Karma 740

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(2011)

“Quindi adesso a chi tocca? Tortora, Trani, Turoldo...”
“Mi scusi, io sono Tinto”.
“Tinto, mi lasci guardare, Tinto... avevamo appuntamento un'ora fa”.
“Sì, ecco, io... ero uscito a... a prendere una boccata d'aria, perché qui... non si respira, davvero, stavo per svenire”.
“Vabene vabene vabene, se Tortora accetta di aspettare... Ma c'è Tortora?”
“Credo sia il signore che è svenuto davvero, lo hanno portato via poco fa”.
“Meglio così. Si accomodi”.
“Certo che fa caldo qui”.
“Non me lo dica, non me lo dica. Ha con sé i documenti? Codice fiscale?”
“TNTDVD73H11HGKJFG fjhkjh lk jj dij fsaokekelleterre678”
“Codice Ibann?”
“OT709834750943446'549'65987'98'97987098760980989809483098043085094860594ì743'097ì063898u'9'29046895i6498690509ì'098098098'0ì0000000000000000000459384790578'60589890'0”
“Numero di Carta di Credito?”
“76896”.
“Pin della Carta di Credito?”
“...”
“Ahahah, stavo scherzando, ci stava per cascare eh?”
“Quanti abboccano?”
“Sempre meno, ma ne vale comunque la pena. Codice meccanografico?”
“Domodossola Livorno Cagliari Domodossola Domodossola Domodossola Pisa Milano Empoli Domodossola Domodossola Arezzo Frosinone Gaeta Domodossola Domodossola Belluno Klagenfurt Novi Ligure Piazza Al Serchio Altolà Madonna dell'Oppio...”
“Basta così. Peccati da dichiarare?”
“Mah, le solite cose: non ho santificato le feste, non ho meritato la fiducia dei miei assistiti, non ho ricambiato l'affetto inesauribile dei miei genitori, ho tradito la mia vocazione in miliardi di minuscoli modi e poi...”
“Sì, sì, ma ha portato le notule?”
“Ha ragione, mi scusi, è il caldo. Dunque... qui c'è una vecchia notifica di violazione del terzo comandamento”.
“Questo al massimo sarebbe il sesto comandamento. Lei ha commesso atti impuri”.
“Atti impuri? Io? Ma se non mi ricordo nemmeno come...”
“Sullo scontrino c'è scritto 2004”.
“Aaaaah, sì, il 2004, fu un estate difficile, poi mi ero totalmente dimenticato e...”
“La gente come lei mi fa uscire di matto”.
“Mi scusi”.
“Cioè, ha idea di che mora le faranno pagare per un minuscolo atto impuro del 2004?”
“Non ho idea, davvero”.
“Ma la gente non potrebbe essere più attenta? Dico, cosa ci vuole? Commette un peccato, le rilasciano la ricevuta, lei appena a casa la archivia in un cassetto... ma è chiedere troppo?”
“Io non so gli altri, ma io... forse non ho abbastanza cassetti in casa”.
“È quel che dicono tutti. Sa cosa le rispondo io? Balle. Siete tutti convinti di avere miliardi di peccati da dichiarare”.
“In effetti...”
“Quando alla fine sono le solite due o tre cose tutti gli anni, sa cos'è questa? Superbia. Settimo vizio capitale. La paga lei l'aliquota sul settimo vizio capitale?”
“Di solito no”.
“Forse sarebbe il caso”.
“Se lo dice lei”.
“Vabene vabene. Ha delle esenzioni?”
“Un bonifico per l'onlus ex bambini ciechi...”
“Buono”.
“E poi un contributo al canile municipale”.
“Questo non lo passiamo, mi dispiace”.
“Ma pensavo di fare del bene”.
“Noi contiamo solo il bene che si fa agli esseri umani. No cani. Tutti gli anni ve la spiego, questa cosa”.
“Ma non è giusto. Secondo me...”
“Senta, è inutile che mi spieghi l'universo secondo lei. Io sono solo quello che riempie i moduli, lo vede?”
“Mi dispiace. È che con questo caldo...”
“Non lo dica a me. Non lo dica a me. È tutto? Sicuro di non aver fatto nient'altro di buono?”
“Mi sono fermato spesso nel mio luogo di lavoro, dopo l'orario”.
“Quella non è bontà, è lavoro in nero”.
“Ma non per i soldi... l'ho fatto per risolvere dei problemi di cui mi sarei potuto fregare, invece sono rimasto lì, ho aiutato i miei colleghi, credo di aver fatto del bene...”
“Lei si crede importante e insostituibile. È convinto che senza di lei i suoi colleghi non sappiano risolvere un problema. Direi che a questo punto l'aliquota sulla superbia scatta automatica”.
“Ma avevo le migliori intenzioni...”
“Sì, sì, dite tutti così. Che caldo, Signore...”.
“È difficile fare del bene”.
“La cosa più difficile al mondo. Dunque, è tutto?”
“Tutto, sì”.
“Molto bene, allora, lei deve all'Ufficio del Giudizio trentacinque punti karma”.
“Così tanti?”
“Eh, arriva con una pendenza del 2004, cosa pretende?”
“Ma trentacinque punti... cosa mi aspetta?”
“Dunque, mi faccia vedere... noi abbiamo già cominciato a farle i perdere i capelli, direi da tre anni...”
“Da due”.
“Sì, beh, però a questo punto dobbiamo recuperare un'altra decina di punti, non resta che accelerare il passaggio alla calvizie completa”.
“La prego, mi lasci ancora stempiato per un anno. Non voglio diventare come quei quarantenni che si rasano”.
“Eh, la fa facile lei. Dove li prendiamo trentacinque punti? Col fegato come sta messo?
“È un po' grasso”.
“Senta, mi sembra di ricordare che qualche anno fa le avevamo assegnato una dermatite rara”.
“Atipica. Poi c'è stato il condono”.
“Ecco, ricominciamo progressivamente con la dermatite atipica, e dieci punti li abbiamo fatti fuori. Poi, visto che si sente così giovanile, che ne dice di una bella forfora?”
“Forfora?”
“In dodici mesi ci recupera cinque punti, che ne pensa?”
-Sigh- Vada per la forfora”.
“E poi ci sono i denti”.
“La prego, i denti no”.
“Senta, allora me lo dica lei da dove prendere altri venti punti. La colecisti ce l'ha?”
“Me l'avete presa due anni fa. Però ho ancora l'appendice”.
“L'appendice, che tenerezza. Non conta nulla l'appendice, come i denti del giudizio. Qui ci vuole una bella carie, glielo dico subito, una capsula in un molare”.
“Li ho finiti”.
“Va bene, mi dica lei cosa vuole! Calcoli renali? Alitosi? Paranoia? Faccia lei. Abbiamo una ventina di punti da recuperare”.
“Non è possibile una dilazione?”
“Un modo c'è. È un pacchetto lancio che stiamo offrendo negli ultimi tempi. Non paghi nulla per cinque anni”.
“E poi?”
“Ischemia cerebrale, invalidità semipermanente”.
“No, non credo che sia il caso, no. Non... non potrebbe aumentarmi la forfora?”
“Più di così? Magari vorrebbe anche qualche brufoletto?”
“Eh”.
“Senta, bisogna che se ne faccia una ragione. Lei va per i quaranta. Questo non è l'ufficio della fatina del dentino, questo è l'ufficio della dichiarazione dei peccati. L'acne giovanile dei suoi diciottanni non tornerà più".
"Mai più"..
"Al massimo se vuole un herpes”.
“No, non è proprio la stessa cosa”.
“Va bene, sa cosa le dico? Alziamo il livello di tolleranza alimentare”.
“Ma l'abbiamo già alzato l'anno scorso, ormai non mangio più latticini...”
“Perfetto, da qui in poi astensione completa”.
“Quanti punti karma fa?”
“Sette”.
“Auff”.
“Lei è miope? Potremmo abbassare le diottrie”.
“La forfora, l'intolleranza alimentare, gli occhiali più spessi...”
“Senta, noi qui riempiamo solo i moduli con i dati che ci portate voi. È colpa nostra se lei fa oggettivamente una vita di merda?”
“Con tutti gli stronzi che si vedono in giro”.
“Niente turpiloquio”.
“Coi loro denti bianchi, la loro pressione sanguigna nella norma, i loro capelli folti...”
“Senta, è il karma. Ognuno ha il suo. Non deve guardare agli altri. Ognuno se la vede col suo proprio destino”.
“E tutti gli evasori dove li mettiamo?”
“Si reincarneranno in commercialisti. Ma lei deve preoccuparsi di sé. Senta. Un po' di reumatismi?”
“Reumatismi? Mai avuti”.
“Ecco, vede? Un'esperienza nuova”.
“Ma sono dolorosi”.
“Un po' fastidiosi, ma poi ci si affeziona. È come un sesto senso, sentirà la bassa pressione, l'anticiclone delle Azzorre”.
“E vada per i reumatismi”.
“Così la voglio. Positivo e propositivo. Mancano ancora cinque punti. Si sbizzarrisca”.
“Non so...”
“Una disfunzione erettile!”
“Ma no... Senta, la tristezza conta?”
“La tristezza... nel senso di malinconia, no”.
“Maledizione”.
“Invece nel senso di crisi depressiva, beh, di punti ne facciamo otto”.
“Ho sforato?”
“Sì, ma li recupera sulla dichiarazione dell'anno prossimo, non si preoccupi. Allora stampo?”
“Stampi, stampi”.
“Vuole lasciare l'otto per mille allo Stato Italiano?”
“No, ai Paesi Bassi”.
“Ecco qui. Una firma sul modulo...”
“Aspetti, aspetti un attimo. Mi stavo dimenticando...”
“Ecco, lo sapevo. La buona azione che vi viene in mente all'ultimo momento. Dio quanto vi odio”.
“Io... ho regalato un ombrello a un'anziana signora, tre mesi fa. Conta?”
“Eh, dipende. Stava piovendo?”
“Un acquazzone improvviso, lei non riusciva ad andare avanti, e così io...”
“Si è fatto fare la ricevuta?”
“Sì, ma credo di averla a casa. Mi scusi...”
“Non è possibile”.
“Mi scusi davvero, io... a volte mi dimentico delle cose buone che faccio”.
“Ma è rimasto seduto lì davanti per tre ore. Non poteva farselo venire in mente prima?”.
“È che non riesco a pensare qui dentro. Fa caldo”.
“Lo dice a me?”
“Non si respira. Sembra di stare nell'anticamera dell'inferno”.
“Sembra?”

FINE

*******


"Se non altro stasera l'hai fatta breve", commentò la triste Verola. "Ma davvero mi domando com'è stato possibile ritrovarmi in finale un pretonzolo come te.
"Signora", replicò Don Tinto, ha avuto una ventina di giorni per eliminarmi. Se non c'è riuscita deve biasimare soltanto sé stessa. Peraltro, non è che io abbia mai desiderato di restare l'ultimo uomo sulla terra".
"Non siamo gli ultimi uomini sulla terra", obiettò il prof. Esso. "Non è che se manca la rete, nessun cellulare prende più campo, e non si captano più emittenti nemmeno a onde lunghe, uno deve per forza dedurre che l'umanità si sia estinta".
"Inutile discuterne", tagliò corto Verola, che doveva andare in bagno. "Cerchiamo almeno noi di finire quello che avevamo iniziato, come conviene agli umani, anche ove fossimo gli ultimi. Professore, hai già pronto il tuo racconto?"
"Certo, mia signora, l'ho scritto nella veglia di ieri".
"Allora me lo racconterai più tardi stanotte, nell'ora in cui nella vallata i lupi ululano la loro indigestione di carne frolla, impedendoci di dormire".
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In bagno coi Maestri

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(2010)
C'è da dire che la sessualità è un mistero – la nostra: figurati quella degli altri. Ognuno ha la sua storia e non ve la viene certo a dire. D'altro canto a chi interesserebbe. (A Kinsey interessava, ma gli sospesero i finanziamenti).
Del resto, giudicate voi. Per tutti i lunghi anni del seminario e dell'università, mai Don Tinto si era masturbato o ne aveva anche solo sentito l'urgenza. In questa che a voi lettori potrà sembrare una bizzarria statistica (ma quale statistica? ne esistono di attendibili?) e che i suoi coetanei avrebbero ritenuto una grave menomazione, sin dalla prima pubertà Don Tinto aveva creduto di scorgere un dono del Signore, un segno evidente della Sua chiamata. Pur sensibile alla bellezza dei corpi (anzi all'università aveva optato per l'indirizzo storico-artistico), Don Tinto sembrava riuscire a goderne a distanza, senza cadere nei turbamenti delle passioni carnali. Sporadicamente, è vero, in qualche sogno sperimentava un'estasi, una specie di trasporto – di cui al risveglio la biancheria recava tracce imbarazzanti. A sedici anni il confessore gli aveva spiegato di che si trattava, del retaggio dell'inevitabile debolezza della carne – ma non era peccato, tecnicamente. Non nella fase onirica. A meno che non avesse sognato... angeli? Vestiti? Maschi? Femmine? Proprio non riesci a rammentare, figliolo?

