non usa quasi mai i sinottici, neanche per stravolgerli? Anzi è quasi come se non li conoscesse. Ma se non li aveva presente, come faceva a conoscere la storia di Gesù?

Alla fine l'ipotesi originale rimane una delle più sensate: il quarto Vangelo è diverso dagli altri tre perché riflette la predicazione di un testimone oculare – che però è rimasto a lungo isolato dagli altri tre (in esilio a Patmos?), e ha finito per rimuginare un Gesù molto diverso da quello, per dire, di Matteo, che era pure apostolo quanto lui. Capita a tutti i fratelli di farsi, negli anni, un'immagine diversa dello stesso padre: quello dice una cosa e a distanza di anni loro si ricordano chi un dettaglio, chi un discorso, chi il pane, chi il vino, chi nulla. Tutto giustissimo, ma lo Spirito Santo non sarebbe dovuto intervenire a spianare i malintesi? Sì, ma forse ci avrebbe tolto il piacere dell'indagine: io preferisco tenermi un Dio che autorizza versioni discordanti delle sue avventure, un invito quasi esplicito a non fidarsi al 100% di nessuna rivelazione. In ogni caso quello che ci è arrivato sotto forma di Vangelo secondo Giovanni sarebbe la collazione un po' disordinata di due testi più antichi, il Vangelo dei “segni”, i miracoli appunto; e la Passione, più altre pagine vaganti, come l'Inno al Logos: sarebbe l'emanazione della comunità cristiana di Efeso, grande città dell'Asia Minore in cui Giovanni avrebbe predicato prima e dopo la tentata frittura e l'esilio a Patmos. Gli efesini mantennero, come Giovanni, delle curiose differenze: continuarono a festeggiare la Pasqua nella data degli ebrei anche dopo che furono minacciati di scomunica.

A Patmos poi Giovanni avrebbe avuto la famosa rivelazione, che in greco si dice anche Apocalisse, e terrorizzava i nostri sogni di cresimandi: proprio quando il Nuovo Testamento sembra volgere al termine, con una serie di lettere letterine e bigliettini augurali in cui si ribadisce che Gesù è buono e ci ha salvato dai peccati... ecco che arriva l'ultimo libro e ci risprofonda nell'immaginario delirante dei profeti più oscuri: chiunque l'abbia scritta davvero aveva più in mente Ezechiele o Daniele che il buon pastore dei Vangeli. Rimane un libro fondamentale per l'immaginario cristiano moderno: i quattro cavalieri, i sette sigilli, il numero 666 e soprattutto la donna gravida che calpesta un serpente hanno popolato incubi e visioni di santi, beati e semplici lettori. In realtà, a calarla nel suo contesto, l'Apocalisse non è che l'esempio più fortunato di una letteratura profetica che in quei secoli era molto diffusa (c'era l'apocalisse di Pietro, di Paolo, di Maria, eccetera, tutte escluse dal canone). Gran parte delle visioni che il lettore moderno trova orrorifiche sono allegorie che l'antico lettore avrebbe saputo interpretare senza battere ciglio: quando la tal bestia ha “sette occhi” (brrr) significa semplicemente che riesce a vedere molto più in là di noi; aquila angelo toro e leone rappresenterebbero le quattro costellazioni che indicano i punti cardinali nei solstizi e negli equinozi.

Mi piace raffigurarmelo come Carlo Dolci
(XVII sec.): giovane e un po' fumato.
Persino il senso del titolo ci è sfuggito: per noi è ormai sinonimo di fine del mondo, ma oggi i teologi preferiscono considerare il libro come un'esortazione ai cristiani del primo secolo a tener duro nei periodi difficili. D'altro canto in un qualche modo bisogna pur spiegare come sia possibile che il finale della Bibbia riveli un regno di Mille anni che ancora non s'è visto nel 2012. Alcuni continuano a spostare la Rivelazione un po' più in là: i Testimoni di Geova leggono il numero 666 in tutti i codici a barre, mentre nel ciclo di romanzi fanta-cristiani protestanti più letti in America, Left Behind, la Bestia che parla tutte le lingue del mondo fa il segretario generale dell'ONU. I cattolici si sono rassegnati, o forse più semplicemente hanno messo su pancia: non si può predicare che la fine dei tempi è vicina e poi chiedere tutti gli anni l'otto per mille come se niente fosse. Così da racconto della fine dei tempi l'Apocalisse diventa una cronaca allucinata delle vicende della Chiesa e dell'Impero nel secondo secolo: la Bestia che pretende di tatuare tutti i suoi sudditi sarebbe l'imperatore Domiziano, un banale persecutore di cristiani, neanche particolarmente famigerato. C'è persino una corrente di studiosi che escludono che Gesù fosse un predicatore escatologico: parlava di un Regno dei Cieli, sì, ma non di un'imminente fine dei tempi. Eppure i cristiani delle prime generazioni, nella fine del mondo, ci credevano.

Lo si capisce dal fatto che non pensassero agli eredi: l'abitudine a mettere i beni in comune, le esortazioni di Paolo a lasciar perdere la carne – una bella differenza con la prolificità dei cattolici di adesso. È chiaro che vivevano nell'attesa della fine imminente: in questo contesto si riesce anche a capire la leggenda secondo cui Giovanni non sarebbe mai morto. Una voce del genere non può esser nata che quando Giovanni era già vecchio, ma evidentemente ancora arzillo. Sopravvissuto alla frittura miracolosa e all'esilio, probabilmente a un certo punto si ritrovò a essere l'ultimo testimone oculare in vita, e questo gli permise di acconciare le cose a modo suo: nel suo Vangelo accetta il ruolo di preminenza conferito a Pietro, ma fa capire in vari modi di essere stato il favorito del capo: di essere stato uno dei primi due a seguirlo, di aver tenuto la testa nel suo grembo mentre Gesù annunciava il tradimento, di aver avuto da Gesù stesso in punto di morte l'incarico di badare alla Madre (o era la Madre che era incaricata di pensare al ragazzino, o entrambe le cose) di aver visto la tomba vuota insieme a Pietro, e di aver creduto forse prima di lui. Però, con una modestia molto letteraria, rinuncia a firmarsi col suo nome, e per tutto il Vangelo si fa chiamare “il discepolo che Gesù amava”: perifrasi che qualcuno ha voluto leggere maliziosamente (c'è tutta una corrente gnostica secondo cui in realtà il Vangelo lo ha scritto Maria Maddalena). Ecco, alla fine del quarto Vangelo c'è un'appendice commovente, in cui Gesù appare di nuovo agli apostoli in riva al lago di Tiberiade, pesca e cena con loro, e chiede a Pietro se gli vuole bene. Glielo chiede tre volte, un modo molto delicato e giovanneo per rinfacciargli l'episodio del canto del gallo. Pietro ci resta male, e invece Gesù gli dice “Seguimi”: l'episodio serve a ribadire la sua posizione di capofila degli apostoli. Dopo di lui però c'è subito “il discepolo che Gesù amava”: Pietro si volta, forse preoccupato per il destino del ragazzo, e chiede a Gesù che cosa ne sarebbe stato (21,22-23):
Gesù gli rispose: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa? Tu, seguimi». Per questo motivo si sparse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa?».
Io ovviamente da bambino questi versetti li interpretavo nel modo più fantastico, immaginandomi un Giovanni in giro sulla terra ancora oggi, ad aspettare le trombe e i sigilli un po' in ritardo sulla tabella di marcia. Ora che comincio a farmi bianco anch'io, mi sento più attratto da un'altra leggenda, che mostra l'apostolo ormai decrepito a Efeso, un monumento vivente degli anni ruggenti di Gesù, che però non riesce più a camminare, né quasi a parlare. A chiunque viene a visitarlo ripete soltanto: Figlioli, amatevi gli uni gli altri. E a chi gli chiede perché sempre la stessa frase, risponde: Perché è precetto del Signore: basta questo. Tutto il Vangelo di Giovanni in una frase sola: Giovanni che effettivamente non muore, ma invecchiando perde la sua proverbiale eloquenza, a poco a poco, fino a ridursi a un unico versetto. Non è male, c'è chi muore ripetendo affannosamente il Cinque Maggio di Manzoni perché è la cosa che a scuola, la maledetta scuola gentiliana, gli hanno inculcato con più forza. Ecco, potendo scegliere, io preferirei il versetto di Giovanni. Forse dovrei cominciare a ripeterlo ossessivamente prima di addormentarmi, e appena alzato. Un fioretto per l'anno nuovo.

[È un pezzo del 2011].
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Abdia (per piccino che tu sia)

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Sta tutto su un rotolo
(Mosaico della basilica di S. Marco,
Venezia).
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura

Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori (e Daniele? Non conta, è un caso a parte, lo raccontiamo un'altra volta). Isaia – che in realtà è il nom de plume di più profeti – è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti: una pagina scarsa, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine...

Negli ultimi versetti Abdia da profeta si trasforma in notaio della Volontà divina davanti a una mappa catastale: dal giorno del Signore in poi, spiega, gli israeliti del sud “possederanno il monte di Esaù; quelli della pianura possederanno il paese dei Filistei, il territorio di Efraim e quello di Samaria; e Beniamino possederà Galaad” eccetera eccetera, insomma Giacobbe (detto anche Israele) trionferà. È andata così?
Ovviamente no – ci fosse un solo profeta nella Bibbia che ne avesse azzeccata una. È vero che spostandosi verso la Palestina gli Edomiti persero progressivamente le loro postazioni nell’entroterra desertico e montuoso, dove furono soppiantati non da Israele bensì dai Nabatei (quelli che costruirono Petra, nuova meraviglia del mondo). Ma non furono sterminati: rimasero nella zona anche dopo il ritorno degli israeliti dalla deportazione, e cinque secoli dopo Abdia furono costretti a convertirsi all’ebraismo da un sovrano maccabeo. Alcuni fecero carriera – gli Erodi erano di origine edomita, e anche grazie all’alleato romano regnarono su Israele (anche noi italiani del resto abbiamo avuto tre re savoiardi). Quella di Abdia è l’ennesima frustrata fantasia biblica di sterminio, e il fatto che sia piccola piccola la rende in un qualche modo più suggestiva: tanti secoli fa, in un Paese lontano, c’era un popolo piccolo piccolo che le prendeva sempre da tutti gli altri popoli, e si sfogava ispirando a profeti piccoli piccoli degli stermini di massa (ma piccoli piccoli).

Tutto questo ovviamente avveniva secoli fa: oggi quei popoli non esistono più. Qualcuno forse è scomparso, la maggior parte più probabilmente si è mescolata come sempre avviene. Alcuni mantengono ancora nomi e tradizioni di qualche millennio fa: ma nessuno ovviamente pretende di occupare il Negev e il Wadi Araba sulla base di quel che scrisse millenni fa un profeta piccolo piccolo su un piccolo, piccolo cartiglio. Pensate anche solo per un momento a quanto sarebbe assurdo.

[Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta il 19/11/2013]
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Muoia Sansone e... chi sono i Filistei?

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Sansone, martire di Israele


Contro Sansone, eroe biblico dalla forza erculea, i Filistei nemici di Israele non avrebbero avuto nessuna possibilità: finché Dalila non glielo fece trovare addormentato sulle sue ginocchia, e non ne rivelò il segreto: la forza di Sansone era tutta nei capelli. I Filistei lo rasarono, lo incatenarono, lo accecarono e lo portarono nel loro tempio per bullarsi. Poi siccome erano i cattivi di un libro della Bibbia – e quindi sostanzialmente stupidi – si dimenticarono di rasarlo con regolarità e ovviamente il risultato fu che Sansone riacquistò le sue forze e durante una festa, sollevando l’architrave del tempio, ne schiacciò più di quella volta che ne aveva fatti fuori un migliaio a mascellate d’asino. Ma soprattutto in quell’occasione ebbe modo di dire: Muoia Sansone con tutti i Filistei.

Sansone è l’esempio biblico dell’eroe che si auto-immola per creare più danni possibili al nemico. Qualcosa di più violento e radicale del paolino Cupio dissolvi: desidero essere annullato, sì, ma solo per annullare insieme a me un più grande male che mi circonda. Mi è impossibile non pensare a Sansone in questi giorni, quando leggo affermazioni di dirigenti e militanti Pd, tutti comprensibilmente un po’ accecati dallo choc di una sconfitta (che in realtà non era così imprevedibile: però fa male lo stesso). Gli elettori ci vogliono all’opposizione, sento dire. Ancora una volta mi sembra che venga frainteso il senso di un’elezione parlamentare: non è un referendum sul governo. I cittadini eleggono dei rappresentanti alla Camera e al Senato: a questi rappresentanti spetta la decisione di sostenere o no un governo. Esistono coalizioni di governo in tutto il mondo, in particolare in gran parte delle democrazie parlamentari europee, composte anche da partiti che hanno preso percentuali inferiori al 19% del Pd (gli alleati della Dc nel Pentapartito prendevano molto meno e governavano senza che nessuno trovasse la cosa anticostituzionale).


Se cerchi “Sansone” nell’archivio del Post trovi Hedy Lamarr,
ok, non ho obiezioni.
È pur vero che gli elettori non hanno espresso una maggioranza assoluta per il Pd, ma era anche inverosimile che succedesse; tanto che già prima delle elezioni molti si aspettavano una possibile convergenza post-elettorale tra Pd e Forza Italia: una cosa che avrebbe ripugnato molti elettori di entrambi i partiti, ma che si sarebbe comunque fatta senza troppi piagnistei. Gli elettori non l’hanno voluta, ma se è per questo non hanno scelto nemmeno quel governo M5S+Lega che molti rappresentanti del Pd ora sembrano invocare così come Sansone invoca la fine per sé e per i Filistei. Gli elettori di sicuro quando hanno votato a fine inverno non hanno espresso nessun desiderio di tornare a votare a fine primavera: ma se Salvini non vuole governare né col M5S né col Pd, e il Pd non vuole governare né con Salvini né col M5S, che altro possiamo fare?

Possiamo restare calmi. A dispetto di tutti i commenti urlati di questi giorni, uno stallo di questo tipo non ha nulla di eccezionale: è abbastanza normale ogni volta che il voto popolare si coagula intorno a tre o più poli di attrazione invece che due (e no, la soluzione più sensata e democratica non è regalare un premio a chi arriva primo anche per uno scarto minimo: non è Formula 1, è democrazia). In Germania, dopo un risultato elettorale un po’ meno complicato del nostro, ci sono voluti sei mesi per trovare un accordo di governo tra i Cristiano-democratici della Merkel e i socialdemocratici che, almeno all’inizio, sembravano non aver lasciato nessuno spiraglio. In Italia una crisi al buio di sei mesi non si è mai vista: persino nei momenti più spensierati della prima repubblica, quando l’Europa non ci stava addosso e il debito pubblico cominciava a essere abbastanza grande da badare a sé stesso, non è mai capitato di tornare alle urne senza aver tentato nemmeno un governicchio di un anno o due. Questo magari non significa niente. Però i precedenti ci lasciano pensare che nelle prossime settimane molte porte che sono state sbattute in modo teatrale si riapriranno, in modo discreto, anche se il cigolio potrà urtare chi dai politici si aspetta prima di tutto coerenza. Molto dipende anche da come andranno i mercati: il famoso spread potrebbe tornare a farsi sentire e a innervosire elettori ed eletti (forse più dell’instabilità politica italiana dovrebbero preoccuparci le bizze protezioniste del presidente USA: qualsiasi governo avremo tra tre mesi, se scoppia una guerra commerciale saremo comunque nei guai).



Se è veramente troppo presto per capire come andrà a finire, possiamo nel frattempo registrare una notevole mutazione in atto: il PD, il partito che fino a qualche giorno fa era considerato il partito della responsabilità, del Principio di Realtà, dopo il pessimo risultato sta cambiando completamente pelle – sembra aver indossato la pelliccia leonesca di Sansone. Non perché Renzi si sia dimesso (peraltro, anche dimesso, continua a dettare la linea), ma perché nel giro di poche ore si è trasformato nel partito della ripicca, della recriminazione, della fantasia di rivalsa. Gli stessi dirigenti che per mesi ci hanno preparato emotivamente a una scelta dolorosa ma responsabile (pensavano che avrebbe vinto Berlusconi, e che si sarebbero messi d’accordo con lui), quando hanno vinto Salvini e Di Maio hanno improvvisamente mandato all’aria la responsabilità, il bene del Paese e tutto quanto. Governino gli altri, e vediamo di cosa saranno capaci. “Aspetto con ansia ius soli, stepchild adoption per le coppie gay e lesbiche e legge contro l’omotransfobia”, annuncia Ivan Scalfarotto, e il suo sarcasmo lascia un po’ perplessi: non solo immigrati e gay non avranno nulla di ciò (è colpa loro se il Pd ha perso?), ma è abbastanza facile immaginare che un governo Salvini revochi quei pochi, soffertissimi passi avanti che erano stati fatti fin qui: quante speranze ha di resistere il Ddl Cirinnà?

Ogni richiamo alla responsabilità – e capisco che possano suonare stucchevoli, spesso da personaggi che nemmeno hanno votato il Pd – viene respinto al mittente con un tono esasperato che imbarazza lo spettatore: sembra di avere davanti un quarantenne in crisi di mezza età che dopo una delusione professionale o sentimentale si tappa in casa dei suoi: vediamo cosa fa il mondo senza di me. Chi si comporta in questo modo di solito è realmente convinto che il mondo non possa fare senza di lui: uno psicanalista prestato alla cronaca politica potrebbe trovare definizioni molto drastiche (dov’è Recalcati quando serve?) Quel che da lontano può sembrare narcisismo potrebbe però rivelarsi una scelta strategica sensata: chi in questi giorni soffia sulle braci del rancore piddino, sbarrando la strada a qualsiasi possibilità di collaborazione col M5S, cosa immagina che succederà? Qual è il suo piano?

L’altro ieri c’è stata una direzione del Pd e Matteo Renzi, segretario dimissionario, non c’è andato. In compenso ha concesso a Cazzullo, sul Corriere, un’intervista che lascia perplessi, in cui conferma le sue dimissioni e… nel frattempo detta la linea, poi ribadita in direzione dal reggente Martina: no a qualsiasi alleanza, staremo all’opposizione. Ma è un altro il punto dell’intervista dove Renzi svela la sua prospettiva: non quando racconta a Cazzullo che nei prossimi anni ha intenzione di fare il senatore (“non ci crede nessuno”, reagisce Cazzullo, e noi con lui), ma quando afferma, un po’ a sorpresa, che nessuno dei due schieramenti vincitori ha intenzione di tornare subito al voto perché “prenderebbero la metà dei parlamentari che hanno adesso”.

Un’affermazione piuttosto azzardata (continua sul Post)Perché Renzi è convinto di una cosa del genere? Ha dei sondaggi? Che calcoli fa? Prendiamo il M5S: l’opinione unanime degli osservatori è che abbia vinto (al Centro e al Sud, ma non solo) perché è riuscito a individuare un tema concreto e sentito: il reddito di cittadinanza. Anche ieri, mentre Salvini e il Pd finivano sui giornali per lo più per le alleanze che rifiutavano, il blog del M5S pubblicava un intervento molto articolato, e apparentemente ragionevole, del ministro ombra grillino dell’economia. Come a dire: gli altri si preoccupano delle poltrone (anche solo per rifiutarle), noi dei veri problemi. È un messaggio che sta passando. Se tra qualche mese tornassimo alle elezioni, perché chi ha sostenuto il M5S in marzo dovrebbe bocciarlo in giugno o settembre? Il reddito di cittadinanza ormai era a portata di mano, sul Blog delle Stelle sembrava di toccarlo: non è certo colpa di Di Maio e compagnia se gli avversari politici hanno preferito tornare alle urne.


