Isorabbia

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Domanda: si può passare un buon ferragosto in autostrada, senza di lui?


Isoradio, cambia musica (anzi, toglila proprio). (Sull'Unita.it). (Si commenta qui).

Passato un buon ferragosto? O eravate anche voi intrappolati in una coda d'autostrada, cullati dalle dolci note di Sandro Giacobbe? Rassegnatevi, è l'Italia. Certi problemi sono complessi. Gli esodi di agosto, per esempio, non sono così facilmente aggirabili. Ma Sandro Giacobbe? Un modo di aggirarlo ci dovrebbe pur essere. Non so, per esempio... una class action contro Isoradio?

Chiedere i danni a Isoradio, che idea folle. Come calcolare la quantità di tempo e di denaro bruciate in tutti questi anni in centinaia di migliaia di code? Code che milioni di automobilisti avrebbero potuto evitare, se Isoradio li avesse informati prontamente di quello che succedeva 30 km più in là, invece di proporre un vecchio classico di Umberto Tozzi dopo l'ultimo successo di Biagio Antonacci...

La selezione musicale di Isoradio è una di quelle ingiustizie alle quali forse i potenti sperano di assuefarci con gli anni. Magari, pensano, col tempo ci affezioneremo a quest'Italia di svincoli presi senza sapere se dietro la curva c'è una coda o no, mentre i Ricchi e Poveri cantano Mammamarìa. E intanto gli anni passano, le code si allungano, dei Ricchi e Poveri si sarebbe perso anche il ricordo, se non fosse per i dj di Isoradio. Ma cosa vogliono da noi? Perché non si limitano a dirci in pochi secondi che le uscite sull'Adriatica sono intasate? Perché prima devono per forza somministrarci Gianni Togni? Cosa abbiamo fatto di male, esattamente? Di quale colpa oscura ci siamo macchiati (probabilmente a metà degli anni Settanta)? Non siamo anche noi automobilisti come gli altri? Perché Isoradio non sembra fatta per noi – ma a orecchio non sembra fatta per nessuno.

Credo che in partenza ci fosse un'idea: intervallare le informazioni sul traffico con un po' di musica 'popolare', per evitare che il conducente si assopisse o cambiasse frequenza. Forse trent'anni fa tutto questo aveva ancora un senso. Le autostrade erano meno trafficate, le code meno frequenti, e tra una notizia e l'altra si potevano programmare canzoni da hit parade, quel tipo di canzoni che rappresentavano un patrimonio collettivo, le conoscevano tutti e le cantavano... no, aspetta, trent'anni fa? Era il 1980, le autostrade erano già fiumane di lamiera rovente, i ragazzini ascoltavano il post-punk e vomitavano sulle note delle canzoni preferite da mamma e papà. Il sogno generalista di Isoradio viene ancora da più lontano. E non ha davvero più il minimo senso.

Oggi non esiste più un patrimonio di canzoni condivise (ammesso sia mai esistito). Se metti su Sanremo l'ascoltatore dei Pink Floyd cambierà frequenza. Techno e Hip-hop non sono più fenomeni 'giovani': è roba che gira da una ventina d'anni, una parte non piccola degli utenti delle autostrade c'è cresciuta in mezzo e magari non ascolta altro. Ma Isoradio non può programmarla, perché? Perché c'è il rischio che il camionista cinquantaseienne si addormenti, sbandi e schiacci l'appassionato dei Pink Floyd contro l'amante della techno. Va bene. D'altro canto il camionista 56enne ormai è un rumeno di Conegliano, e Tiziana Rivale non risveglia in lui nessuna luminosa epifania degli anni Ottanta: se è stanco si addormenta e sbanda uguale. E se mettessimo un notiziario sul traffico in più, semplicemente? Anche in rumeno, perché no, pensiamoci.