“Padre, non mi prenda in giro, ma...”
“Ci mancherebbe altro”.
“Mi sembrava di stare nell'assunzione del Correggio”.
“Un quadro, insomma”.
“Un affresco del Cinquecento. La basilica di Parma”.
“Ah, quindi angeli nudi, insomma".
"Con molti panneggi".
"Bene. Bambini?"
"Eh?"
"Gli angeli del sogno, sono bambini?"
"No, direi adulti".
“Meglio ancora. Tre rosari alla Madonna della Neve”.
“Quindi ho peccato, Padre!”
“No. Però un rosario non può far male. Vai, figliolo, e non... non sognare troppo, eh?”

Centocinquantemilatrecentosettantadue rosari più tardi, Don Tinto (ora cappellano di buone speranze, in una grande parrocchia metropolitana) ebbe finalmente qualcosa di piccante da confessare al suo padre sprirituale.C'era una ragazza castana di dodici anni, nel coro, che non lo faceva dormire. Era forse il modo sfrontato e insieme dolcissimo con cui attaccava gli acuti. Don Tinto era stravolto. Non riusciva a pensare che a lei. Non che ci fosse molto da pensare; allora diciamo che non riusciva a pensare ad altro che non fosse il suo non riuscire a pensare che a lei, e chissà, forse in queste vertigini consiste l'amore? La pubertà, come si vede, stava arrivando in ritardo, tram sferragliante che rischiava di travolgerlo. Mai avrebbe toccato la fanciulla, mai, anche solo presa sottobraccio, o afferrata alle spalle per salvarla da uno strapiombo come gli era capitato una volta di sognare, ma quindi come avrebbe potuto accompagnarla nel pellegrinaggio a Roma con la classe dei cresimandi? Mentre ascoltava, il confessore censurò in sé stesso una certa torva soddisfazione. Il fatto è che se lo aspettava. Tutti quei sogni di apoteosi angeliche da qualche parte dovevano pure andare a parare, bastava aver letto Freud – e poi la carne è debole, Cristo Santo, anche quella dei vitelli da latte come Don Tinto. Fu brusco con lui, come si faceva ai vecchi tempi:
“Ti tocchi?”
“Eh?”
“Ti sto chiedendo se ti masturbi, figliolo”.
“Ma no, padre”.
“Allora forse è meglio cominciare”.
“Ma padre!”
“Che padre e padre. Senti un po'. Tu sei convinto di essere sul precipizio di chissà quale perdizione. E mi sta bene. Significa che dai ancora molto peso ai tuoi sentimenti”.
“Ma...”
“Io però ho sessant'anni ormai, confesso i seminaristi da trenta, e non hai idea di quante storie del genere ho già sentito. Per cui scusami se taglierò corto. Quanti anni hai?”
“Ventiquattro”.
“È tempo che cominci a masturbarti con regolarità”.
“Ma...”
“La sera dei giorni dispari, dopo compieta. Salta la domenica. Vedrai che i sogni poi si calmano”.
“Ma io...”
“Non sai come si fa. Eh, beh, certo. Dio mio, tutto ti devo spiegare? Con la mano destra...”
“Padre, la meccanica più o meno la conosco”.
“Oh, meno male”.
“Ma non mi viene niente da pensare...”
“Hm. Dormi ancora in San Filippo, no? Hai accesso alla biblioteca di Don Bruno?”
“Padre, sì”.
“La pornografia è nel terzo stipetto a destra, la chiave è nel trofeo della corale del 1974. E adesso va'”.
“Padre, non mi assolve?”
“Peccati non ne hai fatti, per adesso. Adesso dovrai cominciare a farne di molto piccoli, con regolarità, in modo da evitare quelli grandi. Se tutto va bene arrivi alla mia età senza avere niente di veramente brutto di cui pentirti”.
“Speravo che non sarebbe mai successo”.
“Ma certo, perché avresti dovuto avere un corpo, come noialtri? Dei desideri? Un pisello, addirittura? Perché mai Nostro Signore avrebbe dovuto farti uomo come noi? Non avrebbe potuto farti angelo? Ecco il tuo vero peccato. Sai qual è".
“La superbia, Padre”.
“Ascolta. Per quanto ne so, tu sei un bravo ragazzo. Non toccheresti una bambina neppure se ti costringessero. Il solo fatto che tu sia venuto a raccontarmi questa storia... però potrei sbagliarmi. Mi sono sbagliato altre volte”.
“Sbagliato?”
“Su altre persone. Ma devi sapere una cosa. Mettiamo che un giorno ti succeda. Mettiamo che un giorno ti capiti veramente di toccare una bambina”.
“Dio non voglia...”
“Dio, sempre questo Dio. Dio ci lascia liberi. Tu verresti a dirmelo?”
“Penso di sì”.
“E io cosa dovrei fare?”
“Dovrebbe... non so, immagino che non mi assolverebbe”.
“Esatto”.
“E mi denuncerebbe alle autorità ecclesiastiche e... a quelle secolari”.
“Ai carabinieri, dici? No, questo no”.
“E perché no?”
“C'è una direttiva molto precisa a riguardo, figliolo. Se ti denuncio rischio la scomunica”.
“Dunque la Chiesa... mi proteggerebbe?”
“Ora pecchi di stupidità. La Chiesa non protegge te. La Chiesa protegge sé stessa. Se tu infangherai il tuo abito, la Chiesa si tiene il diritto di lavarlo in casa propria. Sappiamo lavare come chiunque altro, noi. Meglio di molti altri, devo dire. Ora sai che, se un giorno tu peccassi, puoi venire da noi, da me, sapendo che io non chiamerò i carabinieri. Ti prenderò a ceffoni, questo sì. Lungamente”.
“E giustamente”.
“Ti spezzerò tutta una serie di piccole ossicine tignose che conosco io. Farò quanto mi è possibile per farti trasferire nella parrocchia dell'Africa nera frequentata dai più sifilitici dei sodomiti, ma non ti denuncerò. È giusto che tu lo sappia. E adesso vai. Che giorno è oggi?”
“Mercoledì”.
“Giorno dispari, ottimo. Buona meditazione”.

Una tragicommedia, la prima 'meditazione' di Don Tinto. All'inizio l'impresa sembrava veramente disperata, i polverosi numeri di Le Ore ritrovati nello stipetto rivelandosi quanto mai inadatti alla bisogna. Queste signorine, pensava Don Tinto, oltre a essere così desolantemente diverse dall'oggetto dei miei desideri, sono ormai tutte nonne; tranne quelle che senz'altro sono già passate a miglior vita; ora io devo credere a un Dio misericordioso che avrà perdonato i loro vizi di gioventù e le avrà portate in cielo; dal quale cielo mi possono vedere mentre tento di eccitarmi con le immagini dei loro decrepiti peccati, ormai rimessi, eppure ancora in circolo. Preso da siffatti pensieri, Don Tinto era tanto lontano dall'erezione quanto lo siete voi, miei intristiti ascoltatoti, in questo esatto momento. E tuttavia il padre spirituale era stato molto chiaro; ed era uomo di provata saggezza, a cui Don Tinto avrebbe ciecamente obbedito anche se non glielo avesse imposto il voto, appunto, di obbedienza. Di fronte a Don Tinto si spalancava la voragine, non già del peccato (quello sembrava essersi stranamente ridimensionato) ma della conoscenza di sé: che uomo era, se non riusciva a peccare nemmeno volendo? È santo l'uomo che tra il bene e il male sceglie la prima strada; ma è santo proprio perché sceglie, non perché un qualche accidente di natura gli ha impedito l'accesso alla seconda.

Quando alla fine il volume di Caravaggio dei Maestri del Colore riuscì dove le Ore avevano fallito, Don Tinto fu preso da uno disgusto di sé che mai nella sua vita aveva sperimentato. La sola idea di aver potuto nutrire pensieri per una ragazzina – lui? Era successo veramente? Erano solo fantasie, sogni, poi si sa com'è la vita nelle parrocchie, ci si annoia, si ingigantiscono le cose, ci si inventano peccati anche solo per avere qualcosa da confessare. Eppure, sotto tutto quel disgusto, covava una strana, secca soddisfazione. Dunque anch'egli era un uomo, in grado di disperdere il suo seme come chiunque altro. Aveva potere sul suo corpo; un potere che non avrebbe mai esercitato, ma ora era suo. Non era più un ragazzo in balia dei sogni. Quarantotto ore dopo, la prima sensazione di disgusto era scemata; ma la soddisfazione per la conquista del suo corpo ruotava ancora lì, vorticosa intorno al suo cuore. Don Tinto non covava più nessun assurdo pensiero per la moretta del coro. Si era dimenticato del tutto di lei; ma non del solenne impegno preso col Padre. All'ora prestabilita di venerdì, detta compieta, rientrò in bagno coi Maestri del Colore.

FINE
*******

"Finisce così?", disse ancora la stanca Verola. "Molto prima che diventi interessante, direi".
"Mia signora", concesse Don Tinto, "avrei potuto allungarlo ulteriormente, ma qui è dove ho cominciato a sentire che mi stavo scuoiando vivo. I racconti è giusto farli solo con i pezzi di pelle che sono già venuti via".
"Sento nelle tue parole una velenosa allusione al tuo rivale Taddei e al suo prolisso testamento spirituale. Ma lui è pur stato l'unico, in questo turno dedicato all'amor carnale, a non essersi fermato a sogni e masturbazioni, e meriterebbe meno di voialtri due d'essere eliminato. Ma qualcuno lo ha visto?"
"Mia signora, io l'ho sentito dire che andava al bagno. Sei ore fa".
"Poveretto. Va bene, direi che perde il turno per abbandono di campo. È un peccato però. Siete rimasti voi due idealisti che non fareste male a una mosca. Nessuno m'intratterrà più con bozzetti sociali, niente più racconti ossessionati dall'economia e dalla mano invisibile del mercato..."
"Mia signora, se è di questi racconti che avverte la necessità, possiamo provare a raccontargliene noi due. Propongo che l'economia sia il tema del prossimo turno".
"Ah, lo proponi, eh? Don Tinto, vecchia volpe, immagino che tu abbia già il colpo in canna. E sia. Comincerai tu. Ora, se non ti dispiace, mettiti il solito bavaglio davanti al muso, e va' a cercare il cadavere del povero Taddei nei bagni di servizio al primo piano. La vanga è sempre lì dove l'hai appoggiata, direi. Tu professore invece monterai la guardia, d'accordo?"
"A che ora vi sveglierò, mia signora?"
"Qualsiasi ora andrà benissimo, ma qualora non dovessimo svegliarci, non insistere troppo. Buonanotte".

******* FINE DEL QUARTO TURNO *******
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L'amore gratis (II)

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(Continua da qui)

Cercò di vivere, che è la scelta che facciamo più o meno tutti. L'essenziale è trovare qualche distrazione che ci impedisca di arrivare puntuali all'appuntamento con quell'unica cosa di cui moriremmo volentieri. Si cercò qualche altro vizio, per esempio si rimise ad andare allo stadio come da ragazzino. Prese molti chili. Poi decise che li avrebbe persi e si fece venire la mania per la palestra. Si possono passare molti anni così, girando intorno: c'è un'enorme saggezza in quel modo di dire, “ingannare il tempo”. Fece anche qualche ultimo tentativo di sistemarsi, ma forse era troppo tardi. Le donne che riusciva ancora a incontrare erano accecate dalla paura di restare sole e fingevano con troppa ostinazione di non vedere i difetti che Sergio sapeva di avere. Una in particolare era così determinata a sistemarsi con lui che quasi lo convinse. Si misero persino a cercar casa. Entrambi però avevano passato da un pezzo quell'età in cui mettersi insieme significa crescere assieme. Erano ormai dipendenti di cento piccole abitudini maturate nei loro trent'anni di solitudine, la soap a mezzogiorno, la sigaretta dopo cena, e la convivenza sarebbe stata, Sergio lo capiva, un'infinita teoria di compromessi e armistizi, un equilibrio estenuante di pesi e contrappesi, che forse non li avrebbe uccisi, ma avrebbe fatto passare a entrambi venti, trent'anni di inferno. Sergio veniva da una famiglia così e non sentiva nessun vero impulso a portare avanti la fiaccola dell'odio domestico, delle cene in silenzio, dei pugni al muro, delle vite passate a dormire di fianco a un Nemico che russa e suda. Non voleva avere un bambino per raccontargli bugie, per ripetergli che ci sono cose che non si possono comprare, quando non è vero: tutto si può comprare, al massimo non c'è abbastanza denaro per farlo, ma il denaro è appunto l'unità di misura di tutto ciò che l'uomo può desiderare: le cose insomma stavano così e Sergio lo aveva sempre saputo, ma trovò la forza per dirlo forte e chiaro a sé stesso solo quella notte in cui, dopo aver chiesto ufficialmente alla sua fidanzata di sposarlo, Sergio la riaccompagnò a casa e poi scelse la via più lunga per tornare alla sua, guidando in tondo per ore attraverso quartieri familiari e sconosciuti, su una rotta molto più aggrovigliata del suo ragionamento, finché l'auto non si decise a condurlo sulla circonvallazione.

