Prima della battaglia

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Un discorso di destra

Nei prossimi mesi nel Pd voleranno pugnali. Niente di nuovo ma, vorrei aggiungere, niente di male. È questo che farà del Pd un vero partito: discussioni serrate intorno a idee e candidati, con scontri veri, vincitori e caduti. Non cominciamo a stracciarci le vesti intorno al solito partito litigioso coi soliti D'Alema e Veltroni che litigano. Il problema di Veltroni e D'Alema non era che litigassero; è che non l'abbiano mai fatto fino in fondo. Dai, che potrebbe essere la volta buona.

Il punto è capire su cosa si litiga. Se lo scontro sarà semplicemente per imporre l'apparato dalemiano (diciamo bersaniano, così almeno sembra una cosa nuova) contro quello degli ex veltroniani, ci perderanno entrambi, e il Congresso sarà una cosa deprimente. Attenti, perché anche il dibattito sulla Serracchiani rischia di portarci su quella strada: giovani sì, giovani no, quelli delle primarie contro “i professionisti che fanno il giro delle sezioni”, eccetera.

Se invece lo scontro è tra due o più concezioni della politica e del partito, sarà una cosa appassionante, chiunque vinca alla fine: e una lezione di democrazia per tutti (ok, a nessuno interessano lezioni per ora, ma in futuro non è detto).

Si tratta quindi di capire in cosa consista il dalem... il bersanismo, Bersani a parte. È un'ideologia? Forse per adesso è più facile definire il franceschinismo.

Come chiave di lettura prendo una frase buttata lì da Franceschini in campagna elettorale, che fece molto rumore e divise profondamente lo stesso elettorato pd (perlomeno quella esigua porzione che conosco io). “Fareste educare i vostri figli da Quest'Uomo?” Ci fu chi inorridì, chi la trovò una perfetta provocazione. Ecco, per me in quel momento ci siamo trovati davanti a una quintessenza del franceschinismo. Berlusconi va rigettato in quanto incapace non solo di governare, ma di educare. Gli italiani devono essere educati a riconoscere in Berlusconi una figura diseducativa, e quindi a non votarlo – e magari a scegliere un tipo dimesso ma autorevole come Franceschini, che è ancora un giovane arbusto, ma da come si porta lo capisci che si presta a invecchiare come una quercia alla Berlinguer (un Berlinguer cattolico: l'Arma Finale. Se gli italiani che votano oggi fossero quelli del 1978).

Di fronte a un discorso del genere, il dalem... il bersaniano scrolla la testa: non capirete mai. Ma come, non li conoscete gli italiani? A loro Berlusconi piace così com'è. Cialtrone com'è, e come sono loro. Chi non vorrebbe la megavilla al mare con gelato e gnocca gratis. Faresti educare tuo figlio dall'Ospite di Topolanek? Magari, così mi viene su bello solare e senza complessi. No. Finché si continua a insistere sulla figura di Berlusconi ci si mette dalla parte dei perdenti. Invece noi, noi dalem... democratici, dobbiamo spostare il discorso sui problemi, sui veri problemi del Paese. Eccetera.

Chi ha ragione? Tutti ne hanno un po'. Chi è più a sinistra? Forse non è così importante. Da che parte sto io? Con Franceschini, per ora. No, pensandoci bene sto con Franceschini da una vita. Io nell'importanza delle figure autorevoli ed educative ci ho sempre creduto. Forse perché sono di formazione più cattolica che eurocomunista. Sia come sia, per me in quel momento F. aveva centrato il punto: sappiamo benissimo che Berl. è un punto di riferimento esistenziale per gli italiani. Persino per noi. Una villa, una velina o una squadra di calcio gliela invidiamo tutti con piacere. Ma questo non ci porta a eleggerlo nostro rappresentante, o Presidente del Consiglio dei Ministri. O per lo meno, questo non dovrebbe succedere. Non chiediamo agli italiani nemmeno di essere migliori, ma almeno di non eleggere il rappresentante degli interessi del loro Basso Ventre Collettivo. Un leader, non un capocomico; un diplomatico, non un intrattenitore; un esempio per i giovani, non il vecchietto bavoso. Cosa c'è di male in un discorso del genere.

C'è che forse non è più un discorso di sinistra. Dietro la parola “Autorevole” c'è pur sempre “Autorità”. Il leader che viene preso ad esempio dai giovani, proiezione del Padre, ci riporta a un modello pre-berlusconiano di società che è fondato sulla gerarchia, e che se non è cattolico è fascista addirittura.

D'altro canto educazione ed autorevolezza dei leader erano chiodi fissi anche del vecchio PCI. D'altro canto, ehi, date un'occhiata in giro. La sbornia consumistica è finita: il berlusconismo è un rito edonistico che sopravvive a sé stesso. Lo scontro prossimo venturo sarà tra chi, come Berlusconi, insisterà per considerarci “undicenni neanche tanto intelligenti”, mero bacino di consumo, e chi proverà per primo a proporci qualcosa di nuovo. Prima o poi gli italiani dovranno accantonare le fantasie di lusso sfrenato, rimboccarsi le maniche e combinare qualcosa: cosa, dal momento che nessuno per anni gli ha insegnato nulla? C'è già una certa voglia di autorevolezza in giro. Ce ne sarà sempre di più nei prossimi anni.

È triste che tutta questa voglia debba essere intercettata da un personaggio come Gianfranco Fini. Triste perché Fini, di autorevole, ha solo la facciata messa tempestivamente in piedi da quando si è trovato senza partito di riferimento. Ma dietro c'è sempre la solita banderuola, l'uomo che può cambiare opinione sugli stranieri, sulle guerre coloniali, su Israele, sui grandi statisti del Novecento, a seconda della convenienza del minuto secondo.

A questo punto, se il Pd nel frattempo fosse diventato il partito della serietà, del primato dell'educazione, con candidati autorevoli e credibili, potrebbe sfondare anche a destra. Non al centro, dove ormai non cresce più l'erba, e il gioco è sempre a chi riceve più prontamente i diktat dei vescovi. A destra, dove c'è una certa idea del rispetto per l'autorità, e quindi la necessità di individuare padri autorevoli, e Berlusconi non lo è; La Russa non lo è; Capezzone non lo è; nessuno che negli anni scorsi si sia inchinato al clown di Arcore lo è.

Quello che vorrei estrarre da questi pensieri ad alta voce è che l'esigenza di una leadership autorevole può essere anche un problema “di destra”, ma non è per questo meno necessaria, meno legittima, meno importante. Senz'altro è un mio problema, e mi è piaciuto che Franceschini lo mettesse sul piatto della bilancia. Certo, i problemi della sinistra sono altri. Ma magari ne parliamo un'altra volta, con idee più chiare.
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Gelateria bipolare

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L'eurosagra del Partitino

(In tv, tripudi di analisi sulle elezioni. Scendo in strada: una famiglia di cinesi, due pachi, un magrebino. Qual è il Paese reale, quello in cui vivo io? Gran parte di chi passeggia qua fuori non ha votato. Buona parte non risulta nemmeno nelle statistiche sull'astensione. Ma vi sembra normale che essere italiani sia una caratteristica innata, come essere anemici, o Scorpione? A me no, e forse questo dovrebbe chiudere il discorso. Voto agli immigrati, subito. E non m'interessa se voteranno a destra. A questo punto forse preferirei una Lega Nord con candidati nordafricani a un Pd ariano).

C'è una gelateria di provincia che ha un problema di gestione: non riesce letteralmente a fornire un servizio (=gelato) decente ai suoi clienti. La nocciola è troppo dura, non si spalma sul cono. La fragola per contro si squaglia immediatamente sulle scarpette delle bambine che piangono. Chi chiede il pistacchio rischia l'intossicazione. I guadagni al netto delle spese sono scarsi.
Il gelataio si pone interrogativi seri sulla sua vocazione, finché una sera, durante una vacanza all'estero, ha un'intuizione: bisogna ridurre i gusti, come in Inghilterra. “Ma certo, come ho fatto a non pensarciprima. Il problema non ero io, ma il mio retaggio culturale che mi obbligava a tenere dieci vaschette per soddisfare i variegati gusti di un pubblico che poi, se vai bene a vedere, alla fine non sa cosa vuole e sceglie sempre cioccolato o limone. Col risultato che, appunto, la temperatura di congelamento della nocciola non andava bene per la fragola, e il pistacchio andava a male perché era un gusto di nicchia e restava nella vaschetta per mesi”.
Una volta tornato a casa, si affretta a lanciare la sua nuova gelateria bipolare: al posto di tutte le vaschette colorate, due vasche enormi: limone e cacao. Sulle prime la gente mugugna: non siamo mica in Inghilterra qui, se vogliamo nocciola non ci puoi dire che tanto il cacao è la stessa cosa. Alla fine però quasi tutti si adeguano, anche perché alternativa non ce n'è.
A dire il vero una c'è: la grande fiera europea, un carrozzone che passa ogni cinque anni, e comprende una gelateria itinerante a 12 gusti. Ora, nel paesino è vero che sono di poche pretese, ma quella volta che passa il carrozzone è normale che si sbizzariscano: come puoi biasimarli? Anche i patiti del cioccolato, li vedi passeggiare con certi mostri, mango+stracciatella con spruzzatina di curry. Poi la fiera se ne riparte, e riapre la gelateria bipolare, col suo limone e il suo cacao.