Di tante rivoluzioni a cui abbiamo assistito, ce n'è una che forse ci siamo lasciati sfuggire. Da qualche tempo in qua ascoltare musica in auto è diventata un'esperienza molto meno frustrante. Cos'è successo? Una piccola cosa: nelle auto sono entrati i lettori mp3. Ormai, nell'affannosa corsa al cliente, le concessionarie li offrono in serie. Con tutto quello che significa: caricare su ogni auto una valigia colma di cd, compressa in pochi centimetri cubici, e gestibile con una mano sola. Si può viaggiare per l'Italia e l'Europa con il proprio juke box personale, che quasi mai include i successi di Pupo tanto cari ai dj Isoradio. Questa rivoluzione impalpabile ha i suoi pro e i suoi contro. Non dipendiamo più dai selezionatori delle radio, non saremo più costretti a memorizzare il tormentone del momento. D'altro canto c'è il rischio di blindarci nella nostra bolla musicale personale, e di perdere ogni contatto coi gusti musicali delle persone che stanno vicino a noi.

Ma tutto questo in fondo non riguarda Isoradio. La diffusione dei lettori mp3 sulle auto metterà in discussione la programmazione delle emittenti commerciali, ma Isoradio è servizio pubblico; il suo scopo è offrire in tempo reale informazioni sul traffico. Non importa quante ore di buona musica abbiamo a bordo; in certi momenti avremo sempre voglia di sintonizzarci su Isoradio. A patto che ci dia immediatamente informazioni sul traffico, non sui momenti oscuri della carriera dei Matia Bazar. Non si può semplicemente programmare un notiziario dopo l'altro, senza interruzioni musicali? Dite che è troppo noioso? Più di un successo di Amedeo Minghi?  http://leonardo.blogspot.com
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I mean, after all, it's just a road

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Certo che io e te ne abbiamo fatti fuori, di chilometri.
Questi inglesini spariscono al confronto, noi ci siamo svegliati a Modena e coricati a Nevers. Abbiamo parcheggiato sotto il Guggenheim e a Finistère; davanti al museo contemporaneo di Rotterdam il ladro più sfigato del mondo non riuscì a forzarci la portiera. Abbiamo perso una marmitta a Montpellier, ne abbiamo trovata un'altra a Marsiglia, ma per trecento chilometri ci sembrava di sedere su una formula uno. Te lo ricordi l'odore del radiatore che fondeva sotto il Gottardo? E quando a Zandvoort ci tirarono un calcio alla fiancata?

Su e giù per mezza Europa, braccati dalle maledette Audi assassine, scansando gli italiani impalati nella corsia di mezzo e i turisti francesi coi loro perniciosi carrettini. Tutti i tornanti del Moncenisio, tutte le stazioni di servizio da Voghera a Saint Raphael. A Latina, un posto di blocco. La gente non lo sa, che parcheggiare a Parigi in agosto è semplicissimo. Quel tizio a cui ricaricammo la batteria a Monaco di Baviera, non ci voleva credere. Ancora ringrazia gli angeli italiani coi cavi e i morsetti nel baule.

Alla frontiera basca abbandonano le macchine sul ciglio dell'autostrada. Nella valle del Rodano ogni morto in strada è segnalato con una sagoma nera. A volte ci sono famiglie intere di sagome, papà mamma e i bambini. Nei boschi del Lussemburgo ci superò l'arciduca, faceva tipo i duecentoquaranta.

E magari era bella Biarritz, graziosa Treviri, non male Salisburgo. Ma alla fine quelle che più mi restano nel cuore sono le città bruttine. La skyline di Liegi (quanto sei brutta, Liegi), i detour di Fontenay, le fontane di Roanne, l'impossibilità di trovare cibo edibile a Orleans o l'enigmatico centro di Mulhouse. Dopo dieci d'ore d'auto Tarascona mi sembrò Gerusalemme. Ostenda a ferragosto era così triste che passammo il confine per respirare un po', e ci ritrovammo a Dunkerque. Ville fleurie, come tutte quante. A Bruxelles girammo mezza giornata tra una casbah e una specie di ZEN, inseguendo cartelli che dicevano “centro”, prima di capire che era il centro, sì, ma di Anderlecht. Avevo sempre pensato che fosse una squadra di calcio, invece è il gemello siamese cattivo del putto piscione. Perdonami.