Anche gli elettori del centrodestra, perché dovrebbero improvvisamente abbandonare Salvini, prima che abbia il tempo di realizzare le sue mirabolanti riforme economiche, flat Tax e (forse) No euro? Viceversa, è più probabile che su Salvini in seconda battuta convergano anche i voti di chi l’ultima volta ha puntato su un Berlusconi ormai spompo. Eppure Renzi è candidamente persuaso che basterebbe tornare alle urne tra breve per dimezzare il consenso sia di Salvini sia del M5S. Ma se in maggio non votassero né per l’uno né per l’altro, per chi dovrebbero votare questi milioni di italiani già disillusi? Evidentemente Renzi, e molti dei suoi, pensano che tutti questi voti debbano finire al Pd.

Ma perché?

Temo che il ragionamento di Renzi sia questo: se tra un mese o due o tre non ci sarà un governo, l’Italia sarà nel caos. Quando gli italiani saranno nel caos, capiranno che errore hanno commesso a non votare sì alle mie riforme costituzionali. Finalmente riconosceranno che avevo ragione un anno fa, e verranno a cercarmi (nella mia cameretta), mi diranno: Renzi torna! E io magari all’inizio dirò no, perché non mi meritano, ma poi… Ecco. Il “tanto peggio tanto meglio” che tante volte ho riconosciuto dietro le riflessioni di chi a sinistra votava per i partiti anti-sistema da Rifondazione in poi, oggi lo ritrovo nelle parole del segretario dimissionario del Pd. Crolli pure tutto, così i Filistei imparano a incatenarci. I Filistei magari imparano, ma Sansone muore. Renzi forse non ci ha riflettuto: è comprensibile che i rovesci di fortuna degli ultimi anni lo abbiano accecato. Ma il Pd? Può davvero condividere i sogni di rivalsa di chi ancora non si dà pace per la sconfitta al referendum del 2016? Tra un po’ sarà il 2019 e non sarebbe male arrivarci con un governo stabile.

Nota bene: non c’è bisogno di cullarsi in fantasie di vendetta per rifiutare una coalizione con il M5S (o con Salvini); ci sono motivi molto più sensati che suggeriscono, per ora, di non compromettersi. La fedeltà ai propri principi, la coerenza, la stessa opportunità. Però le cose cambiano, a volte anche molto rapidamente: i mercati potrebbero innervosirsi, gli elettori potrebbero mandare dei segnali, Trump potrebbe fare davvero qualsiasi cosa, eccetera. Non sta certo a me spiegare al Pd cosa deve fare in un momento tanto difficile (tra l’altro non l’ho nemmeno votato). Il mio non è nemmeno un appello alla responsabilità, ma a quell’istinto che un partito dovrebbe condividere con associazioni e forme di vita assai più basilari: l’autoconservazione. Se il Pd pensa di poter stare per qualche mese o anno tranquillo sulla riva del fiume, mentre qualcun altro manda il Paese alla malora, forse il Pd sta sottovalutando la portata del fiume, e la situazione critica di quelle dighe, a monte, che sta ancora amministrando. Poi magari i Filistei vengono travolti, il che sarebbe fonte di gran soddisfazione per i lettori, se fossimo su una pagina della Bibbia; ma siamo nella realtà, quel libro più lungo e complesso in cui capita a tutti, prima o poi, di essere i Filistei di qualcun altro.
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Gesù sta con Equitalia

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21 settembre - San Matteo Evangelista

Il giorno che tornerà Gesù, non lo troverai al Vaticano. Darà buca anche all'Onu, perché si sa, è Gesù. Se ti dico che hai più possibilità di trovarlo al bordello, tu sorridi perché in fondo ormai è una cosa da maudit il bordello: evoca più De Andrè che le piattole, il bordello è ok. Ma senti questa: lo sai dove sarà davvero più facile trovare Gesù? Dietro uno sportello di Equitalia.

Ecco, adesso sei scandalizzato.

Questo è l'effetto che faceva Gesù.

Un-due-tre, a invitarmi a pranzo tocca proprio a... te.


Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Vangelo secondo Matteo, 9,9-12).

Matteo è quasi tutto qui, di lui non sappiamo molto altro. Gli altri due vangeli sinottici non lo chiamano neanche Matteo (in greco: dono di Dio), ma Levi, nome così tipicamente ebraico. Il vangelo di Matteo è anonimo, ma è l'unico in cui Levi ha un nome nuovo, greco. Non sarebbe stato l'unico seguace ebreo di Gesù a rinnegare il nome: Saul divenne Paolo, Simone si faceva chiamare Pietro. Il caso di Matteo sarebbe particolare perché di tutti gli evangelisti è sicuramente quello che conosce meglio la Torah e i profeti - li cita continuamente. Marco se ne disinteressa, Luca è affascinato ma è chiaro che è un outsider, un autodidatta: Giovanni qualche libro l'ha letto bene ma è più un visionario che un biblista. Matteo è un ebreo (benché il suo vangelo ci sia arrivato in un buon greco) e ci tiene a farlo sapere; e ce l'ha con gli ebrei, e anche questo ci tiene a farlo sapere. Insomma il self-deprecating Jew esisteva già nel primo secolo.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci  (Matteo, 23,13).

Se la polemica coi farisei è una costante dei vangeli, è in quello di Matteo che questi diventano i personaggi che conosciamo, i benpensanti per antonomasia, sempre lesti a ficcare il naso e giudicare. Si capisce che tra loro e Matteo-Levi c'è ruggine; alla loro tronfia sicurezza di essere nel giusto, Matteo contrappone l'angoscia del peccatore che sa di essere l'ultimo nel Regno dei Cieli. “In verità vi dico, le prostitute e i pubblicani vi precedono nel Regno!” Le prostitute si sa che mestiere facessero; i pubblicani raccoglievano i soldi delle tasse dei Romani. Siccome i soldi i Romani li volevano in anticipo, fare il pubblicano comportava un certo rischio d'impresa: si investiva un capitale e poi si aveva carta relativamente bianca per spremere i creditori. I pubblicani insomma erano peggio dei ladri, che almeno rubano per sé e non per l'oppressore. Che Gesù potesse far comunella con loro era motivo di scandalo. Gli stessi evangelisti restano perplessi: Luca, soprattutto.

In un ipotetico parlamento degli evangelisti, se il monarchico Marco siede all'estrema destra, e Matteo al centro moderato, Luca come abbiamo visto è l'evangelista liberal, socialdemocratico: non è ebreo ma non mostra ostilità nei loro confronti, nutre qualche simpatia per i poveri e le loro rivendicazioni, e per le donne: appena può cerca di metterle in primo piano. Luca questa passione di Gesù per gli esattori non la capisce molto: la riferisce, perché rispetta le sue fonti, però cerca di spiegarsela: possibile che Gesù stia con Equitalia? C'è qualcosa che non torna, come si può stare coi poveri e con chi li vessa? Forse è andata così: Gesù stava con gli esattori buoni, quelli che fanno il loro mestiere in modo compassionevole. Ma esistono gli esattori buoni? Al limite si possono inventare. Luca propone il personaggio di Zaccheo, il pubblicano simpatico che quando passa Gesù si arrampica su un albero per riuscire a vederlo tra la folla; ma tra tutti Gesù ha scelto di farsi invitare a pranzo proprio da lui.

 «Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua» (Luca, 19,5)

Zaccheo è l'esattore modello: metà di quel che raccoglie lo dà ai poveri (il che significa che raccoglie il 200% delle tasse che i Romani pretendevano, ma questo è un dettaglio che a Luca sfugge. Matteo una cosa del genere però non l'avrebbe scritta, Matteo conosce i tranelli del denaro). Zaccheo, quando scopre di aver truffato qualcuno, gli rende il quadruplo della somma: Zaccheo è insomma quel tipo di pubblicano che il Gesù di Luca può frequentare volentieri. I farisei storcono il naso, ma Luca si è messo la coscienza a posto.

Ecco, questo tipo di riconciliazione con la propria coscienza, Matteo non la conosce. Prima ancora di auto-disprezzarsi come ebreo, Matteo ha iniziato ad auto-disprezzarsi come pubblicano. Gesù un giorno è passato e gli ha detto di seguirlo. Da nessuna parte si legge se dopo la chiamata Matteo continuò a fare il suo mestiere. La parabola del giovane ricco suggerisce di no ("Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi"). Il Gesù di Luca sceglie Zaccheo perché è un pubblicano buono; il Gesù di Matteo sceglie Matteo perché è un pubblicano che si vergogna. Ciò che rende i farisei insopportabili a Matteo non è tanto l'ipocrisia, quanto la serenità di chi sa di essere nel giusto. Matteo non era sereno, Matteo a un certo punto ha scelto Gesù e ha rinunciato a qualcos'altro: forse alla carriera o alla sicurezza economica. I pubblicani che compaiono nel suo vangelo non sono particolarmente compassionevoli. Compaiono spesso in coppia con l'altra categoria di paria, le prostitute. Matteo non ammette nemmeno di aver organizzato un grande banchetto per Gesù: è Luca a raccontarcelo. Per Matteo (e Marco) era un pranzo qualsiasi.

Di lui sopravvive solo questa vergogna: che altro sappiamo? Dopo la pentecoste sparisce dai radar al punto che non è nemmeno stato dichiarato martire; Iacopo da Varazze lo segnala in Etiopia mentre cerca di impedire il matrimonio di un Negus con una vergine, facendosi accoltellare: è un modo di ammettere che non c'erano stati avvistamenti più vicini o verosimili. A un certo punto, ma siamo già nel 120, Papia vescovo di Ierapoli lascia scritto che l'apostolo Matteo avrebbe raccolto una raccolta di detti di Gesù in ebraico: un vangelo? Potrebbe anche essere la famosa fonte Q, o un altro cartiglio andato perso. Nel frattempo però a Roma sta prendendo piede questo Vangelo anonimo, più elegante del rozzo Marco e meno egualitario di quello di Luca (a questa altezza il vangelo di Giovanni ancora non si è visto in giro, e comunque è una cosa completamente diversa, ai limiti della fan fiction).

Il fatto che a Roma vada per la maggiore un testo evidentemente scritto da un ebreo, ricco di spunti anti-ebraici, non è così bizzarro: nell'Urbe c'era una cospicua comunità ebraica, che dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 era diventata un punto di riferimento ancora più importante. Ma a Roma c'erano anche diversi cristiani; forse fino a un certo punto la presenza dei primi aveva favorito il consolidamento dei secondi, ma già quando Luca scrive gli Atti l'ostilità tra i due gruppi è manifesta. In questa situazione non sorprende il successo di un vangelo che, oltre a dipingere i farisei nel modo più insopportabile possibile, si impossessa delle antiche scritture ebraiche e le rilegge come profezie riguardanti il Cristo. A un orecchio contemporaneo il vangelo di Matteo sembra un prodotto più maturo di quello di Marco e Luca: il primo è un resoconto grezzo, scritto in un greco approssimativo: descrive le vicende di un guaritore bizzoso che si arrabbia anche coi suoi discepoli. Luca scrive una cronaca più complessa, addolcisce di molto il carattere del protagonista e gli affibbia qualche istanza sociale. Matteo (che probabilmente non è il Matteo vero) è su un altro piano. Luca si sentiva cronista, teneva molto all'ordine cronologico; Matteo è più scrittore: ha preoccupazioni stilistiche e riorganizza in modo tematico il materiale degli altri due sinottici per non annoiare il lettore. Quando scrive, ha già in mente una comunità organizzata: lo spontaneismo di Marco e Luca è finito, e soprattutto le donne sono tornate al loro posto. Maria di Nazareth, che per Luca era il vero inizio del vangelo, in Matteo non solo non ha diritto di parola, ma non riceve nemmeno la visita dell'angelo, che invece appare in sogno a suo marito.

"Aspetta, me n'è venuta in mente un'altra:
il Regno dei Cieli è simile a..."

Il fatto che fosse più adatto alla lettura in pubblico, e che presentasse una versione più moderata di Gesù e dei fatti che lo riguardavano, ha fatto sì che la Chiesa per molto tempo considerasse quello di Matteo il primo dei vangeli – c'era anche la necessità di datarlo prima del disastro del 70, in modo che le cupe parole di Gesù sul destino del Tempio di Gerusalemme si potessero considerare una profezia. L'attribuzione all'apostolo Matteo-Levi serviva appunto a rafforzare questa impressione di primizia: Marco e Luca erano testimoni indiretti, solo Matteo era stato tra gli apostoli. L'ipotesi era basata su indizi labili, per quanto suggestivi: il fatto che solo in questo vangelo Levi si chiami Matteo, e poi la questione del denaro. Chi ha scritto il testo di Matteo aveva una dimestichezza col denaro che gli altri evangelisti non hanno. Magari Matteo ha davvero rinnegato la sua professione di pubblicano e rinunciato a tutti i suoi beni, ma non ha mai smesso di considerare il denaro un'efficace metafora di tutte le cose (continua sul Post)
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Possiamo convivere con gente così?

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(Forse li avete già visti: alcuni youtuber olandesi vanno in giro a citare versetti del Corano ai passanti; dopo averli scandalizzati, scoprono la copertina e rivelano che si tratta di una Bibbia. È divertente, ma non così originale.

Quando 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - vi giuro, 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - io scrissi questa recensione per Macchianera, che al tempo era uno dei blog più letti in Italia. Ci cascarono in parecchi - incredibilmente, un sacco di commenti sono ancora on line. È passato tanto tempo e siamo ancora convinti di parlare di qualcosa di attuale, di interessante).

Possiamo convivere con chi crede nel Corano? No

24 novembre 2004.

Ogni giorno è buono per imparare qualcosa, e io temo di avere imparato qualcosa da Vittorio Feltri. Sì, proprio lui, l'esegeta del Corano.
L'avevo preso sottogamba, sapete. Credevo che valesse la pena di comprarlo per dedicargli uno sfottò, una di quelle cose che piace a noi frustrati di sinistra. Ebbene.
La tesi di Feltri è scontata: il Corano è inconciliabile con l'Occidente. Si tratta di un pregiudizio? Magari. No, Feltri si è documentato, ha studiato il Corano, ed è giunto a conclusioni che sono inoppugnabili. Cioè, io ho anche provato, a oppugnarle. Ma quando uno ha ragione ha ragione, e stavolta devo dare ragione a Vittorio Feltri. Il Corano è inconciliabile coi principi della nostra Costituzione. Chi crede in quel libro non dovrebbe rimanere a lungo sul suolo italiano. Mi dispiace, ma è così. Giudicate voi:

Le donne? Per Maometto sono inferiori
di Vittorio Feltri

Il Corano che cosa pensa delle donne? C'è un versetto molto chiaro. Sura II [detto della "vacca"], 228: «Ma gli uomini sono un gradino più in alto». Usa proprio questa formula il Libro Sacro: i maschi sono superiori. Non è una frase suscettibile di interpretazioni.
[. . .]
Questa inferiorità è strutturale, ed essa è la chiave di volta su cui è costruita la società. Insomma, la donna non è vittima di qualche incidente di percorso, per cui basta un ritocco qua e là delle leggi o della mentalità. No, è minorata per volontà divina, ed anzi la vita comune si regge su questo principio. Il resto discende come conseguenza: nessun ruolo direttivo, nessuna possibilità di organizzare per sé un minimo di vita individuale. La schiavitù è sancita e benedetta. Non sono teorie religiose, ma sono diventate immediatamente leggi politiche dove l'Islam è al potere, e pratiche familiari dove sono (per ora) in minoranza. Non illudiamoci: gli ayatollah imporranno a tutti questa visione del mondo appena potranno, perché per essi non c'è distinzione tra sfera spirituale e politica, tra morale cranica e legge dello Stato. Si pone un'altra questione seria. Le comunità musulmane presenti in tra noi possono trattare così le donne in barba alle nostre norme e consuetudini?


La risposta sarebbe scontata (no), ma lo sapete, io sono il solito malfidato, mica potevo fidarmi del primo versetto che mi citavano.
Così sono andato a prendermi la mia copia del Corano, ché sapevo bene di averne una da qualche parte su una mensola alta (il Libro va sempre posato in alto). E ho iniziato a sfogliare. Ero convinto che avrei trovato subito qualche versetto che ribaltava la faccenda. Beh.
Mi sono dovuto ricredere. Più andavo avanti, più era peggio. Ragazzi, c'è poco da essere politically correct. Quel libro è veramente misogino. Tutte le volte che compare la parola "donna", da qualche parte lì intorno c'è anche la parola "sottomessa". Non ci credete?

Si parte dalla Sura "della Genesi" (3,16): è Allah che dice alla prima donna:
"Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà".


Tanto per mettere subito le cose in chiaro. Ma cos'ha fatto, la donna, di male? Lo spiega a chiare parole la Sura "del Siracide" (25,24):

Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo.


Per cui il minimo che possa fare è restare sottomessa. E infatti: Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza (Siracide 25,26)

E poi ci lamentiamo se le loro donne rimangono segregate in casa? Finché continueranno a credere in un Libro che ragiona così…

Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo
è una donna che mantiene il proprio uomo
(Siracide 25,21)

…non c'è da aspettarsi che escano a cercarsi un lavoro. Né che partecipino a qualsiasi tipo di attività sociale. Perfino nella preghiera sono emarginate:

Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. (Sura "dei Corinti I", 14,34-35)

Nella stessa Sura si motiva anche l'uso femminile del velo (e del burqa, eventualmente):

L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine […] (Sura "dei Corinti I", 3,7-16)

Notate la grazia della chiusa finale: se qualcuno vuole contestare… noi non abbiamo questa consuetudine. Tante grazie. Noi sì, però. Come la mettiamo?
E ancora:

Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie […] (Sura "degli Efesini" 5,22-23;

Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. (Sura "di Pietro I", 3,1)

Per finire con questa botta:

"Di più! Dobbiamo cagarci addosso di più, perdio!"
La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia. (Sura "di Timoteo I", 2,11-15)

Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo… e poi pretendiamo che abbiano rispetto per le nostre insegnanti? No, mi dispiace, io credo di essere una persona di aperte vedute e tollerante, ma ci sono dei limiti.

E che nessuno venga a dirmi che questi versetti vanno interpretati, inseriti nel loro contesto, mediati… interpretare cosa? Mediare cosa? È tutto chiaro qui, tutto nero su bianco: dalla donna ha avuto inizio il peccato, la donna stia sottomessa all'uomo, punto. E questo credo che non dovremmo tollerarlo. Mi dispiace, ma su questo sono più feltriano di Feltri: chi crede in questo Libro non ha il diritto di rimanere nel nostro Paese, dove vige una Costituzione che prevede per uomo e donna pari diritti.
Perciò, cari amici musulmani, aria.

[Continua domani]
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Lazzaro che morì due volte

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(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
29 luglio - San Lazzaro, amico di Gesù

Tutti dobbiamo morire, e secondo la dottrina cristiana Gesù a tempo debito ci resusciterà. Tranne Lazzaro: lui è stato risorto prima. Così presto che è probabilmente già rimorto. Ma perché con lui Gesù si è comportato così? A prima vista sembrerebbe una debolezza: Lazzaro ha un trattamento di favore perché... è suo amico.

Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell'ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all'estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.

Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po' prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta ("Sono passati tre giorni, puzzerà"). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l'ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.

Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Ovvero, no, ci sarebbe l'episodio della figlia di Giairo, "capo di una sinagoga", riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell'amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.
...e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!
A questo punto ci accorgiamo che la decisione di risorgere Lazzaro non è una semplice debolezza, ma è parte di un piano. I tre giorni di attesa sono fondamentali, non solo perché preannunciano la morte di Gesù, ma perché legalmente sono necessari affinché la resurrezione non possa essere derubricata a risveglio da un coma (quel che era successo nel caso della figlia di Giairo). Anche il dettaglio della puzza non è un semplice tocco di realismo: il testo vuole eliminare qualsiasi dubbio sul fatto che quella di Lazzaro sia stata una resurrezione, non una guarigione. Gesù ha scelto il suo amico per farne il cardine di tutto il Vangelo.