V'è piaciuta la parabola? Altre da servirvi oggi non ne ho, mi dispiace. Mi sto specializzando in storielle cretine? È possibile; voi da parte vostra non cedete all'ovvio di chi scopre in queste ore che gli italiani non sono bipolari, pensate un po', perché alle europee votano per i partitini. Non è niente di nuovo, davvero: le europee servono a questo. Sono la nostra riserva di proporzionalità, la sagra del partitino che ogni cinque anni per un pomeriggio ci fa sentire speciali. Ma passa subito, e il giorno dopo torniamo bipolari: berlusconiani o anti, comunisti o anti, antianti o anti.

Il punto è che gli italiani non sono necessariamente bipolari o frazionati: sono un insieme enorme di persone che reagiscono a domande. Se le domande pongono un'alternativa secca (“Amate il Berlusconi Way of Life o no?” “Più Stato o più individuo?” “Ragione o religione?”) si polarizzeranno; se la domanda è vaga “Chi sei tu?”; “Che futuro vorresti per i tuoi figli?” si disperderanno in una pletora di risposte vaghe. Le Elezioni Europee sono una domanda vaga. Ecco forse spiegato il paradosso delle elezioni supernazionali che in assoluto diventano le più locali: quelle dove possiamo toglierci lo sfizio di votare chi ci assomiglia di più. E questo magari potrebbe anche servire da risposta a chi si lamenta, puntualmente “che non si parla mai dell'Europa”: di che Europa dovremmo parlare? A dire il vero un'idea di Europa ce l'abbiamo tutti, ed è meno nebulosa di quanto si creda: per i leghisti è quella cosa in cui i turchi non devono entrare; per Di Pietro è una serie di leggi a cui anche gli intrallazzoni italiani devono sottostare. Tutto qui, ma c'è veramente molto da aggiungere?

Aspettate, mi è venuta un'altra metafora, magari è quella buona: se le elezioni legislative sono il momento di massima polarizzazione, quello in cui tutto il nostro coefficiente di sovranità si concentra in due schieramenti, le europee sono al punto opposto del ciclo: nel momento in cui sentiamo meno la necessità di compattezza e ci liberiamo alle nostre esigenze identitarie, estetiche, culturali, ecceccecc. Da questo punto di vista non ha nemmeno tantissima importanza dove rifluisce il nostro voto tra una legislativa all'altra: ai leghisti di lotta e di governo o a Casini, o a nessuno; non importa: tra quattro anni tornerà da Papi – se Papi tiene. Variabile indipendente.

Stesso discorso a sinistra: se persino i più onesti tra gli uomini del Pd non stanno stracciandosi le vesti per quel vergognoso 26% è perché sanno che il risultato è più che sufficiente a tenere la posizione di maggior partito di centrosinistra intorno al quale, nel momento di massima contrazione (tra quattro anni, o anche prima) si coalizzeranno volenti e nolenti i radicali, i dipietristi, i vendoliani, i non votanti, tutti quelli che non si rassegnano a mandar già l'amaro cacao governativo. Andrà così? Andrà così.

Sarà necessariamente una nuova battaglia pro o contro Berlusconi? Non è detto: B potrebbe anche non esserci più. Oppure da qualche parte potrebbe saltare fuori un leader, un obama capace di sintetizzare la linea di un centrosinistra italiano che a ben vedere non ha più contraddizioni di quello inglese o tedesco (ha semplicemente una storia più complessa di faide interne). Anzi, in linea teorica non sarebbe nemmeno necessario un grande leader: potrebbe esserci una svolta generazionale, una presa di coscienza collettiva... sì, sarebbe fenomenale, ma si fa molta meno fatica a puntare tutto su un leader. La Serracchiani? Perché no. Io non vado matto per il concetto di leadership, e il culto della personalità non mi è mai riuscito bene, ma l'esempio americano mi sembra l'unico che abbia funzionato negli ultimi anni, mi piaccia o no. Farò il possibile per farmelo piacere – ma ogni cinque anni fatemi prendere un cono meringa-papaya. Uno solo. Poi dicono che non serve, l'Europa.
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¡Ariba el Psoe!

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La preferenza è un voto in più
Mi è capitato molte volte in questi anni – più o meno una volta l'anno – di scrivere inviti accorati e un po' molesti agli astensionisti di sinistra, affinché compiessero il sacro dovere di mettere una crocetta contro Berlusconi e tutto quel che rappresenta.
Poi, quando arrivava il giorno, andavo anch'io a mettere una crocetta. Quasi mai ho aggiunto una preferenza, ed è tempo che me ne vergogni pubblicamente. Le preferenze sono come l'ossigeno: ci fai caso soltanto quando comincia a mancare. Le ritenevamo pleonastiche, quando non causa di derive clientelari: poi, quando ce le hanno tolte (con la scusa che ormai non le usava più nessuno) ci siamo accorti che era finita la democrazia. E questo è successo proprio grazie ai quasi-astensionisti come me – quelli che credevano che il voto consistesse in una crocetta e ci pontificavano anche su. Chiederei scusa, se servisse a qualcosa. Ma l'unica cosa concreta che posso fare è usare le preferenze domani: forse è l'ultima occasione che ho.
Le preferenze rendono il voto aritmeticamente più pesante: scrivere tre nomi significa votare per tre persone. Aver rinunciato alla possibilità di pesare di più, per tutti questi anni, è stato sorprendentemente stupido da parte mia. E voi magari venivate qui a farvi un'idea. Andate via.

A 24 ore dalla chiusura dei seggi
Siete ancora qui? Per quel che può interessarvi, sto oscillando (non da ieri) tra Pd e Sinistra e Libertà. In principio queste mi sembravano le elezioni giuste per punire il Pd, che fino all'acclamazione di Franceschini le ha sbagliate tutte (acclamazione inclusa). Poi è successo qualcosa, ma non sono del tutto sicuro che sia qualcosa di serio. È successo che Franceschini mi ha sedotto. Ovvero: potrei scrivere un lenzuolo di argomentazioni oggettive per cui oggi trovo che F. sia un leader credibile, ma sotto il lenzuolo ci sta una seduzione mediatica del tutto simile a quella che colpisce gli zombie berlusconiani. Loro inseguono lo spettro del Papi col Jet privato di Stato che li metta in lista alle Feste Giuste; io invece inseguo lo spettro dell'Onesto Padre di Mezza Età che porta in missione la delegazione parrocchiale e sul pullman siede sul sedile di fianco al conducente per controllare che non si allarghi troppo in curva. Posso farla anche più semplice di così: ha un accento emiliano. E io di fronte ai democratici emiliani mi sciolgo, s'è già visto con Prodi e con Bersani, non c'è oggettività o razionalità che tenga. Lasciatemi perdere.

D'altro canto, votare Sinistra e Libertà ha i suoi pro e i suoi contro:

Perché sì

Perché no

Per protesta nei confronti del Pd, che (fascinazione franceschiniana a parte) se lo merita tuttora: per essere stato, sin dal principio, poco Partito e poco Democratico.

Significa prendere parte a una lotta patetico-tribale tra ex e post comunisti. Preferirei di no; anche se credo che l'ultimo congresso di Rifondazione, con Vendola accerchiato dalle mozioni di minoranza, sia stato una porcheria. Certo, sarebbe terribilmente triste se l'unico eurodeputato italiano a sinistra del Pd fosse diliberto-ferreriano.

Per stima nei confronti di un leader: Vendola mi sembra uno dei personaggi più promettenti all'orizzonte (e non ha nemmeno l'accento emiliano).

Votare S&L significa votare socialista. Ahimè, sì, c'è ancora il garofano nello stemma di S&L: è piccolo piccolo ma c'è. Guardiamo al lato positivo: Boselli almeno se n'è andato, o meglio si è rassegnato a non esserci mai stato.

Per un'esigenza di riequilibrio a sinistra, sacrosanta dopo la catastrofe dell'anno scorso. E tuttavia non penso che S&L possa arrivare alla soglia del 4% sotto la quale il mio sarebbe un voto sprecato. Ci sto ancora pensando: votare S&L è una scommessa, e le scommesse si fanno d'istinto.