Per tutte le chiese gotiche, in fin dei conti identiche, come i tetti dei Buffalo Grill in cui non siamo mai entrati, ma ormai ci facevano sentire a casa. Come i licheni incrostati sui templi bretoni. Come tutte le città di Olanda coi canali e i mulini, i mulini e i canali, che dopo averne apprezzate quattro o cinque cominci a pensare per fortuna che hanno bombardato almeno Rotterdam. Per quella volta che guidai mezza giornata per trovare il museo di Caen, e poi non volli comprare il biglietto. Per tutte le volte che ho trovato una scusa per tornare a Poitiers, e non ci conosco nessuno. Per ogni volta che ho provato a portarti al Mont Saint-Michel e il monastero era sempre chiuso al pubblico, monaci infingardi. Per la scorciatoia del lago d'Idro e la tappa criminale Bordeax-Gignac. Tu però ricordati di Basilea e Saint-Tropez, delle ostriche di Arcachon, e Portovenere. Lo sai come sono fatto, lo sai che mi bastano due parole: Dai, Andiamoci. Il gommista ha dato l'ok. Abbiamo il gpl, abbiamo l'essenza, un mese di playlist, e prima o poi salteranno fuori gli It's Immaterial. Sono il tuo re della strada, non ti piace? Cavaliere della strada, è lo stesso per me, sono qui, al tuo fianco. Voglio dire, in fin dei conti è solo strada. (Poi alla prima manovra in un parcheggio becco una fioriera in retromarcia, duecento euro, m'ammazzerei).
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Il cinema come labirinto

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(Niente spoiler, giuro)

Interrompo l'allegro carosello musicale perché magari passa di qui qualcuno che è curioso di sapere se Inception sia davvero questo ineffabile capolavoro o non piuttosto l'ennesima baracconata holliwoodiana sulle realtà oniriche, ormai un genere a sé stante. Insomma, se vale o no il prezzo dei popcorn.

Lo vale.

Potrebbero anche essere i popcorn migliori dell'anno, visto che quelli di Toy Story 3 li avete innaffiati di lacrime (a proposito, cara Pixar, ormai ho capito che vuoi farmi piangere; ma devi proprio farlo sempre nei primi dieci minuti, il tempo dedicato allo sgranocchio? È indecente).
Vi diranno che è un film cerebrale. A prima vista sì. È intricato, barocco, escheriano, tutto quanto, però... non credeteci troppo. In realtà alla fine si capisce tutto quel che c'è da capire. Se ce l'ho fatta io senza sottotitoli, fidatevi, ci riesce chiunque. Il fatto è che a volte al cinema confondiamo la complessità con la proiezione della complessità. In un disegno di Escher ci si può perdere, ma alla fine è solo un bel po' di inchiostro su un rettangolo di carta. Ma soprattutto, i paradossi di Escher sono tutti in piena luce, e si denunciano da soli: allo stesso modo mi sembra che faccia Nolan.

Non svelo nessun mistero del film se ne racconto un pezzettino minuscolo: il protagonista chiede al suo apprendista di disegnargli in un minuto, su un foglio di carta, un labirinto che in un altro minuto lui non sia in grado di risolvere. Credo che in questa sfida consista il cinema di Nolan: ho due ore per intrappolarvi in un mondo, voi avete due ore per trovare l'uscita. Memento era troppo facile? Proviamo con The Prestige. The Prestige, se non ve lo ricordate, è un altro film stupendo, anche quello imperniato su una sfida metaforica (in quel caso il gioco di prestigio, sempre più difficile e rischioso). Era una pellicola che chiedeva molta concentrazione agli spettatori: per dire, ci sono due voci narranti che leggono due diari diversi; all'inizio del film si mostra un diario e se ne legge un altro. Eppure ricordo che qualche spettatore esigente su internet osò lamentarsi che il trucco era troppo facile, si capiva a metà del secondo tempo... ma del resto è così, se hai deciso che il tuo modo di narrare consiste in una sfida con gli spettatori (“vediamo chi mi sgama”), devi essere disposto a perdere tutte le volte, e tutte le volte a raddoppiare la posta. Nolan è disposto. Ma soprattutto, Nolan è onesto. Gioca forte, rischia e non bara.