(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto "vangelo dei segni", e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i "segni" necessari affinché credano che lui è il Messia - e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono... i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l'ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l'inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L'idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:
"Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione".
Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l'attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani - che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. "Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero", dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero, e infatti probabilmente Caifa non la pronunciò. Tutto l'episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po' di sentimenti qua e là). (Continua sul Post...)
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L'inventore d'Israele?

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Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
13 luglio - Sant'Esdra (V secolo a.C.), sacerdote, rovinafamiglie, forse inventore del giudaismo

I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro firma l'editto, probabilmente senza pensarci più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di firmare tante altre carte che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica (continua sul Post...)
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Il primo pogrom

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La più famosa alla fine resta l'Ester di Benouville.
1 luglio - Santa Ester (V secolo aC), da reginetta a salvatrice

Ester è la protagonista di una delle storie più divertenti della Bibbia - anche se non ha avuto presso i gentili lo stesso successo di Mosè o David. La sua vicenda è molto più popolare presso gli ebrei, che sin dall'antichità rileggono il breve libro di Ester una volta all'anno in occasione dei festeggiamenti primaverili del Purim. Invece i cattolici la celebrano il primo luglio, senza un apparente motivo. Alcuni la confondono con un'altra eroina assai più discutibile, Giuditta: la ragazza di buona famiglia che si concia da prostituta per far abboccare un generale antisemita e tagliargli la testa, offrendo un buon pretesto a generazioni di pittori e pittrici per ritrarre indumenti sexy e schizzi di sangue. Giuditta però non è stata ammessa né nella Bibbia ebraica, né nel calendario cristiano. Ester, al contrario, per salvare il suo popolo non commette nulla di riprovevole: anche lei si tira da urlo, ma soltanto per convincere il suo legittimo convivente a non ammazzarla, e magari a sospendere un pogrom.

Siamo a Susa, a corte del potente re Assuero. Chi sia questo potente re che governa "dall'India all'Etiopia" non è ben chiaro, anche se tradizionalmente viene identificato con Serse I, sì, il cattivo delle Termopili. Erodoto ha scritto parecchio su Serse, ma senza menzionare nessuna Ester. A un certo punto però ricorda l'episodio in cui promette alla moglie di concederle qualsiasi cosa ella chiederà, ed ella ovviamente chiede che Serse tagli la testa a una sua amante. È un esempio molto antico di "don contraignant", il tropo narrativo in cui un re firma una specie di promessa in bianco che gli costa sempre molto caro.

Lo stesso tropo torna nel libro di Ester, che se fosse davvero ambientato ai tempi di Serse descriverebbe fatti successi nel V secolo a.C. Più probabilmente è stato composto tre secoli più tardi, da un bravo narratore senza molte preoccupazioni di verosimiglianza storica, all'epoca dei Maccabei - una dinastia di sacerdoti che lottava per conservare l'autonomia e l'identità del popolo ebraico, contro l'imperialismo assimilatore dei tiranni seleucidi. Per sopravvivere arrivarono al punto di allearsi coi Romani, che nel primo secolo a.C. finirono per sostituire i tiranni precedenti, e il resto della storia più o meno la sapete.

Ma torniamo a Serse, anzi, Assuero. Siamo a una festa in grande stile a Susa, più o meno al settimo giorno di festeggiamenti, quando al re dei re, un po' brillo, vien voglia di esibire la regina Vasti davanti ai suoi invitati. Mandata a chiamare dagli eunuchi, Vasti si nega, senza neanche accampare la scusa di un mal di testa. Per il re dei re non è solo una figuraccia insopportabile: come gli spiegano i consiglieri, una cosa del genere rischia di devastare l'istituto famigliare in tutto l'impero: appena la notizia si saprà in giro, dall'India all'Etiopia, c'è il rischio concreto che le mogli smettano di correre in salotto quando il marito le chiama, bisogna fare qualcosa. Vasti viene immediatamente detronizzata e, secondo una tradizione successiva, messa a morte; per rimpiazzarla viene lanciato un concorso che porta a Susa le più avvenenti (e obbedienti) fanciulle vergini di tutto l'impero. A vincere è la giovane Hadassa, un'orfanella ebrea che Mardocheo, funzionario del re, aveva allevato come una figlia, e che forse per nascondere le sue origini si fa chiamare "Ester", stella del mattino.

Il fatto che il nome richiami Ishitar, la dea babilonese della fertilità, e abbia per cugino un Mardocheo (Marduk è il re degli dei babilonesi, cugino di Ishitar) lascia sospettare che il canovaccio sia un antico mito mesopotamico, ripreso dagli ebrei quasi in chiave di farsa. il Mardocheo del libro ha probabilmente dovuto assumere il nome pagano per poter lavorare a corte. Proprio qui gli capita di sventare un complotto di eunuchi che vogliono attentare alla vita del sovrano. Mardocheo avvisa Ester, Ester avvisa Assuero, Assuero fa arrestare e interrogare i due eunuchi e premia Mardocheo con una promozione. La vita di un re dei re è però molto intensa, e in poco tempo Assuero finisce per dimenticarsi sia dello zelante funzionario che dell'avvenente reginetta. Nel frattempo splende a corte la stella di Aman (BOOOOOOOOOOOOOH! SCRASHSBDANGANGDANG), un principe agaghita - non che nessuno sappia chi siano gli agaghiti e donde vengano. Infatti la versione greca, un po' più tarda, lo nazionalizza macedone. Questo Aman (BOOOOOOOOOOOH!), investito di un'autorità inferiore solo a quella di Assuero, si monta immediatamente la testa e impone che tutti si inginocchino davanti a lui. L'unico a non inginocchiarsi davanti ad Aman (BOOOOOOOOOOOOH!) è proprio Mardocheo. Quando Aman (BOOH!) se ne rende conto, decide di fargliela pagare, sterminando completamente il suo popolo. Per decidere il giorno del genocidio si affida ai purim, pietruzze adoperate per estrarre i numeri a sorte. Esce il tredici del dodicesimo mese (Agar, tra febbraio e marzo). Quindi tutto contento si reca dal suo re e gli propone, in cambio di un indennizzo di diecimila talenti d'argento di sterminare un popolo disseminato nel suo regno "che non osserva le leggi del re". Il re gli passa tranquillamente l'anello col sigillo reale, che Aman (BOH!) usa per controfirmare uno dei primi discorsi antisemiti in nostro possesso - se non il primo in assoluto.

...Amàn, distinto presso di noi per prudenza, segnalato per inalterata devozione e sicura fedeltà ed elevato alla seconda dignità del regno, ci ha avvertiti che in mezzo a tutte le stirpi che vi sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile, diverso nelle sue leggi da ogni altra nazione, che trascura sempre i decreti del re, così da impedire l'assetto dell'impero da noi irreprensibilmente diretto.
Considerando dunque che questa nazione è l'unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano tenore di leggi, e che, malintenzionata contro i nostri interessi, compie le peggiori malvagità e riesce di ostacolo alla stabilità del regno, abbiamo ordinato che le persone a voi segnalate nei rapporti scritti da Amàn, incaricato dei nostri interessi e per noi un secondo padre, tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz'alcuna pietà né perdono, il quattordici del decimosecondo mese, cioè Adàr; perché questi nostri oppositori di ieri e di oggi, precipitando violentemente negli inferi in un sol giorno, ci assicurino per l'avvenire un governo completamente stabile e indisturbato».
(Tintoretto) "Dei sali, presto".
È la versione greca; l'originale ebraico è molto più stringato. Ma insomma la sostanza è già familiare: vivono tra noi, ma non sono come noi. Vanno eliminati. È un rotolo di ventuno o ventidue secoli fa, pensate. E già allora la situazione, per quanto terribile, ispirava i toni di una farsa. Perché il libro di Ester, secondo alcuni lettori contemporanei, è una spietatissima commedia.

Quando Mardocheo viene a sapere dell'Editto di sterminio, si lacera le vesti e si cosparge il capo di cenere; coperto di un umile sacco viene a chiedere udienza al re, ma ovviamente viene bloccato prima di entrare. Ester lo vede dalla finestra e gli fa mandare dei vestiti; Mardocheo rifiuta di indossarli e le spiega (tramite un eunuco) cosa sta per succedere. Ricordati dei giorni della tua povertà, di chi ti ha nutrito! Intercedi per noi presso il tuo re, che aspetti? Il guaio è che Ester non è più la favorita del re. Succede a molte reginette: adorabili, ma stancano subito, non ti entrano nelle vene. Pensa che è da trenta giorni che il re non mi fa chiamare. Credi che io possa andare da lui così, come se niente fosse? Lo sai cosa succede a chi cerca di incontrarlo senza essere stato convocato? Gli tagliano la testa all'istante.

Mardocheo reagisce con una certa durezza: credi di salvarti perché sei nella reggia, ma sei ancora un'ebrea. Morirai comunque se non fai qualcosa. Chissà, forse c'è un motivo per cui ti è capitato si essere lì dove sei.

È solo a quel punto che Ester cessa di essere la reginetta timida e noiosa. Manda a dire allo zio di radunare tutti gli ebrei di Susa: ché preghino e digiunino tre giorni. Anche lei, nei suoi appartamenti, farà la stessa cosa. Nella versione greca seguono due lunghe preghiere di Mardocheo ed Ester, aggiunte probabilmente da un ebreo di Alessandria, forse un po' impensierito dallo spirito laico del libro - uno dei due della Bibbia in cui non viene mai nominato Dio (l'altro è il Cantico dei Cantici). E tuttavia anche le due poesie ottengono un effetto narrativo, perché dopo tante accorate invocazioni, quando al terzo giorno Ester depone i vestiti di sacco e si leva la cenere dal capo e si veste da principessa, è un po' come in quel film in cui la Mangano da suora si trasforma improvvisamente in ballerina: ecco, adesso sì che non è più una reginetta slavata, adesso sì che è sexy. La vediamo procedere nel corridoio, rosea nel volto, ma col cuore stretto dalla paura: sta andando al supplizio. Quando il re la vedrà, le guardie verranno a coprirle il capo e l'ammazzeranno. La sua unica speranza è che il re stesso stenda lo scettro verso di lei. Il re è seduto sul trono, "tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto terribile" (continua sul Post...)
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Noè senz'animali

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Noah (Darren Aronofsky, 2014)

Noè è uno dei personaggi più patetici di Bible Fightse riesci a vincere con lui sei veramente bravo. 
Il suo colpo segreto è un fischio con cui chiama tutti gli animali del mondo e ti calpestano.
Settantacinquemila anni fa, più o meno, potrebbe essere successo qualcosa di molto brutto. La specie umana, già in circolazione da centomila anni, con la sua spiccata propensione a dilagare, si sarebbe praticamente estinta. Si sarebbero salvati pochissimi esemplari, qualche migliaio appena: tra loro vi sarebbe anche l'Adamo Y-cromosomale, ovvero il tizio di cui siamo tutti pro-pro-pro-nipoti. Da non confondere con l'Adamo della Bibbia. Che cosa può essere successo di così terribile? In realtà, conoscendo un po' madre natura e la sua fantasia in fatto di catastrofi, abbiamo soltanto l'imbarazzo della scelta: meteoriti, glaciazioni, eruzioni vulcaniche - l'ipotesi più famosa combina le ultime due: durante un periodo già mediamente freddo, un enorme vulcano in Indonesia avrebbe disperso nell'atmosfera miliardi di tonnellate di diossido di zolfo, abbassando la temperatura di 15°C per qualche anno. Noi discendiamo dai sopravvissuti e chissà, forse ne siamo consapevoli. In qualche oscura cella del nostro bagaglio genetico potrebbe resistere l'informazione ancestrale: ce l'abbiamo fatta. Con qualche deduzione elementare che ne consegue: Dio ci vuole bene. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno; ma forse la maggior parte della nostra specie è più incline a pensare: ehi, Dio ci voleva tutti morti e ce l'ha quasi fatta. Dunque questo Dio ci ama o no? Siamo i prescelti o una semplice eccezione nel Suo piano? Cosa avevano fatto di male gli umani per meritare un castigo del genere? Potrebbe ricapitare?

Preferisco.

Noah è un vecchio sogno nel cassetto di Darren Aronofsky, un regista - per quel poco che mi riguarda - ancora difficile da decifrare. Senz'altro dove passa lascia il segno, ed è passato già in molti generi diversi. Però i segni fin qui non si lasciano comporre. A meno di non voler scrivere che Noè, come il Cigno Nero e il Wrestler, è un eroe completamente succube del suo destino - ok, l'ho scritto. C'è un momento molto intenso, in un film che sfida continuamente il ridicolo (e non sempre vince), in cui cade una specie di maschera dal volto patriarcale di Russel Crowe, e finalmente ne intravediamo l'essenza di automa: il Creatore non l'ha scelto perché è buono, ma perché è determinato. Farà qualsiasi cosa il Creatore gli chiederà. Noè, l'eroe più popolare della Genesi, l'unico patriarca che tutti i bambini conoscono, e ha pure un numero con Paperino in Fantasia 2000; Noè, ci mostra Aronofsky, è complice di un immenso genocidio. Poteva riempire l'arca di esseri umani. Poteva prendersene almeno cinque o sei in più, giusto per una questione di pool genetico. Cosa può dire la sua progenie in sua discolpa? Che eseguiva gli ordini? (Continua su +eventi!)


Ciao, sono Eva Mitocondriale, chi l’avrebbe detto mai.

Noah (titolo non tradotto, immagino per ridurre al minimo le possibilità di una polemica con le autorità ecclesiastiche) ha un problema che credo si possa porre nei termini di un quattordicenne all’uscita dalla sala: dove sono gli animali? Ce ne sono pochi, tutto sommato. Tragicamente pochi per un film hollywoodiano dal budget non risibile, che racconta la storia dell’arca di Noè! E tuttavia avrebbe potuto essere un gran film. Alcuni spunti buoni c’erano: l’idea di combinare creazionismo e big bang in una sola, rapidissima, storia dell’universo in soggettiva; l’intuizione di un mondo alla Mad Max, arcaico ma già agli sgoccioli. Uno psicopatico vegano vive con la sua famiglia isolato da un mondo di carnivori. Le sue riflessioni solitarie sul mistero della creazione lo portano a una conclusione allucinata ma inesorabile: l’umanità degenerata è sul punto di essere cancellata dalla terra. E poiché il Creatore ha già mostrato in precedenza una manina un po’ pesante, meglio aiutarlo a salvare le altre specie viventi, innocenti. Costruire un’arca, chiudersi dentro, aspettare il Diluvio che senz’altro verrà. Un film del genere non sarebbe straordinariamente attuale? Quando Emma Watson, che Dio la benedica, rivelò che il film di Aronofsky poteva essere ambientato nel passato come nel futuro, io per un po’ ci ho sperato: un Noè fantascientifico. Perché no, dopotutto Noè è in ciascuno di noi. È una sindrome che ci portiamo dentro, forse un senso di colpa: perché proprio noi siamo sopravvissuti? E senz’altro è un’oscura percezione del pericolo che ci porta a immaginare e magari a concepire catastrofi. Alle nostre latitudini poi, il diluvio è davvero un’opzione da non scartare: forse il riscaldamento globale busserà alla nostra porta sotto forma di precipitazioni sempre più torrenziali, fiumi in piena, allagamenti eccetera. Noah avrebbe potuto essere il film che prende spunto da una paginetta di Bibbia (integrata coi midrashim, a quanto pare) per parlarci di noi. Poteva farcela. E invece.

E invece? Eh.






Potrei restare un po’ qui a gustare queste deliziose rocce… ma il mio agente mi ha trovato una parte a Hollywood, quando mi ricapita.




Forse non è colpa di Aronofsky. Ateo di origine ebraica, ma soprattutto newyorchese, che volete che ne sappia dell’importanza della Storia Infinita nell’immaginario dei sui coetanei europei. Magari non ha neanche visto il film. Altrimenti forse non gli sarebbe venuta l’idea, invero piuttosto bizzarra, di subappaltare l’Arca a dei mostri di pietra a sei braccia, miseri resti delle schiere angeliche. Ora, lascia perdere il piccolo particolare che tutto questo nella Bibbia non c’è (e però è anche un segno dei tempi: non credo fosse mai successo che un film di Hollywood si prendesse licenze del genere con l’Antico Testamento in un film serio, in qualcosa che non è una dichiarata parodia). Il punto è che, oltre a non esserci nella Bibbia, i mostri di pietra ci sono nella Storia Infinita, il che complica terribilmente la visione a uno spettatore europeo che si sforzi di prendere Aronofsky sul serio. Dopo i mostri di pietra ti aspetti di tutto, cani volanti e spade laser – una spada del genere in effetti c’è. Dovendo allungare il brodo, il regista ha deciso di usare ingredienti fantasy, e per quel che mi riguarda questo chiude la questione sul film. Bibbia e fantasy assieme riuscirei a concepirle soltanto in un film che si proponesse di prendere in giro entrambe, e purtroppo non è il caso.


La Bibbia di John Houston continua a dare i punti a tutti, a 50 anni di distanza – e senza effetti digitali.

Inevitabile ritrovarsi, dopo mezz’ora, a ridere di Cam che in mezzo a tanta distruzione biblica ha il più puberale dei problemi (non riesce a trovare una ragazza), e soprattutto a tifare per i figli di Caino, colpevoli di null’altro che di essere uomini e di comportarsi come tali, crescendo e moltiplicando fino alla devastazione del loro habitat, di qualsiasi habitat. Meritiamo il diluvio per questo? Ovviamente sì, ma il Creatore non ha qualche responsabilità? Non poteva progettarci meglio? Se ci ha fatti a sua immagine, si era visto prima allo specchio? Forse ci ha creati per questo, e i vulcani che ogni tanto esplodono non sono che foruncoli strizzati con disgusto.

Noah è al Fiamma di Cuneo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45); al Cityplex di Alba (in 2d alle 17:00, 19:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (in 2d alle 14:20, 17:10, 20:00, 22:45; in 3d alle 14:25, 17:15, 20:05, 22:45); al Vittoria di Bra (in 3d alle 16:00, 18:30, 21:15); al Multilanghe di Dogliani (in 2d alle 16:05, 18:45, 21:30); ai Portici di Fossano (in 2d alle 16:00, 18:30, 21:30); all’Italia di Saluzzo (in 2d alle 16:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (in 2d alle 16:00, 18:45, 21:30). Facevo prima a scrivere dove non c’è. Buona Pasquetta!
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Abdia, per piccino che tu sia

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Ma neanche un rotolo (San Marco, Venezia)
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura

[Questo pezzo si legge completo qui].

Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori - lo so, c'è anche Daniele, ma è un caso tutto particolare, non facciamola troppo complicata. Isaia (che in realtà è il nom de plume di più profeti) è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine... (continua sul Post)
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Perdere la testa per una ragazzina

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Paperina questa cose non le fa più da un pezzo.
29 agosto - San Giovanni decollato (1-30 ca.)

Giovanni Battista è l'unico santo di cui festeggiamo sia il compleanno (24 giugno) che il martirio (oggi). Io per la verità da bambino pensavo che il Giovanni Decollato fosse un santo omonimo che avevano ammazzato buttandolo dalla finestra.

Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima: la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le "fonti" sono i vangeli e l'ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest'ultimo dovrebbe essere un po' più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo - così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz'altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po' casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come "un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo". Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.
Un'eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.
Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l'ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un'ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. "Non ti è lecito tenerla". E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po' incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L'endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l'Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell'imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.