Alla fine forse la possibilità di accedere on line alle informazioni sui candidati di S&L sarà decisiva; mentre il Pd ha buttato via fior d'euro per un sito disastroso. Non per fare il technosnob, ma affideresti tua figlia a gente che paga quei soldi per un sito così? E l'europarlamento glielo affideresti?

A proposito dell'europarlamento: è maledettamente importante. Le normative UE ce le troviamo intorno tutti i giorni. Detto questo, non capisco perché siamo costretti a votare candidati italiani. Ovvero: capisco perché gli inglesi preferiscano eleggere candidati inglesi, e i polacchi dei polacchi, ma se io italiano volessi votare PSOE? Se ritenessi che un candidato andaluso del PSOE rappresenterà i miei interessi meglio di un candidato del PD, perché non dovrei scegliere lui? Sul serio, perché no? Volevo anche scriverci un pezzo su, poi mi hanno ricoverato. Adesso sto meglio, grazie.
Scherzi a parte, l'unico modo per focalizzare seriamente le euroelezioni su Bruxelles è piantarla lì con le liste italiane. Dovremmo avere sulla scheda PPE, PSE, Europa delle Nazioni, eccetera. Certo, occorrerebbe una rivoluzione copernicana, che per adesso all'orizzonte non c'è, ma ehi, siamo nel 2009, tre giorni fa hanno NAZIONALIZZATO LA GENERAL MOTORS, e c'è un presidente USA nero che tiene lezioni di teologia islamica al Cairo. A questo punto le prossime elezioni italiane potrebbe anche vincerle il PSOE.
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Ortocrazia

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"PURA FALSITA! Vorrei tanto QUERELARE..."

Sarà una mia ossessione privata e professionale, ma l'unica cosa che mi sembra degna d'interesse nella lettera di Gino Flaminio al Corriere è l'ortografia.

Chiarisco subito: non trovo niente di scandaloso negli errori di Flaminio. Anzi, per essere un operaio non se la cava nemmeno troppo male: basta confrontare la sua punteggiatura con quella del "ragazzo Giuseppe" che due anni fa scrisse a Repubblica per lamentarsi degli articoli sensazionalisti sulla scuola. Giuseppe in quell'occasione rappresentava la scuola "buona", quella degli studenti che studiano e si danno da fare; ebbene, azzeccava meno virgole di Flaminio, operaio appassionato di kickboxing con precedenti penali. Questo per dire che l'ortografia è un'emergenza interclassista, ormai.

Il punto è un altro. I giornali esistono da secoli. Da secoli ricevono lettere sgrammaticate dai loro lettori. E da secoli le ripubblicano corrette, in segno di rispetto per chi ha scritto e per chi rileggerà. Finché un giorno il Corriere non decide di pubblicare "nella forma originale nella quale ci è stata consegnata", la lettera dell'ex di Noemi Letizia. Perché? È abbastanza ovvio: perché se l'avessero corretta non sarebbe più sembrata vera. L'ortografia corretta minacciava la credibilità della fonte.

Se ci riflettete, è una situazione paradossale. Flaminio avrà senz'altro qualcuno che cura i suoi interessi (quel minimo da mettergli a posto virgole e accenti); ma è costretto a scrivere sgrammaticato perché altrimenti potremmo credere che non è lui, ma qualcuno che lo imbecca.

Credo che il paradosso dipenda tutto dalla decisione di affidare alla stampa un messaggio concepito e prodotto per un pubblico audiovisivo. Se Flaminio avesse mandato un video, tutti avrebbero accettato la sua parlata napoletana come testimonianza di genuinità. Ma scrivere significa ridurre quel che sei a una catena di parole nere su fondo bianco. Non si sentirà più l'accento tipico, né la timidezza di chi si vorrebbe tirare fuori da una trappola troppo grande. Se gli avessero corretto perfino l'ortografia, sarebbe sembrato un normale lettore del Corriere - e questo rischio non potevano assolutamente correrlo.

Quando da bambino cominciai a leggere giornali (tutti i giornali, Gazzetta dello sport per prima), notai subito una cosa curiosa: i personaggi intervistati sembravano tutti più intelligenti, compresi i ciclisti. Non c'era paragone tra Moser intervistato su un quotidiano e uno aggredito da un microfono in tv. Il primo avrebbe potuto dare lezioni d'italiano al secondo.

Ho sempre apprezzato molto questa cosa. Nella vita capita a tutti di sbagliare i congiuntivi, ma i giornalisti che riportano le nostre idee fanno bene a correggerli. Ci mettono in giacca e cravatta, ci trattano da pari. La democrazia è essenzialmente questo: nessuno pretende che tu operaio sappia mettere le virgole, ma se hai qualcosa d'interessante scrivimelo, e io redattore lo rimetterò a posto. A ognuno il suo mestiere.

Il Gino Flaminio che abbiamo conosciuto ai tempi dell'intervista di Repubblica aveva subito un intervento del genere: si capiva che i suoi pensieri erano stati rimessi a posto, e ciononostante rimanevano i suoi.
Il Flaminio di oggi, che non sa dove mettere l'accento e urla pestando il caps lock, sembrerà a molti più genuino. Soprattutto a chi da anni ha deciso che noi non siamo la nostra foto migliore, ma il filmatino goliardico che abbiamo messo su youtube; a chi vuole le nostre ragazze con l'ombelico in fuori; a chi ci ha insegnato ad applaudire ai funerali. La plebe deve stare al suo posto: si pubblichi senza correggere.
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Dagli abbastanza corda

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C'è un sindaco a Tucson!

Sono sicuro che lo avete già sentito dire almeno una volta, in sala d'aspetto o sull'autobus o a un pranzo di parenti: fino all'anno scorso la scuola italiana era un covo di delinquenti, poi è arrivata lei col voto in condotta, e adesso finalmente le cose vanno meglio. Vedrete che tra un po' lo diranno anche le statistiche.

Davanti a chi la pensa così, che argomenti puoi trovare? Far notare che il voto in condotta in pratica esisteva anche prima? Sì, ti diranno: ma non era in decimi. Per qualche ragione misteriosa pare che “Cinque” sia molto più eloquente e severo di “Non sufficiente”. Oppure potresti cercare di descrivere il subdolo sistema, rozzo e allo stesso tempo raffinato, con cui il genio della Gelmini ha incastrato gli insegnanti in un capestro di circolari contraddittorie. Otterrai il risultato di annoiarli per un paio di minuti finché, al terzo documento che citi, scrolleranno le spalle e ti diranno che questi sono dettagli; l'importante era dare un segnale e il Ministro l'ha dato: chi prende cinque è respinto, punto.

Così alla fine ho pensato di ambientare tutto nel far west, almeno ai leghisti piacerà.
Mettiamola così: a un certo punto la contea di Tucson era impestata dalla piaga dei ladri di bestiame. Arrivavano da nord, da sud, da levante, da ponente; seminole, sioux, irlandesi, polacchi, canadesi, messicani; per tacere dei ladri indigeni e di quelli che rubavano perché non volevano sembrare di meno dagli altri. Le statistiche sulla criminalità erano impietose: la contea risultava la meno sicura dell'Arizona. Finché non ci furono le elezioni, e le vinse (prevedibilmente) il candidato del Partito del Cappio. La notte dello spoglio delle schede il nuovo sindaco si affaccia al balcone del primo piano del saloon, ringrazia la popolazione, e promette solennemente che farà impiccare tutti i ladri di bestiame. Applausi. Applaudono anche i numerosi ladri presenti: un po' per non sembrar da meno, un po' perché anche loro ormai sono convinti che ci si debba dare una regolata, non si può più andare avanti così.

Nei quindici giorni successivi, in effetti, nessuno tocca un solo bovino. Poi però si sa cosa succede. I problemi che c'erano prima delle elezioni (carestia, disoccupazione) non sono spariti di colpo; e il sindaco che ha promesso di appendere i ladri non ha assunto neanche un aiuto-sceriffo, neanche un aumento per l'unico sceriffo Smith, che ogni giorno perlustra tutta la contea. Così una sera Smith va a bussare all'ufficio del sindaco e gli spiega che ha messo al gabbio un pellerosse che trascinava verso il suo accampamento un bue marchiato: flagranza di reato. Che faccio, Doc, lo impicco?