Lì era tutto cambiato: una rivoluzione antropologica senza precedenti di cui Sergio fu spettatore (pagante). Tossiche e professioniste erano sparite: al loro posto era arrivato, in blocco, il Terzo Mondo, causando un'inflazione di sesso inimmaginabile fino a pochi anni prima. In tasca era convinto di avere una cifra appena sufficiente a permettergli una sveltina e quattro chiacchiere vaghe e consolatorie; scoprì invece di essere un gran signore in grado di concedersi notti intere con regine della savana che, certo, non erano in grado di chiacchierare nella sua lingua, ma lo avrebbero servito e riverito in tutto il resto. Sergio non si era mai sentito ricco in vita sua, non aveva neanche mai provato a immaginare come ci si potesse sentire di fronte a qualcuno che si inginocchia perché glielo chiedi, e per qualche lira in più si schiaccerebbe a terra. Come reagirebbe un ex alcolista se scoprisse che sotto casa vendono liquori esotici a un euro il litro? La sua ricaduta fu tombale: ci mise una settimana a farsi rendere l'anello di fidanzamento, un mese a spenderlo. Niente più stadio o palestra, basta. Ora si trattava di lavorare e spendere, nient'altro che lavorare pensando al momento in cui avrebbe speso, e poi spendere senza pensare più a niente. Sarebbe senz'altro morto di qualche malattia orribile ma non gli importava, le alternative a sua disposizione le aveva già sondate e non gli interessavano.

Non morì. A volte è la morte che non si fa trovare all'appuntamento, si vede che ha altri progetti. Dopo qualche anno di intenso corteggiamento, Sergio sentì che la furia rallentava, sostituita da una pulsione più fredda: da ghiottone stava diventando un gourmet. Era molto più attento a dove buttava i soldi, al rapporto tra qualità e prezzo, che da un certo punto in poi divenne parte integrante del piacere di andare a puttane (ormai tutti in Italia le chiamavano solo così, “puttane”: per l'unificazione linguistica c'erano volute le invasioni barbariche). Divenne davvero un antropologo, per lo meno trent'anni prima uno studioso avrebbe dovuto viaggiare il periplo delle terre conosciute per scoprire le banali nozioni che mise insieme lui. Per esempio: non importa quanto apparissero toniche e fiere, le africane avevano sempre paura di tutto. Della polizia, della madame, della magia nera, del medico bianco, del cliente ubriaco, del cliente che sembra calmo e quindi è uno psicopatico, dell'Europa che è un posto da matti. Col tempo potevano smettere di aver paura di un cliente affezionato, ma di solito a quel punto cominciano a disprezzarlo. Le slave invece avevano ambizioni; forse perché bianche erano convinte che non avrebbero fatto sempre lo stesso lavoro e più spesso di altre cercavano il fortunato o il pollo disponibile a riscattarle; ma miravano quasi sempre un po' più in alto di Sergio, che non le biasimava certo per questo. Le cinesi (ma sarebbero arrivate un bel po' più tardi) arrivavano da un altro mondo e ti trattavano come un oggetto di un altro mondo, di cui magari avevano letto su un manuale di istruzioni con poco testo e molte figure. Le sudamericane erano intense e leggere, il sesso per loro era soprattutto danza, a volte sfrenata, a volte pura coreografia. Vi erano poi altre categorie trasversali: a seconda di cosa stavano pensando le puttane mentre stavano con lui, Sergio le divideva in coatte, che facevano quel mestiere soltanto perché costrette, odiando sé stesse e i clienti; lavoratrici, che anche nei momenti più abietti stavano sempre pensando ai soldi che avrebbero inviato ai genitori lontani, o al figlio che stavano mandando alle elementari del quartiere, o al bar che avrebbero aperto o alla casa che avrebbero comprato; e infine tossiche: quelle esistevano ancora e sarebbero esistite sempre: non pensavano che alla loro morte personale, mentre aiutavano Sergio a morire.

Quanto a lui, non aveva vere preferenze: gli piaceva variare i sapori, improvvisare, sperimentare: poteva passare una notte intera a chiacchierare con una vecchia ballerina brasiliana e il giorno dopo farsi manipolare per pochi minuti da una orientale che non spiccicava una parola. Col tempo si costruì una specie di etica minima di sopravvivenza: niente stradali (troppo scomode), niente rapporti scoperti (i rischi restavano, ma la paranoia calava), niente amiche (mai tornare dopo la terza volta). Smise abbastanza presto di frequentare le cosiddette 'coatte', anche se all'inizio la sensazione di fare violenza su di loro lo aveva stuzzicato; ma senza essere mai stato un uomo buono, Sergio non era mai nemmeno stato un violento; la pulsione a fare male ad altri che a sé non che una distrazione di cui col tempo si liberò, così come pensava di essersi liberato del fantasma dell'amore gratis.

Fino a quella sera che non bussò alla porta di quel caseggiato di Santa Margherita, attirato dalla foto di un culetto sodo che aveva visto in uno dei primi siti internet di annunci. Sapeva già che raramente la foto di un culo ha a che vedere col culo effettivo, come del resto succede con le immagini del cibo sulle scatole dei surgelati. Gli piaceva però l'idea che quella ragazza avesse deciso di mostrare il culo e non la faccia: denotava una certa timidezza, magari era una cameriera che arrotondava. Più probabilmente il viso non era un granché, e anche questo andava benissimo per Sergio: col tempo aveva imparato a non fidarsi dei bei faccini, all'atto pratico non restituivano le soddisfazioni di un volto bruttino ma contratto dallo sforzo, dalla concentrazione a far bene. Che la ragazza non fosse un fiore lo confermò la penombra in cui lo ricevette: i due pattuirono rapidamente quello che ritenevano il giusto per un'ora di prestazione, ma Sergio forse era stanco o troppo carico, insomma risolse tutto in cinque minuti. Quando succedevano queste cose – sempre più di rado col tempo – non se la prendeva più di tanto: amava attardarsi a chiacchierare del più e del meno; a questo punto della vita del resto a parte le prostitute non conosceva più molta gente disponibile ad ascoltarlo
.
Fu proprio mentre si lamentava di un guaio successo in officina, o si abbandonava alla sua massima speculazione filosofica (“perché scopare costa così tanto rispetto al mangiare? Sul serio una sveltina vale come un pranzo di tre portate al ristorante? Quanta manodopera è servita per preparare quel pranzo?”), che la sconosciuta in penombra a cui era ancora vagamente abbracciato disse questa cosa che all'inizio lo stupì soltanto un poco:

“Posso baciarti?”

Il bacio, nella prostituzione, è una pratica piuttosto borderline. Molte professioniste non lo concedono, se non dietro l'esborso di un sovrappiù eccessivo che Sergio non riteneva quasi mai necessario. Perciò rispose alla domanda con l'allegria stupita del bambino a cui si offre un bicchiere di aranciata extra. Mentre si faceva baciare e ribaciava, Sergio si accorse che erano anni che non perdeva più tempo a fare questa cosa sciocca da ragazzini, che invece a ripensarci era potente, tanto che in pochi minuti si ritrovò a gestire una seconda erezione, evento che in quella fase della sua vita aveva del miracoloso. Fu insomma un'ora eroica, come non ne aveva passate da tempo: rincasando, esausto e felice, si ripromise di tornare la settimana successiva, cosa che faceva soltanto in casi straordinari sempre più rari. Si accorse poi l'indomani che stava contando i giorni. Quando finalmente arrivò il momento di ripresentarsi a quel portone (le tempie gli pulsavano come non gli succedeva da anni), di schiacciare un tasto dell'ascensore con una mano che gli tremava un poco, fu all'improvviso colto da un sospetto: forse quello era il suo giorno, forse stavolta la morte si sarebbe presentata all'appuntamento. Ma poi venne ad aprirgli la porta un'altra ragazza, che Sergio non aveva mai baciato.

“Ma tu non sei Gloria”.
“Certo che sono io, amore”.

Questa era una situazione classica, fin troppo nota a Sergio: una ragazza mette un annuncio, e se poi quella sera è impegnata lo passa a una collega. Non aveva senso prendersela tanto, e invece Sergio era mortalmente deluso e infuriato con sé stesso per non aver chiesto qualcosa di più. Non l'aveva nemmeno mai chiamata per nome: “Gloria” era quello che aveva letto sull'annuncio, ma più che un nome di persona era il marchio di un prodotto. Si rese conto che in tutta la sua vita aveva baciato davvero solamente una ragazza, e non sapeva come si chiamasse. Ma c'era di peggio: faceva fatica a ricordare il volto. Un po' bruttino, senz'altro, irregolare, ma non riusciva a ricordarsi quale irregolarità: un naso schiacciato? gli occhi non simmetrici? Meglio non perder neanche tempo con l'acconciatura dei capelli.

“Scusa, io sono venuto mercoledì scorso, c'era per caso una tua amica?”
“Ah, mercoledì... no, mercoledì non so chi ci fosse... dovrei chiedere”.

Il peggio che poteva capitargli: era finito in un puttanodromo, un appartamento preso in affitto da un pappa che ci manda ragazze in rotazione: e Sergio sapeva che le ragazze potevano essere cinque, dieci, cento. Poteva trattarsi di una piccola impresa a conduzione famigliare o di un racket con diramazioni in tutt'Italia, l'unico modo per capirlo era tornare lì tutte le settimane, forse tutte le sere, è la sola persona che mi abbia davvero baciato (pensò), la sola che mi abbia voluto baciare... ero lì al buio che dicevo cazzate e me lo ha chiesto!

Che idiota era stato. Una persona aveva avuto voglia di lui, e lui aveva reagito nell'unico modo che ormai conosceva: scopandola e riscopandola, come probabilmente avevano fatto mille altri. Avrebbe dovuto continuare a baciarla per tutta l'ora della prestazione pattuita. Avrebbe dovuto continuare a baciarla tutta la notte. Gratis. E invece era andato via senza nemmeno guardarla bene in faccia, senza nemmeno chiedere il suo nome. Però poteva ritrovarla. Era senz'altro da qualche parte, magari in quell'esatto momento chiedeva baci a un altro sconosciuto. Prima o poi sarebbe tornata lì. Doveva tornare lì. Sergio l'avrebbe conosciuta. Non si permise di fantasticare più in là di così, anche se per qualche istante la prospettiva di un bar sulla spiaggia e due marmocchi gli balenò davanti. Era quello il vero progetto che la morte aveva per lui? Tanto peggio, lui non aveva davvero scelta a questo punto. Sarebbe tornato in quella casa finché non l'avrebbe ritrovata.

“E allora amore cosa facciamo? Te ne vai? Non ti piaccio?”
“No, anzi. Resto, resto”.
Non era il caso di offendere una persona che stava lavorando. Anzi, aveva bisogno di coltivare dei contatti, ora che diventava un cliente fisso della casa.

Nei tre anni successivi divenne qualcosa di più di un cliente fisso. Ne impiegò meno di mezzo per realizzare l'entità dell'organizzazione che affittava l'appartamento: non un racket miliardario, fortunatamente, ma una turbolenta cooperativa di signore che venivano tutte dallo stesso lontano paesello, a volte con un figlio e più di rado con un marito inutile appresso; e ai padri e ai fratelli restati a casa raccontavano di fare le badanti. Alcune di loro di giorno lo facevano davvero, senza molto entusiasmo, ma la pratica di regolarizzazione fila molto più rapida se ti presenti spingendo una carrozzina. La cooperativa faceva capo a due o tre matriarche, una delle quali si chiamava davvero Gloria e aveva detto il suo vero nome a Sergio, la seconda volta che si era presentato.