Lo paragoneranno alla trilogia di Matrix, o alla mitologia di Lost: altri esempi di labirinti volutamente complessi. Con la differenza che gli architetti di Matrix o di Lost a un certo punto hanno dato la sensazione di essersi persi: gli spettatori non trovavano l'uscita semplicemente perché l'uscita non c'era, gli autori avevano intenzione di aprirla all'ultimo momento con una breccia nel muro, e intanto distraevano il pubblico con digressioni filosofiche, sparatorie, spiegazioni volutamente oscure, botte di sentimentalismo... Questo Nolan non lo fa. Le sparatorie ci sono perché è un film d'azione; i sentimenti ci sono perché i protagonisti hanno emozioni; ma tutto questo non copre gli sbreghi di sceneggiatura. Nolan non vi trascina su un'isola piena di trabocchetti per dirvi, sei anni dopo, che i trabocchetti erano solo un pretesto per mostrarvi dei bei personaggi. Questo è sleale. Pensate a tutte le “non spiegazioni” di Lost. Ecco, Inception è l'esatto contrario. Un film che spiega sé stesso (e riesce a non annoiare). Paradossale, ma senza oscurità. Nolan non è un mago, un mistico, un ciarlatano: è un onesto e abile prestigiatore, con in più un budget hollywoodiano e Di Caprio nel cappello.

Riguardo a Di Caprio: ho l'impressione che da qualche anno in qua stia recitando sempre lo stesso ruolo, con le stesse smorfie: il ruolo, come definirlo? Dell'ossesso. Ha sempre dei misteriosi sensi di colpa, ha sempre delle fobie, è sempre ingrugnato. The Aviator, The Departed, Shutter Island, e ora questo. Nel frattempo qualcosa di speculare sta succedendo a Matt Damon: non importa come lo trucchi, in qualsiasi film lui è il Bugiardo. È una cosa che parte da lontano, forse già da Mr Ripley, e arriva a The Informant (gran bel film, recuperatelo). Ormai vai a colpo sicuro: se c'è Damon, bugie a profusione; se c'è Di Caprio, tormenti e ossessioni. Se li metti assieme ottieni quel bell'esperimento che è The Departed, dove due ragazzi biondi della stessa età che fanno lo stesso mestiere cadono vittime uno delle sue bugie, l'altro delle sue ossessioni. Tutto molto caratteristico, però a questo punto forse le facce di Damon e di Di Caprio stanno diventando due maschere greche: le vediamo da lontano e già sappiamo cosa troveremo in scena. Il che va proprio contro quella concezione labirintesca del cinema contemporaneo alla Nolan, che le attese del pubblico vorrebbe disattenderle. A volte potrebbero scambiarsi i ruoli, giusto per movimentare un po' le cose – ma in effetti questo è già successo: Di Caprio ha fatto il truffatore di Prova a prendermi. Anche se io non me lo ricordo. Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo ero convinto che il bugiardo braccato da Tom Hanks fosse Damon. Poi ho controllato. Ma non c'è niente da fare. Nella mia testa quel tizio è un bugiardo, quindi ha la faccia di Damon. L'inconscio è fatto così, non lo puoi controllare. È terribile, no? Ma anche un po' meraviglioso.
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Save me from tomorrow!