“Che domanda che mi fai, così su due piedi...”
“Doc, con permesso, la legge è Lei. Io da quel che ho capito avrei dovuto impiccarlo seduta stante. Se non l'ho fatto è perché non c'erano alberi alti in zona, e anche perché dopo probabilmente i Sioux scenderanno in città a scalparci tutti quanti, e occorrerà come minimo affittare una posse di pistoleros, e quelli costano un botto, glielo dico subito”.
“Va bene, allora facciamo così. Liberalo”.
“Come liberalo? Ma è un ladro di best...”
“Beh, beh, piano con le parole. Come fai a dirlo?”
“Doc, faccia lei. Trascinava un bue col marchio dei fratelli Manzotin”.
“Si vede che non hai letto bene la circolare”.
“Quale circolare?”
Questa. Dice che sei ladro di bestiame solo quando vieni arrestato 15 volte”.
“15 volte?”
“Tu quante volte l'hai arrestato questo Sioux?”
“Mah, non è che stavo a contarle... tre, quattro”.
“Vedi com'è importante tenere in ordine i registri? Facciamo così, ripartiamo da oggi. Questa è la prima volta che lo arresti. Se lo becchi altre 14 volte, hai la facoltà di appenderlo. La legge dice così”.
“Doc, ma i cittadini avevano capito c...”
“Alt. Tu sei uno sceriffo, non ti devi interessare di politica. Io ho detto che avrei impiccato i ladri e lo confermo: uno che si fa beccare per 15 volte vuoi che non sia un ladro?”
Premessa la scrupolosa osservanza di quanto previsto dall’articolo 3, la valutazione insufficiente del comportamento, soprattutto in sede di scrutinio finale, deve scaturire da un attento e meditato giudizio del Consiglio di classe, esclusivamente in presenza di comportamenti di particolare gravità riconducibili alle fattispecie per le quali lo Statuto delle studentesse e degli studenti - D.P.R. 249/1998, come modificato dal D.P.R. 235/2007 e chiarito dalla nota prot. 3602/PO del 31 luglio 2008 - nonché i regolamenti di istituto prevedano l’irrogazione di sanzioni disciplinari che comportino l’allontanamento temporaneo dello studente dalla comunità scolastica per periodi superiori a quindici giorni.
Smith torna nel suo ufficio, libera l'indiano, e poi va a informarsi per quanti anni gli mancano alla pensione. L'indiano torna al suo accampamento e dice: Sentite un po', pare che in città abbiano cambiato musica. Se ti trovano con un capo dei fratelli Manzotin al massimo ti mettono al gabbio per due ore, poi tanti saluti e tutti a casa. Yu-huu! Yepaheee! Nei giorni successivi c'è una recrudescenza di furti di bestiame. Quando gli irlandesi si accorgono che i sioux fanno quello che gli pare, concludono che lo sceriffo Smith è un porco razzista che ce l'ha solo con loro, e sfogano la rabbia razziando i capi degli altri mandriani. Smith fa quel che può, ma la contea è grande. Inoltre adesso deve tenere un casellario: per ogni ladro che arresta segna una crocetta. Qualcuno così fesso da accumulare 15 crocette viene effettivamente impiccato, ma un ladro normodotato in media non si fa beccare più di dieci volte all'anno. Tucson sprofonda nel caos e tutti se la prendono con lo sceriffo, che non sta mettendo in pratica i sani principi del Sindaco.

“Guardate che non è così”, obietta Smith una sera al saloon. “Il sindaco vi sta fottendo. Vi dice impicco qua e impicco là, ma sapete dopo quanti furti scatta l'impiccagione? Quindici”.
“Ma valà”.
“Vi giuro che è così. Sta scritto in una circolare sulla sua scrivania. Andateci. Fatevela leggere”.

Il mattino dopo, alla buon ora, il postino consegna una nuova circolare a Smith: c'è scritto che lui, in qualità di sceriffo, può impiccare chiunque sappia anche da lontano di ladro di bestiame. Porta la data di una settimana prima. Smith si allaccia il centurone ed esce. Sulla veranda incontra i fratelli Manzotin. “Siamo appena stati dal sindaco, pare che tu ci abbia raccontato un sacco di stronzate”.
“Ma...”
“Niente ma. Tu hai il preciso dovere d'impiccare tutti i ladri che trovi. C'è scritto nero su bianco”.
“Ma fino a ieri...”
“Vuoi sapere cosa pensiamo? Che non stai facendo lo sceriffo, tu”.
“Stai facendo politica”.
“In combutta coi ladri”.
E’ abrogato il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 16 gennaio 2009, n. 5. 7.
Un coyote urla in lontananza. Smith scopre la fondina quel tanto che basta per far brillare la canna della sua sei colpi; conta fino a dieci, poi monta il suo cavallo e se ne va. A cento metri di distanza trova un irlandese con un manzo marchiato Simmenthal & Sons.
“Fermo là, O'Rien”, dice.
“Ok, Smith, m'hai beccato per la settima volta”.
“Non me ne frega un accidente. T'impicco subito”.
“Come subito?”
“Pare sia cambiata la legge”.
“No, aspetta. Tu sei un porco razzista, è quel che sei. A quel figlio di buona donna seminole gliene hai fatti rubare quindici. Quindici”.
“È cambiata la legge, ti ho detto”.
“Ma sei sicuro? Senti, non è che appena mi hai appeso non cambia di nuovo, eh? Perché sarei l'unico che ci rimetterebbe. Lo trovi giusto?”
“Non m'interessa”.
“Guarda che lo dico anche per il tuo bene. Metti che qualcuno faccia ricorso. Lo sai che il governatore è per un quarto irlandese? Metti che salta fuori che tutti quelli che impicchi da qui in poi avevano diritto all'appello. Va a finire che ti giochi la pensione, Smith”.
“Auff”.
“Pensaci bene, Smith”.
“Va bene, vai”.
“Ok. Segnamo sette?”
“Sì. No, aspetta. Segno quattordici. Fatti beccare un'altra volta e...”
“Che stronzo che sei, Smith”.

Un anno dopo le elezioni, al balcone del Saloon, il Sindaco presenta le statistiche della criminalità: i risultati sono sorprendenti. I ladri di bestiame si sono ridotti del novanta per cento. Questo malgrado le impiccagioni promesse siano state appena sei. “Evidentemente bastava mandare il segnale”, spiega il Doc, “che non avremmo più tollerato nessuna forma di delinquenza”. Sotto il balcone i ladri applaudono, poi vanno a mangiarsi le bistecche marchiate Manzotin. Che tanto lo sceriffo Smith è assente, è andato a informarsi per un trasferimento in Oklahoma.
Per i criteri e le modalità applicative della valutazione del comportamento si rinvia a quanto previsto dal D.M. 16 gennaio 2009, n. 5.
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A copiare i copioni

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Copy-cut economy

Quando un divulgatore di chiara fama, come Corrado Augias, viene scoperto a scopiazzare da un saggio Adelphi;
quando un critico d'arte universalmente conosciuto come Vittorio Sgarbi infila in una sua prefazione ampi stralci tratti da un volume dei “Maestri del colore”;
persino negli USA, quando Maureen Dowd, columnist del New York Times, ammette che qualche frase di un suo editoriale è presa di peso da un blog;

la prima reazione del lettore medio è l'increduli... no, in effetti la prima reazione è quella bieca soddisfazione dell'uomo medio nei confronti del Nome Famoso: “Aha, lo vedi che copia. Anch'io potrei fare il mestiere che fa lui”. E per quanto sia una reazione che tutti ci unisce e affratella, noi mediocri, è poco interessante.

Più degno d'attenzione è quel sentimento d'incredulità che segue di lì a poco; il momento in cui tutti noi ci chiediamo: Ma insomma, com'è possibile che dei professionisti così si mettano a copiare come l'ultimo dei furbetti in quarta fila? Davvero pensavano di poterla fare franca? Davvero si possono giocare la faccia così? E passi per Sgarbi che ci ha abituato alle sue mattane: ma voi ve lo immaginate Corrado Augias che sottolinea un paragrafo di un libro e intanto pensa: “questo è forte, questo me lo rivendo”? No, non è possibile che succeda una cosa del genere. Infatti non succede.

Qui entrano in gioco i fantasmi, come li chiamano gli anglosassoni (ghost writers): noi invece li chiamavamo negri. Quelli che di mestiere scrivono per gli scrittori. O pensavate che tutto quello che vi capita di leggere a firma “Augias” o “Sgarbi” sia stato scritto dai signori che vedete in tv o alle conferenze? Ma no, non funziona così. Altrimenti Vespa sarebbe scoppiato da un pezzo: sessanta trasmissioni all'anno e 300 pagine tutti i Santi Natali, non dite che sareste capaci anche voi.

No. Stare sotto i riflettori, vendere il proprio Nome+Faccia, è già di per sé un mestiere. Se poi vuoi capitalizzarlo stampigliandolo sopra un cartonato di Prima Fascia (quelli, per capirci, che fanno il mucchio in libreria quando escono) non ti sarà difficile trovare qualcuno che lo scriva per te. Di intellettuali dis- o sottoccupati ce n'è quanti ne vuoi, ed è gente seria e preparata.