Erano brave donne, un po' indurite dall'esperienza del mondo: Sergio non aveva nessuna difficoltà ad ammirarle per lo spirito di iniziativa con cui si erano tenute a galla, e loro cominciarono a provare riconoscenza per questa ammirazione: per gli altri italiani non erano che puttane, per i compaesani streghe che col loro nefasto esempio avevano portato alla perdizione una piccola truppa di cugine, sorelle, cognate (e intanto il paesello natale si arricchiva coi soldi delle rimesse, in giro cominciavano a vedersi automobili di una certa cilindrata). I loro uomini, arrivati col ricongiungimento famigliare, non erano riusciti a integrarsi altrettanto bene: trovarsi un lavoro sarebbe stato ridicolo, non c'era per loro in Italia nessun lavoro che fruttasse in un mese quello che le loro donne mettevano assieme in un fine settimana. In teoria dunque facevano i protettori, ma non è che ci fosse tanto da proteggere: l'appartamento era frequentato da tizi timidi come Sergio, che non creavano nessun problema alle ragazze, per cui non c'era necessità reale di nessun vigilante col coltello; non restava che appoggiare il culo in un bar poco lontano e mettersi a bere, col bel risultato di attirare l'attenzione delle forze dell'ordine che poi bisognava distrarre imponendo alle ultime ragazze arrivate un sacco di straordinari quasi sempre non pagati. In mezzo a tutto questo, l'appartamento era in pessimo stato: chi chiamare quando si rompe un tubo? Ovviamente i condomini rifiutavano di collaborare.

In mezzo a tutta questa ridda di litigi famigliari, irruzioni, corruzioni, tubi rotti, Sergio cominciò a divertirsi come non gli era mai successo in vita sua. Non vedeva l'ora di staccare dall'officina – e salutò addirittura con sollievo la cassa integrazione – per salire nell'appartamento con la valigia degli attrezzi. Oppure c'era da portare una ragazza dalla ginecologa, o a malattie infettive, ma dopo un po' anche dall'estetista, o al centro commerciale, o al cinema. Benché spesso gli affidassero le ragazze giovani, appena arrivate – o forse proprio per questo – Sergio le trattava con diffidenza. Avevano una luce negli occhi che prometteva male, i nastrini colorati della città ricca le distraevano dalle brutture del loro mestiere: pensavano ancora di vivere nel primo tempo di un film romantico che sarebbe finito bene. Di lì a poco, Sergio lo sapeva, avrebbero dovuto scegliere se diventare lavoratrici o tossiche: non gli piaceva troppo l'idea di essere lì mentre arrivavano al bivio, di essere l'uomo che le accompagnava. E poi erano snervanti, ci mettevano tre ore a far la spesa e riempivano il carrello di scemenze, che a Sergio toccava spingere.

Preferiva di gran lunga la compagnia delle matriarche. Con Gloria in particolare legò molto, era una donna molto intraprendente e decisa, e allo stesso tempo non aveva nessuna vergogna a chiedergli aiuto quando ne aveva bisogno. Ormai non scopava più molto: era in cassa integrazione dopotutto, e benché in quanto factotum della casa potesse contare sulla libera generosità delle operatrici, non se la sentiva di sollecitarla troppo. Capiva di amare quella casa che cascava a pezzi, quella strana famiglia di puttane nevrotiche, e di amarla gratis. O forse si era stancato del sesso, come ci si stanca di tutto, perfino di morire. Di sicuro ci pensava meno, una volta era il suo ultimo pensiero fisso prima di addormentarsi, ora no. L'unico chiodo che non riusciva a levarsi era l'ombra di quella ragazza che gli aveva chiesto di baciarlo. Nessun altro lo aveva fatto da lì in poi. Sergio aveva battuto tutte le piste, finché da qualche mezza ammissione di Gloria non aveva costruito questa verità: poteva trattarsi di una ragazza appena arrivata che dopo un breve periodo di prova se n'era ritornata al paesello. Evidentemente il bacio di Sergio non era riuscito a trattenerla: o forse la ragazza ci era rimasta male che dal rospo non fosse uscito subito un principe; insomma, se n'era andata, e a Sergio piaceva immaginarla certe notti su uno sfondo di cartolina, mentre trascinava per mano due marmocchi bruttini, ma pieni di vita. “Non ti sei persa un granché, sconosciuta”, diceva sottovoce; e ci piangeva un po'. Stava invecchiando.

In quel periodo Gloria e il suo marito inutile vennero alle mani, più volte; l'ultima toccò persino a Sergio dividerli, ma non fu difficile, l'uomo era fradicio. Lo avevano già avvisato di smetterla di molestare la Gloria, persino il maresciallo lo aveva preso in parte e gli aveva spiegato che sarebbero finiti nei guai tutti. Alla fine accettò un biglietto in business e una congrua liquidazione per tornare al paesello, dove erano già pronte le carte per il divorzio. Sergio aspettò una settimana e poi invitò Gloria a cena in un ristorante in centro. Non voleva chiederle di sposarla, ma voleva abituarsi all'idea che in un'altra sera del genere magari sarebbe successo. Gloria non seppe dirgli di no, era un buon uomo, forse l'unico italiano di cui era riuscita a fidarsi. La cena scivolò senza imbarazzi, del resto erano ormai abituati a chiacchierare con molta libertà, da buoni amici. A Sergio piacevano soprattutto gli aneddoti sui vecchi clienti come lui, i trucchi del mestiere eccetera. A un certo punto il discorso finì su quel classico tipo di cliente che dopo aver concluso, quando la lavoratrice è stanca e vorrebbe solo docciarsi, attacca a chiacchierare del più e del meno e va avanti per ore. Oh se ne conosceva Gloria, di tipi così! Insopportabili davvero, si pagassero uno psicanalista... e a quel punto, con un filo di panico nella voce, Sergio chiese come facesse di solito Gloria, a liberarsi di quei tipi lì.
“Cosa vuoi che faccia con quelli, c'è un solo modo per chiudergli la bocca. Mi metto a baciarli. Fa un po' senso, ma almeno...”
“Cioè, loro stanno parlando e tu... ti metti a baciarli?”
“No, di solito glielo chiedo”.
“Glielo chiedi”.
“Sì: posso baciarti? Non ce n'è uno che risponda di no, eh, eh”.
“Eh, immagino”, rispose Sergio: e mentre rispondeva così, capì che stava morendo, dentro, nell'unico luogo dove aveva vissuto davvero; e che tutto ciò che sarebbe sopravvissuto da quella sera in poi, fuori dallo spazio di questo racconto, non era che un guscio senza importanza.

FINE

*******

“Sarò franca, mio buon Taddei”, rispose Verola quando la svegliarono. “Mi sono appisolata quando il tuo protagonista è partito per il militare. Tutte quelle fosse che abbiamo scavato stamane devono avermi un poco provato. Dimmi solo: l'ha trovato, il tuo Sergio, l'amore gratis?”
“Troppo tardi, mia signora”.
“Lo immaginavo. Va bene, domani tocca al prete”.
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Walter lo scrivano

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Insomma, Veltroni ha scritto un'altra lettera alla Repubblica. E voi non l'avete letta. E io invece sì. E indovinate un po', cita Olof Palme, il Sessantotto, Berlinguer e... no, stranamente Don Milani stavolta non c'è. C'è però un racconto di Herman Melville, indovinate quale dai, indovinate.


Complimenti. Avete vinto un link a Cosa c'è che non va con Veltroni? (H1t#88), che si legge e si commenta sull'Unita.it

Ma Walter Veltroni se lo fila più nessuno? A parte i massimi quotidiani nazionali, che continuano impietosi a pubblicare tutte le sue lunghe lettere, come Repubblica oggi, ormai senza neanche mettere a posto le virgole e – quel che è peggio – senza moderare i commenti. Col risultato che tutti tranne forse Veltroni si possono aspettare, ovvero che in capo a mezza giornata l'ennesima orazione riformista si ritrovi sprofondata in un mare di pernacchie, di “vattene in Africa” ormai stucchevoli ma non del tutto campati in aria. D'accordo, la maggior parte dei lettori i commenti nemmeno li legge. Ma almeno Veltroni dovrebbe darci un'occhiata, dal momento che è da più di un annetto che sembra sondare il bacino di quotidiani e internet alla ricerca di uno spazio dove rilanciarsi: giusto per capire le dimensioni dei buchi nell'acqua che invece i suoi interventi producono.

Cosa c'è che non funziona nella comunicazione di Veltroni? Un po' tutto, verrebbe da dire: perfino quegli spazi messi prima delle virgole, che nessun redattore professionista lascerebbe in un testo da pubblicare su un quotidiano, e che a livello subliminale suggeriscono la solitudine di un uomo politico che un tempo aveva senz'altro uno staff che gli desse un'occhiata alla punteggiatura, e oggi evidentemente no. Il tono paternalistico per cui ogni tensione mondiale – dalla crisi dei mercati europei agli scontri di Londra – deve sempre essere causato dall'egoismo di un monello globale che non sa dire “noi”, che sa dire solo “no”, che insomma non vuole ascoltare il predicozzo del buon Walter che gli spiega di fare il bravo e pensare agli altri: un approccio non proprio ideale per il lettore di quotidiano, che assume un aspetto suicida quando Veltroni cerca di trasferirlo in un ambiente radicalmente egalitario come Facebook, dove il suo accorato invito ai pacifisti italiani a essere bravi e coerenti e scendere in piazza contro Gheddafi ottenne meno apprezzamenti della risposta di uno sfigato chiunque (il sottoscritto). Che altro? L'irriducibile pulsione al ma-anche, per cui un pezzo che sembra salvare, degli ultimi vent'anni di centrosinistra, solo l'esperienza di Prodi, deve comunque concludersi con un inno ai patriarchi del PCI, sia mai che si possa fondare la sinistra di domani senza ricordarsi di onorare Occhetto e Berlinguer...

Ma soprattutto, una certa ripetitività, che sconfina nel comico involontario, per cui dopo averne lette una mezza dozzina ormai la prossima letterina veltroniana potremmo scriverla noi: è sufficiente ricordarsi, in presenza di qualsiasi rivolgimento sociale, di citare il Sessantotto, giusto per ribadire che comunque era diverso, perché allora si voleva “cambiare il mondo”... anche se poi alcuni si sbagliarono e diventarono terroristi cattivi, insomma, tutta una Storia d'Italia ridotta ai minimi termini di una fiction Rai che a questo punto credo irriti per primo chi il Sessantotto lo ha vissuto davvero, e si ricorda che le cose erano un filo più complesse. Invece, quando si parla di riformismo, bisogna sempre ricordarsi di citare Olof Palme, come se poi l'esempio di questo Palme potesse risultare utile al lettore medio. Il che non è, insomma, qualcuno prima o poi dovrebbe spiegare a Veltroni che la maggior parte dei lettori del suo bacino di riferimento non si ricorda chi sia, il buon Palme, se non un pallino privato di Walter Veltroni.

Il fatto è che certe ripetizioni veltroniane ormai più che distrazioni sembrano ossessioni, non facilmente spiegabili e persino un po' inquietanti. Faccio un altro esempio: ogni volta che qualcuno, nella sua prosa, dice “no”, Veltroni sembra costretto a soggiungere che lo fa “come Bartleby lo scrivano”, il protagonista di quel famoso racconto di Melville che poi, secondo me, in Italia così famoso non è. Voglio dire che se parli di Renzo e Lucia, su un quotidiano, tutti i tuoi lettori non faticheranno a ricordarsi che si tratta di due fidanzati con qualche difficoltà a concludere; se parli di metamorfosi kafkiana, alla maggior parte non sfuggirà che si tratta dello strano caso di un uomo che si risveglia trasformato in scarafaggio. Ma se parli di Bartleby, ecco, a quel punto non credo che la maggioranza abbia ben chiaro a cosa ti stai riferendo. A questo punto di potrebbe ipotizzare che Veltroni stia cercando i suoi nuovi interlocutori tra gli appassionati di letteratura americana, o i fans di Baricco, che sono comunque un bacino cospicuo. Il fatto è che anche questi non disprezzabili conoscitori di Melville, ogni volta che Veltroni lo cita, non riescono comunque a capire dove voglia andare a parare.