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Fire fu la prima fanzine su cui misi le mani, forse l'unica. Era l'organo del fan club italiano degli U2, che però non uscivano con un disco nuovo ogni tre mesi, maledetti. Per cui Fire doveva rassegnarsi a parlare anche d'altro: film di Wim Wenders e band di area celtica, Waterboys o In Tua Nua.

Su un numero di Fire, in terza di copertina, fu pubblicato il testo di Ship of Fools dei World Party. Mi sembrò subito meraviglioso, un salmo, una piccola apocalisse, e non avevo ancora sentito la musica. Ma poi miracolosamente quell'estate Ship of Fools sbarcò su Videomusic, che mi serbava dell'affetto. A nessun altro per chilometri e chilometri parevano interessare i World Party, che in pratica erano un progetto solista del tastierista gallese dei Waterboys. Nessuno voleva sentire fosche profezie di sventura con arrangiamenti retrò che non erano ancora tornati di moda.


Però per me, vedete, Ship of Fools epitomizzava tutto quello che mi stava succedendo attorno e non si chiamavano ancora “Anni Ottanta”, perché ci eravamo dentro e non avevamo la minima idea di quando sarebbero finiti. Secondo Fukuyama anche mai. Ecco, quegli Anni-non-ancora-Ottanta si riconoscevano dal ritornello, che era “you're going to pay tomorrow”. Potevamo accomodarci, spendere e spandere, avremmo pagato con calma in seguito. Ma dopo quel ritornello nella canzone ce n'era un altro, più dolente, e mi sembrava di sentire la mia stessa voce mentre Wallinger lo cantava: Save me from tomorrow! Io non c'entro! Non è colpa mia! Non voglio salpare con la nave dei folli! Ma non c'era niente da fare, avevamo già tagliato gli ormeggi da un pezzo.
Dopo quel disco Wallinger si concentrò su una sconosciuta cantante irlandese che aveva il vezzo di esibirsi calva, Sinead Qualcosa. Ma nel giro di pochi mesi comunque ascoltare rock celtico smise di essere trendy, e io passai ad altre cose che francamente adesso non so. I World Party ricomparvero sul mio radar tantissimi anni dopo con un altro pezzo struggente e fuori moda, Is it like today. Poi basta, per quel che ne sapevo Wallinger poteva anche aver preso una pompa di benzina fuori Cardiff.

Scopro invece che ha fatto di tutto, compreso le colonne sonore di Giovani Carini e Disoccupati e Ragazze a Beverly Hills. E che She's the one, l'insulsa ballatona di Robbie Williams pattinatore, è un pezzo dei World Party. Dannata internet. Preferivo non saperle, queste cose, e immaginarti seduto sul molo, a guardarci mentre naufraghiamo, senza fretta. 

E invece, per tutti questi anni, anche tu, nascosto nella stiva.
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Per difendere un'effige

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A questo punto si è ormai capito che per me, ex ragazzo triste, l'estate è una grande metafora della solitudine: tappato in casa o in giro per il mondo, io in estate devo forzatamente crogiolarmi in me stesso per estenuanti pomeriggi, ascoltando pezzi astrusi che mettano in fuga pure gli animali da cortile. Può darsi, anche se in realtà ero quasi sempre in campeggio a schitarrare. Comunque. Questa specifica varietà di solitudine è seriamente minacciata dall'ascesa di Youtube. Fate l'esperimento. Cercate quella canzone di cui avete pudore, perché siete convinti che ormai piaccia soltanto a voi. Quella che nessuno sembra ricordare. Su youtube molto spesso c'è. E sotto il video ci sono sempre almeno tre commenti. Di gente entusiasta.