Lo so che è difficile da mandare giù per quelli che speravano di trovare nella scrittura quell'agognato percorso di solitudine, ma sono pochissimi i libri che non siano frutto di un lavoro di gruppo. Un gruppo gerarchico: al di sopra di tutto c'è l'autore, quello che magari non scrive una parola ma ci mette il Nome, la Faccia, e che se è una persona seria e coscienziosa supervisiona il tutto. Ma anche una persona seria e coscienziosa non può mica sempre accorgersi che il negro ha copiato.

D'altro canto, il negro di uno scrittore affermato guadagna bene (spesso in nero) e campa di un rapporto basato sulla fiducia; la domanda iniziale quindi andrebbe riformulata così: com'è possibile che i negri di Augias o di Sgarbi, professionisti stimati ancorché oscuri, si mettano a copincollare come il primo studente asino che va su Wiki, preme “print” ed è convinto di aver fatto una ricerca? Cos'è successo? Non lo sapremo mai e certo Augias non si affannerà a dircelo, quindi io ho sviluppato una teoria.

Secondo me, coi tempi che corrono, la crisi e tutto il resto, i negri bravi (che non devono essere molti) si sono messi ad accettare più lavoro di quanto non riescano a portarne a termine. E quindi, quando le scadenze cominciano ad affollare il calendario, cosa fanno? Si rivolgono anch'essi a dei negri, meno professionali dei primi. Il che non significa che siano dei minchioni convinti di poter copiare e incollare la prima cosa che trovano. Ma c'è la crisi, il mutuo, gli interessi passivi, e insomma mi hanno offerto questo lavoro e non ho saputo dirgli di no, ma adesso non so come finire... anche il sottonegro, alle strette, avrà chiesto aiuto a un sotto-sottonegro. La piramide scende fino al punto in cui non si trova uno abbastanza minchione da copiare pezzi interi da un libro in commercio, tanto “chi vuoi che se ne accorga”, oppure “anche se se ne accorgono, chi vuoi che risalga fino a me?” Il sottonegro legge, apprezza, corregge la punteggiatura e manda al negro, che è talmente felice che dà giusto un'occhiata agli accenti e passa ad Augias, e la frittata è fatta. Tutto questo per dirvi cosa?

No, niente.
Solo che tra un po' finisce l'anno scolastico, il che significa che avrò un po' di tempo libero e, se non ve ne siete già accorti, sono uno che scrive bene e abbastanza in fretta. Non copio mai, perché non mi piace e non mi conviene; onestamente faccio prima a buttar giù cose originali che a correggere i testi degli altri. La mia mail è in fondo a destra e, insomma, a buon intenditor.
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Tempo di tacere, di recitare una parte

Ieri al collegio i soliti psicodrammi – in realtà io le mie colleghe le capisco. Dopo due ore di discussione smetto forse di sopportarle, ma le capisco ugualmente. La Gelmini ci ha in pratica costretto a trasformare i cinque in sei politici. È una vergogna, ok, ma si sapeva. Non dico che non ha senso lamentarsene pubblicamente, ma che senso ha prendersela in giugno per una cosa di settembre? È tardi, fa caldo, ho fame, e comunque non è un problema che si possa risolvere qui. E non ditemi che la mia è una resa, perché non è così. Piuttosto è la vostra che è una sortita inutile. Non facciamo che lamentarci tra noi, c'innervosiamo, litighiamo, e non cambia nulla. Ho un problema con le mie colleghe.

Dico “colleghe” perché la maggioranza sono signore. Ma soprattutto perché non ho mai visto nessuno della minoranza maschia fare come fanno loro, che non si rassegnano, e cercano appigli legale in circolari che si smentiscono da sole, come prigionieri che a tastoni cercano fessure in celle buie. Non si arrendono mai. Però la guerra nel frattempo è finita. Però se glielo dici s'incazzano. Non so neanche se se sia un tratto specifico femminile, in fondo ho sempre e solo lavorato in ambienti a maggioranza muliebre. Chissà, forse anche i maschi quando sono in gran numero si comportano così, ma io ho sempre avuto colleghi rassegnati e di poche parole (e anche le donne più giovani di me, devo dire, entrano a far parte di questa minoranza silenziosa. Attenzione! La prossima generazione d'insegnanti sarà passivo-aggressiva).

Ho cercato di dimenticare il mio antifemminismo da collegio docenti andando al cinema, ma non potevo scegliermi un film peggiore. No, per carità, Vincere è un bel film, Bellocchio un grande mettitore in scena, la Mezzogiorno e Timi superbi. E prima o poi qualcuno doveva farlo un film sul giovane Benito, rivoluzionario senza scrupoli che tradisce il mondo intero per conquistare il potere. Già. Il punto è quello. Qualcuno prima o poi dovrà farlo quel film, ma nel frattempo dobbiamo arrangiarci con Bellocchio che fa un film sulla moglie segreta. Senza dubbio un personaggio di donna complessa e ricca di sfaccettature, no?

No. Perlomeno a Bellocchio non risulta. È una che ha un salone di bellezza a Milano, e Mussolini le fa un sesso incredibile. Lo ha incontrato a Trento quando faceva i suoi discorsi da guitto ateista, adesso non ditemi che v'innamorereste di uno che prova l'inesistenza di Dio col trucco dell'orologio, o che spunta sanguinante dalla nebbia e vi bacia solo per nascondersi dalle guardie – ok, va bene, può succedere alle ragazzine. Ma lei aveva un anno in più di lui. E quando lui rompe coi socialisti decide di vendere il salone per aiutarlo a metter su un nuovo giornale. Perché condivideva la sua decisione coraggiosa e scandalosa di abbandonare l'ortodossia socialista e tentare la carta della guerra rivoluzionaria? Mah, possibile, però non è che Bellocchio ci voglia mostrare questo. Ce la mostra soltanto mentre tallona Mussolini, lo spia dalle vetrate dell'Avanti, non si perde una mossetta del musone, perché le fa un sesso tremendo. E tutti quegli orgasmi nella penombra – voi mi darete del bacchettone, ma non è il punto, trovo giusto e appropriato mostrare un coito tra due amanti (e la Mezzogiorno è sempre un piacere), ma tre? Cosa volete che aggiunga il terzo? Non si poteva mettere qualche minuto di discussione, così, giusto per mostrare che aveva anche un cervello questa Irene Dalser? No, discutono solo trenta secondi, e in realtà è solo Mussolini che parla, e dice “Non sono realizzato”, e lei “ma no, guarda, dirigi l'Avanti, sei fighissimo”, e lui “non è abbastanza, voglio tutto”. “Come Napoleone?” “Ma chi è questo Napoleone?”, insomma, la discussione verte sostanzialmente sull'ego di Mussolini, che a Irene fa un sesso tremendo. Per dire che verso la fine del primo tempo cominci già a trovare più simpatico lui, che almeno ha delle idee, dei progetti, insomma una vita tra un coito e l'altro. Poi arriva il secondo tempo.

Nel secondo tempo la storia si riavvita un po' su sé stessa, come talvolta avviene con Bellocchio. Insomma Irene, essendosi accorta che Benito ha già la sua donna-base in Romagna, Rachele, tenta la solita carta e si fa mettere incinta; ma non funziona. Mussolini ormai ha scelto la chioccia romagnola, e durante la sua ascesa al potere farà il possibile per cancellare i documenti del matrimonio con Irene (che a tutt'oggi non è storicamente accertato) e del riconoscimento del figlio avuto da lei.

Però Irene non si rassegna. Questo è il fulcro intorno al quale gira il secondo tempo: Mussolini vince, ma Irene non si arrende. Lotterà fino alla fine – sì, ma per cosa? Lo dice lei ai suoi parenti, quando la riconfinano al paesello: Credete che io possa rimettermi a fare la vita di prima? Il mio posto è accanto a Lui. “Mi ama ancora, mi sta mettendo alla prova”. Va bene, insomma, è la storia di una che sogna di fare la principessa, e quando scoprono che non si può diventa isterica. La Bovary del fascio. E come Bovary, non vedi l'ora che si rovini con le sue mani; e soffri pure perché ci mette un po'. Certo, le fanno fare una fine orribile, ma non se l'è scelta lei? Bastava ammettere la sconfitta, e avrebbe potuto tenere il figlio – ma ci teneva veramente a quel figlio? Con quelle sue carezze nervose? O non le serviva semplicemente come prova del suo Primato? Quanto ci contava, sul record di avere dato alla Patria un erede maschio di Mussolini con 10 mesi di anticipo sulla romagnola? Ma se gli avesse voluto un po' più di bene, non avrebbe accettato la sconfitta per tenerlo con sé, invece di spappolargli il superego con tutte quelle storie sul Grande Padre?