Miley Cirus scostati, questo è un lavoro per Brigid Mary Bazlen.
Miley Cirus, scostati,
questo è un lavoro per Brigid M. Bazlen.
Però è difficile fidarsi di Marco e Matteo. Sono pur sempre vangeli, ovvero resoconti della vita di Gesù. È normale che cerchino di presentare Giovanni come il precursore di Gesù, e non come il suo rivale. Eppure è possibile persino tra le righe degli evangelisti immaginare almeno un momento in cui i battezzati dovettero scegliere: con l'uno o con l'altro. O Giovanni o Gesù. Non dicevano proprio le stesse cose. I discepoli di Giovanni digiunavano, quelli di Gesù no; Giovanni si lascia andare a commenti pericolosi sulla famiglia reale, Gesù cerca di non fare politica (ma poi finisce comunque nei guai). Forse Giovanni era stato il maestro di Gesù (è lui a battezzarlo), ma poi quest'ultimo aveva preso una strada sua, e l'incarcerazione di Giovanni lo mise nella condizione di ereditare un po' del credito del predicatore rivale, che davvero in questo senso gli aveva aperto la strada. Eppure anche in carcere Giovanni continuò a diffidare del cugino (Luca li considera cugini: ma in nessun altro testo sembrano manifestare alcun tipo di familiarità), mandando i suoi discepoli a chiedere a Gesù se davvero è il Messia. Gesù non si limita a rispondere "sì", ma invita i giovanniani a verificare di persona: come si riconosce un Messia? Cosa dice il profeta Isaia al riguardo? I ciechi recuperano la vista? Fatto. Gli storpi camminano? Fatto. I lebbrosi guariscono? Questo a dire il vero in Isaia non c'è, ma crepi l'avarizia. Eccetera eccetera: i sordi odono, i morti resuscitano..."

"E gli schiavi?"
"Eh?"
(continua...)
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Com'è andata a Moria

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25 marzo - Sant'Isacco, millenni fa, a momenti vittima sacrificale, poi patriarca.

La porta si aprì lenta:
mio padre venne a prendermi,
io avevo nove anni. 


Stava innanzi a me, così alto:
i suoi occhi azzurri ardevano,
la sua voce era di ghiaccio.


***

Anche Isacco è tra di noi, Dio sa che ci stia a fare. A proposito di Dio: stiamo tutti attenti a non nominarlo in sua presenza. Non ci è nemmeno chiaro il perché, ma abbiamo tutti paura che una volta o l'altra dia di matto, e lo capiremmo benissimo, peraltro in famiglia non sarebbe il primo caso, vero? Ma sarebbe il più giustificabile - cioè, mettetevi nei suoi panni. Avete nove anni, e vostro padre sbrocca, entra nella vostra stanza e comincia con quei discorsi assurdi

“Ho avuto una visione, 
e tu conosci la forza della mia fede: 
devo fare quello che mi è stato detto”


Aveva nove anni, D*osanto. Chi non sarebbe impazzito. Io sarei impazzito. Tu saresti impazzito. Siamo tutti impazziti prima o poi. Gli antropologi prima o poi se ne accorgeranno. Siamo povere scimmiette con un cervello super-sviluppato che ci preme dappertutto la scatola cranica, e poi ci è cresciuto quel pollice reversibile che possiamo usare per tantissime cose che la nostra fantasia psicotica ci mostra di notte, ad es.: sacrificare i figli per smettere di avere gli incubi. Isacco queste cose le sa, è per questo che tace secondo me. Isacco non vuole più averci a che fare, sta in un angolo, mangia quaglie per lo più. Nessuno lo invita a giocare al tavolo di Matteo. Neanche una partitella a freccette con Sebastiano, niente. Tiene la testa bassa, in millemila anni nessuno gli ha dato una seria occhiata al collo. Insomma come siano andate davvero le cose nessuno lo sa. Bisognerebbe avere la faccia tosta di sedercisi davanti e dire: Isacco, figlio di Abramo, padre di Giacobbe anche se preferivi suo fratello, com'è andata davvero sul monte?
Poi gli alberi si fecero più radi, 
il lago un piccolo specchio, 
e ci fermammo a bere del vino: 
Gettò via la bottiglia vuota, 
(dopo un minuto la sentii infrangersi) 
e mise le sue mani sulle mie. 

Mi sembrò di vedere un’aquila, 
ma avrebbe potuto essere un avvoltoio, 
non ho mai saputo decidermi. 

Quindi mio padre innalzò un altare; 
mi guardò una volta appena, 
sapeva che non sarei fuggito.

Fin qui tutto bene... (continua sul Post...)
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Buon anno col prepuzio o senza

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1° gennaio - Circoncisione di Gesù.

Fingiamo di lavorare in una cancelleria un trentun dicembre del millequattrocentoquarantanove - quasi millequattrocentocinquanta. Il vostro principe si sposa e voi dovete mandare biglietti di inviti a tutte le corti d'Europa. La data - il primo marzo - dovrebbe corrispondere in tutto il continente; non è ancora arrivata la riforma gregoriana a complicare le cose. Ma l'anno qual è? Eh. Dipende.

Se scrivete a qualche signore di Firenze, o a un pari d'Inghilterra, è ancora il primo marzo del '49: da loro il capodanno si festeggia il venticinque marzo. In fondo ha un senso, visto che gli anni si celebrano dalla nascita di Cristo, e per i cristiani la vita comincia col concepimento... Se però invitate anche qualche dignitario di altre città toscane, come Pisa, attenzione: da loro è già il primo marzo 1450. Pure a Pisa capodanno è il 25 marzo, ma dell'anno prima: anche questo se ci pensate ha un senso, se Gesù nasce il 25 dicembre, deve essere concepito nove mesi prima, non tre mesi dopo. Anche per i veneziani sarà già il 1450, non potete sbagliare: loro festeggiano il capodanno proprio quel giorno lì, il primo marzo. Per i bizantini, i pugliesi e i sardi invece è ancora il '49, e continuerà a essere il '49 fino ad agosto - e anche questo, se ci pensate, ha un senso, anzi forse nel torrido mediterraneo è la cosa che ha più senso di tutte: l'anno vero comincia il primo settembre. In Spagna è già il '50, con loro tutto sommato non si sbaglia mai, basta ricordare che l'anno comincia una settimana prima, il 25 dicembre. Il vero problema è se scrivete ai reali di Francia. In Francia infatti gli anni si contano dalla Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore, e anche questo potrebbe avrebbe un senso (ma non bisognerebbe detrarre 33 anni al computo?) non fosse per la complicazione che ogni anno la Pasqua cade in un giorno diverso. Che razza di casino. Perché? Possibile che per arrivare a sincronizzare i capodanni dell'Europa Occidentale abbiamo dovuto aspettare fino al Settecento? Come potevano resistere i nostri antenati, a tutta questa confusione e incertezza?

Resistevano benissimo. Avevano altre priorità: la maggior parte di loro nasceva viveva e moriva nello stesso luogo; la necessità di intendersi con i forestieri su curiosità come la numerazione dell'anno in corso non li toccava. Siamo noi a vivere l'ossessione della simultaneità, a sentirci obbligati a festeggiare tutti negli stessi giorni se non negli stessi minuti e secondi, con dirette sincronizzate da orologi atomici. L'incubo dell'Anno Mille come ce lo racconta Carducci, con le folle terrorizzate dall'arrivo del primo gennaio manco fosse l'apocalisse maya, "raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accosciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne’ chiostri", è una bufala ottocentesca: la maggior parte degli europei non aveva la minima idea di che anno fosse. Era il tot anno dalla nascita del tal re o imperatore o papa o figlio maschio o vacca da latte; per sapere quanti anni fossero passati dalla nascita di Gesù bisognava chiedere al prete, lui teneva il conto. Forse.

Comunque già alla fine del Seicento la diffusione del nuovo calendario gregoriano portò la maggior parte delle corti europee a uniformarsi (Venezia si arrese soltanto un secolo dopo, con Napoleone) e adottare il calendario che comincia il primo gennaio, secondo quello che è chiamato "stile della circoncisione". Infatti se assumiamo che Gesù sia nato il 25 dicembre, il primo gennaio è il giorno in cui secondo la legge ebraica sarebbe stato circonciso. Dunque noi non contiamo gli anni dalla nascita di Gesù (25/12) né dalla sua procreazione/incarnazione (25/3), ma dal momento in cui è diventato a tutti gli effetti un ebreo. Il primo gennaio è poi diventato ben presto anche il giorno della festa di Maria madre di Dio, ma il sospetto è che sia stato un espediente per dissimulare una verità ovvia quanto imbarazzante: Gesù era un ebreo. Circonciso.

I cristiani invece non sono circoncisi - la maggioranza, almeno (continua sul Post, buon anno a tutti col prepuzio o senza, e anche chi il pene proprio non ce l'ha. Che non è che si perdano 'sta gran cosa, diciamocelo).
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Profeti e stalking

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17 ottobre - Sant'Osea, profeta becco (VIII secolo avanti Cristo)

Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita - esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell'oceano all'interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell'esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:
 Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va', prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».
Il libro del profeta Osea comincia così - e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all'ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l'attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:
La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d'Israele,
non ne avrò più compassione [...]

Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».
Insomma l'Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L'Entità lo ha chiamato dall'Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all'aria aperta (sulle cime dei monti!), e l'Entità non ne può più. L'Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall'Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.


Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un'ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l'ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po' caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell'Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d'amore appassionate, struggenti: c'è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa...
Ad Efraim [una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche]
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d'amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.
Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto (e continuo nel Post):
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Il virus Cicerone

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30 settembre - San Girolamo (347-420), padre della Chiesa.

Con quel che costava la pergamena, usarla così, uhm, no. 
Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa in mancanza di foto patinate? Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo  - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla  ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.

L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile capire quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.

È un anno che scrivo storie di santi sul Post - ho cominciato proprio il primo ottobre scorso. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di un anno mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani (continua sul Post...)
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Com'è andata davvero a Gàbaon

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1° settembre - San Giosuè, sterminatore di popoli immaginari (molti secoli prima di Cristo)


Ecco un personaggio biblico che quasi nessuno pretende di considerare come realmente esistito. Giosuè è il generalissimo ebraico che dopo la morte di Mosè porta il popolo di Dio attraverso il Giordano nella Terra di Canaan. Ivi, in luogo del latte e del miele promesso, gli Israeliti trovano altri popoli stanziali, con città fortificate e fiorenti. La cosa non scompone per nulla Giosuè, che nei primi anni si dedica con metodo e dedizione al genocidio, attaccando e sterminando una città alla volta, un popolo alla volta: prima Gerico, poi Ai, poi gli Amorrei... Lui del resto non fa che obbedire agli ordini: è Dio che vota quei popoli allo sterminio, e a differenza di Mosè e di altri patriarchi Giosuè non tentenna, non ha ripensamenti, né psicologia: è l'uomo giusto per fare il deserto e chiamarlo pace. Non si può nemmeno dire che ci provi gusto a passare a fil di spada, per esempio, ogni essere che trova nella città di Gerico, "dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino" (si salva solo la prostituta che ha fatto la spia). Sta solo eseguendo gli ordini. Più un grigio burocrate che un valente condottiero: d'altro canto i suoi biografi mettono in chiaro più volte che Giosuè, senza l'intervento di Dio, non avrebbe vinto nemmeno una scaramuccia. È il Signore degli Eserciti a far cadere le mura di Gerico, previo prolungato squillo di trombe, ed è sempre Lui a bombardare gli Amorrei a Gabaon con una grandinata di pietre che ammazza più nemici "di quanti ne uccidessero gli Israeliti con la spada". In linea di massima, queste guerre le vince il Signore: alle truppe di Giosuè viene chiesto di fare un atto di presenza, ma soprattutto le pulizie dopo che la battaglia è vinta. Questo tuttavia può richiedere molte ore, in un'epoca arcaica in cui tutto si doveva comunque interrompere al calare del sole; al punto che almeno nel caso della battaglia di Gabaon, Giosuè chiede e ottiene una proroga straordinaria, uno stop del sole per almeno una giornata - il tempo necessario per inseguire gli Amorrei e terminare un'operazione di massacro che sennò chissà quanto si sarebbe trascinata nel tempo.
Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele:
«Sole, fèrmati in Gàbaon
e tu, luna, sulla valle di Aialon».
Si fermò il sole
e la luna rimase immobile
finché il popolo non si vendicò dei nemici.
Questo famigerato passo è probabilmente l'unico della Bibbia dove si parla un po' di astronomia. Mi chiedo a volte se sia esistito un antico popolo, con una mitologia complessa e stratificata, altrettanto disinteressato ai moti degli astri e dei pianeti, alle costellazioni eccetera. Giusto una piccola cosmogonia nelle prime pagine, e poi più nulla. Forse era un modo da differenziarsi dai dominatori babilonesi, loro sì fissati con le stelle. Questa sostanziale indifferenza nei confronti del cielo fu paradossalmente un vantaggio nel momento in cui la Bibbia entrò nel mainstream dell'Impero Romano, gareggiando coi testi scritti di altre religioni: i testi manichei, quelli gnostici, mitraici, eccetera. Rispetto agli altri libri sacri, la Bibbia si conciliava meglio con la scienza ufficiale aristotelica, per il semplice motivo che di astronomia non si parlava: come si è visto, Agostino mollò i manichei perché il cosmo che descrivevano era ridicolo rispetto a quello progettato da Aristotele. I cristiani non avevano questo problema: purché il sole girasse intorno alla terra, tutto il resto si poteva organizzare come dicevano i filosofi greci.

Ma insomma nella Bibbia di solito si parla d'altro. E anche nel passo del libro di Giosuè, in fondo, di che si parla? Di massimi sistemi? Non è che Giosuè dica semplicemente "fermati o sole" come noi diciamo tutti i giorni "il sole è sorto", o "è tramontato", senza per questo voler negare il sistema copernicano? Siamo sicuri che Giosuè, guerriero e uomo di fede, ci tenga a farci sapere che il sole gira intorno alla terra?

Galileo, per esempio, era sicuro del contrario (continua sul Post...)
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Dio sta con l'ippopotamo

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10 maggio - San Giobbe, personaggio letterario (600 a.C:?)

Ci siamo già visti?

Nelle seconde file del calendario cattolico, accucciati dietro le spalle di santi più ordinari per non dare troppo nell'occhio, ci sono personaggi incredibili. Per esempio c'è Edipo - in realtà non proprio Edipo, un Edipo tarocco made in Ungheria, lo abbiamo visto, e c'è Buddha, un'altra volta spiegheremo magari cosa ci fa Buddha. Ma il più incredibile secondo me è Giobbe. Come abbia potuto ritrovarsi il protagonista del libro di Giobbe nel martirologio della Chiesa cattolica nello stesso giorno di Sant'Alfio, San Filadelfio e San Cirino, onestamente non lo so. Giobbe non è un profeta e non è un patriarca in senso stretto, non è nemmeno chiaro se sia un ebreo (il suo Dio però è chiamato proprio YHVH). Il suo libro omonimo è uno dei capolavori letterari dell'Antico Testamento - anche se non si armonizza molto bene con quella collezione di leggende ancestrali e antiche cronache redatte alla benemeglio. Anche Giobbe forse all'inizio poteva essere un mito, una fiaba, ma si capisce che a un certo punto uno o più scrittori ci hanno rimesso le mani. E almeno uno di loro doveva essere bravo davvero, perché la Genesi parla di Abramo, l'Esodo di Mosè, ma Giobbe parla ancora di noi, dopo tremila anni. E contiene anche la risposta di Dio all'Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena, scusate se è poco.

La trama la sapete, no? No? Cioè l'Odissea sì, i promessi sposi sì, e Giobbe no? C'è qualcosa che non va nella nostra educazione. Poi per carità, Omero è ok, ma non è che ti capiti così spesso di organizzare massacri di Proci, né di volerti sposare contro la volontà di un signore feudale; mentre un'imprecazione alla Giobbe prima o poi sfugge a tutti, e l'Unica Domanda ce la poniamo più o meno tutti i giorni. Per dire, negli ultimi tre anni gli americani lo hanno riciclato in un paio di film, entrambi molto apprezzati (A Serious Man e The Tree of Life). Certo, se la mettiamo su questo piano i fumetti della Marvel battono Giobbe 5 a 2, ma per un prodotto di nicchia non è comunque un risultato da buttar via. La trama, dicevamo.

Allora il Signore rispose a Giobbe
dal seno della tempesta..." (A Serious Man)

Nel paese di Uz (deserto del Negev?) Giobbe è un uomo giusto che fa tutto quello che deve fare un buon ebreo. (Il fatto che non sia identificato come un ebreo secondo alcuni è un modo per evitare la censura, visto che tra lui e Dio accadranno eventi spiacevoli: un'altra ipotesi è che dietro a Giobbe ci sia un mito più antico, di origine mesopotamica). Nel frattempo, alla corte di Dio... ecco, già questo è incredibile. Non si è mai vista la corte di Dio fin qui nella Bibbia: si sono visti roveti ardenti, carri rotanti, ma un Dio che tranquillo riceve i suoi cosiddetti "figli" (angeli?) è un unicum, solo in Giobbe assistiamo a scene così. Non solo, ma tra questi "figli" c'è Satana, nella sua prima apparizione pubblica. Non è ovviamente il Satana cristiano con le corna o la coda, non è visto come un nemico di Dio (anzi prende ordini da lui). Al limite è l'unico in grado di reggere una conversazione con l'Ente supremo. Da dove vieni, gli chiede infatti l'Ente, e Satana: Me ne sono andato a spasso per la terra. "Hai visto Giobbe? Lui sì che mi vuol bene, eh?" "Per forza ti vuol bene, gli hai dato tutto: una casa, una famiglia, gli affari vanno bene... prova a togliergli qualcosa, e vedrai se non ti maledice". L'Ente accetta la scommessa: "Vai pure, levagli quel che vuoi". Satana insomma è una specie di pubblica accusa che punta il dito sull'umanità (la parola forse in origine significava avversario, accusatore); più che il diavolo, l'avvocato del diavolo, con la missione di mostrare a Dio quanto gli uomini facciano schifo. Per questo bazzica la terra, mentre gli altri angeli se ne vanno per i cieli. Dunque Satana prende il migliore degli uomini, e in pochi minuti gli toglie la famiglia, il raccolto, la casa, tutto... tranne la moglie. La moglie gliela lascia (qui io ci sento un'ironia fortissima, ma forse sovrainterpreto).

Giobbe reagisce come un vero santo: quel che il Signore mi ha dato, il Signore me lo può togliere, sia benedetto il Signore. Nell'alto dei cieli Dio gongola: visto che avevo ragione io? Non è male questa umanità, dopotutto. Satana non fa una piega, anzi rilancia: in realtà, dice, non lo abbiamo ancora toccato. Sì, gli abbiamo tolto tutto, ma gli abbiamo lasciata salva la pelle, l'unica cosa che agli umani interessi realmente. Dammi il permesso di rovinargli la salute, e vedrai se non ti maledice. Dio accetta, e Satana si affetta a coprire il sant'uomo di piaghe dalla testa alla punta dei piedi. Da uomo ricco e potente, Giobbe si ritrova nudo nella polvere a grattarsi le pustole con un coccio di terracotta, e in più la moglie che gli dice: Ma che aspetti a morire bestemmiando? Taci cretina, dice più o meno Giobbe; e non bestemmia.