E' una cosa commovente, la coda lunga che scodinzola. Non c'è un solo lurido accrocchio di note dissonanti che non abbia un suo estimatore, qualcuno che l'aveva cercato in lungo e in largo e piange di felicità per averlo finalmente trovato. E agli artisti si perdona tutto. Qui sotto c'è Rino Gaetano, (no, non è Sfiorivano le viole, fuochino) che uccide la sua stessa canzone con un playback criminale. Lo hanno abbandonato sul palcoscenico come un cane in autostrada; si protegge con un cappello e una coreografia stentata, e sembra aspettare che lo vengano a prendere, come gli strumenti che qualcuno ha lasciato lì sullo sfondo. Beh, nei commenti la gente applaude la sua pantomima, lo trova geniale 'come al solito', lo ringrazia per aver "rifiutato il playback". No, non è che lo rifiutasse. Non era capace (o aveva un ritardo in spia, possibile anche questo). Ma non importa, è da anni che sognavamo di vedere Rino che cantava le canzone. Finalmente l'abbiamo trovato. Non canta. Si muove a stento. Ma è Rino. Siamo un po' meno soli.

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Va sempre a finire così, che ci si assomiglia

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È agosto, quindi non abbandonate i cani in autostrada.



Tappatevi in casa con loro.
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Il lotto Invalsi

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Avete già sentito dire che la Gelmini vuole premiare i prof più meritevoli. Brava. C'è solo una cosa da chiarire.
Chi sono i prof più meritevoli? (Se ne parla sull'Unita.it, e si commenta qui).

Questa storia della Gelmini che vuole aumentare la paga ai prof più bravi mi ricorda un po’ la nuova tariffa oraria dell’Enel. Adesso spiego.

Siamo in crisi. L’Enel ci deve aumentare le tariffe. Proprio adesso che i condizionatori pompano al massimo? Proprio adesso. Certo che è brutto dire “vi aumentiamo le tariffe”. Suona molto meglio “vi diminuiamo le tariffe dopo le diciannove”. Anche se è una diminuzione microscopica. Anche se è implicito che prima delle 19 le tariffe invece aumenteranno. È chiaro che alla fine pagheremo di più, ma crederemo che sia responsabilità nostra, per quella volta che abbiamo fatto partire la lavatrice alle 18. Se fossimo stati più bravi… e dire che l’Enel ci aveva anche avvertito. In fondo lei voleva farci risparmiare, ma noi siamo i soliti cialtroni… insomma quello che ha fatto l’Enel è interiorizzare il conflitto, creare un senso di colpa. Non ce la prenderemo più con lei, severa maestra, ma con noi stessi. Funziona come strategia? Direi di sì, a Roma c’è una ditta che ci campa da duemila anni (e non fornisce neanche energia elettrica).

Allo stesso modo, la Gelmini non ha soldi per aumentarci la paga. Mai li ha avuti, mai li avrà. Quel che può fare è toglierne (pochi) agli insegnanti scarsi per darne (pochi) agli insegnanti bravi. Continueremo a guadagnar poco, ma avremo la brutta sensazione che sia colpa nostra. Se solo fossimo stati più bravi… ma come fa un insegnante a diventare bravo? E come fa il ministero a capire chi è bravo e chi no?

Dico come farei io, se fossi al ministero. Mi baserei su due soli parametri: esperienza e formazione permanente. Quindi applicherei degli scatti di anzianità… che poi ci sono già. Addirittura li livellerei un po’, alzando il primo scalino e abbassando quelli in fondo, perché (secondo me) l’esperienza che ti fai tra i trenta e i quarantacinque è più importante di quella che fai tra i cinquanta e i sessanta. E poi premierei gli insegnanti che fanno progetti innovativi e partecipano a corsi di formazione. Anche questo succede già, ma io li premierei seriamente. Darei loro una motivazione concreta per passare gran parte della pausa estiva a studiare le ultime novità didattiche (cosa che per inciso dovrei fare anch’io in questo momento, e invece sto a scrivere su un blog: vedete che c’è qualcosa che non va?)