Ora io non so se tutte queste domande abbiano un senso storico. Ma durante il film non riuscivo a non farmele. Forse è colpa mia, un residuo del mio antifemminismo da collegio docenti – ma in questa donna che non si arrende di fronte all'evidenza (e perde tutto) non trovo niente di non dico eroico, ma nemmeno simpatico; né in lei né nelle compagne, che quando non sono inebetite dalla religione o dall'isteria, sono comunque prigioniere della commiserazione o dall'invidia (“Davvero sei la moglie del duce? Come ce l'ha il duce?”) Gli unici sprazzi di luce del secondo tempo me li portano i personaggi maschili che cercano di condurla a più miti consigli: il cognato che vorrebbe tenersi il bambino, lo psichiatra di Venezia che prova a spiegarle i segreti della dissimulazione onesta... “Questo non è il tempo di gridare la verità. È il tempo di tacere, di recitare una parte”. Bisogna saper perdere, dicono i maschi del film. In certi periodi non si può fare altro, bisogna aspettare: i vincitori non vinceranno per sempre. Che davvero Bellocchio volesse dirci solo questo?
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Wikimonia

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Le mie parole libere nel mondo

Se volete un grande esempio dell'egemonia di Wikipedia, eccovelo pronto: Microsoft sta chiudendo la sua enciclopedia, Encarta. Nessuno la usa: Wiki funziona meglio e non costa nulla. Pensate se succedesse lo stesso coi sistemi operativi: se dovessero chiudere Windows perché tanto ormai sono tutti passati a Linux. Questo se volete un grande esempio.

Se ne volete uno piccolo piccolo, a misura di chi scrive in questo blog, ecco qua. Tre anni fa passai una mezza estate in una delle più belle biblioteche del mondo (questa). Cercavo una pista per scrivere una tesi di dottorato sul mio incubo storico, tal F. T. Marinetti fondatore del futurismo. Vi risparmio la tiritera su quant'è bella l'America loro sì che rispettano gli studiosi a Bologna sei poco più di un pancabbestia invece laggiù ti chiamano Mister ecc. ecc. ecc. blablabl.

A un certo punto incocciai in un libro abbastanza raro, di cui avevo già fiutato la presenza in qualche biblioteca italiana: si chiamava Patriottismo insetticida ed era un romanzo del 1939. Non solo non l'avevo mai letto, ma secondo me nessun altro al mondo ci aveva mai provato. 

Marinetti era già poco leggibile nei suoi anni ruggenti, i Dieci; nel 1939 era un monumento che sopravviveva a sé stesso. Mussolini lo aveva voluto all'Accademia d'Italia perché non si dimenticava di chi gli aveva voluto bene nei giorni difficili (vent'anni prima erano stati in galera assieme, compagni di lista a Milano nei trombatissimi Fasci di Combattimento del '19). Così il vecchio futurista vivacchiava, aveva un contratto di ferro con la Mondadori che gli pubblicava qualsiasi cosa, ma persino i gerarchi lo disprezzavano pubblicamente, e i vecchi colleghi, diventati famosi anche grazie a lui, fingevano di non averlo mai conosciuto. La riscoperta sarebbe arrivata molto dopo.

Bene, in questa situazione Marinetti scrive un nuovo manifesto sul romanzo futurista, in cui in sostanza accusa Joyce e Proust di avere copiato da lui, e poi un romanzo, Patriottismo insetticida, la storia di... non si sa, perché nessuno lo ha mai letto. Così un pomeriggio decisi di farlo io, nella speranza di trovare qualcosa di utile alla mia infernale ricerca.

Di solito in questi casi si sottolineano i passi che ci potrebbero interessare, ma io non potevo: primo perché era un reato federale, secondo perché il libro sarebbe comunque rimasto a New Haven, Connecticut. L'alternativa è scriversi una scheda in un taccuino, o sul computer. Ma a questo punto, se si è connessi, tanto vale fare direttamente una scheda su Wikipedia. I miei appunti infatti si perdono spesso, e quando li ritrovo (possono passare mesi, anni) non sempre riesco a capirli. Invece Wiki è sempre lì, cioè dovunque, e la necessità di scrivere qualcosa intelleggibile a tutti e con un formato standard mi avrebbe costretto a essere chiaro.

Non solo, ma in questo modo le mie eventuali scoperte le avrei immediatamente condivise con l'umanità... sì, vabbè, capirai le scoperte, un romanzo sconosciuto di Marinetti, chi se lo fila? Già non si leggono le sue opere in commercio. 
Del resto, se mi fossi mai preoccupato della reale utilità dei miei studi, non avrei mai preso la laurea che ho preso. Questo per dire che la profonda consapevolezza dell'infinita vanità del tutto mi attanaglia continuamente, compreso quando mi trovo nelle più belle biblioteche del mondo a scrivere riassuntini di romanzi che nessuno ha mai letto e leggerà mai.

Per la cronaca, pure questo non era un granché. Simpatico nel suo tentativo di essere divertente, ma raramente gli anziani tromboni ci riescono. Traccio un riassunto dell'assurda trama, isolo alcune citazioni che mi sarebbero potute servire, e mi appunto un'idea: forse in questo romanzo balordo in cui si parla con toni lusinghieri di avvelenatori, omosessuali e cannibali, Marinetti voleva teorizzare quello che oggi chiamiamo relativismo culturale: ogni popolo ha la sua morale, e quindi i cannibali delle isole Figi fanno bene a mangiare gli esploratori, e i fascisti fanno bene ad amare il duce e a eliminare le parole straniere dal paesaggio (era il periodo in cui i “bar” dovevano diventare “quisibeve”).

Il tutto finisce su Wiki, senza destare particolari emozioni: qualche brava persona corregge gli errori, qualcuno trova il titolo buffo e lo linca nella pagina Voci insolite, fine della storia. No, niente di utile per la mia tesi.

Passano tre anni e arriviamo al 2009, centenario della rivoluzione futurista, quando improvvisamente (ma prevedibilmente) F. T. Marinetti torna sotto i riflettori: chi non può pubblicare una biografia, si getta sul suo catalogo, che è sterminato e tutto da scoprire. Così alla fine persino Patriottismo insetticida trova un editore disposto a ristamparlo. Me ne accorgo mentre sto preparando una relazione per un convegno: volevo spiegare che il nazionalismo di FTM era un po' più complesso di quanto lo si pensasse, e che passava anche per concetti che oggi non siamo abituati a considerare 'di destra', come il relativismo culturale... ehi, come si chiamava quel romanzo in cui FTM faceva il relativista culturale? Patriottismo inset... ma toh, lo hanno ristampato. Bene. C'è persino una recensione su Panorama. Ottimo. Andiamo a leggere.
Oh, curioso.
Sembra che l'abbia scritta io.

Del resto, giudicate voi: non c'è una citazione dal libro che non possa essere stata presa anche da Wiki. Senz'altro il recensore di Panorama aveva avuto una copia omaggio del testo: però poi avrebbe dovuto aprirla, leggerla... è una fatica, no? Invece wiki è così comoda.
E allora ho ripensato a quel pomeriggio in cui avevo scritto la voce su Wiki. Mi sembravo così inutile, quel giorno. Mai avrei pensato che un giorno la mia scheda avrebbe aiutato un recensore di Panorama a risparmiare tempo: tempo, che ne so? per fare la spesa, o andare in palestra, o giocare coi figli, o chissà, scrivere un pezzo per difendere i poveri cantanti che si fanno rubare le canzoni su internet. Ragazzi, non rubate le canzoni su internet: quelle hanno un prezzo. Invece le schede sui romanzi sono di tutti.

Del resto come biasimarlo? Persino la scheda dell'editore l'ho fatta io. E la scheda della Feltrinelli. Ovunque andiate adesso per la rete, se cercate informazioni su quel romanzo google vi restituirà parole tratte dal mio riassuntino. Inclusa la mia ipotesi sul relativismo culturale, sensata o meno che sia: non importa, tanto ormai è su Wiki, e Wiki è l'Oggettività.

Conclusioni.
1. Niente di quello che fai per Wiki è inutile. Tutto prima o poi servirà a qualcuno. Sì, perfino il Patriottismo Insetticida.
2. Tutto quello che fai per Wiki è gratis, ma non vuol dire che qualcuno non ci guadagnerà. Non sarai tu, purtroppo.
3. Non fidatevi dei giornalisti che fanno finta di non sapere niente di Internet. Ormai è tutta posa. Appena ti volti stanno già copincollando pagine intere di Wiki, che neanche i laureandi.
4. Una piccola idea su una piccola pagina di Wiki può fare il giro del mondo (per questo in teoria è vietato mettere idee originali su Wiki).
5. Scrivere su Internet significa mandare le proprie parole libere per il mondo (chissà in quante tesi di laurea sono già finito senza saperlo). Finché un giorno qualcuno non le prende e le rivende come sue, certo, succede anche questo.
6. Se voi rivendete i miei riassuntini, perché io dovrei comprare i vostri libri o film o canzoni? Rubare a voi è davvero questo gran furto?
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Ogni riferimento è puramente

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Un puffo a Napoli

(Ogni riferimento a persone, città, polveri e omissioni è puramente casuale. Dio abbia misericordia della mia fantasia malata).