Due anni fa per esempio per Veltroni Bartleby era D'Alema, perché diceva sempre di no. E già in quel caso c'era qualcosa di maldestro nel riferimento letterario: per quanto ci si sforzasse si faticava a immaginare i baffetti di D'Alema sul volto inespressivo dello scrivano che si lascia morire di inedia in prigione perché preferirebbe non mangiare. Nella lettera di oggi, per contro, il riferimento scatta davanti ai "pochi, coraggiosi, docenti italiani che si sottrassero al giuramento di fedeltà al fascismo e risposero, come Bartleby lo scrivano ,"Preferirei di no"”. Superfluo notare che non risposero proprio così. Ma anche stavolta, quel Bartleby esattamente cosa c'entra? Chiunque abbia letto il racconto sa che non si tratta di un eroe; tra i critici che si sono cimentati con l'enigma c'è chi lo considera un'incarnazione dell'alienazione, della depressione, perfino del blocco dello scrittore. Il modo in cui oppone il suo rifiuto prima al datore di lavoro, e poi progressivamente al mondo non sembra avere molto di politico; poi naturalmente la politica si può attaccare a qualsiasi cosa, ma l'impressione è che Veltroni più che operare dei riferimenti efficaci a opere letterarie condivise si impigli troppo spesso nelle reminiscenze private delle sue tante passioni (cinema jazz figurine romanzi).

Al punto che uno smette di pensare a cosa Veltroni vorrebbe dagli italiani per domandarsi cos'è che Veltroni nasconde, nella sua testa, sotto il feticcio di Bartleby. Forse un'irrazionale pulsione a restare nella sua posizione, come il copista nel suo studio su Wall Street, quando ormai il suo capo lo ha licenziato e persino l'azienda si è trasferita. Magari Veltroni non se ne rende conto, ma se c'è un Bartleby in Italia oggi, probabilmente è proprio quel personaggio che si ostina a ricopiare la storia del Sessantotto e degli anni di piombo, a dettare manifesti riformisti a destra e manca, a ringraziare Di Vittorio e Berlinguer. Fuori il più della gente lo ignora; chi ancora lo nota gli domanda con stanca malizia se non è il caso di andare in Africa. Lui evidentemente preferisce di no. http://leonardo.blogspot.com
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L'amore gratis (I)

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(2011)
Sergino, gli avevano detto sin da piccolo, i soldi sono una gran cosa, ma non ci puoi comprare tutto: la salute, per esempio, non si compra. Poi però la cara zia era morta mentre la portavano all'ospedale e Sergio aveva chiesto: ma se avessimo avuto più soldi non avremmo potuto portarcela noi in automobile, invece di aspettare l'ambulanza? O andar a vivere in una di quelle belle palazzine vicino al Pronto Soccorso? E a denti stretti il padre aveva ammesso che in certi casi la salute si può misurare in soldi. L'amore però no, aveva aggiunto. L'amore non si compra. Sergio però non aveva ben ancora chiaro cosa l'amore fosse: era una di quelle grandi parole che gli adulti usavano, scatole dentro le quali Sergio non sapeva ancora bene cosa mettere, e così dentro la scatola AMORE cominciò a infilare tutte le cose che non si potevano comprare, non per mancanza di soldi ma di commercio. Per esempio, le figurine erano un passatempo piacevole, ma si compravano: quindi erano un vizio. La partita a pallone nel cortile dell'oratorio, quella non si pagava: Sergio infatti 'amava' giocare a pallone dietro l'oratorio. Tutto abbastanza chiaro, finché non conobbe una brava ragazza e la corteggiò.

A quei tempi i corteggiamenti erano cerimonie molto più estenuanti di adesso, ma non era l'impazienza che stringeva il cuore a Sergio, quanto la sensazione che stare con questa ragazza gli costasse. Doveva portarla al cinema, a volte addirittura al ristorante. Farsi prestare l'auto del fratello maggiore e riportargliela pulita col serbatoio allo stesso livello. Detto questo, Sergio sentiva che avrebbe pagato volentieri anche di più, se ne avesse avuto, ed era questa sensazione a creargli dei problemi. Se per stare con la ragazza doveva pagare, non era vero Amore, erano ancora figurine: un passatempo piacevole, uno sfizio, una cosa che fai solo se te la puoi permettere, e forse Sergio ancora non poteva. Aveva appena iniziato a lavorare e sapeva di dover partir militare da un momento all'altro.

Eppure, al di là di tutte queste preoccupazioni, Sergio credeva di amarla, la sua bella. Non pagava mica lei, infatti, bensì tutti gli ostacoli che si mettevano tra lui e lei: la benzina per raggiungerla, il cinema per poter sedere vicini senza temere il giudizio altrui, né sforzarsi a trovare argomenti di discussione, l'abito necessario a mostrare uno stile di vita un po' più sostenuto di quello che Sergio poteva realmente permettersi, non tanto per vanità, ma per mostrare almeno un po' di ambizione nella vita. Tutte queste cose andavano pagate per arrivare a lei, ma Lei era altrove: se ne stava tranquilla, dall'altra parte di un'infinita teoria di dogane che Sergio doveva passare, sborsando ogni volta un pedaggio o un dazio, ma col sorriso di chi sa che non tornerà sui suoi passi, che prima o poi gli ostacoli sarebbero finiti e Sergio sarebbe infine approdato al vero amore, che è gratis.

Arrivò prima la cartolina del militare. Sergio si ritrovò sbalzato a quattrocento chilometri dalla sua amata, e al telefono era una frana, i gettoni cadevano in un silenzio gonfio di desiderio. Usò le prime tre licenze per andare a trovarla, e ogni volta la sentiva più lontana, le dogane tra lui e lei si erano quadruplicate e sembravano aumentare. Poi realizzò che semplicemente non se la poteva permettere. Fu quando ottenne una licenza breve e le propose di venire lei nella sua nuova città: e ancor prima di toccare l'imbarazzante tasto di chi avrebbe dovuto pagare il biglietto, si sentì controproporre una terza città, a metà strada. Sergio non conosceva ancora bene l'amore ma sapeva fare i conti: gli ci vollero pochi secondi a confrontare i tre viaggi compiuti solo per vedere lei (800 x 3 = 2400 km), col mezzo viaggio che lei era disponibile a sobbarcarsi (400 km). E insomma il rapporto era di uno a sei: poteva funzionare? Il viaggio andò a monte e quando fu congedato, otto mesi dopo, la ragazza era già ufficialmente fidanzata con un altro.

Nel frattempo Sergio aveva iniziato ad andare a mignotte, come si diceva in quella città (a quei tempi davvero ancora ogni città aveva nomi diversi), più per la necessità di stare in compagnia coi commilitoni che per autentica passione – come le figurine, le mignotte si pagavano: non si pagavano dazi o intermediari; non ti spillavano soldi in attesa di qualcosa che nessuno ti garantiva sarebbe arrivato: come le figurine, le mignotte restituivano una soddisfazione immediata e superficiale, qualcosa di cui Sergio era sicuro che si sarebbe vergognato non appena sarebbe cresciuto un po'. Questo capita a molti ventenni, di dare per scontato che cresceranno ancora. È comprensibile: in fondo non hanno smesso di crescere e cambiare da quando sono nati, ogni anno hanno scoperto qualcosa di diverso su di loro e sul mondo, con un andamento iperbolico che lascia immaginare scoperte e cambiamenti sempre maggiori. E invece Sergio non sarebbe mai più cresciuto: era già un uomo fatto, anche se ancora non lo sapeva; le passioni che aveva coltivato in quei vent'anni lo avrebbero accompagnato per il resto della vita; non si sarebbe mai davvero lasciato alle spalle la passione per le figurine, non avrebbe mai smesso di immaginare la felicità come un campetto dietro l'oratorio dove puoi andare a giocare a pallone quando vuoi e nessuno ti manderà via, e avrebbe continuato ad andare a mignotte, sempre vergognandosene un po', ma non abbastanza per smettere.

Ci furono in mezzo alcune delusioni. Per alcuni anni Sergio continuò a pensare che avrebbe trovato la ragazza giusta, si sarebbe sistemato e avrebbe fatto dei figli, di cui per il momento non aveva nessun desiderio, ma col tempo gli sarebbe venuto. Molti suoi amici e coetanei gli stavano mostrando che si poteva diventare adulti così, senza sforzi sovrumani, semplicemente lasciandosi guidare dalla corrente, dal desiderio collettivo di tutte le persone accanto a te che ti desiderano sistemato. Ma Sergio forse non aveva abbastanza persone accanto a sé; la famiglia non lo poteva aiutare; a trovare un lavoro dignitoso ci mise un po' di tempo, e nel frattempo invitare le ragazze fuori continuava a essere imbarazzante. E nessuna ragazza forse lo accecò al punto da non riuscire a vedersi per quel che era, un ragazzo bruttino senza grossi progetti per il futuro, chi se lo sarebbe preso un tipo così? A volte si accorgeva di nutrire un sottile disprezzo chi ancora accettava di uscire con lui. Del resto questo succedeva sempre più di rado; in un qualche modo Sergio aveva passato la boa dei trent'anni, che è più o meno il momento in cui la maggior parte di noi ha già incontrato almeno una volta la propria morte.

Ognuno la trova ovviamente in un luogo diverso: chi nell'alcool, in una droga, nella passione per uno sport estremo, o per il gioco compulsivo, o per le macchine che vanno troppo veloce; in un lavoro che ti succhia la vita e ti distrugge la famiglia, oppure in una famiglia che ti succhia la vita e ti impedisce di lavorare: ognuno di noi a un certo punto incontra quella cosa più forte di lui che sarà la sua fine. È una cosa che avviene di solito entro i trenta (in Italia: altrove saranno più rapidi, come al solito). Prima non capisci niente, provi tutto quello che riesci a provare senza capire se ti piaccia veramente o no, ti attacchi alla canna della vita con l'idea di poter inghiottire qualsiasi cosa e il bello è che per qualche anno è davvero così: riesci a inghiottire qualsiasi cosa, provi piacere e disgusto e non sai distinguerli. Bevi ettolitri di birra senza nemmeno accorgerti che sei un alcolizzato, poi un giorno ti svegli e capisci che lo sei: che l'alcool è la cosa più importante della tua vita; che il tuo stipendio lo calcoli in quanto alcool ci puoi comprare; che i tuoi amici li classifichi a seconda di quanto alcool ti possono offrire o scroccare. A quel punto non è che sei morto, ma hai visto la tua morte in faccia, e la cosa è più positiva di quanto sembri: ora che sai di cosa morirai, puoi anche decidere quando. Se vuoi vivere a lungo, da quel momento in poi metterai più ostacoli possibili tra te e l'alcool: disintossicazione, gruppi anonimi, metter su una famiglia, c'è gente che è arrivata a ottant'anni così, e alcuni non hanno nemmeno smesso di farsi una birra ogni tanto, giusto per il piacere di fare due chiacchiere con la tua più vecchia amica che è la tua personale morte.

Fu insomma verso i trent'anni che Sergio capì che la sua morte sarebbero state le mignotte. Aveva da poco ripreso ad andarci, dopo l'ennesima delusione; lo consolavano, davano un senso ai soldi che portava a casa e non stava investendo in nessuna casetta con giardino. Non le disprezzava, anzi ammirava la professionalità con la quale si abbassavano a stare un po' con lui per soldi. A quel tempo si dividevano ancora sommariamente tra professioniste e tossiche. Le professioniste non mettevano fretta, cercavano per quanto possibile di fideizzare il cliente, insomma passavano rapidamente da amanti a mamme; e quello era l'esatto momento in cui Sergio capiva che lo stavano fregando, e troncava. E valeva la pena di pagare un pochino anche per il piacere di essere lui a troncare, a decidere di cancellare una frequentazione. Alle tossiche non interessava fideizzare, non interessava proteggersi, non interessava niente. Avevano bisogno di soldi e si facevano fare di tutto. Nei loro sguardi aggrottati e rapaci Sergio si riconosceva. Correndo verso la loro morte, avevano incrociato Sergio che si avviava più lentamente verso la sua. C'era ancora tempo, infatti: una malattia venerea, curabile ma fastidiosa, gli diede un grosso spavento e lo convinse a rigar dritto, per un po' (continua).
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L'ombelico è un problema complesso

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(2004)
Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l'idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l'altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d'accordo… "Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween".

L'amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. "Avevo un caldo…". Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l'ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L'ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell'anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l'altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l'amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l'igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un'istigazione all'automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l'ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c'è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

"Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell'identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l'ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno".