Detto questo, una prof anziana non è necessariamente più brava di una giovane. Un prof che passa i pomeriggi ai corsi di aggiornamento può restare un perfetto incapace. Lo so, eccome se lo so. Ma l’alternativa qual è? Vediamo cosa vuole fare la Gelmini. Per la verità non è molto chiaro, i comunicati sul "Piano Nazionale Qualità e Merito" sono burocratese spruzzato di slogan. Ma in sostanza il Ministro vuole organizzare una classifica delle scuole migliori. Come strumento userà le prove Invalsi. Nientemeno.

Delle prove Invalsi ho già scritto a suo tempo. Molti insegnanti le odiano, ho cercato di spiegare il perché. A me stanno simpatiche, malgrado tutto. Però capiamoci. L’Invalsi è quell’agenzia che distribuisce un test a crocette alle scuole senza fornire il lettore per correggerlo. Sono quelli che rendono disponibili le correzioni sul loro server e poi cascano dalle nuvole se il giorno della prova nazionale il server va giù. Una oliatissima macchina da guerra, insomma, che sicuramente riuscirà a valutare ognuno di noi per quel che merita. Se ho capito bene faremo test all’inizio dell’anno per vedere come sono gli studenti prima della cura; poi ne faremo un altro alla fine dell’anno. Lo studente che tra settembre e giugno è migliorato, evidentemente ha avuto buoni insegnanti, che quindi meritano buoni stipendi. La semplifico molto, ma in pratica sarà così.

Sarà una comica. Andiamo. Chi somministra i test? Gli insegnanti. Chi li corregge, chi riempie i pallini? Gli insegnanti. Chi comunica i risultati all’Invalsi? Gli insegnanti. Chi è che nei prossimi anni trarrà un interesse economico non indifferente dai risultati del test? Gli insegnanti. E a guardia del formaggio chi ci mettiamo? Che domande, il topolino. Persino negli USA gli insegnanti, in condizioni del genere, ci danno dentro coi suggerimenti e i bigliettini (ringrazio il commentatore che mi segnalò la notizia). Perché non dovrebbe succedere qui da noi?

Non c’è nemmeno bisogno di aiutare i ragazzi: è sufficiente disturbarli durante la somministrazione della prima prova. Peggio vanno a settembre, più ampio sarà il dislivello a giugno, più posizioni scalerà il prof in classifica. Perché alla fine è quello che avremo: una classifica dei prof più ‘bravi’ e delle scuole ‘migliori’. E in fondo non ha nessuna importanza che lo strumento adoperato (la doppia prova Invalsi) sia inadeguato Appena una scuola risulterà la migliore del circondario, scatterà quel naturale meccanismo per cui le famiglie più interessate all’educazione dei loro figli cercheranno di iscriversi lì. Per contro, alla scuola ‘peggiore’, quella con gli insegnanti meno abili a maneggiare le scartoffie ministeriali, arriveranno gli studenti delle famiglie più disagiate, stranieri e non. È un meccanismo che ha sempre funzionato in modo informale, figuriamoci quando avremo calssifiche basate su dati ‘oggettivi’. A quel punto la scuola ‘migliore’ diventerà migliore sul serio, perché sarà frequentata da studenti già preselezionati e motivati ad apprendere. E anche gli insegnanti, con studenti così, lavoreranno meglio, vivranno esperienze più stimolanti e diventeranno più bravi. Viceversa, la scuola ‘peggiore’ sarà quella in cui studenti e insegnanti si troveranno a operare nelle condizioni più frustranti. Peggioreranno assieme.

Quindi magari sì, la prova Invalsi potrebbe funzionare. Ma avrebbe funzionato anche una ruota del lotto. Sul serio, si potrebbe abbinare a ogni scuola un numero: la prima estratta sarà la migliore, i genitori faranno la fila per iscriverci i figli: i dirigenti potranno selezionare i più adatti e scartare i problematici, eccetera. Persino gli insegnanti più motivati delle altre scuole cominceranno a chiedere trasferimenti lì… Forse in fin dei conti la prova Invalsi non è altro che una grande ruota del lotto rivestita di pretese di oggettività e chiacchiere sulla meritocrazia. Saperlo, purtroppo, non fa di me un insegnante migliore. 
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Io mi ritrovo quasi sperso