Questo è l'antefatto in prosa, e sta in due paginette. Secondo alcuni è il nucleo iniziale della storia, a cui si ispirò il poeta (o i poeti) del poema successivo. Secondo altri è un'aggiunta posteriore, il che cambierebbe tutto, perché, per esempio, Satana nel resto del libro non compare più, e della scommessa nessuno fa più menzione. Se togli il prologo, il libro inizia con questo Giobbe, uomo giusto che non ha fatto nulla di male, che giace nella polvere cosparso dalle piaghe, domandandosi il perché. Il perché lo sa il lettore - c'è una scommessa in ballo - ma forse la scommessa è un'aggiunta posteriore, il tentativo abbastanza romanzesco di un copista di razionalizzare lo scandalo di un libro che comincia con un uomo che non maledice Dio, no, ma maledice il giorno in cui è nato. Oggi possiamo leggere Giobbe come il libro in cui Dio scommette sull'uomo, ma forse c'è stato un periodo in cui Giobbe era semplicemente il libro che si chiedeva: perché esiste il male? Perché comportarsi bene, visto che Dio non ti premia, anzi? Un problema molto attuale, come si vede. (Continua)
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James the Less (not the Least)

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3 maggio – San Giacomo “il minore”, apostolo (primo secolo).

(Rubens)
"Ma perché in questa Bibbia
tedesca non c'è la mia lettera?"

Giacomo, detto il Minore, detto il Giusto, detto il fratello del Signore, contiene in sé almeno tre enigmi: (1) davvero era fratello di Gesù?; 
(2) davvero era lui, e non quel pasticcione di Pietro, il capo della Chiesa di Gerusalemme?; 
(3) davvero è a causa della sua misteriosa Lettera, rigettata da Lutero, che il capitalismo si è sviluppato nel nord Europa invece che da noi? 

E a questo punto, se fossi Giacobbo, manderei la pubblicità. Ma per fortuna sono sul Post, dove la pubblicità, se c’è, a questo punto è già partita da un pezzo. Avete premuto la X rossa in alto a destra? Bravi. Ora vediamo un enigma alla volta.


1. Era il fratello di Gesù?

I fratelli di Gesù compaiono in tre vangeli su quattro. L’unico a non parlarne è proprio Luca, il più mariano di tutti: quello dell’arcangelo Gabriele, a cui la Madonna risponde “non conosco uomo!” All’idea di una Maria vergine prima durante e dopo la nascita di Gesù i cristiani si affezionarono presto: rimane questo piccolo problema, che di fratelli si parla in tre vangeli su quattro. Per i cattolici non sono proprio fratelli, è solo un modo di dire. Saranno cugini, amici, semplici conoscenti. Eppure la parola greca è proprio αδελφοι, adelphoi; certo, in tanti altri passi del Nuovo Testamento compare in senso figurato, ma sia in Matteo che Marco il contesto sembra riferirsi a una famiglia ristretta, con la quale il Messia ha quel classico rapporto conflittuale che si può avere con i consanguinei: lo prendono per matto (Mc 3,21); lo vengono a prendere, ma lui li rinnega (Mc 3,32-35).

Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».

Hai voglia a prenderli per cugini. Se la cavano meglio gli ortodossi, che immaginano dei fratellastri: Giuseppe, già vedovo, li avrebbe portati alla sacra famiglia in dote. Le due liste di fratelli, contenute in Marco 6,3 e Matteo 13,55, non combaciano perfettamente (Marco parla anche di “sorelle”, Matteo accenna a un padre “carpentiere”): ma in entrambe Giacomo è il primo. Ma è lo stesso Giacomo di Alfeo che compare in tutte le liste degli apostoli? Dopo una scenata così plateale come quella sopra citata, quante possibilità aveva un fratello o fratellastro di Gesù di essere ammesso nei Dodici? I cattolici considerano Giacomo il minore figlio di Alfeo, zio paterno di Gesù, e di Maria di Cleofa, una delle due o tre Marie che ruotano in modo non chiaro intorno agli apostoli. Di lui i vangeli non raccontano nient’altro: è un apostolo di seconda linea, nulla di paragonabile al Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni evangelista, evangelizzatore della Spagna, le cui reliquie faranno la fortuna di Santiago di Compostela. Diventerà invece importantissimo (a patto che sia lui e non un omonimo) dopo la morte e resurrezione di Gesù. 


2. Era lui il vero capo a Gerusalemme?


(Su google trovi tutto, anche il Concilio di Gerusalemme in versione Lego).

A questo punto si è capito che per i cattolici Giacomo è una figura scomoda. Non solo è presentato come fratello di Gesù: ma leggendo gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo si ha la sensazione che il vero capo della comunità cristiana di Gerusalemme sia lui. E Pietro? Pietro è senz’altro la figura di spicco tra gli apostoli in un primissimo momento, quando, come abbiamo visto, non sembra più nemmeno lui: parla scioltamente in tutte le lingue del mondo, si fa incarcerare senza battere ciglio, impone ai seguaci la comunione dei beni, ammazza i fedifraghi con lo sguardo… Ma è una fase di breve durata, che negli Atti termina più o meno in coincidenza con l’imporsi di un nuovo predicatore, Paolo.

Paolo, come si è visto, ha tutto un altro stile, e pur essendo anche lui ebreo preferisce rivolgere la sua predicazione ai gentili. Fino a quel momento il cristianesimo era sostanzialmente un’eresia ebraica, praticata da giudei che continuavano a seguire le prescrizioni rituali della Torah. Per Paolo tutto questo è roba vecchia, zavorra che impedisce alla buona novella di decollare tra i gentili. Pietro è meno estremo, e sappiamo che non cesserà di colpo l’osservanza dei vecchi precetti, ma il sogno che ha fatto in Atti 10,9-16 lo ha spinto sulle stesse posizioni di Paolo. Quindi, se Paolo e Pietro sono d’accordo, chi è che non ci sta? Chi è che li convoca a Gerusalemme, al cosiddetto primo Concilio, per trovare un accordo? Giacomo il Giusto. Il contesto rende chiaro che Giacomo è il rappresentante della comunità ebraico-cristiana; l’ultima parola, seppure conciliante, spetta a lui (At 15,19-21):

Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue. Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe.
Paolo, che pure è il rappresentante dell’istanza opposta, ha un profondo rispetto per Giacomo. Nella lettera ai Galati, dove racconta tutto il dibattito dal suo punto di vista, lo chiama “apostolo” ma non sembra considerarlo uno dei dodici originali. Lo definisce, invece, “fratello del Signore”, (Ga 1,19), e “colonna della Chiesa” (2,9):

…e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.
Notate l’ordine delle colonne: Giacomo, Cefa (=Pietro) e Giovanni. Giacomo è di nuovo il primo della lista. Paolo parla di Giacomo anche nella prima lettera ai Corinzi, nominandolo tra coloro a cui è apparso Gesù risorto (anche in questo caso il suo nome è separato da quello degli dodici apostoli). Pietro non parla di Giacomo nelle sue lettere (ne ha scritte molto meno), ma sempre da Paolo sappiamo che doveva avere una certa soggezione per il personaggio: quando alcuni seguaci di Giacomo arrivano ad Antiochia, lui si rimette a osservare i precetti ebraici. Paolo se ne accorge e s’infuria – ecco, Paolo s’infuria con Pietro, mai con Giacomo.

Che Giacomo il Giusto fosse un personaggio di primo piano lo si capisce anche da alcuni testi del primo secolo. Papia di Ierapoli chiama Giacomo vescovo di Gerusalemme. Nel vangelo di Tommaso (uno degli apocrifi più antichi, non le favolette dal secondo secolo in poi) Gesù lo nomina capo della Chiesa. Invece il vangelo apocrifo che gli è attribuito è una classica fanfiction del secondo secolo, con leggende che partono dalla nascita di Maria. Gli storici della Chiesa, a partire da Egesippo, elaborano da queste poche informazioni la figura di un ebreo-cristiano onorato e stimato da tutti, tanto che il sommo sacerdote che ordina di lapidarlo (o di gettarlo dal tetto del tempio) cade in disgrazia anche presso gli ebrei. Di lì a poco Gerusalemme viene devastata dai Romani (70 dC): della comunità ebraico-cristiana si perdono le tracce, la Chiesa che sopravvive è quella de-giudaizzata di Paolo (e Pietro). La figura di Giacomo perde consistenza. Di lui, come abbiamo visto, resta una manciata di versetti in tutto il Nuovo Testamento. E una letterina, ammesso che l’abbia scritta davvero lui. Però anche quella letterina, a ben vedere, è una bomba. Con una miccia molto lunga: per far esplodere l’Europa ci metterà millecinquecento anni, più o meno.

Max Weber
era Max Weber.
3. È colpa della sua Lettera se la Merkel e i banchieri ci tengono per le palle?

Naturalmente non abbiamo nessuna certezza che l’Epistola di San Giacomo Apostolo sia davvero sua. Sua di chi, poi? Di Giacomo il fratello di Gesù (o il cugino?), di Giacomo il minore apostolo, di Giacomo il Giusto forse vescovo di Gerusalemme? Di uno solo dei tre, o di due? Vi risparmio l’infinito dibattito tra chi sostiene che l’attribuzione a Giacomo sia soltanto un espediente dell’autore per conferire maggiore importanza alle sue parole, e chi ritiene che tutto sommato la lettera potrebbe anche essere stata scritta nel primo secolo da un ebreo che masticasse un po’ di greco. Il testo non è neanche particolarmente giudaizzante: certo, contiene riferimenti a personaggi poco noti dell’Antico Testamento (Raab la meretrice!), ma più che al Levitico sembra richiamarsi al buonsenso. Dopo aver letto Paolo è acqua fresca, insomma. Il passo più famoso – quello che più facilmente faceva infuriare Lutero – è 2,14-18:

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in sé stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede.
A me è sempre piaciuta tantissimo, quell’esortazione ai limiti della sgarberia: hai fede? Mostramela. Io non so se ce l’ho, ma guarda le mie opere: quelle esistono, si possono toccare. Qualcuno ha voluto trovare in questi versetti una critica neanche velata alla dottrina di Paolo sulla salvezza per mezzo della fede. Per Paolo gli uomini (tutti, non solo gli ebrei) erano peccatori, finché Cristo non li aveva salvati: bastava credere in lui, bastava avere fede, e tutto sarebbe andato a posto. Inoltre i tempi stavano per finire, quindi non aveva molto senso occuparsi di cose troppo terrene. Per la verità Paolo era tutto meno che un guru ieratico e sfaticato (continuava a mantenersi fabbricando tende), e lui stesso talvolta si lamentava dell’inerzia di alcune comunità cristiane.

Giacomo ha la stessa preoccupazione: si fa presto a dire fede, ma di cos’è fatta la fede? Puoi mostrarmi la tua fede senza neanche un’opera? Possiamo pensare che in un contesto ebraico le “opere” consistessero soprattutto nel rispetto formale di una serie di precetti, ma col tempo il testo ha assunto un valore universale: la fede si esprime attraverso le opere di bene. Niente opere, niente fede. Lutero non ci voleva credere. “Lettera di paglia”, la chiamava. Al di là dei suoi scrupoli da filologo, basta conoscerlo un po’ per capire che si trattava per lui della paginetta più indigesta del Nuovo Testamento. Dopo che Paolo ha insistito, per più di una dozzina di lettere, nella giustificazione mediante la fede, cosa viene a dirci questo cosiddetto Giacomo? Che la fede si mostra attraverso le opere? Ma a chi la dobbiamo mostrare? L’unico a cui interessa è Quello che ce l’ha donata. E quindi quali opere: l’obolo di San Pietro? Vogliamo costruire chiese sempre più grandi e addobbate? Vogliamo coprire di un altro po’ di ori e di argenti i sacerdoti della grande Babilonia? Vogliamo mettere all’incanto un altro po’ di indulgenze? Lutero tolse la lettera dal suo canone. Robaccia buona a far ingrassare i papi e i papisti.

Qualche secolo più tardi Max Weber, cercando di capire perché il capitalismo sia nato in certe zone dell’Europa (i Paesi Bassi, l’Inghilterra) giunge a un’ipotesi arcinota, anche se contro-intuitiva: è stato il protestantesimo, la dottrina della giustificazione mediante la fede. Nella sua versione hard, quella di Calvino, secondo il quale il cristiano è predestinato alla nascita. Io perlomeno la trovo contro-intuitiva perché la prima volta che ne ho sentito parlare ho pensato che essere calvinisti fosse una pacchia: Dio ti ha già salvato, quindi puoi fare quel che ti pare, compreso un bel niente. Dove si vede che è inutile versare il calvinismo in una botte cattolica. Oppure Weber si sbaglia (tuttora se ne discute): se Calvino invece di Ginevra avesse predicato a Milazzo, non ne avrebbe comunque cavato fuori nessun embrione di capitalismo. Chi lo sa.

Però la sua ipotesi è quantomeno ingegnosa. I calvinisti, spiega, si ritrovano soli davanti a Dio, senza nessun intermediario: chi assicura loro di essere i prescelti? Il segno della grazia è il successo professionale, che si raggiunge attraverso il duro lavoro. Fin qui nulla di nuovo, anche la borghesia italiana sin dal medioevo dei comuni aveva trovato nel lavoro una strada verso l’auto-affermazione. E infatti in Italia il capitalismo moderno stava quasi per nascere. Cosa lo aveva bloccato? La necessità di mostrare le opere. Il mecenatismo. La beneficenza. Ma anche soltanto il lusso, lo sfoggio dei propri beni, la corsa verso l’alto delle famiglie che aveva portato cittadine ancora minuscole a coprirsi di inutili torri. Opere. Bisognava fare opere. Senza le opere, non sei nessuno. C’è scritto nella Bibbia. La Bibbia dei cattolici.

Nelle Bibbie dei protestanti no, non c’è scritto. I calvinisti lavorano duro, ma che se ne fanno dei loro guadagni? Il mecenatismo è una distrazione da papisti decadenti. La beneficenza è ok, finché è un modo di mostrare la propria perfezione cristiana, ma col rischio sempre incombente di mantenere i poveracci, che sono poveracci perché Dio non li ha scelti, pussa via. Il lusso viene da Satana. E quindi, insomma, Dio ci benedice con somme sempre più alte di liquido, ma dove le mettiamo? Le reinvestiamo. Non abbiamo scelta, tutti i sistemi per spenderlo sono demoniaci, non ci resta che… inventare il capitalismo moderno. Per Weber, perlomeno, le cose erano andate così. La sua ipotesi è stata smontata più volte. Ma resta una bella storia da raccontare, proprio come le misteriose vite dei Santi. Alla prossima.
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Perché non avete orecchie

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25 aprile - San Marco evangelista (primo secolo)

Un profeta grida nel deserto e battezza i peccatori nelle acque del Giordano; tra di loro vi è un nuovo giocane predicatore, che dopo una quarantena nel deserto si mette a proclamare una buona novella, attraverso parabole enigmatiche e profezie di sventura. Gli va meglio con le guarigioni miracolose: usa sistemi un po' singolari, (fango, sputi), ma tutto sommato funzionano. Un paio di volte si ritrova a dover moltiplicare pani e pesci per le folle che si radunano ad ascoltarlo. Quel che dice però non è sempre chiaro, nemmeno ai dodici collaboratori più stretti, che a volte hanno troppa soggezione per chiedere spiegazioni. In seguito il predicatore viene accusato di sedizione, arrestato e fatto uccidere. Ma il terzo giorno le donne trovano nel sepolcro, al posto del corpo, un ragazzo vestito di bianco che parla di resurrezione, e scappano impaurite. Questo è in sostanza il Vangelo di Marco, che se non si trovasse mimetizzato in mezzo agli altri risulterebbe un testo abbastanza inquietante: c'è un Gesù senza Natale e senza Pasqua, sempre un po' arrabbiato perché la gente non capisce. Alla fine di diversi episodi, miracoli o parabole, c'è quel classico versetto alla Marco, come “E si meravigliava per la loro incredulità”, “Chi ha orecchie per intendere intenda”. Solo i bambini lo smuovono un po' dal suo sempiterno cipiglio (“a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”). Insomma è un tizio burbero, con un cuore che lascia vedere solo a sprazzi:
Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse:“Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia”.
L'episodio c'è anche in Matteo, dove Gesù concede anche un complimento (“Donna, davvero grande è la tua fede!”). In Marco si limita a dire “va'”, e poi passa ad altro. Non è così difficile mettersi nei panni degli apostoli, sempre timidi e vagamente terrorizzati, “stupiti in sé stessi” “Essi però non comprendevano, e avevano timore a chiedere spiegazioni”. Marco è l'evangelista del leone, e il suo Gesù sembra davvero un re leone nella gabbia di un'umanità che non lo capisce. “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” (9,19). L'unico Vangelo che suggerisce al lettore che Cristo sulla terra abbia avuto fretta di andarsene.

Ragioni per cui amo Wikipedia.
È anche il più breve: nessuna genealogia, nessuna storia sull'infanzia di Gesù (al punto da far sorgere più di un sospetto di adozionismo: Gesù diventerebbe figlio di Dio solo col battesimo nel Giordano, quando si sente una voce dal cielo dire “Tu sei il Figlio mio prediletto”). All'inizio non era inclusa nemmeno – cosa più sorprendente – un'apparizione di Gesù risorto: solo questo ragazzo vestito di bianco che dice alle donne “Non abbiate paura, Gesù è risorto, andate a dire a Pietro che vi precede in Galilea”. Al che le donne scappano terrorizzate “e non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. La versione più antica finisce così: non molto promettente, per il testo fondativo di una religione. Del resto, se le donne non l'hanno detto a nessuno, come facciamo a saperlo? Logica e sintassi greca dell'ultima frase ci lasciano il sospetto che esistesse un seguito, andato perduto quasi subito e rimpiazzato a volte con un solo versetto, a volte con una paginetta che è quella che di solito troviamo nelle nostre traduzioni. In questo finale Gesù appare di nuovo a Maria di Magdala, che lo dice agli apostoli (“Ma essi non vollero credere”), poi a due di loro (ma gli altri “non vollero credere”) e alla fine a tutti gli undici a tavola “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore”. Il finale lungo probabilmente non è di Marco, ma come si vede è coerente con il suo protagonista: neanche una parola gentile (Ehi, che piacere ritrovarvi, scusate se vi ho fatto prendere paura con questa cosa della passione e morte...) Del resto Cristo è un re, poche smancerie. (Continua sul Post)
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Scherzando col Magog sbagliato

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[Il prezzo si legge intero e ampliato qui] Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos'è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C'è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post...)
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Il patrigno di Dio

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Lo sapevo, tutto sua madre.
19 marzo - San Giuseppe artigiano, padre putativo di Gesù (primo secolo)

Giuseppe, dice il messale romano, è l'ultimo patriarca della Bibbia. Buffo, lui che non era nemmeno un vero padre. Però pensando ai suoi predecessori - Noè che ubriaco si fa ridere dietro da Cam e lo maledice; Abramo che quasi sacrifica Isacco; Isacco che benedice Giacobbe ma solo perché è travestito da figlio maggiore; Giacobbe che ha 12 figli ma sembra curarsi solo di Giuseppe e Beniamino; il profeta Samuele che quasi adotta Saul, lo unge re e poi lo tratta da mentecatto; Saul che quasi adotta Davide e poi cerca di farlo fuori... la lista potrebbe continuare, ma insomma in fondo alla sequela di tutti questi padri e patrigni arrabbiati o distratti, talvolta paranoidi, schizzati, tutte proiezioni di un Dio padre geloso e irascibile... Giuseppe sembra di gran lunga il più tranquillo e accomodante. In realtà non conosciamo quasi nulla di lui; anche nel suo caso molte cose che crediamo di sapere sono incrostazioni di leggende e chiose che non hanno fondamento nella lettera dei Vangeli. Per esempio ci piace raffigurarcelo come un tizio avanti negli anni ("i vecchi quando accarezzano" cantava De Andrè, "hanno paura di far troppo forte"). L'anzianità di Giuseppe è un dettaglio che diventa sempre più nitido man mano che si chiarisce, nel corso dei primi secoli, l'altro dettaglio fondamentale della verginità di Maria: immaginare il marito anziano era il modo più semplice per spogliarlo di qualsiasi attributo sessuale.