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell'ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
"E dire", pensa lui, "che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l'anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…"
Sull'autobus Esso continua a riflettere sull'apparente mistero: ogni anno, 'ste ragazzine si scoprono un po' di più, e lo eccitano un po' di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l'impressione di invecchiare. "Quand'è l'ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…"
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall'eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi -
- Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un'uniforme! L'uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell'autobus, ripensandoci ha un timido accenno d'erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
"Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l'ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c'è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C'è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà".

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE


*******

"Un... 'timido accenno di erezione', professore? Chiedo un racconto sull'amore carnale, e tutto quello che ottengo è un 'timido accenno di erezione'?" Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?"
"Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia".
"Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei... a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?"
"Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che..."
"Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai"...
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Tre gemiti all'unisono

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"Siamo quindi già alla fine del terzo turno; come vola il tempo, quando ci si diverte", proseguì l'ironica Verola. "Mària, prof. Esso, i vostri racconti non erano neppure così male; è evidente che vi stavate risparmiando per gli ultimi turni. E tuttavia non è curioso che quando io vi ho chiesto un racconto sul lavoro, voi mi abbiate rifilato un racconto su voi stessi? Non è indicativo di una certa confusione? Mària, tu sei forse il lavoro che fai?"
"Può darsi", ammise Mària, "che io lo sia diventato, cogli anni e le delusioni. Ma..."
"Professore, hai parlato tanto di scuola fin qui, e stavolta invece hai sognato di scappare. Si direbbe che tu t'impegni a mancare sempre il bersaglio".
"C'è del vero, mia Signora, e tuttavia..."
"Basta ma, basta tuttavia. Statevene zitti per un buon minutino, adesso, ok? Devo riflettere".
































































































(Stai scrollando troppo in fretta, torna su)














(bwowwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww)

























































"Mària", rispose infine Verola, "temo che dobbiamo privarci della tua pur gradevole compagnia".
A quella notizia, un gemito sfuggì all'unisono dalle gole di Taddei e don Tinto, consapevoli che le notti seguenti sarebbero state molto meno interessanti. Lo stesso professore, pur manifestando sollievo per l'eliminazione scampata, s'inginocchiò davanti alla sua signora, e lo si udì proferire queste parole:
"Mia signora, non discuto, come è giusto, la tua sentenza che una volta ancora conforta le mie folli speranze; ma se ho qualche merito presso di te, ti prego, non espellere Mària nella valle dove imperversa il morbo che ormai, lo sappiamo, è mortale. Trattienila presso il tuo seguito, dove, benché sconfitta nel certame, non le mancheranno le occasioni per rendersi utile..."
"Fingerò di non capire quali occasioni non le mancherebbero", rispose Verola malcelando un sorriso, "e di non vedere le motivazioni meno nobili dietro alla tua scena madre. Del resto non nego che Mària mancherà anche a me: ma se ho scacciato gli altri due concorrenti sconfitti, non posso per lei cambiare le regole della competizione; tanto più che il personale di servizio comincia a scarseggiare e nell'ala della residenza in cui ci siamo rifugiati non ci sono abbastanza giacigli per tutti".
"Se è un problema di giaciglio", osò allora dire Mària, "io posso stringermi..."
"Basta così, Mària, non stancarmi. Prendi le tue cose e in bocca al lupo", tagliò corto Verola. E come Mària, senza una lacrima, ebbe abbandonato la compagnia, riprese: "Cosa sono quelle facce? Preferivate scendere al suo posto?"
"Mia signora", rispose Taddei, "se pure ognuno di noi in cuor suo si augura di veder cadere tutti i suoi rivali e restare qui per ultimo, tutti per penultimo avremmo probabilmente voluto Mària". 
"Ah, e come mai?"
"Forse è l'unica", azzardò Don Tinto, "che nei suoi racconti ha messo un po' di carnalità, un po' di solido amore..."
"Meglio così, allora", rispose Verola, "dal momento che l'amor carnale sarà l'argomento del prossimo turno. Comincerà il professore, che con tutta quella pietà per la povera Mària non me la conta mica giusta. E adesso ritiriamoci, che domani... domani... mah, siamo rimasti in quattro, che ne dite di un doppio misto?"
"Mia signora, il campo da tennis è stato adibito a... fossa comune".
"Ah già. Beh, ci dev'essere un tavolo da ping pong in solaio".


******* FINE DEL TERZO TURNO *******
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Cinguettii dalla battaglia

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Ci sono cose che si possono descrivere con pretese quasi oggettive, e altre che semplicemente no, qualsiasi descrizione sarà parziale e discordante. Le battaglie sono l'esempio classico, dalla Certosa di Parma in poi. E c'è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella pretesa di raccontarcele in diretta, come se tutto fosse chiaro sotto i riflettori. Quando non ci sono riflettori. Neanche videocamere, il più delle volte. Al massimo c'è Twitter. E Twitter, beh, Twitter...


...non è lo strumento più adatto. A Tripoli Twitter non serve (H1t#87) è sull'Unità.it e si commenta lì.

(Le 21 notti proseguono tra breve con la comunicazione del prossimo eliminato).

Ma insomma è colpa di Twitter, il Cinguettatore Globale (dall'inglese to twit, "cinguettare"), se nella strana notte tra il domenica 21 e lunedì 22 agosto la notizia della cattura di Gheddafi è stata data e smentita più volte? Sarebbe come dire che la prima guerra mondiale è colpa delle rivoltelle: se Princip non ne avesse avuta una in mano non avrebbe ammazzato l'arciduca a Sarajevo eccetera eccetera. Twitter in realtà è uno strumento: si può usare bene o male (o meglio: in modo più o meno efficiente). Nel caso di una guerra civile, Twitter è uno strumento efficiente se lo usano gli osservatori in prima linea per raccontare al mondo quello che stanno vedendo. Cruciale quindi in situazioni come i cortei, o sotto i bombardamenti; molto meno durante le battaglie, quando i civili hanno di meglio da fare che cinguettare, e in prima linea restano cronisti che privilegiano i canali d'informazione professionali.

Viceversa, Twitter diventa uno strumento inutile, per non dire dannoso, se lo si prende in blocco come fonte primaria d'informazione, non sapendo o fingendo di non sapere che la stragrande maggioranza dei “cinguettatori” in situazioni come queste rimane nelle retrovie e non fa altro che riportare voci più o meno incontrollate o addirittura dispacci di agenzia: salvo che i cinguettatori a volte possono farsi prendere dall'entusiasmo, o non capire bene quello che stanno riproducendo. Nel caso di Gheddafi, dato più volte per catturato o addirittura morto, probabilmente qualcuno ha confuso l'annuncio dell'arresto o della morte di uno dei suoi figli – in fondo si chiamano tutti Gheddafi. Errore comprensibile se lo commette un cinguettatore dilettante; molto meno se lo riprende un giornalista che magari deve riempire una diretta, o tenere aggiornato il sito di un quotidiano durante la notte. A questo livello probabilmente non è neanche una questione di pigrizia: quando si dichiara che “secondo voci” Gheddafi sarebbe stato catturato, si sta semplicemente scommettendo su un cinguettio che, se per caso si avvererà, sarà uno scoop: nel caso contrario basta smentire, e comunque con una notizia incontrollata e una smentita abbiamo riempito un'altra oretta.

Viene in mente l'edizione straordinaria del tg1 di domenica sera, in cui Giorgino ha presentato Twitter come lo strumento delle “giovani generazioni” (e già qui ci sarebbe da dire: Twitter non è un social network particolarmente giovanile, molti suoi utenti hanno già passato la trentina, e i recenti fatti di Londra hanno dimostrato come i veri giovani prediligano altri mezzi, come i messaggi via cellulare o blackberry). A questo punto ci saremmo aspettati chissà quale cinguettio rivelatore, e invece no: la giornalista del tg si è limitata a leggerci twit banalissimi che in sostanza dicevano: 'Tripoli libera? Se fosse vero sarebbe bello'. Inshallah, come si dice laggiù. Ma un Inshallah non diventa una notizia, neanche se lo facciamo passare da Twitter. Che a questo punto, più che dalle giovani generazioni, sembra diventato il pallino dei giornalisti a caccia di colore: quello che qualche anno fa era Second Life (servizi allarmisti sulla realtà virtuale), poi You Tube (Riotta che chiedeva agli spettatori del tg1 di inviare i loro video per San Valentino!), quindi Facebook (le immagini goliardiche trovate sui profili personali di Raffaele Sollecito o Rudy Guede spacciate come indizi di colpevolezza). Sempre con questa idea un po' bislacca per cui la televisione dovrebbe fare da contenitore per i contenuti di Internet: dovremmo accenderla per guardare una persona che ci legge gli ultimi cinguettii di Twitter, o ci mostra l'ultimo video buffo di Youtube. Quando ormai, tra pc, tablet e smartphone, una postazione internet c'è in tutte le case (non solo in quelle delle “giovani generazioni”). Un po' come chi cerca di imbottigliarti e venderti l'acqua del tuo rubinetto...http://leonardo.blogspot.com
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Di come Don Tinto perse la fede

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(2011)
Se proprio era inevitabile, e forse lo era, Don Tinto avrebbe preferito perderla in un incidente, come succede a tanti. Un ubriaco entra in autostrada contromano, fa secco tuo fratello che non ha mai fatto nulla di cattivo in vita sua, quindi Dio dov'è? Sarà che la sua parrocchia era nei pressi di un casello, ma Don Tinto ne ha conosciuti parecchi che hanno perso la fede così. Molti addirittura si sentivano obbligati a venire a spiegarglielo al confessionale, Don Tinto mi spiace, lei è tanto una brava persona, ma mia figlia è stata spappolata da un tir che ha invaso la carreggiata, prova evidente che Dio non c'è.

In questi casi il sacerdote professionale abbozza una smorfia di contrizione, protesta di non voler neanche tentare di consolare un dolore inconsolabile, farfuglia qualcosa sul mistero della provvidenza, e nel caso di Don Tinto si torce le mani nell'oscurità del confessionale, perché la voglia di tirare due ceffoni lo tenta fortissimo. Non dico alle elementari, eh, ma almeno dalle medie in su dovrebbe essere chiaro che i suoi disegni sono un filo più complessi e imperscrutabili delle statistiche sulla mortalità del traffico. Ma insomma signorino, lo scopri oggi che i tir ammazzano le persone, e che Dio in linea di massima non tira nessun freno d'emergenza? Il Dio in cui hai creduto fino a ieri non interviene negli incidenti stradali, e fino a ieri la cosa non ti turbava nemmeno. Poi un giorno ti toccano gli affetti e all'improvviso sai più teologia di San Tommaso, ma va', va', che la tua fede non era poi gran cosa se basta un autosnodato a disintegrarla.

E tuttavia almeno in casi del genere puoi prendertela con l'autosnodato. Mentre Don Tinto chi biasimerà? Sé stesso, soltanto sé stesso. La fede, non sa neanche dire quando l'ha persa esattamente. L'ultima volta che ricorda di averla vista era lì, sulla scrivania, tra i moduli della dichiarazione dei redditi e il rendiconto annuale della scuola materna (in rosso fisso). Rammenta in effetti di essersi detto che non era il posto adatto per una cosa tanto importante; che andava custodita con più attenzione, e di averla d'impulso spostata... dove? Maledetto impulso, non bisognerebbe mai spostare le cose senza pensare al quadro generale. Che poi finiscono in fondo ai penultimi cassetti vuoti che piano piano si riempiono di altre cose importanti che è meglio mettere in un posto al sicuro, e dopo qualche mese valli più a trovare, in mezzo a tutto quel casino di cose ugualmente importanti.