Mettiamola così: per chi sa vivere, per chi se lo può permettere, Napoli all’inizio degli Ottanta è una città molto divertente. Attici accoglienti, festini memorabili, donne sollecite, e poi neve, neve a fiocchi, a manciate, a nuvole, a palate: non quella fredda e scostante che hanno al nord; e neanche quella spuria e tossica che gira dietro la stazione; neve da signori. Ma bisogna esser prudenti.

Metti che sei il segretario di un grande Partito – neanche tanto grande, ma abbastanza per fare l’ago della bilancia – metti che brighi per diventare il primo Capo di Governo laico, ma non è che puoi passare tutta la vita ad aspettare, tu: tu vuoi vivere anche l’istante, come coso, Orazio. Gli indirizzi giusti li hai, ma ti serve un uomo fidato. Uno che conosce i guappi e gli uomini di Cutolo, quel tanto che basta per voltare la testa al momento giusto. Lo assumi in nero, con quei fondi del partito che conosci solo tu (tutti i segretari di Partito lo fanno, niente falsi moralismi). È il tuo autista ufficioso per i vichi della città: di sicuro non ha mai preso a bordo i tuoi figli. Ti porta alle feste e aspetta fuori. Quando scendi non fa domande; ride alle tue barzellette, è il tuo uomo a Napoli.

Capita che un giorno, a una di queste feste, incontri quel palazzinaro milanese che adesso si è buttato nelle tv. È venuto fin quaggiù a rilevare emittenze che non interessano a nessuno, che ammuffiscono riprogrammando Merola a esaurimento; lui le compra e poi ci mette i puffi. I puffi a Napoli, mah, che idea.
“E perché no”, ribatte, sudato, arricciando il nasone un po’ più rosso del necessario. “Mi consenta, forse che non sono azzurri anche loro? E il cappello, ci pensi bene, non è lo stesso di Pulcinella? Creda a me, gli scugnizzi ne andranno mah… oh crib...”
“C’è qualcosa che non va?”
“Non mi sento tanto bene”.
E si accascia. Siamo a posto, pensi, adesso mi muore tra le braccia. E ai giornalisti dovremo raccontare che non digeriva l’impepata di cozze. “No, niente ambulanza, no, lasciate stare. Giù c’è il mio autista. Chiamate il mio autista. Lui sa cosa fare”.

L’autista sa cosa fare. Si carica in spalla l'immobiliarista, lo sdraia con tenerezza sul sedile dietro, e parte montando una sirena taroccata che è tale quale quella della polizia, anzi meglio. Tre minuti, tre sensi unici contromano, e il palazzinaro riapre gli occhi nel meglio pronto soccorso della città, che ci sta un cugino mio che non ci chiede manco la carta d’identità.
“Cavaliere, oh, come sta?”
“Bene, adesso sto bene”.
“Il cugino mio qui dice che ha avuto un piccolo infarto, ma piccolo, eh? Ma per fortuna che siamo arrivati subito”.
“Per fortuna”
“Cavaliè, deve ringraziare ‘o onorevole, se non c’era lui…”
“E se non c’eri tu. Ti devo un favore”.
“Vabbuò, non si preoccupi mo’, poi ci aggiustiamo…”

Nei giorni, nei mesi, negli anni successivi, l'uomo si sarebbe più volte rimproverato per quella frase, “io ti devo un favore”. Gli era partita dal cuore, un cuore appena morto e rinato, quindi comprensibilmente ancora un po’ imbecille. D’altronde, frase o no, l’autista segreto la vita gliel’aveva salvata sul serio: e adesso era un po’ sua. In qualsiasi momento, con un piccolo sforzo, avrebbe potuto alzare una cornetta, comporre il numero di un quotidiano della concorrenza, e raccontare una piccola storia dei primi anni Ottanta.

Per fortuna era una persona ragionevole. Si era contentato di mantenere il suo stile di vita, anche quando il partito per cui lavorava aveva chiuso i fondi occulti; anzi aveva proprio chiuso il partito. Per lui, come per molti altri, il passaggio al libro paga del cavaliere fu quasi automatico. E in parte giustificato: capitava ancora, per qualche giorno all’anno, che il vecchio autista conducesse per i vichi il nuovo padrone.

Questi gli era simpatico. Molto più del trombone precedente. Visibilmente inquieto nel ventre di una città dalle astuzie millenarie, che resisteva alle sue goffe avances da imbonitore brianzolo. Le sue barzellette erano agghiaccianti, ma l’autista le ascoltava e rideva. Era sempre stata una parte importante della sua professione: ascoltare e ridere.

Un giorno si azzardò a portarselo in casa! Per un caffè, che mia moglie lo fa meglio che al bar. Clamorosa bugia, ma la signora gli aveva fatto una capa tanta con l’Uomo della Provvidenza che era appena entrato in politica, e quando ce lo presenti, e posso dire alla parrucchiera che lavori per lui? e non te lo fai fare un autografo? E insomma tanto brigò che finì per trovarselo sul pianerottolo. La bambina, che teneva in braccio, a momenti le cascava dall’emozione.

“Ma lei è… il Cavaliere”.
“E lei è una meravigliosa mamma di una splendida bambina! Come si chiama?”
“***”.
“Ah sì! Tanto piacere, ***! Me lo fai un sorriso?”
La bimba nascose immediatamente il capino biondo dietro alla nuca della madre.
“Amo’, sorridi al Cavaliere, su, lo sai chi è?”
“No”.
“È… è un uomo tanto importante, sai. È il padrone di tutte le tivvù”.
“Ancora non tutte, signora. Ti piace la tivvù, ***?”
La bimba ora stava studiando il nasone dell’ospite. Le era, in qualche modo, familiare: e poi un naso così grande non può essere cattivo. La madre cercava ancora di estrapolarle una risposta:
“Essù, amore, di’ al Cavaliere cosa ti piace in tivvù”.
“…”
“Ti piacciono i cartoni?”
“I puffi”.
“I puffi! Ma lo sai che li ha inventati lui? Proprio lui!”
“Beh, modestamente, se non fosse stato per me…”
Fu un flash improvviso: la bambina si immaginò il signore che aveva davanti virato in blu, con in coppa il cappuccio ‘e Pulicinella, e si mise a ridere. E che risata squillante aveva. Fu un bagliore improvviso, un lampo ai raggi x, che attraversava le bugie degli adulti e le mostrava al negativo. L'uomo ebbe un brivido. Aveva già avuto molte donne, in vita sua, molti affari e molte soddisfazioni. Ma forse non aveva mai fatto ridere un bambino. Non in quel modo. La mamma si stava ancora scusando, di cosa? Di avere una figlia allegra? Ma sono benedizioni queste, signora. Bevvero il caffè, una fetenzìa. L’autista sudava freddo: si era immaginato tante volte questa scena, una silenziosa odissea nell’imbarazzo. E invece il cavaliere era suo agio. Si mise a chiacchierare del più del meno, amabilmente, senza raccontare nemmeno una delle sue orribili freddure. Discussero di quant’era bella Napoli, con i suoi cieli, le sue canzoni, lo sa Signora che da giovane cantavo? Facevo il piano bar alle crociere, bei tempi quelli, siete mai stati in crociera? Savissi fatto a n’ato’ chillo ch’ài fatt’a’mmè…

La bambina lo guardava fisso, senza mostrare segni di noia. Non aveva mai visto un puffo dal vero, e forse non lo avrebbe rivisto più, voleva riempirsene gli occhi. Venne ora di cena, e il Cavaliere si autoinvitò. Mentre la madre, col cuore a mille, si ritirava in cucina, l’uomo si prese la bambina sulle ginocchia. Si misero a discutere di cose serie, cartoni animati: meglio i puffi o my mini pony? Mentre soppesava i pro e i contro di entrambi i prodotti, il cavaliere tratteneva a stento le lacrime.