In realtà i pochi versetti che ce ne parlano hanno dato filo da torcere a chi voleva saltare a certe conclusioni. Di Giuseppe parla soprattutto Matteo, l'evangelista più legato al mondo ebraico dove Gesù era nato e vissuto; Luca, come abbiamo visto, è più liberal, scrive subito in greco e mette donne e proletari in primo piano, il suo Giuseppe è un semplice custode di Maria: è lei che viene visitata dall'angelo, è lei che acconsente, è lei che intona il Magnificat, che medita le cose nel suo cuore, Giuseppe è una semplice scorta. Matteo tratta il marito con più considerazione: nel suo vangelo è lui a ricevere più volte istruzioni dall'angelo. Il problema è che proprio in Matteo (1,25) c'è una parolina maledetta, che anche San Girolamo a malincuore dovette tradurre con "donec", "finché": Giuseppe "non ebbe con lei rapporti coniugali finché Maria non ebbe partorito un figlio". Non vi dico le arrampicate sugli specchi dei padri della Chiesa per dimostrare che quel finché in realtà non è quel che sembra, e che Maria restò vergine anche in seguito. Arrampicate rese ancor più disagevoli da quel che Matteo combina nel capitolo 13: mette per iscritto una lista di fratelli di Gesù, nientemeno. Hanno tutti nomi familiari. C'è da dire che a parlare è la folla, e si sa, la folla è sempre male informata. Ma comunque:
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?
Anche qui si sono spesi in centinaia per dimostrare che "fratelli" non vuol dire proprio "fratelli", che al tempo di Gesù si diceva "fratelli" anche ai cugini, agli amici, ai conoscenti, come no, la Galilea era una specie di Bronx dove tutti si dicevano Hey Bro. Giusto per mettere il dito sulla piaga, anche Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nella Lettera ai Galati menzionano un personaggio importante della prima comunità di Gerusalemme chiamandolo Giacomo, "il fratello del Signore" (ne parleremo). Un'altra spiegazione è che i fratelli fossero in realtà fratellastri, e che Giuseppe avesse sposato Maria da vedovo. Ecco un'altra buona ragione per immaginarlo vecchietto incanutito (ma è anche un tizio che quando l'angelo gli dice in sogno: adesso prendi su con la tua sacra famigliola e ti rechi in Egitto per tot anni fino a nuovo ordine, lui lo fa; non era proprio un viaggetto di piacere da raccomandare a un pensionato).

Il versetto sopra è fondamentale anche per determinare la professione di Giuseppe: falegname. Di questo almeno siamo sicuri, o no? No, nemmeno di questo. (Continua sul Post...)
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Dalla Padella alla Rivelazione

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San Giovanni è apostolo, evangelista, vergine, martire no perché ha resistito a una frittura in pentola, allucinato profeta di sventure, forse è il fratellino di Gesù, forse è sua moglie, forse è immortale ma probabilmente no; è il patrono della Turchia, degli scrittori, degli alchimisti, degli editori e delle scottature.
Il suo Vangelo, dei quattro, è la gamba che traballa. Se ne parla sul Post, l'unico magazine on line coi dibattiti cristologici in tempo reale.

[Il pezzo si legge qui].
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L'evangelista bue

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(Fermi così, siete perfetti)


Io nel frattempo ho trovato il Santo patrono del Post. Venite a scoprirlo di là, dove nei commenti già mi prendono per Socci, è fantastico.

18 ottobre - San Luca Evangelista (1-84 ca.)
Credo che sia ormai evidente a tutti come la missione di questo blog sia portare la luce della fede in quel covo di razionalisti e laici esasperati che è il Post. Non è certo un disegno che un mortale possa portare a termine senza qualche aiuto altolocato, ed è per questo motivo che, sin dall'inizio, ho deciso di scegliere tra i Santi del paradiso il protettore del Post; non credo infatti che in redazione nessuno ci abbia ancora pensato. Dopo una lunga riflessione ho quindi risolto di nominare San Luca Evangelista, diciotto ottobre. C'è bisogno di spiegare il perché?

Per prima cosa, è il patrono del direttore, quindi un'occhiata da questa parte la buttava comunque. Ma c'è naturalmente molto di più. Di tutti gli autori del Nuovo Testamento, Luca è quello che più può rassomigliare a un moderno giornalista. Benché la sua inchiesta su Gesù sia probabilmente la meno lacunosa, Luca è l'unico evangelista ad ammettere di avere lavorato su fonti già scritte, tra le quali probabilmente il Vangelo di Marco e un'altra raccolta di detti di Gesù che è andata perduta (in realtà le cose sono probabilmente più complicate: ne parliamo un'altra volta). Questo materiale, Luca lo rielabora da buon cronista, in ordine cronologico, cercando di risolvere alcune incongruenze e forse eliminando alcuni dettagli familiari agli ebrei (le impurità rituali), che avrebbero lasciati perplessi i lettori non circoncisi a cui Luca (lui stesso forse non ebreo) si rivolgeva. Nato magari ad Antiochia, Siria (oggi Turchia), una delle tre metropoli del mediterraneo antico, Luca era uno dei più stretti collaboratori di Paolo di Tarso, il principale artefice dell'esportazione del cristianesimo fuori dal mondo ebraico. Il Vangelo secondo lui è soltanto la prima parte della sua opera, che prosegue direttamente dopo il racconto della resurrezione, con gli Atti degli Apostoli. In mezzo ai due libri la tradizione ha piazzato il Vangelo di Giovanni, il libro con più pretese filosofiche e letterarie di tutto il Nuovo Testamento, conficcato come un enigmatico cuneo nella prosa limpida e serena di Luca. Nella seconda parte degli Atti, quella che ha come protagonista San Paolo, Luca comincia a usare il “noi”, segno che dei viaggi di Paolo l'evangelista è testimone oculare: ed è l'unico indizio che ha fatto pensare a Luca, perché in realtà l'autore dei due libri non si firma; da buon giornalista, dopo una prefazione di tre righe scompare dietro ai fatti che racconta. Non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto: gli Atti s'interrompono abbastanza bruscamente mentre Paolo è agli arresti a Roma in attesa di giudizio. Luca è con lui? La tradizione lo vuole sopravvissuto in Beozia, fino all'età di 84 anni. Ma è possibile che un cronista appassionato come lui interrompa un reportage così, di punto in bianco?

Da buon giornalista, Luca prende le sue cantonate. Quando lo Spirito Santo finalmente illumina gli apostoli, da spiccio pescatore qual era San Pietro si ritrova improvvisamente in grado di tenere un discorso davanti a una folla di migliaia di persone, tremila delle quali si convertiranno alla neonata religione seduta stante (At 2,41). E va bene che a Gerusalemme c'era festa ed era venuta gente un po' da ogni dove, ma tremila sembra un dato davvero esagerato, per quei tempi senza microfoni. Potrebbe essere la prima volta che un giornalista gonfia i numeri di un'adunata di piazza. In altri casi forse è l'ideologia che lo frega. Nel suo discorso programmatico di Gesù sulla Montagna dice: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. Almeno, nel Vangelo di Matteo dice così (5,3). Ma Luca quello spirito non capisce cosa voglia dire, e lo cancella: beati i poveri, e basta (6,20). O forse è Matteo che, intimorito dal potenziale rivoluzionario delle parole di Gesù, aggiunge quella parolina, “spirito”, che in effetti può voler dire tutto e niente? Se ne discute da duemila anni, ma nel frattempo non c'è dubbio che di tutti gli evangelisti, Luca sia il più liberal (infatti è il patrono del Post). Non è che faccia propaganda, lo si capisce dal punto di vista che assume, dai soggetti che preferisce inquadrare: poveri e donne, vedove e straccioni. La Chiesa degli apostoli è una comune dove è bandita ogni proprietà privata (e chi sgarra muore sul colpo: At 5,9-10). Per Matteo l'annunciazione era una cosa tra maschi: l'angelo appariva in sogno a Giuseppe e spiegava tutto a lui (Mt 1,20). È Luca a mettere in primo piano Maria, a cui regala il suo primo inno trionfale: il Magnificat (Luca ama inserire preghiere originali e lunghe citazioni: è il patrono del Post).

Poi c'è la questione dei quadri. A un certo punto dell'alto Medioevo – probabilmente nel periodo in cui l'Islam reintroduce il divieto a produrre immagini di Dio, e a Bisanzio infuria la lotta tra iconoclasti (distruttori delle icone) e iconoduli (quelli che invece volevano conservarle), nasce la leggenda - via, diciamo la tradizione - secondo la quale Luca fu pure un bravo pittore, ovviamente il primo del cristianesimo; e gli vengono attribuite tutta una serie di madonne, tra le quali famosissima quella nera custodita a Czestochowa, Polonia, e ovviamente quella nel santuario sul colle di Bologna. Certo, per pensare che Luca (della generazione di Gesù, se non un po' più giovane), potesse aver ritratto la Madonna col bambino bisognava avere un'idea un po' vaga della cronologia del Vangelo, oppure scomodare le solite visioni miracolose eccetera. Ma erano anni duri per gli iconoduli, e non si guardava per il sottile. La scelta di Luca come primo pittore cristiano era quasi obbligata: la tradizione lo vuole medico, e anche se l'esperienza del mestiere non traspare dagli scritti, un po' di esperienza di anatomia si riteneva che dovesse averla. Insomma, scrittore e disegnatore dal vero: si poteva trovare un migliore Santo protettore per il Post?

C'è poi una caratteristica particolare dello stile, che lo rende uno degli evangelisti più apprezzati. Oltre a essere uno scrittore realistico, asciutto, un po' engagé ma senza esagerare, Luca è l'evangelista delicato. Il suo simbolo è il bue, l'animale mansueto (no, non c'entra col presepe, nessun Vangelo parla di un bue accanto all'asinello). Anche quando si muove tra processi e supplizi, riesce sempre a trovare una parola gentile per gente che non necessariamente se la merita. Un esempio tra tanti è quello degli apostoli nell'orto degli Ulivi. Si sa che non ci fecero una bella figura, quella notte: Gesù pregava, colmo d'angoscia e tentato dal dubbio, e loro dormivano. Notate che sono i futuri fondatori della Chiesa. Non è escluso che ronfassero persino, visto che ogni tanto Gesù se ne accorge e li riprende. Non deve essere stato semplice, col senno del poi, ricordarsi delle parole del Maestro: “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” Così in Matteo (26,40). In Marco, (14,37-38) Gesù si rivolge al solo Pietro: “Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola?”. Tutto vano: gli apostoli hanno gli occhi “appesantiti dal sonno”: si addormenteranno di nuovo, per svegliarsi solo all’arrivo di Giuda con le guardie.

Luca invece è delicato. Gli apostoli dormivano, sì, ma “per la tristezza” (22,45). Sembra l’unico passo in cui Luca usa questa parola, “tristezza”. Non sono teneri, questi futuri santi e pontefici, che si addormentano dalla malinconia? Ma sarà vero che di tristezza ci si possa addormentare? A voi è mai capitato?

Io ho dovuto pensarci un po’, ma in effetti sì, mi è capitato. E a volte ancora mi capita. Luca non è solo un giornalista, Luca è un grande scrittore. Si capisce dai piccoli dettagli.
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Roveti in bianco e nero

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L'educazione religiosa, 3

(Riassunto delle puntate precedenti: lasciate perdere le puntate precedenti. Inutili. La storia comincia adesso).
È tempo di fare entrare uno dei personaggi principali dell'Educazione Religiosa di Saul, vale a dire la cattiva maestra preferita di tutti noi, la televisione. Saul le vuole bene, e ammette di avere imparato tantissime cose da lei; ma vogliamo anche un po' parlare delle mazzate che ha preso? Saul si sente ancora i bozzi nel cervello. Poi nella vita si va avanti, si fa finta di niente, senz'altro era peggio crescere al tempo della scarlattina, della tbc. Però che il tv color non avesse effetti collaterali, eh, questo no. Non potete dirlo. I bozzi ce li avete anche voi.

I posteri faticheranno a capire questa cosa. Ammesso che gli interessi, ai posteri (nessuno ne sa mai niente, dei posteri). In fondo era un elettrodomestico come un altro, via, portava un po' di rumore e di colore, e non se ne possono sottovalutare le potenzialità propagandistiche, sì, ma... non ci siamo capiti. Qui stiamo parlando di qualcosa di molto più profondo e più violento. Lo sapete che i bambini della generazione di Saul facevano sogni in bianco e nero? Se è per questo anche i loro genitori, cresciuti a pane amore e cinematografo parrocchiale. Oggi ormai siamo talmente abituati all'idea del “bombardamento mediatico”, e a portarci il laptop in bagno, che la percentuale di tempo passato da Saul e i suoi genitori davanti a schermi in bianco e nero ci sembra ridicola. Un'oretta al giorno, chi meno chi più. Tutto il resto della loro vita la vivevano a colori. Però sognavano in bianco e nero. È una cosa che fa spavento, a voi non fa spavento? Vabbe', voi non vi stupite più di niente.

Il cinque del quarto mese dell'anno trentesimo, il profeta Ezechiele vede un uragano arrivare da nord. Dentro c'è un turbinìo di fuoco, e nel turbinìo quattro esseri di sembianza umana, ma provvisti di zoccoli e quattro ali ciascuno (e mani sotto le ali). Gli esseri hanno quattro facce ciascuno: una di uomo, una di leone, una di toro e una di aquila. Di fianco a loro, un complicato incastro di ruote di topazio. Sopra di loro, un firmamento, e oltre il firmamento s'intravede quell'immagine di Dio dalla quale il profeta saggiamente preferisce distogliere lo sguardo. Di solito a questo punto il divulgatore laico inserisce una battutina, del tipo: ma che si era mangiato la sera prima il profeta Ezechiele? Che tipo di funghi raccoglieva? Che tipo di fumi inalavano, gli ebrei della cattività, durante i loro sacrifici? Non lo sappiamo. Ammettiamo pure che il sogno sia frutto della fantasia di Ezechiele: mica male come fantasia, no? Lo credereste che il sacerdote di un popolo contadino sia in grado di mettere insieme dei sogni così? C'è l'insistenza sul mondo animale che è più che prevedibile in una cultura agricola; l'aspetto orgiastico (vagamente peccaminoso) dell'ibridazione bestiale. Più sorprendente è l'elemento geometrico (che di solito associamo al razionalismo ellenico), ma in fondo stiamo parlando di ruote, anche i contadini di Babilonia le montavano ai carri. Insomma, nel sogno Ezechiele non fa che rielaborare cose che ha già visto (tranne forse i leoni, animali leggendari). Però il risultato è talmente delirante che Ezechiele non può dubitare nemmeno per un istante di essere davanti a un messaggio di Dio. Il caso di Ez è quello classico di un uomo antico che ha di fronte le libere associazioni del suo inconscio e, non riconoscendole, le scambia per Dio. Questo cosa c'entra con la televisione? Niente.

Ma sono abbastanza sicuro che se Ezechiele fosse nato ai tempi di Saul, oltre a disporre di molti più elementi da combinare (pantere, dinosauri, corsari, cow-boys, astronavi, marziani), li avrebbe sognati in bianco e nero. Ecco, ma puoi veramente credere in un Dio che ti parla in bianco e nero? No, secondo me no. Era come se il nostro inconscio, parlo dell'inconscio della generazione di Saul, tarandosi sul B/N avesse trovato una specie di valvola di sfogo. Anche davanti a un sogno angosciante, o delirante, od orgiastico, il B/N ti rassicurava, ti diceva tutto ok: queste cose non possono succedere nella realtà, quindi non sei nella realtà. Sei dunque davanti a un Dio? Noooo, ci mancherebbe. Sei soltanto davanti alla televisione. Saul non sognava cose brutte o paurose. Sognava di essere davanti alla tv e guardare cose brutte o paurose. Non è proprio la stessa cosa, anche se nei sogni non si può cambiare canale (del resto neanche in quelle vecchie tv si poteva).

Finché la tv rimase in bianco e nero, il piccolo Saul non poteva avere visioni. Al massimo poteva sognare film stranissimi, ma i film dei grandi sono sempre un po' stranissimi. Ci siamo persi, in quegli anni, qualche dozzina di profeti visionari. (Sarebbe curioso saperne di più. Sarebbe curioso sapere se Hitler o Wojtyla sognassero a colori o in BN. Gli esseri umani per milioni di anni hanno sognato a colori, poi per qualche decennio sono passati in bianco e nero, e prima che la cosa diventasse oggetto di una seria ricerca neuropsichiatrica, la parentesi è finita). Voi che avete paura dello switch da analogico al digitale, ahah, Saul vi ride in faccia. Lui ha vissuto ben altro switch, il suo inconscio è passato dal BN ai colori proprio negli anni più delicati dell'infanzia. Abbiamo detto che il B/N lo proteggeva. Ma un bel giorno il B/N non ci fu più... (continua, più lento della vita).


Tutte le puntate fin qui.
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Più Bibbia a scuola!

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Ma a questo punto, metti che la Gelmini dica qualcosa di ragionevole.
Lo so anch'io che è improbabile.
Ma metti che.
Come fai a darle ragione? Davanti a tutti?

Così. Ho una teoria #41 si legge sull'Unità, e si commenta qui (attenzione, con Chrome c'è qualche problema).