Imbarazzante, ma è così: Don Tinto non ha perso la fede in un incidente, per una delusione, al termine di una crisi, durante una malattia. L'ha persa un giorno qualunque che fuori pioveva, i conti non tornavano, la bici era sgonfia, c'erano formiche in cucina e la crepa dell'intonaco in soggiorno si stava allungando. In chiesa il riscaldamento non funzionava bene, benché il tecnico spergiurasse il contrario: bisognava farne venire uno più capace, ma questo equivaleva a offendere un parrocchiano, la sua famiglia, le sue zie generose con la questua eccetera. L'organo, un gioiellino di tardo Settecento inspiegabilmente rimasto lì, era mal temperato, e i Beni Culturali lo avevano diffidato a chiamare qualsiasi altro accordatore tranne quello di loro fiducia, esosissimo; al solo pensiero Don Tinto preferiva chiudere a chiave la tastiera e non pensarci più, ma questo significava concedere altro spazio all'azione giovanile e alle loro chitarre frastornanti, non ce n'era mai una accordata all'altra, mentre distribuiva meccanicamente il Corpo di Cristo Don Tinto malediceva il suo orecchio non assoluto, ma comunque esageratamente raffinato per le necessità di un sacerdote di provincia. O forse stava schedulando le benedizioni quaresimali a domicilio? o buttando giù tre idee per l'omelia di domenica? o pianificando la sagra, organizzando la pesca benefica per la sagra, cercando i premi per la pesca benefica, identificando gli sponsor adatti che avrebbero potuto offrire i premi... Oppure stava dormendo, anche i preti dormono. Don Tinto aveva necessità di otto ore filate, sennò si appisolava in confessionale. Magari mentre leggeva compieta gli si erano chiusi gli occhi, magari aveva pensato che cinque minuti di sonno non avrebbero offeso N. Signore, anzi, poteva essere un sistema per parlare meglio con lui (con molti Santi funzionava), ma in luogo di un rapimento estatico Don Tinto era crollato schiacciando il naso sul salterio, sbavando sul versetto 31 del Salmo 119; e quando si era svegliato tre ore dopo non ricordava più dove aveva messo la sua fede, in che cassetto si trovasse. Poco male, pensò, mica l'ho buttata via. Salterà fuori prima o poi.

Lo si dice di tante cose che ci sembrano importanti, ma che alla fine non usiamo quasi mai. Un sacerdote più zelante di Don Tinto avrebbe stravolto i cassetti, gli scaffali, le mensole, la cassaforte della Canonica, l'archivio parrocchiale; avrebbe buttato tutto all'aria finché non avesse trovato l'unica cosa fondamentale, la fede! Don Tinto invece aveva una parrocchia da mandare avanti e per prima cosa pensò che il mattino dopo doveva svegliarsi presto, c'era da salire al campeggio per celebrare una messa oppure fare il tour settimanale delle estreme unzioni, tutte cose importanti e tranquillamente fattibili anche senza la fede personale, che comunque sarebbe saltata fuori prima o poi, insomma, mica l'aveva buttata via.

Invece non saltò fuori più, e, quel che è peggio, Don Tinto non riuscì mai a trovare il tempo per svuotare i cassetti, dare aria agli armadi e tutto il resto. Non che non gli dispiacesse non avere la sua fede a disposizione, caso mai ci fossero montagne da spostare: ma bisogna dire che nessuno gli chiese mai gesti così spettacolari. Bisognava invece preparare l'ora di religione alla scuola media, i ragazzini diventavano sempre più insidiosi con le loro domande; ordinare paramenti nuovi, non troppo vistosi ma neanche troppo moderni perché tanto la gente mormora comunque; portare la panda dal meccanico; lunedì sera c'era la riunione con gli altri parroci della zona nord della diocesi; martedì un'ecografia all'addome, mercoledì il corso prematrimoniale. E poi bisognava confessare, comunicare, pregare, senza più fede ma comunque con professionalità, ché l'ultima cosa che serve ai parrocchiani è un prete con le turbe di coscienza.

Provò i ritiri spirituali, le scalate in solitaria, le vacanze al mare, ma non serviva a niente: Dio era senza dubbio ovunque e quindi anche in vetta ai monti e sotto agli ombrelloni, ma la fede di Don Tinto rimaneva incastrata in qualche intercapedine del suo studio, era lì che bisognava mettersi a cercarla. Il punto è che ogni volta che tornava in quella stanza maledetta c'era una telefonata da fare o ricevere, un peccatore da confessare, un malato da consolare, un affamato a cui non poteva mica dire: “Torna tra un po', prima di sfamarti occorre ch'io ritrovi la mia fede”. In mezzo a tutte queste piccole preoccupazioni, era Don Tinto a sentirsi sempre più simile a una montagna che nessuno si sarebbe azzardato a spostare.

Alla fine gli unici momenti in cui Don Tinto riusciva a pensarci era quando gli capitava di fare due chiacchiere con uno scettico. Ne incontrava un po' a tutti i livelli, nel confessionale o dal dottore e ai dopocena tra colleghi. Più o meno continuavano a dire le stesse cose, sempre con l'aria di riferire chissà quale enorme novità scientifica: perché Dio consente il male? E l'evoluzione? Il Big Bang? Benché avesse imparato a dribblare tutte queste obiezioni già in seminario, Don Tinto si sentiva onorato che qualcuno continuasse a proporle proprio a lui: evidentemente visto da fuori doveva sembrare una di quelle travi solide che non oscillano, ma possono solo spezzarsi una volta accettata l'inconsistenza dei propri fondamenti.

E invece la trave era marcia dentro. Gli scettici lo blandivano, credevano che Don Tinto avesse ancora una fede da potersi perdere davanti a un ragionamento astratto, o all'osservazione del dolore. Ma se perse la fede, Don Tinto la perse tra un modulo di rimborso e un estratto conto; la smarrì nella polvere che si posava sul raccoglitore della corrispondenza e la perpetua non osava spolverare. Non la perse di fronte allo spettacolo osceno di un bambino che muore, ma nel fastidio cronico delle coliche renali. Che il mondo di Dio fosse pieno di sofferenza, lo aveva accettato sin dal seminario; quello che allora non aveva previsto, è che fosse pieno di moduli e di piccoli appunti, di bici sgonfie quando occorre fare un giro rapido, e chitarre scordate, il telefono che resta senza credito quando devi fare una chiamata importante, il call center che ti prende in giro, la comitiva di pellegrini che al ritorno si lamentano dell'albergo che gli hai consigliato tu (è cambiata gestione), i reumatismi, il cigolio degli scuri della canonica che lo sveglia nel cuore della notte perché i fermi si sono smurati, bisogna chiamare un artigiano e non ce n'è uno solo onesto, e insomma tutti questi piccoli fastidi e preoccupazioni corpuscolari, nessuna delle quale era degna di una lamentela ad alta voce, ma che tutte insieme costituivano l'inferno in terra.

Quando fu il suo giorno di morire, nel suo letto, adeguatamente drogato affinché il dolore non gli togliesse la lucidità, pensò che forse finalmente aveva un po' di tempo per riflettere, e raccomandarsi a Dio; così chiuse gli occhi e lo chiamò. Ma se ne pentì immediatamente, come chi in un pomeriggio d'estate chiama una vecchia fiamma e mette giù prima che suoni libero. Con che faccia poteva disturbarlo, dopo che per tanti anni non era riuscito a trovare una mezza giornata per cercarlo in mezzo alle fatture, i telegrammi, il calendario con le messe prenotate, la classifica dei chierichetti, l'ordine del giorno del consiglio pastorale, il pin del bancomat. Sperò che nella sua infinita misericordia Dio, oltre alla fede, desse un'occhiata anche al mestiere. Poi si ricordò che non era neanche sicuro di essere stato un buon prete: non riusciva mai a finire il giro delle benedizioni entro il venerdì Santo e malgrado tutti gli sponsor e le pesche benefiche il bilancio della scuola materna era sempre più rosso, rosso inferno (fu il suo ultimo pensiero).

La parrocchia rimase vacante per un paio d'anni, finché non arrivò un pretino curioso, slavo o baltico, con un alito che sapeva sempre un po' d'acqua di colonia, orfano di madre e ammaccato dal padre, cresciuto in seminario ed espulso dalla sua qualsiasi nazione in circostanze non chiarissime. Quando entrò nella canonica la prima cosa che notò fu la confusione dell'ufficio al piano terra, un bugigattolo che avrebbe funzionato meglio da tavernetta, uno spazio per i più giovani con le playstation i divanetti le riviste eccetera, un luogo dove interagire senza troppi freni. Tanto più che, a parte una consolle di mogano massello, era tutto impiallacciato senza qualità, roba da regalare immediatamente al primo ente benefico che si assumesse la spesa del trasporto.

Fu appunto mentre guardava i volontari caricare che Don Pavel notò una busta gonfia caduta in fondo nel cavo di un comò a cui avevano estratto i cassetti. La fece rapidamente sparire nelle maniche della tonaca, pregando silenziosamente che non fosse una mazzetta di vecchie lire fuori corso. Ma quando fu solo e l'aprì, ci trovò soltanto la fede di Don Tinto. A lui non serviva più, così Don Pavel se la tenne, per tutti i quarant'anni in cui rimase arciprete di quella parrocchia, stimato e rispettato da tutta la comunità, e persino dai non credenti, per gli esempi di generosità e rettitudine che seppe offrire e persino per le guarigioni e i miracoli che gli furono attribuiti: tanto che a Roma si pensa già di farlo Beato.

FINE

*******

"Quindi, Don Tinto, tu sei morto", replicò ammirata Verola, "non lo sapevo, avresti potuto avvertirmene quando ti ho invitato. O devo dedurre che siamo tutti morti qui, e aspettiamo le bare che ci portino via?"
A quel punto un brivido gelido percorse le schiene dei quattro candidati.
"Mia signora", rispose l'ex parroco, "anche il mio racconto è la storia di una vita che non ho vissuto; o perlomeno non interamente".
"Quello che più mi stupisce del tuo potente racconto - potente come sonnifero, intendo - è il fatto che tu abbia potuto pensare a raccontare la vita di un depresso prete di provincia, dopo che avevo trovato noiosa quella di una prostituta transessuale".
"Mia Signora, stasera ho messo il mio cuore a nudo, davanti a lei: se il racconto non le è piaciuto, non le piaccio io, ed eliminarmi immediatamente sarà cosa buona e giusta".
"Hai sbagliato gioco, Padre, se pensi di essere tu qui per mettere alla prova me. Eppure ammetto che c'è qualcosa nel tuo racconto, che ti salverà anche a questo turno. Prof. Esso, Mària, fate un passo avanti...

[Continuawwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww]
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Storia di Mària

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(2007)
Il primo a porre il problema fu il padre, che una sera – Mària aveva dieci anni – rincasando fetente di bar, le appioppò un ceffone. Senza un motivo al mondo. O meglio: Mària stava correndo verso di lui nel corridoio, blaterando di un compito di scuola o di qualche altra sciocchezza, mentre il padre aveva i suoi problemi, i suoi debiti, i suoi pensieri, e insomma S-ciaf!
“Perché non parli come un maschio?”

Mària non crede nei traumi infantili, via! un ceffone è un ceffone. Di sicuro non è diventato così per una sberla, tra mille che ne avrà prese. Ma da quel giorno cominciò pure qualcosa. Col ceffone il padre gli propose la questione fondamentale: chi sono i maschi? Cosa vogliono? Come parlano? A dieci anni Mària non ne aveva la minima idea. Sempre in casa stava, appiccicato alla sottana di mamma. Era ora di dare un'occhiata al mondo.

La curiosità lo spinse a vivere la ricreazione in un modo diverso. Di colpo in bianco smise di giocare alla settimana con le compagne, che pure teneva carissime, e si avventurò nell’angolo di cortile dove spallonavano i maschi di quinta. Qui trovò una conferma ai sospetti del padre: la sua voce non andava. Il tono non era così diverso da quello degli altri bambini, ma c’era qualcosa di stridulo, che paragonato al rozzo bofonchiare di Flavio Dusacchi lo faceva suonare affettato. Lo stesso soprannome, abbreviazione del banalissimo cognome “Mariani”, sillabato da quei monelli assumeva una sfumatura equivoca. Né Mario né Maria: Mària. Un nome qualunque, eppure unico al mondo. Mària non lo avrebbe mai più abbandonato.

Per il resto non erano così cattivi, gli ometti di quinta. Mària se li ingraziava con merende supplementari e pacchetti di figurine. Ripensandoci da adulta, un poco la imbarazza questa totale mancanza di dignità. Ma stare coi maschi era troppo importante. Era fiera dei lividi che si portava a casa – i maschi avevano sviluppato un’arte marziale che consisteva in una sequenza infinita di ganci destri alle spalle. Mària era un punchball simpatico e disponibile, e lo sarebbe rimasto per anni. Da Bordon Diego imparò anche a bestemmiare Dio e i Santi: ma quelle sillabe magiche, ripetute da Mària, tornavano a suonare troppo simili a preghiere, e insomma, dopo qualche tentativo Mària lasciò perdere: la sua non era una voce da maschi. Anche il padre si rassegnò.