Dalla vita aveva avuto tutto, incluso i figli. Meravigliosi figli. Ma con nessuno aveva mai condiviso la sua passione per i puffi. Con nessuno aveva discusso dei My Mini Pony. Se n’erano andati tutti, i suoi pargoli, in quella cazzo di scuola steineriana per la classe dirigente del futuro, quella dove il teleschermo era off limits. Così, mentre il cavaliere selezionava con cura il pastone chimico da servire al popolo (non troppo nutriente, non troppo noioso, coloranti in abbondanza), in casa gli crescevano questi piccoli radical chic con la mania dei libri, che scherzavano su Fede, che trattavano con sufficienza persino Costanzo. Certo, era l’età. Col tempo sarebbero diventati più ragionevoli. Ma io che ho rifatto l’Italia e gli italiani a mia immagine e somiglianza, io non avrò il diritto di prendermela sulle ginocchia ogni tanto, e farla ridere?

“Cavaliere, non abbiamo parole per la splendida serata. Io…”
“Non dica niente, signora, tocca a me piuttosto sdebitarmi”.
“Ma non lo dica neanche per sogno, cavaliere, noi…”
“Venitemi a trovare. Su da noi. O anche in Sardegna, quest’estate. ***, sei mai montata su un pony?”
“No”.
“Allora devi assolutamente venire a vedere il mio ranch in Sardegna, l’ho fatto uguale a quello dei My mini pony, cosa dici, ti piacerebbe?”
A *** sarebbe piaciuto di più vedere il villaggio del cavaliere con le case scavate nei funghi giganti, ma disse ugualmente di sì.
“E allora ci conto. Buonanotte, principessa”.

****
“E questo cos’è?”
“Lo vedi da sola cos’è”.
“Una stalla? Da quando dietro alla nostra villa c’è una stalla?”
“È un ranch”.
“E questa puzza cos’è… cavalli?”
“Sono pony”.
“Va bene, hai messo su un allevamento di pony senza dirmi niente”.
“Se è un problema possiamo andare nella villa qui di fianco”.
“Ma non riesco a capire… chi è che dovrebbe montare questi pony?”
“Pensavo che i bambini…”
“I bambini sono grandi ormai. Se vogliono cavalcare vanno al club. Ma i pony…”
“I bambini dei nostri ospiti”.
“Certe volte non ti capisco”.
“Non c’è niente da capire, ormai sono un politico, avrò più ospiti in casa, verranno con le famiglie, e i bambini si annoiano. Non li possiamo mica mettere davanti alla televisione”.
“Eh, certo”.

(Forse continua).
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Alemanno ha rrrrrrr

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Cattivi maestri

Mi secca molto, specie dopo aver fatto il leghista lunedì, ma devo anche dare qualche ragione ad Alemanno. Non tutta, ma qualche.
Per chi se lo fosse perso: la settimana scorsa il sindaco di Roma è andato a visitare una scuola media romana dove un ragazzo aveva accoltellato un compagno; e intanto che c'era si è lasciato sfuggire che “alcune operazioni culturali come la serie tv “Romanzo criminale” o altre simili non aiutano, perché lanciano mode e atteggiamenti sbagliati”.

Da qui un polverone, non molto intenso in verità (era la settimana di Noemi) ma concentrato in alcuni ambienti, come i blog. Più di un blog ha preso le difese di una delle poche serie di qualità che si fa in Italia, che non aggiunge nulla alla realtà già violenta che ritrae. Tutto molto ragionevole, ma io pensandoci bene sto con Alemanno: alcune operazioni culturali lanciano mode e atteggiamenti sbagliati.

Ed è una questione di coerenza. Uno non può sostenere che Maria De Filippi sia la responsabile di un involgarimento dei rapporti umani (al punto che non si dà più tra ragazzini una discussione che non sia urlata) e poi fare spallucce quando un altro programma provoca fenomeni di emulazione. Se sono convinto che la tv sia un potentissimo strumento formativo (e ne sono convinto) devo crederci sempre, anche quando c'è il rischio di confermare Alemanno.

Dice il produttore: “la tv riflette quello che c’è in giro”. In realtà non è proprio così: Romanzo criminale rimette in scena un passato prossimo che è tornato di moda per motivi non troppo limpidi. Un vecchio west de noantri, quando tutti i delinquenti erano bianchi (e neri nel cuore), la cui nostalgia è fortemente sospetta. Ma fingiamo che sia veramente uno specchio imparziale di “quello che c'è in giro”: bisognerà pur ammettere che troppi specchi possono far male. Non a noi, che abbiamo l'età per relativizzare e apprezzare la profondità storica eccetera. No: ai ragazzini.

A volte sui blog ci si dimentica un po' di loro. È che qui non vengono: stanno su msn o facebook; appaiono in frotta solo qualora si parli male di un loro idolo o di un loro stile, e di solito si difendono male. Perché non sono equipaggiati, i ragazzini, e questo è il punto. Non possiedono tutti i diaframmi culturali necessari a capire che le vicende del Freddo e di Dandi vanno calate in un preciso contesto storico eccetera. Le cose si pongono in termini molto più chiari: Freddo e Dandi sono dei modelli di comportamento. S'impongono e si fanno rispettare. Non saranno certo loro a portare nelle classi una morale tribale che sta guadagnando sempre più spazio nella società: la violenza di certi ambienti è qualcosa che pre-esiste la tv e che ha ragioni sociali più profonde, siamo d'accordo. Ma dobbiamo anche ammettere che la tv, come minimo, è una straordinaria cassa di risonanza. Che mantiene ancora (meno che in passato, quando non c'erano i decoder) una vocazione interclassista: e infatti ora i coltelli in classe li portano anche i ragazzi delle famiglie perbene. È un progresso?

E allora cosa proponi. Niente di concreto, per ora. Auspico soltanto un lieve cambiamento di mentalità. Non dico di non smettere di apprezzare, in modo adulto, le serie fatte bene. Chiedo però di metterci più spesso da un punto di vista di genitori: e visto che scrivo a trentenni, non mi sembra di chiedere di molto. Chiedo di fare ogni tanto un salto fuori dalla nostra cultura, che per inciso non è più la cultura giovanile, e dare un'occhiata a quello che vedono e credono i giovani veri: per scoprire che non sanno cosa sia Star Trek, che i supereroi in costume li fanno un po' sbadigliare, e che tra i pochi prodotti audiovisivi in grado negli ultimi anni di forare un'attenzione capitalizzata dalle consolle video, c'è il Capo dei Capi; tra Fast and Furious e High School Musical (e a proposito: quest'anno nella mia scuola hanno aperto le elezioni per la ragazza e il ragazzo “più popolare”: possibile che la tv non c'entri per niente?)

Chiedo di rilevare che dietro a profili facebook che inneggiano a Riina o soci c'è più di una mentalità goliardica; c'è la stessa volontà di disgustare il mondo dei grandi che trent'anni fa faceva appuntare le svastiche sulle giacche dei punk. I punk non erano nazisti, i ragazzini oggi non sono mafiosi, ma quando certi simboli riaffiorano nell'immaginario giovanile, non te ne liberi più.

Chiedo di accettare la banalità un po' passée per cui esistono sostanze che noi possiamo degustare senza soffrire di effetti collaterali, e che per loro sono ancora tossiche: l'alcol è uno, la mafia in tv è un'altra. Pazienza se tutto questo ci porta dalle parti di Alemanno (ma non di Andreotti quando denunciava i danni all'immagine del nostro Paese inferti dalla Piovra: perché la Piovra dei tempi di Placido non conteneva nemmeno in dosi omeopatiche quella fascinazione del male che trasuda da Romanzo Criminale o dal Capo dei Capi).

E chiedo soprattutto di rizzare le orecchie. C'è gente in giro pronta a raccontare qualsiasi cosa, pur di difendere il diritto di trasformare la camorra nel nuovo pittoresco far west dei vostri ragazzini. Anche se alla fine gli argomenti sono sempre gli stessi.

- La gente non è mica stupida, capisce la differenza tra fiction e realtà (la gente, mediamente, dopo otto ore di lavoro è un po' stupida. Ha persino diritto di esserlo. La gente piccola, poi, è stupida di default. Ci si mette più di quindici anni a capire certe spigolose differenza tra fiction e realtà. Pensate ogni tanto a quanto eravate stupidi a 15 anni, per favore).

- Non facciamo che mostrare la realtà (quello lo fanno anche i film porno: non per questo li faresti vedere a tuo figlio minorenne, o no?)

- La tv non dovrebbe educare (la tv è un formidabile mezzo educativo, è stata usata sin dall'inizio a scopi propagandistici, e provoca emulazione in tutti gli utenti: pensa alla mascherina di zorro che ti mettevi da bambino).

- Sono la scuola e la famiglia che dovrebbero educare. (Scuola: 5 ore faticose al giorno. Tempo con la famiglia: 2 ore al giorno. Tempo di irradiazione televisiva quotidiana: 3-6 ore in media di ipnosi. Non prendiamoci in giro).
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