È facile prendersela con la Gelmini, e lei non ci fa mancare certo gli spunti. A volte però rischiamo di infervorarci inutilmente anche le rare volte che dice qualcosa di ragionevole. Persino l’orologio fermo, si sa, dice la verità almeno una o due volte al giorno. Il Ministro Gelmini potrebbe anche avere la competenza di un orologio scarico, ma se chiede che a scuola si studi la Bibbia non è che possiamo stracciarci le vesti e fingere che la richiesta sia insensata. Perché mai non si dovrebbe studiare la Bibbia a scuola? Sul serio, perché l’Odissea sì, l’Eneide sì, la Commedia dantesca sì… e la Bibbia no? È un testo meno importante? Si stenta un po’ a crederlo.
In questa battaglia per portare Antico e Nuovo Testamento nella scuola, Maria Stella Gelmini è in buona compagnia. In calce alla petizione dell’Associazione “Biblia” ci sono fra le altre le firme di Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack. A occhio non ha l’aria di una lobby di integralisti cattolici. Forse dobbiamo intenderci su cosa significhi “studiare la Bibbia a scuola”.
Per i leghisti si tratta di portare negli istituti pubblici un altro simbolo identitario, accanto al crocefisso e al sole delle Alpi (quest’ultimo un po’ pagano, ma fa l’istess). In quanto simbolo, non credo che abbiano nessuna intenzione di aprirlo, col rischio di scoprire che racconta la saga di un popolo terrone e sfaticato che per non costruire le piramidi d’Egitto, fugge al di là del Mar Rosso e si dà al nomadismo. Una storia di zingari, figurati. Non è certo quello a cui pensa Zaia quando dice che ha già trovato "un imprenditore disponibile a stamparle in breve tempo". A proposito: quanto è costato tappezzare le scuole coi Soli delle alpi? Quanto costerà ficcare nell’armadietto di ogni scuola un altro librone che prenderà polvere insieme ai dizionari? Tanto paga il popolo somaro. La Bibbia in ogni scuola, per i leghisti, è un affare come un altro.
Per gli intellettuali, la Bibbia a scuola è una garanzia di laicità. Significa che il Libro dei Libri si può studiare, analizzare e smontare. Proprio quello che la Chiesa cattolica ha sempre preferito evitare: e del resto, se c’è qualcuno in Italia che ha ostacolato la diffusione della Bibbia è stata proprio la Chiesa, dalla Controriforma in poi. Per molto tempo le traduzioni si sono ritrovate addirittura all’indice dei libri proibiti. Ancora oggi a catechismo non si studia la Bibbia (si studia il Catechismo). Le gerarchie cattoliche sanno bene quanto sia potenzialmente pericoloso lo studio di quel libro. Solo chi lo ha sfogliato appena può riempirsi la bocca di parole come “cultura” o “identità”. Studiare la Bibbia è immergersi in un mondo e in una cultura radicalmente diversi dai nostri. È impossibile non diventare un po’ antropologi, un po’ filologi, un po’ studiosi della religione, mentre si sfoglia un libro che dispensa contraddizioni e ambiguità a ogni pagina. Dovremmo privarci di questa possibilità per scongiurare il rischio che qualche insegnante la usi per fare propaganda religiosa? Per lo stesso motivo dovremmo bandire dai programmi scolastici tutte le opere letterarie che possono essere usate allo stesso scopo. La divina Commedia, la Gerusalemme liberata, i Promessi sposi… tutte opere in fondo più cattoliche della stessa Bibbia. Dovremmo privarcene?
Nel frattempo, la Bibbia a scuola c’è già. Posso testimoniare che nei libri di testo di prima media (pardon, “secondaria di primo grado”) si trova sempre qualche pagina biblica, nella sezione “mito”. Di solito si tratta della Creazione e del Diluvio (spesso messi in confronto con miti analoghi di altre culture). A volte c’è anche la leggenda di Sansone, primo kamikaze integralista della Storia. Tre pagine sono poche? Sono tante? Anche l’epopea di Gilgamesh occupa più o meno lo stesso spazio. È una storia lontanissima dalla nostra cultura e identità, che nessuno ha più letto per millenni. La Bibbia ha avuto più fortuna, e forse meriterebbe più spazio sui nostri manuali. Ma a danno di chi?
Perché il vero problema è questo. Ogni volta che un Ministro spiega ai giornali che a scuola bisognerebbe studiare la Bibbia, o le foibe, o l’amore per gli animali, dà l’impressione di considerare i programmi scolastici come un involucro vuoto che si può riempire a piacere. Bisognerebbe una volta tanto avere il coraggio di spiegare cosa dobbiamo togliere dai programmi, per farci entrare la Bibbia (o le foibe, o gli animali). A meno che il Ministro non voglia allungarci l’orario scolastico… ma no, la tendenza è quella di aggiungere carne al fuoco e tagliare il combustibile. Vogliono più inglese, e ci tolgono i pomeriggi. Vogliono più internet, ma non ci danno un’ora in più. Vogliono che si studi la Bibbia, che è un testo letterario: e intanto tolgono lezioni agli insegnanti di italiano. Vogliono tutto, non danno nulla. Soltanto qualche gadget ogni tanto; quest’anno, un librone stampato da un imprenditore che conosce Zaia. Se lo apri verso la fine c’è scritto: “Gli scribi e i farisei siedono sulla cattedra di Mosè. Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le loro opere; perché dicono e non fanno”.(Matteo 23,2). http://leonardo.blogspot.com
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Mite agnello redentor

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Che toglie i peccati del mondo

Al mondo siamo sei, massimo sette miliardi, ciascuno con i suoi problemi: ciò che tutti ci consola è la possibilità di prendercela con chi è messo peggio di noi.
Di solito si tratta di islamici.
Gli islamici sono appena un miliardo, e se date un'occhiata al planisfero vi rendete conto che stanno proprio in mezzo, di modo che di solito le prendono un po' da tutti; e probabilmente se le meritano. Un po' per quel colore della pelle che non è bianco né nero, è... ambiguo; e poi quel profeta ultimo arrivato che nessuno ha visto in faccia, quelle usanze demodé, insomma con gli islamici vai sul sicuro: tu intanto dàgli addosso, ché un motivo si trova sempre.

E tuttavia, è inevitabile che a furia di prenderle diventino un po' nervosi. Fortunatamente in mezzo a tutto quel miliardo di islamici (che visto da vicino fa un po' spavento, dico, un miliardo! Tutto insieme!) c'è una nazione minuscola di cinque milioni di ebrei; si chiama Israele, e quando gli islamici vogliono sfogarsi possono sempre cominciare una guerra santa. Le fanno spesso nei giorni di festa, vecchio scherzo che funziona sempre.

Col tempo tuttavia anche i cinque milioni di israeliani hanno cominciato a seccarsi. E certo, in mezzo a un miliardo di islamici possono sembrarti pochi, ma visti un po' da vicino, son pur sempre cinque milioni... però non sono sparsi in modo omogeneo; infatti all'interno del loro Stato c'è un territorio che non è proprio uno Stato, dove vive un altro popolo: si chiamano palestinesi, e quando Israele è nervoso corre a mazzolarli, è una gran valvola di sfogo.

I palestinesi però sono un popolo fiero, e quando hanno iniziato a prenderne troppe dall'esterno, si sono guardati dentro, chiedendosi: c'è qualcuno più piccolo di noi che possiamo a nostra volta mazzolare, al fine di sbollire la nostra troppo giusta ira? In effetti qualcuno c'è: nel bel mezzo dei territori dove vivono milioni di palestinesi (e visti da vicino sono tanti!) c'è... ma sì, c'è ancora qualche piccolo villaggio superaccessoriato dove alloggiano coloni ebrei, alcune centinaia. E quindi questi palestinesi cominciano a tirare razzi ai coloni ebrei.

I quali non è che sopportino sempre pazientemente. Per esempio c'è questo insediamento di coloni a pochi km. da Betlemme, dove vive Jesse, che di mestiere fa il pastore. Allora, quando un razzo
palestinese atterra nella fattoria di Jesse, a pochi metri dal lettino della figlia, cosa fa Jesse? Entra nel recinto delle sue pecore e si mette a prenderle a calci: poi sta meglio. In pratica è come se tutta la rabbia e la frustrazione dell'umanità andassero a finire nel recinto delle pecore di Jesse.

Ma l'umanità non è la fine di tutto: infatti anche le pecore di Jesse non è che accettino pazientemente la loro missione purificatrice. Appena Jesse se n'è andato, cominciano le discussioni: pee-e-rché le pre-e-endiamo se-e-empre? Cosa abbiamo fatto di male? C'è chi dice che è colpa dei loro pe-e-eccati.
Altre rispondono, ma quali pe-e-eccati? Non facciamo niente di male, siamo tutte fedeli al nostro montone (anche pe-e-rché è l'unico del villaggio), al sabato ci asteniamo dall'erba grassa, e quindi?
Forse si tratta di un pe-e-eccato originale, siccome la prima pecora nel Paradiso Terrestre brucò dall'aiuola del Be-e-ene e del Male, benché il Signore gliel'avesse espressamente....
“Son tutte balle”, dice a un certo punto una del mucchio. “Non esiste nessun peccato originale: sapete cosa esiste invece? La pecora nera, che ci rovina la reputazione a tutte quante”.

Le pecore si voltano verso Azazel, l'agnello dal manto un po' più scuro delle altre, che in effetti qualche zoccolata se la merita, anche solo per quest'ambiguità cromatica... e poi sta sempre zitto, non si sa mai a cosa pensa... insomma, la circondano, loro sono tante, lui è solo, e dopo un po' il suo manto grigio comincia a screziarsi di rosso sangue, l'agnello nero crolla in un angolo, e il morale del gregge è di nuovo alto.

Azazel guarirà - non è mica la prima volta che le prende, né sarà l'ultima. Si tratta ora di capire a chi tocca dopo di lei: a chi passerà inconsapevolmente il fardello di tutto il male, tutto il dolore, tutta la frustrazione dell'umanità. Potrebbe pestare un agnellino, o pianificare lo sterminio di una specie d'insetti, qualsiasi cosa. In fondo non è che un anello di una catena infinita che va dalle nebulose agli organismi unicellulari: ovunque ti guardi è pieno di entità più grandi che ti circondano e te la fanno pagare per qualcosa che viene da fuori, e adesso tocca ad Azazel.

Azazel invece non fa niente, non gli interessa. Non è che non gli dispiaccia essere odiata dai suoi simili, però non abbastanza da rifarsi contro qualcuno più piccolo di lei. Può darsi che sia una regola universale, però Azazel non la rispetta, si chiama fuori. Così il fardello di tutto l'odio, tutta la sofferenza dell'umanità, finisce lì: in un recinto a poche miglia di Betlemme.

Quando Gesù Cristo tornerà, a giudicare i vivi e i morti, non credo che la tirerà per le lunghe. Ci guarderà tutti quanti, scrollerà la testa e dirà: scusate il disturbo, dov'è l'agnello Azazel? Ero venuto per lui. Se lo caricherà sulle spalle e se ne tornerà al Padre suo, lasciandoci qui, alle nostre contese sempre molto interessanti. Perché in fondo non ci meritiamo un inferno peggiore di questo.

(Era uno dei Post sotto l'albero 2009. Lì ce ne sono senz'altro di più allegri. Buon Natale a tutti!)
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- 2025

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Tu dirai: Andrò contro una terra indifesa,
assalirò genti tranquille che si tengono sicure,
che abitano tutte in luoghi senza mura,
che non hanno né sbarre né porte,
per depredare, saccheggiare,
metter la mano su rovine ora ripopolate
e sopra un popolo che si è riunito dalle nazioni,
dedito agli armenti e ai propri affari,
che abita al centro della terra.

(Ezechiele 38,11-12)


Arriva Gog

Caro Leonardo,
certe volte Taddei mi fa veram innervosire. Voglio dire, dormire per vent'anni potrà anche essere stata un'esperienza spiacevole; ma non ti dà automaticam il permesso di giudicare il mondo e dividerlo in buoni e cattivi. Anzi, in colpevoli (noi) e innocenti (lui, perché dormiva). Secondo lui dovremmo passare il tempo a provare vergogna per qsti anni disastrosi. Come se viverli da svegli non fosse già stato abbastanza avvilente.

Per esempio, la Palestina. Non fa che chiedermi della Palestina (e so che chiede anche in Facoltà: prima o poi scoppia un casino); ma non appena tento una spiegazione, lui perde la calma.
"Ma come fai a parlarne così, con tanto distacco…"
"…"
"Si vede che non te ne fotte niente, eh? Come a tutti del resto. E allora vedi che ho ragione: peggio dei nazisti. Siete stati peggio dei fottuti nazisti. Sei milioni…"
"Dodici".
"Dodici milioni di persone, e tu me ne parli così, come se fosse una battaglia navale del Settecento. Hai assistito alla più grande tragedia dell'umanità e fai finte di niente".
"Non faccio finta di niente, ma cerca di capire. È passato del tempo, sono successe tante cose…"
"Tante cose? Che cazzo vuol dire Sono successe tante cose? Dodici milioni di persone sterminate nello spazio di un mattino!"
"È terribile, lo so":
"E ne parli come se fosse un incidente in autostrada. Ma non provi nessuna vergogna? Non ti senti in qualche modo responsabile?"
"No, onestam no. Se mi sentissi anche per una minima percentuale responsabile, credo che impazzirei. È una cosa troppo grande per essere condivisa".
"È un meccanismo di rimozione".
"No, è proprio che non sono colpevole".
"Perché sono stati gli iraniani – Ma io dico che è proprio grazie a gente come te che regimi come l'Iran hanno potuto…"
"Alt. Chi ti ha detto che è stato l'Iran?"
"L'ho letto sul Supernet".
"Aspetta un attimo. È vero che gli iraniani avevano in programma un attacco nucleare preventivo. Ma non sapremo mai come sono andate veram le cose".
"Perfetto, li difendi pure. La sera prima programmano un attacco nucleare, la mattina dopo Israele è distrutto. E secondo te può trattarsi di una coincidenza. Dodici milioni di israeliani assassinati, e tu…"
"Non dodici: sei".
"Lo hai detto tu che erano dodici!"
"Dodici milioni di morti: sei milioni di israeliani, sei milioni di palestinesi. Ti dimentichi sempre di loro. Ma quel mattino anche la Palestina è diventata un lago d'acqua morta. E la terza città santa dell'Islam è radioattiva. È improbabile che l'Iran mirasse a qsto".
"Perché no? Un governo di pazzi integralisti sospinti dall'odio… Desiderosi di aumentare la tensione con l'Occidente…"
"…E così spazzano via la Palestina dalle cartine. No, è più sensata la tesi dell'errore umano. La vera cazzata fu permettere a un Paese a elevato rischio sismico come l'Iran di metter su impianti nucleari. A un certo punto un microsisma nel Caspio fa scattare un allarme radioattivo: un generale fesso crede che sia un attacco israeliano e va in panico; scatta il contrattacco nucleare, che secondo i piani doveva centrare solo gli obiettivi militari, con precisione chirurgica".
"Come no".
"Ma i missili iraniani sono roba sovietica di terza mano, sballano le traiettorie e colpiscono la Palestina a casaccio. Qsta è una prima teoria".
"Mi meraviglia che tu non abbia dato colpa agli americani, già che c'eri".
"Ecco, qsta è una seconda teoria. Gli usastri".
"Non ci credo. Esiste anche una teoria del genere?"
"Sì, ed è molto interessante. Si basa sul principio secondo cui le profezie tendono nei tempi lunghi a realizzarsi, non in quanto autentiche rivelazioni divine, ma perché stimolano gli uomini a comportarsi in modo da avverarle…E abbiamo allora le cosiddette «profezie che si autoavverano»…"
"Self-fulfilling prophecies. E allora?"
"Ora, come sai, in seguito alla storica Rapture – le misteriose sparizioni avvenute su suolo usastro – una setta di cristiani protestanti che predicava la prossima fine dei tempi aveva ottenuto la maggioranza al Congresso. Qsta setta era convinta che l'Apocalisse sarebbe stata annunciata da una serie di segni, tra cui l'invasione di Israele da parte di un misterioso Og, re di Magog. È un passo del libro di Ezechiele, nella Bibbia. Lo conosco bene perché se ne parla nel libro che sto spiegando a lezione".
"Ne ho sentito parlare. Ma cosa…"
"In realtà era da decenni che qsta setta protestante si adoperava affinché la profezia si avverasse. Per prima cosa, i protestanti erano diventati i migliori amici dello Stato d'Israele, sostenendolo politicam ed economicam – perché senza Israele, non si sarebbe mai avverata nessuna profezia, mi segui? Niente Israele, niente profezia, niente Apocalisse, niente Gerusalemme celeste, niente di niente".
"Sì, ma…"
"Non solo, ma inconsapevolm gli usastri – appoggiando uno Stato di etnia e religione ebraica nel centro del Medio Oriente – avevano creato anche le premesse perché si formasse una robusta alleanza anti-israeliana nella regione. Che guarda caso è proprio qllo previsto dal profeta Ezechiele. "La Persia, l'Etiopia e Put, con scudi ed elmi…" sto citando a memoria. La Persia sarebbe l'Iran, l'Etiopia in realtà il Sudan, un altro cosiddetto «Stato Canaglia»… e Put indicherebbe il despota russo, che si chiamava Putin, non so se te lo ricordi…"
"Come se fosse ieri".
"Già, dimenticavo. Anche se nella realtà russi e sudanesi hanno respinto ogni addebito: la guerra l'hanno fatta gli iraniani, più o meno da soli, e non si è trattata di un'invasione, ma di un bombardamento – e soprattutto, Dio si è ben guardato dal fermare Gog all'ultimo momento, come aveva promesso al profeta Ezechiele. La responsabilità degli usastri sarebbe quella di aver messo Israele in una situazione in cui avrebbe avuto bisogno di un intervento divino, che alla fine però non c'è stato. E qsta è una seconda teoria".
"Ripugnante".
"Ah, ma c'è di peggio. C'è chi sostiene che Dio non abbia affatto mentito al profeta, e che abbia realizzato tutto ciò che gli aveva promesso. I sostenitori di qsta tesi sottolineano l'attacco del capitolo 39… Aspetta un attimo… qui:

Eccomi contro di te, Gog, principe capo di Mesech e di Tubal.
Io ti sospingerò e ti condurrò
e dagli estremi confini del settentrione ti farò salire
e ti condurrò sui monti d'Israele.
Spezzerò l'arco nella tua mano sinistra
e farò cadere le frecce dalla tua mano destra.
Tu cadrai sui monti d'Israele
con tutte le tue schiere e i popoli che sono con te:
ti ho destinato in pasto agli uccelli rapaci
d'ogni specie e alle bestie selvatiche.
Tu sarai abbattuto in aperta campagna, perché io l'ho detto.
Oracolo del Signore Dio.
Manderò un fuoco su Magòg
e sopra quelli che abitano tranquilli le isole:
sapranno che io sono il Signore".
.

"E questo cosa vorrebbe dire?"
"Non è chiaro, ma secondo alcuni in realtà Gog rappresenta proprio il moderno Stato d'Israele: Dio ha permesso che si riformasse grazie a gente venuta "dagli estremi confini del settentrione"… sai, la massiccia immigrazione russa… poi, quando Israele si accinge ad attaccare preventivam l'Iran, è sempre Dio a «spezzare il suo arco»".
"Ma non è stato l'Iran a colpire per primo?"
"Forse. E secondo altri, è stato Dio a fare esplodere le testate israeliane a terra".
"E perché lo avrebbe fatto?"
"E che ne so. Dio è Dio, e soprattutto qllo dell'Antico Testamento, non va molto per il sottile"
"Sono stronzate, Mac. La verità è che un regime islamofascista ha compiuto un atto senza precedenti contro Israele…"
"E la Palestina. Ti scordi sempre la Palestina".
"…e la colpa è anche di quelli come te, che con la loro indifferenza hanno permesso che l'unica democrazia del Medio Oriente rimanesse isolata e…"
"No, aspetta. Io sarò anche indifferente, ma gli israeliani non avevano bisogno del mio aiuto. Si sono isolati da soli".
"Lo vedi. Lo vedi. La gente come te non cambia mai. Dopo vent'anni ragioni ancora in quel modo. E allora dillo. Dillo che secondo te se la sono cercata".
"Non lo dico".
"Ma lo pensi!"

Qnto mi fa incazzare.
Tanto più che magari ha ragione.
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Eugène Delacroix: Giacobbe lotta con l'angeloIn difesa di Sodoma, II
Continua da ieri
E infatti:

Il secondo motivo è legato allo schieramento di destra, il quale minaccia che nel giorno dello smantellamento delle colonie anche i suoi sostenitori agiranno secondo la propria coscienza rifiutando di collaborare con gli ordini del governo in carica e cercando addirittura di ostacolarne i propositi. E' quindi assolutamente impossibile accettare ora il rifiuto degli ufficiali della sinistra perché ciò legittimerebbe anche l'eventuale rifiuto dei militanti della destra. Il giorno della separazione fra i due popoli, allorché sarà necessario sgomberare le colonie, il governo si troverà a sostenere un esame improbo, violento al punto da rasentare la guerra civile. I sostenitori della pace dovranno perciò presentarsi a tale esame con le mani pulite e dire alla destra e ai coloni: noi siamo stati fedeli alla democrazia anche quando questa agiva contro i nostri principi, ora tocca a voi accettare le decisioni della maggioranza.