Alle medie il vocabolario maschile s’allargò all’improvviso, e Mària scoprì d’essere un finocchio, un ricchione, una checca, un busone: tutto questo senza ancora mai avere desiderato nessuno, né maschio né femmina: e poi dicono che il genere si sceglie. Mària si era rimesso a chiacchierare con le compagne, ora che i maschiacci evitavano anche solo di toccarlo, per via del contagio: fermamente convinti che lo sfioramento del busone comportasse un rischio per la loro virilità, passavano intere ricreazioni a inseguirsi urlando “sfiga-di-Mària-immune!” E altre cose simili che gli insegnanti, innocenti non notavano. Erano tempi diversi, parole come bullismo e omofobia non stavano nemmeno nel dizionario.
Poi venne la fase degli odori.

Si ricorda molto bene, Mària, che molto prima di decidersi a guardarli, i maschietti cominciò ad annusarli.
Non ci poteva fare niente. Gli odori stanno nell’aria. Gesù ha detto di cavarti un occhio, se ti dà scandalo, ma non ha aggiunto di turarti il naso. Il sudore di D’Angelo era muschiato e dolcissimo. Germini Patrizio aveva una pelle spugnosa che tratteneva l’odore di qualsiasi bagnoschiuma, anche se quasi sempre era pino silvestre. Nel frattempo le sue compagne cominciavano timidamente a truccarsi: Mària aveva potuto contare fino a quel momento sulla loro complicità, ora qualcosa stava cambiando; iniziava a odiarle. I loro profumini le impedivano di concentrarsi sull’afrore ascellare di Verozzi. E c’era il problema delle tette, che iniziavano a catalizzare gli sguardi. In questo gioco di rimandi incrociati, Mària restava totalmente indisturbata, e aveva modo di osservare gli altri. I maschi la indispettivano, non riusciva più a capirli. Fino a qualche settimana prima non alzavano gli occhi dalle figurine, ora avrebbero dato il rarissimo Pietro Vierchowod per uno sfioro di tetta.

E i peli. Fu Dusacchi il primo uomo a porre il problema, nello spogliatoio maschile. “Mària, oh! Ma ti radi?”
Se avesse avuto il tempo, in mezzo alle risate dei compagni, Mària avrebbe risposto di sì: si radeva, perché cominciava ad averne tanto, e folto, e la imbarazzava in particolare quel ciuffetto che tendeva a salire in direzione ombelico; ma Dusacchi, biondo com’era, poteva capirlo? D’altronde, cosa stava succedendo? Da quando in qua nello spogliatoio ci si guardava in basso? Mària non aveva mai osato. Pensava che ai maschi non piacesse. E Mària stava facendo il possibile per capirli, i maschi.

Gli piacevano. Gli piaceva l’insolenza metropolitana di Dusacchi, la timidezza irsuta di Verozzi, l’accento nordico di Bordon quando con una presa al collo lo stringeva tra le braccia per un momento, sussurrando “busone di merda”. Tutto sembrava pronto per un’esplosione ormonale, che invece il liceo congelò: al riparo dai maschi, in una classe a stragrande maggioranza femminile, Mària si dimentico degli odori e riprese a cicalare con le amiche. Divenne il migliore confidente di tutte, perché effettivamente conosceva i maschi meglio di loro, e la frase “Tutti stronzi” in bocca a Mària sapeva più di vero. In compenso le ragazze gli insegnarono a vestirsi con stile, a camminare nei corridoi come sotto i portici del centro, e viceversa.

Il quinto anno fu meraviglioso, Mària era diventata una sintesi di due sessi che gli piacevano molto, e cominciava ad aggiungerci qualcosa di originale, di suo. Un pomeriggio d’aprile, mentre ufficialmente aiutava Barazzi Clelia a ripassare chimica (in realtà provando vestiti vintage eredità di una zia), si ritrovò abbracciata su di lei, nel letto di lei, e pensò che quello che la situazione le richiedeva era un bacio. Ma forse sbagliò i tempi, o i modi: non aveva mai baciato una ragazza – non aveva mai baciato nessuno! Clelia si irrigidì di scatto, se lo aveva desiderato era stato un attimo, un giorno, un anno, un millennio prima: Mària si ritrasse, avrebbe voluto scomparire, e in un certo senso davvero scomparì qualcosa in lui, per sempre.

Un mese dopo, in gita scolastica, Clelia venne a bussare alla sua camera. “Ti devo dire un segreto. Sono omosessuale”.
“Eh?”
“Si dice anche delle donne, non lo sai? Perché deriva dal greco…”
“Clelia, ehi, lo so da cosa deriva. Maccosa… come fai a saperlo”.
“Ho fatto sesso con Nadia”.
“Quella zoccola? Ma non vuol dire, è ubriaca da ieri, e poi… e perché vieni qui a dirmelo adesso…”
“Volevo ringraziarti. Perché è stato grazie a te che l’ho capito… quel pomeriggio che tu... che io...”
“Clelia, senti, sei fatta anche tu. Perché non ti stendi un po’, ti riposi e poi magari domani ne riparliamo”.
Clelia russò tutta la notte, come a ribadire il suo omoerotismo conquistato e trionfale, lasciando Mària sveglia a scalciare i dubbi: ha capito che è lesbica perché l’ho baciata, o ha capito che è lesbica perché l’ho baciata da schifo? Le piaccio o no? Le piaccio come uomo o come donna? O le piaccio perché non sono né l’uno né l’altro? Oppure tutto sommato non le piaccio, visto che alla fine si scopa la zoccola dall’altra parte del corridoio? Oppure avevano ragione i maschi alle medie, l’omosessualità è un virus e io gliel’ho passato… sfiga-di-Mària-immune… che casino… ma sai che c’è? Io non ne voglio un cazzo… a me piacciono i maschi… l’odore dei maschi… queste ragazze con tutti i loro problemi mi stressano la minchia e basta… fammi prendere la maturità e poi non mi trovano mai più”.

All'università, in una città diversa, la bomba ormonale, pazientemente custodita negli anni di frustrante apprendistato, esplose con la forza di cento cavalli vapore. Da vergine a idolo delle feste nel giro di pochi mesi, finché – sorpresa – non si stancò. Piuttosto presto. La promiscuità lo attirava, e insieme lo lasciava insoddisfatto. Provò a farsi una storia seria: ci provò con tutte le forze. Andò persino a vivere con lui, un damsino di Matera con la fissa per il cinema tedesco. Durò due anni. Finché Mària non si accorse che stava soffocando. Andavano nei locali dei gay, alle feste gay. Conosceva tutti, e non gli piaceva più nessuno. Avrebbe voluto entrare nel bar di una polisportiva, e guardare le partite della Fortitudo coi ragazzetti del quartiere, e invece doveva sgugnarsi la retrospettiva di Almodovar. E non provare ad allungare quelle mani.
“Vabbe', senti, ti lascio”.
“SSsssst, è iniziato il film”.
“Ed è colpa mia, eh. Tu sei gentilissimo e bravissimo e assolutamente a posto. Il problema è che sei gay”.
“Anche tu”.
“Lo so. Io però i gay non li sopporto”.
“E cosa ti piace, allora?”
“Mi piacciono i maschi”.
“E cosa pensi di fare?”
“Non lo so”.
“Prova con le tette”.

Il consiglio, totalmente gratuito, schiacciò Mària come l’uovo di Colombo. Ma per abituarsi all’idea ci vollero comunque un annetto o due. Cominciò con un push-up, giusto per vedere l’effetto. Non male! Aveva la sensazione di portarsi un pezzo di mamma con sé, le dava un senso come di confidenza. Infine iniziò con gli ormoni. Vedersi cambiare fu spaventoso e fantastico: l’adolescenza, finalmente, a ventott'anni. Il risultato finale fu discretamente spettacolare. Ora Mària sarebbe piaciuta agli uomini.
Il risultato andava ovviamente monetizzato: dei soldi aveva bisogno, e inoltre non conosceva molti altri modi d’incontrare persone interessate alla sua nuova identità sessuale. Prese in affitto una mansarda e pagò un paio di annunci sul giornale adatto: era nata una stella. I primi utili furono utilizzati in un paio di altri ritocchi che Mària riteneva necessari. Perché aveva voglia di tornare a casa, e voleva tornarci perfetta, e magari irriconoscibile. Come una seconda nascita.

“Torno a spaccarvi il culo”.
Letteralmente. Nei primi sei mesi di attività, Mària si ritrovò a sodomizzare D’Angelo, che ogni tanto ne aveva voglia ma non si considerava un ricchione; Verozzi, che voleva provare “una volta l’effetto che fa”; Germini che sosteneva d’essere ubriaco e di avere litigato con la fidanzata, e che dopo mezz’ora ebbe una specie di orgasmo multiplo mai attestato nella letteratura scientifica; e Bordon, il rude Bordon, che lo incitava pure: “Dai! E dai! E spingi, busone di merda!”
“Ma allora ti ricordi di me?”
“Perché ti sei fermato? E spingi!”

Fu Dusacchi a riconoscerlo, invece, dalle misure.
“Ma certo che lo so chi sei, eri quello che ce l’aveva più lungo di tutta la scuola”.
“Io?”
“E che pelo avevi. Ne avevi tanto che ti radevi. E due gioielli, grossi così, solo tu. Ci ho pensato per anni”.
“Ai miei gioielli”.
“Sì”.
“E non potevi dirmelo prima? Dovevi aspettare che mi facessi crescere le tette?”
“Mi piacciono le tue tette”.
“Ma non le stai nemmeno guardando. È un pretesto. Non ti piacciono così tanto”.
“Certo che mi piacciono. Non sono mica un busone”.
“Sicuro?”
“O, vaffanculo”.

Il che, detto da Dusacchi, nella posizione in cui si trovava in quel preciso momento, suonava decisamente ironico.
“Non darmi mai più del busone. Mai più”.
“Va bene, ora sssst”.

Ricapitolando: Mària cercava l’uomo vero, si è montata un par di tette da sogno, e adesso il suo mestiere consiste nel sodomizzare una manica di maschi repressi che hanno paura di chiederlo a un gay. Non vi girerebbero le palle? A Mària in effetti girano. Ma questi maschi chi sono? Cosa vogliono? Lei si aspettava protezione, energia, magari anche ceffoni. E questi giù, in ginocchio o a pecora, a implorare, spingi spingi, che roba è? Mària è molto delusa. Cambierebbe anche sesso, se gliene fosse rimasto uno da provare.

L’altro giorno, per incanaglirsi, sbirciava la diretta del family day, quando in uno scorcio rapido li vide: nell’orgia cattolica di Piazza San Giovanni – milioni di persone convenute da tutt’Italia perché ce l’avevano con lei – Barazzi Clelia e Dusacchi Flavio mano nella mano, quest’ultimo con un bambino biondo calcato sulle spalle. E a momenti sveniva, sul serio, perché un bambino coi capelli di Dusacchi e il labbro di Clelia era ciò che più si avvicinava alla sua idea di perfezione.
Eh, quanto è piccolo il paese. Dunque è Clelia l’oca-moglie a cui Flavio ama sputare ingiurie postcoitali. Ma non era lesbica? Si vede che s’era sbagliata – chi è Mària per giudicare. Ma chi sono Flavio o Clelia, d’altro canto, per dare lezioni di normalità sessuale? E perché ce l’hanno tanto con Mària, che in tutta la sua vita non ha mai tolto niente a nessuno? Dio probabilmente ha inventato la famiglia solo per vedere il sorriso dei bambini, e si dimentica alla svelta tutte le ipocrisie, le promesse e le minchiate che vengono prima o dopo. Gli uomini e le donne e gli altri però quaggiù hanno da vivere, raccontandosi bugie e tirando avanti – e finché funziona che male c’è? Ma funzionerebbe, la Sacra Famiglia Dusacchi, senza la mansarda di Mària che fa da camera di compensazione? Sul serio non c’è posto nel presepe per lei? Potrebbe fare il bue, un'altra creatura di sessualità incerta; ma senza di lui si moriva dal freddo, quella notte.

FINE
*******

"Spero che non me ne vorrai, cara Mària", sbottò dopo qualche tempo l'assonnata Verola, "se a un certo punto mi sono addormentata. D'altro canto è pur degno di nota che tu sia riuscita a rendere noiosa la storia di una meretrice transessuale. Vabbe'. Chi è rimasto? Don Tinto, dopo aver sentito i suoi concorrenti, sarà d'accordo con me sul fatto che la promozione è alla sua portata".
"Vedrò cosa posso fare, mia signora".
"Veda veda. Noi ci vediamo domani nell'orto. Coglieremo - pardon, coglierete - qualche vegetale bio per il nostro desco. Il mio giardiniere ha avuto una crisi di diarrea un po' sospetta, sapete, così l'ho messo in quarantena"...
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