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Come distinguere i falsi ricordi dai veri? Questi ultimi portano sempre una forte componente d'imbarazzo. Avrò avuto dodici anni e a casa dei miei cugini avevo scoperto un canale tv che mostrava soltanto canzoni. Cioè, ogni canzone aveva un suo filmato diverso, e tra una canzone e l'altra non c'era niente, né conduttori stupidi né pubblicità stupida, niente. Solo canzoni, di giorno e di notte, il paradiso.

C'era il problema che erano in inglese. Gli unici italiani avvistati erano Pino Daniele, ma pareva cantasse in inglese pure lui, Yessaino, maùei, qualcosa del genere, e poi questo marziano spiaggiato nel deserto australiano, che voleva dissolversi nell'universo, e lo cantava in un pericoloso falsetto che qualche anno dopo nessuno gli avrebbe più perdonato. Non è che mi piacesse, però con gli anni il ricordo inspiegabilmente non sbiadiva. A quel tempo non c'erano vhs né programmi nostalgici, ogni video che guardavi poteva sparire da un momento all'altro e non tornare più.

Così è per quel video di Mango, non lo trova nessuno. Persino la canzone io non ebbi più occasione di ascoltarla, per più di dieci anni. Al massimo qualche "radio solo musica italiana", intercettata in clandestinità, poteva restituirmi Oro, che sembrava arrangiata con gli scarti di Peter Gabriel. Ma Australia era scomparsa, nessuno sembrava averne mai sentito parlare.

Finché un pomeriggio di una sudatissima estate universitaria non trottai con molta circospezione in un videonoleggio equivoco, e trattenendo il fiato mostrai al cassiere la custodia del Meglio di Mango. Ma non fui sicuro di non essermi sognato tutto finché premendo play non ascoltai quella batteria sintetica, quei gabbiani sintetici, quel falsetto criminale che alza le vele e senza alcun pudore prende il largo, nell'universo. Voi potete ridere di Pino Mango e di me, ma Australia non me la dovete toccare, Australia è resistita in un angolo del mio cervello a cantare sommessamente per più di una dozzina di estati, senza che nessuno la innaffiasse. Australia è la canzone di ogni estate dell'umanità, un dono che i demoni meridiani fecero a Pino Mango, in circostanze che non ho alcun interesse ad approfondire. Il vento è come un gran respiro che va e spazza via confini e città, entra in me e così io mi ritrovo quasi sperso nell'universo, oh. Senza passato, più leggero, io mi risento ancora puro, oh, nell'universo oh oh oh, mentre la luce piano sale alzo le veeeeeeeeeeeele, alzo le veeeeeeeele (la senti una chitarra nel sottoscala che strangola il gabbiano sintetico?) Paragonarla non si può.
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The coldness of the summernights

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Un altro tipo di canzone estiva è quello "che già al primo ascolto suona come se lo avessi sentito uscire in continuazione da una radio sempre accesa in quella stanza d'ostello, in inter-rail a Londra, una dozzina di estati fa", (c) Enzo.



Non c'è nulla che fa più anni '90 di un remix di un pezzo del '72 di Donna Hightower. Abbiamo scoperto il remix anticato. Significa che abbiamo trovato la formula per falsificare la nostalgia. Significa che non ci fregheranno più, a meno che non vogliamo fregarci da soli (significa che d'ora in poi dovremo fregarci da soli).
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Suppose I should hate it so

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(Mi bastano i primi dieci secondi e sono di nuovo lassù, santamargherita terzo piano, seduto su un'ustione da turista della domenica, a tradurre cartelle alla disperata, deve sembrare tutto finito entro il trenta luglio, ché il primo agosto forse mi fanno un contratto. Davanti al ventilatore una bottiglia di ghiaccio. Il passato sciocco che mi tocca rimpiangere).
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