Questo è un punto cruciale, non solo per Israele, ma anche per noi italiani. Cosa intendiamo quando usiamo la parola "democrazia"?. Per noi (in teoria), la democrazia è il regime in cui tutti i cittadini hanno pari diritti. Per Yehoshua si tratta più semplicemente del governo della maggioranza. Se la maggioranza decide di sgomberare le colonie, sgomberare le colonie è giusto: finché, però, la maggioranza sostiene Sharon, le colonie restano occupate, anzi, crescono, vanno difese con la forza, e chi si rifiuta di difenderle commette un diritto di Lesa Democrazia.
Yehoshua non sembra capire che esistono Leggi al di sopra delle maggioranze: secondo queste Leggi (che in questo caso sono risoluzioni dell'Onu) l'occupazione dei territori è illegale. Perciò rifiutarsi di invadere i Territori è giusto, mentre opporsi allo smantellamento delle colonie è sbagliato. Non importa se la maggioranza di Israele la pensa in un modo diverso: la maggioranza degli israeliani sbaglia, e quella manciata di obiettori ha ragione.
Anche in Italia, a volte, capita che un Presidente del Consiglio indagato cerchi di cambiare alcune leggi per evitare una sentenza sfavorevole, e i suoi avvocati dichiarino che dopotutto è un suo diritto: è stato eletto dalla maggioranza degli italiani… Quegli avvocati, come Yehoshua, hanno una visione distorta della democrazia e della legalità.
Anche in Germania (e mi dispiace, ma qui il paragone regge davvero) è capitato che negli anni Trenta un partito dichiaratamente xenofobo e antisemita ottenesse la maggioranza in parlamento: questo può giustificare i crimini contro l'umanità commessi dai nazisti, ordinati dai loro governanti ed eseguiti dai loro sottoposti? Naturalmente no.
Ma anche Sharon ha ordinato e sta ordinando ai suoi sottoposti di commettere crimini contro il popolo palestinese. Il fatto che dietro di sé abbia il consenso della maggioranza del popolo israeliano non è un'attenuante, anzi, è una vergogna per tutta Israele, così come avere dato il proprio consenso al regime nazista è un'onta per tutto il popolo tedesco. Lo sappiamo già: a guerra finita, centinaia di semplici esecutori si scuseranno dicendo che loro in fondo non erano d'accordo, non si rendevano conto, "eseguivano gli ordini": bene, il giusto, in questi casi, è colui che si rifiuta di "eseguire gli ordini". I refusnik, che per Yehoshua minacciano la "fragile" democrazia israeliana per noi sono gli unici veri difensori della civiltà d'Israele. Ma c'è un terzo argomento:

Il terzo motivo è legato al tipo di lotta in atto tra noi e i palestinesi. Quando gli ufficiali e i soldati sostengono di dover assumere un atteggiamento brutale e disumano contro la popolazione civile ai posti di blocco e nel corso dei pattugliamenti delle vie cittadine, hanno ragione solo in parte. Infatti tali comportamenti inclementi nei confronti di cittadini innocenti sono mirati a intercettare guerriglieri palestinesi che non vogliono soltanto liberarsi, giustamente, dal giogo dell'occupazione israeliana, ma anche scacciare gli israeliani da tutta la regione. La nostra quindi non è una lotta solo per mantenere gli insediamenti e l'occupazione ma anche per difendere il diritto stesso alla nostra esistenza.

Qui il ragionamento di Yehoshua tocca le vette dell'assurdità. Un guerrigliero palestinese vuole liberarsi dal giogo dell'occupazione: quindi è un patriota. Ma allo stesso tempo potrebbe anche voler scacciare gli israeliani dalla regione: quindi è un terrorista. Come sciogliere questo nodo inestricabile di motivazioni? Nella solita salomonica maniera: nel dubbio, sparate. Sparate a loro, alle loro case e alle loro famiglie, malgrado la Bibbia dica chiaramente che le colpe del padre non dovrebbero ricadere sui figli.
Questa logica contorta non può essere ritorta contro Yehoshua e il suo popolo? Sharon vuole difendere i suoi connazionali: quindi è un patriota. Ma vuole anche scacciare i palestinesi dalle loro terre: quindi è un violento conquistatore. Yehoshua stesso ammette che "Tutto si confonde e nella stessa azione offensiva possono coesistere elementi di conquista coloniale a fianco del diritto elementare di difesa dello Stato". E a questo punto, se tutto si confonde, cosa dovrebbe fare la comunità internazionale? Nel dubbio potrebbe anche bombardare, come ha fatto in Iraq (Saddam Hussein invase il Kuwait indipendente) e in Serbia (Milosevic voleva eliminare la comunità albanese in Kossovo). Naturalmente questo non accadrà: ed è meglio così. Ma la logica è più o meno la stessa. In maniera pacata e apparentemente ragionevole, Yehoshua ci ha spiegato che, siccome qualsiasi combattente palestinese potrebbe essere un terrorista, tutti i combattenti palestinesi devono essere trattati come terroristi. E chi abita nelle loro case è complice dei terroristi. Non male, per un intellettuale pacifista israeliano.

Torniamo ad Abramo. Ricordate? Dio gli aveva appena promesso di farlo padre di una grande nazione. Le grandi nazioni hanno bisogno di spazio vitale, e quegli svergognati sodomiti e gomorrei occupavano le fertili sponde del Giordano. Perché darsi pena per loro? Un altro avrebbe incitato Dio a ridurle in polvere. Abramo no. Perché? Non è chiaro. I patriarchi della Bibbia sono strani personaggi, astuti, violenti, passionali, ma anche capaci di slanci improvvisi e indecifrabili. Abramo, noto soprattutto per la sua cieca obbedienza agli ordini di Dio, qui mostra un temperamento tutt'altro che remissivo. Pur di salvare i sodomiti (suoi potenziali nemici) si arrischia in una estenuante trattativa col Dio a cui deve tutto, un Dio notoriamente geloso e irascibile. Perché lo fa? Per un sentimento di giustizia superiore a ogni cosa. Superiore alle ragioni dei popoli e persino a quelle di Dio. Non importa quel che fa la maggioranza dei sodomiti: persino Dio non ha il diritto di torcere un capello all'uomo giusto.
Qui Abramo meriterebbe il nomignolo appioppato a suo nipote, "Israele", che significa "colui che ha combattuto contro Dio e contro gli uomini, e ha vinto" (Gn 32,29). Vincere contro gli uomini non è un'impresa eccezionale, ma vincere contro Dio, ottenere la sua misericordia, è qualcosa di miracoloso, di rivoluzionario. Se ne rendono conto i figli di Abramo sparsi nel mondo, gli ebrei, i musulmani, i cristiani? Se ne rendono conto gli israeliani, che per stanare i terroristi sparano alle ambulanze della mezzaluna rossa? La maggior parte no, non se ne rende conto. Ma qualcuno c'è, qualcuno che nel fragore della guerra intercede per Sodoma, per il nemico. Non sono tanti, certo. Ma a Dio ne bastavano dieci. Anche noi, facciamoceli bastare. Condanniamo Israele, ma non odiamolo.
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In difesa di Sodoma

La Genesi (capitolo 18) racconta la fine di Sodoma e Gomorra, le città nella valle del Giordano che Dio volle distruggere a causa dei loro peccati, e di come prima di procedere alla distruzione Dio stesso – in via del tutto eccezionale -– fece tappa da Abramo, che offrì per l'occasione focacce di fior di farina. Allora Dio annunciò che Abramo sarebbe stato padre di una grande nazione "in cui saranno benedette tutte le nazioni della terra" (18,18), ma anche la fine delle due città vicine: "il grido contro di loro è molto grande, e il loro peccato è molto grave"(18,20).

Abramo, che è un brav'uomo (e poi a Sodoma ha parenti), fa quel che può per salvare le città. La sua arringa è ben congegnata. Il patriarca parte da un assurdo: mettiamo, dice, che a Sodoma ci siano cinquanta giusti. "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l'empio! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" Dio accusa il colpo, e si fa strappare una concessione non da poco. "Se a Sodoma troverò cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò tutta la città" (18,24-26).

Stabilita così la legge del perdono, a Abramo non resta che proseguire in discesa: "Mettiamo", prosegue, che ce ne siano solo 45: vuoi distruggere una città intera per cinque giusti in più o in meno?" E Dio abbassa la soglia a 45. "E se fossero solo quaranta, trenta, venti?" Fino alla manfrina finale: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là si di giusti se ne troveranno solo dieci". E il Signore: "Non la distruggerò per riguardo a quei dieci" (18,32). Dopodiché si dilegua, prima di concedere ulteriori ribassi. Sodoma, è noto, sarà distrutta ugualmente: ma da allora il popolo di Abramo sa che bastano dieci giusti a salvare una città. Anche noi, teniamocelo per detto.

Prima di accusare Israele (il moderno Israele) di genocidio o quant'altro, sarà opportuno verificare se non ci sia almeno una manciata di giusti, a Gerusalemme ovest o a Tel Aviv, che si siano opposti alla guerra. Non li troveremo tra i laburisti al governo, i cosiddetti 'laici' che non hanno mai veramente ostacolato l'occupazione dei territori. Piuttosto vorremmo cercarli tra gli intellettuali: forse che non ci sono intellettuali pacifisti in Israele? Anzi, abbondano. C'è Yehoshua, per esempio, che sulla Stampa è tradotto un giorno sì e l'altro no: Yehoshua che per esempio ieri bacchettava severamente l'intellettuale portoghese Saramago, reo di aver paragonato Ramallah ad Auschwitz e gli israeliani ai nazisti: in questo modo non si calmano gli animi, anzi, si incitano i terroristi a massacrarci, dice. Per poi chiedersi: perché gli europei continuano a insistere con questo assurdo paragone coi nazisti? Forse per esorcizzare il loro proprio passato, quello sì nazista, o almeno collaborazionista. È un'ipotesi molto interessante, e molto sottile. I rastrellamenti, i prigionieri marchiati con inchiostro indelebile, i campi profughi dove i libri sono vietati e sotterrati (Dheishe), la guerra lampo dei tank (in tedesco si dice Blitzkrieg) la propaganda nazionalista e razziale, la sopraffazione, sono altre possibili spiegazioni (molto meno sottili), che a Yehoshua per ora non vengono in mente.

Yehoshua non potrebbe essere chiamato in difesa di Sodoma? Yehoshua è tutto meno che un fanatico; ha firmato a suo tempo un appello di intellettuali israeliani per la pace; vorrebbe che i laburisti lasciassero il governo e appoggiassero il ritiro unilaterale dai territori occupati. Yehoshua è senz'altro in buona fede quando si proclama intellettuale pacifista; ma proprio questa buona fede è drammatica. Ecco un brillante scrittore che vive in Israele, e che ha modo di guardarsi attorno e ragionare. I suoi ragionamenti, che a Tel Aviv sanno di buon senso, a Betlemme suonano già deliranti: e altrettanto deliranti suonano in Italia, a me almeno. Ho ancora in mente l'articolo di un mese fa (segnalato da Frederic) in cui criticava il manifesto degli obiettori di coscienza. Quella manciata di militari che rifiutano di intervenire nei Territori: alcuni di loro (una decina) attualmente sono incarcerati. Che cosa può avere il pacifista Yehoshua contro di loro?

Vorrei ora spiegare ai lettori italiani le ragioni di questo mio atteggiamento. Il concetto di governo è estremamente nuovo nella storia ebraica. Durante tutto il periodo della diaspora gli ebrei hanno vissuto in un contesto esistenziale libero da ogni imposizione da parte dei loro connazionali. Gli israeliti potevano discutere fra loro, litigare, ma nessuna autorità o governo ebraico li poteva costringere a determinate azioni o comportamenti. Essi erano sudditi di un potere «gentile» ma affrancati da qualsiasi sovranità ebraica. E' possibile dunque affermare che la vita ebraica nella diaspora fosse sostanzialmente anarchica. Il prezzo pagato per tale anarchia, in termini di sterminio e di assimilazione, è noto a tutti. La creazione dello Stato di Israele ha cambiato radicalmente questa situazione. Gli ebrei si sono liberati dal potere straniero per creare una propria sovranità in un regime democratico. La democrazia israeliana non è perfetta, è vero, come molte al mondo, ma è pur sempre garantita da elezioni libere e dal rispetto della libertà di parola e di stampa. Qualunque lesione del tessuto di questa giovane e fragile democrazia (fragile non tanto per il pericolo dell'imposizione di un regime totalitario ma per il rischio di precipitare nell'anarchia), quale il rifiuto di adempiere all'obbligo militare, è quindi pericolosa e non va incoraggiata.

Per Yehoshua, insomma, gli israeliani sono ancora ragazzini che devono abituarsi al concetto di "sovranità", guai a sgarrare, l'obiezione di coscienza è un lusso di nazioni più mature, come l'Italia. Nessun lettore italiano, immagino, si è preso la briga di spiegargli che la Repubblica italiana e lo Stato d'Israele hanno più o meno la stessa età: del resto anche da noi esistono intellettuali pronti a spiegarci che passiamo col rosso perché ancora non ci fidiamo dell'Autorità costituita. Per Yehoshua Israele è dunque continuamente sul punto di cadere in una non meglio definita anarchia. È un'idea plausibile? Ci sono precedenti storici? Sì. In anarchia vivevano gli israeliti giunti alla Terra Promessa dopo la fuga dell'Egitto. È un lungo periodo oscuro, di guerre, faide e lotte tra tribù, narrato nella Bibbia e precisamente nel Libro dei Giudici: ogni tanto nel testo compare questo versetto a mo' di spiegazione: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re". Il finale (21,25) è ancor più eloquente: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re: ognuno faceva quel che gli pareva meglio". E infatti Israele era lacerato da guerre intestine, ed esposto agli attacchi di Filistei, Amorrei, ecc.. È chiaro che Yehoshua non ha più ragione per temere Filistei e compagnia. Teme però "lo sterminio", malgrado Israele sia un membro riconosciuto della comunità internazionale, e "l'assimilazione": assimilazione con chi? Forse con gli otto milioni di profughi palestinesi che chiedono di rientrare nella loro Patria, e che col loro maggiore tasso di natalità minacciano la 'purezza' dei cinque milioni di israeliani. Per questo, oggi come ai tempi di David e Salomone, "Israele deve avere un re". Questo re si chiama democrazia. Imperfetta, "è vero": ma guai a chi la mette in discussione. E infatti:

(la tirata contro Yehoshua continua domani perché è veramente troppo pesante)
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Pseudo-cripto-ebrei

Chi cerca un'identità guarda spesso al passato. Tutti noi, anche se poveri, ci crediamo almeno gli eredi di una tradizione, di una cultura. Se ci fosse richiesto di definirla ci troveremmo in difficoltà. Se ci fosse chiesto un documento scritto, citeremmo poderosi volumi che probabilmente non abbiamo mai letto. È possibile che i talebani, "studenti di teologia", non abbiano mai letto il Corano (del resto un lettore della Bibbia può mettere in difficoltà un sacerdote in pochi secondi).
Tutto questo nostro passato, ricco di cultura e tradizioni, forse è solo frutto della nostra immaginazione.

Questa è la strana storia dei finti cripto-ebrei del Nuovo Messico.
I cripto-ebrei sarebbero gli ebrei spagnoli che avevano conservato clandestinamente le tradizioni e la religione originaria anche dopo le conversioni forzate al cristianesimo, volute dalla corona di Spagna. Nessuno dubita che cripto-ebrei ce ne siano stati veramente, anche a prescindere dalle paranoiche 'cacce all'ebreo' scatenate dall'Inquisizione spagnola in tutti i territori del re cattolicissimo.
Tra questi territori c'era anche il Nuovo Messico, oggi uno dei 50 Stati Uniti d'America. È lì che all'inizio degli anni Ottanta lo storico Stanley Hordes, intrigato dalla presenza della stella di David su alcune lapidi, scopre le tracce di un'antica comunità cripto-ebraica, e individua addirittura gli eredi viventi dei cripto-ebrei. Come scrive Marco D'Eramo

Man mano che le sue ricerche si venivano a sapere, spontaneamente gli si presentavano persone che testimoniavano: "Quel tale è ebreo perché..." o altre che ricostruivano alcuni lati oscuri della propria infanzia e nell'ebraismo nascosto dei propri genitori scoprivano la ragione per cui da piccoli non erano stati mai a messa o non avevano mai mangiato maiale.

La cosa attira naturalmente l'attenzione della comunità ebraica statunitense (stavo per dire "della potente lobby ebraica statunitense", ma diavolo, sempre con questi luoghi comuni e anche un po' antisemiti…). Vengono raccolte testimonianze, girati documentari… nel frattempo gli eredi dei criptoebrei, riscoperta la loro cultura, iniziano a convertirsi, a circoncidersi, a compiere viaggi in Israele. In breve innalzano anche una sinagoga.
Nel frattempo la storia del cripto-ebraismo si sgonfia. Un'altra ricercatrice, Judith Neulander, esamina tutte le ingegnose prove escogitate da Hordes e le confuta, una ad una. La presunta antica comunità cripto-ebraica si rivela essere una non meno curiosa comunità protestante, di origine avventista, arrivata nel New Mexico dal Midwest. La stella di David e i nomi ebraici erano parte integrante del folklore di questa setta che si riteneva una delle tribù perse d'Israele.
La domanda che sorge spontanea è: cosa faranno quei poveri cripto-ebrei che nella scoperta del loro cripto-ebraismo avevano magari trovato un senso alla loro esistenza? Si convertiranno daccapo alla Chiesa del Settimo Giorno? Se, come pare, qualcuno ha già trovato la ragazza in Israele, è un po' troppo tardi per riconoscere che le proprie radici sono frutto di un malinteso.

La storia degli pseudo-cripto-ebrei c'insegna qualcosa? A non prendere troppo sul serio le identità culturali? A non sentirsi sulle spalle secoli di Storia? Invece di rimproverarci le frustrazioni di un'educazione cattolica bimillenaria, potremmo accorgerci che il nostro presunto retaggio culturale non va più indietro del Concilio Vaticano II, e che tutto quello che c'è stato prima ci è altrettanto estraneo dei misteriosi cripto-ebrei – ma forse dovremmo concludere che ne sappiamo veramente poco, sulla Storia e su di noi… l'articolo di marco D'Eramo sul caso dei cripto-ebrei è comparso mercoledì sul Manifesto. Una ricostruzione appassionante (ma in inglese), è sul numero del Dicembre 2000 di Atlantic on Line.
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La cultura è un virus


Cultura e conoscenza
Sarebbe interessante poi cercare di capire in cosa consistano effettivamente quel tipo di culture di cui parlavo qualche giorno fa, quelle al centro di ogni discorso sull'identità e l'appartenenza. In una somma di nozioni, di concetti, di valori, di miti? Un po' di tutto questo, e anche un po' di nulla.
Non bisogna sopravvalutare i documenti scritti, quelli forse non sono mai stati così importanti. Il corano non basta a capire l'Islam, la Bibbia non basta a capire il cristianesimo, anzi è quasi fuorviante (per un po' di tempo credo che fu persino messa all'indice). E sono due religioni cosiddette "del Libro": figurarsi altre culture più orali.
Ma in genere mi sembra che queste 'culture' non si situino mai troppo vicino a qualsiasi fonte di informazioni o conoscenze. Il sospetto è che della conoscenza facciano volentieri a meno. La nostra 'cultura occidentale' ci permette di sentirci tutti un po' marxisti, un po' nietzchani, un po' froidiani, ecc... anche se non c'è mai venuto il benché minimo desiderio di leggere o studiare questi autori così importanti. Dei quali in fondo, cosa sappiamo? Cosa ne sappiamo veramente, della nostra cultura occidentale? Non c'è bisogno di saperne niente perché tanto la respiriamo tutti i giorni. Ci svegliamo la mattina, beviamo un caffè, la marca del caffè appartiene a una multinazionale, e in questo modo noi assorbiamo la cultura occidentale...
oppure andiamo in vacanza, in vacanza si beve sangue di serpente, e può essere il modo più spiccio per assorbire una cultura orientale...
(insomma la cultura come qualcosa da mangiare piuttosto che da leggere).
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