Forse non ha mai riso nessuno

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La terra delle risate registrate.

Io ve lo dico, arrivano tempi cattivi . Vedremo la madre tradire il padre, il fratello affittare la sorella, e tutto questo passato ci sembrerà un'età dell'oro, Berlusconi uno di quegli imperatori matti ma tutto sommato simpatici. E lo rimpiangeremo. Tutto rimpiangeremo, perfino La Russa, sì: rimpiangeremo i bei giorni in cui bastava caricare un video di La Russa per ridergli in faccia e tirarsi un po' su il morale. Anche se la vecchia guardia storceva il naso, insomma, così è troppo facile. Cosa vuoi dire su La Russa che non ha detto ancora nessuno? Niente.

Voglio dire che l'ho apprezzato, fino a un certo punto, La Russa. Come si apprezza un cattivo da melodramma, si capisce. Però in quel melodramma lo trovavo abbastanza professionale. C'è chi lo prendeva per un pippatore privo di autocontrollo. Per me non era privo di autocontrollo. Sempre invariabilmente sopra le righe, è vero: com'è vero che più di una volta si mostrò di una cafonaggine impareggiabile, ma stiamo parlando appunto di un melodramma, mica di un dramma scandinavo. È vero che arrivava sempre quel momento, a Ballarò o a Porta Porta, o dovunque, in cui La Russa dava l'impressione di scoppiare e rafficava insulti, o tirava calci, o forava la quarta parete.

Però io non ci ho mai creduto veramente in quelle scenette, sapete. La Russa non impazziva mai davvero, La Russa era un professionista che sapeva impazzire a comando, e ci vuole tecnica, disciplina, autocontrollo. La Russa un giorno andò a un funerale di soldati e fu fischiato dai genitori delle vittime per tutto il tempo, e non fece una piega, perché la situazione non richiedeva melodrammi. Per contro, La Russa riusciva sempre a saltare in aria proprio quando la discussione prendeva una direzione che non piaceva a lui. Un maestro, nella sua arte. La quale arte, ricordiamo, è il melodramma. Vogliamo dire che in fondo il problema della Seconda Repubblica è tutto qui?

Perché in fin dei conti gli italiani a Berlusconi avrebbero perdonato tutto, tutto: corruzioni, concussioni, orge, patti col demonio e con Riina – se solo fosse riuscito a combinare una cosa, una delle centinaia che ha promesso; se solo fosse riuscito a selezionare una classe dirigente capace, i famosi uomini del fare. E invece alla fine di tutte le scremature gli sono rimasti guitti, ballerine, fenomeni da baraccone, il Bagaglino permanente che ha chiuso in salone Margherita e si è traserito a Palazzo Chigi. Mi sono sempre chiesto se esistesse un La Russa parallelo, un abile politico e organizzatore – perché tutto sommato non si arriva dal MSI dei torbidi anni Settanta al Consiglio dei ministri senza qualche talento oltre a quelli teatrali. Può darsi. In realtà quel suo volto grifagno (aggettivo destinato a sopravvivere nei vocabolari soltanto finché La Russa è ancora in circolazione) ha sempre attirato i teleobbiettivi, sin da quando fece la prima comparsa in quel filmato di repertorio montato all'inizio di Sbatti il mostro in prima pagina.

Con gli anni la telegenia ha avuto la meglio su qualsiasi velleità da statista: se è mai esistito un La Russa politico, l'avanspettacolo al potere lo ha risucchiato da tempo. La Russa, con tutti i trascorsi fascisti che può vantare, è riuscito a farsi compatire da un'associazione di ufficiali perché non ha più nemmeno la buona creanza di indossare una giacca alle parate – col risultato che ci sono foto che lo ritraggono con abiti più larghi di due taglie, roba che gli hanno prestato in aereo, quando lo vedi pensi subito “Albania”, poi ti ricordi che siamo nel 2011 e anche i ministri schipetari possono permettersi la sartoria su misura. La Russa, se la stampa inglese gli chiede una dichiarazione, ne approfitta per realizzare una simpatica papera per Striscia la Notizia. La Russa alla fine si è ridotto a essere la cattiva imitazione di Fiorello che imita La Russa, di sicuro non sono il primo che dice questa cosa.

Io poi non dubito che La Russa possa parlare l'inglese meglio di così. Ma qui apro una parentesi: secondo me i nostri politici non dovrebbero parlare in inglese mai. A meno che non sfoggino un accento oxoniense o harvardiano, e non credo sia ancora il caso di nessuno (Scalfarotto?) Ma nel frattempo vorrei che si uscisse da quell'ottica postliceale per cui ci tieni a far vedere che i soldi del corso privato non li hai buttati via. Vorrei che si riflettesse anche solo cinque minuti sull'effetto che ci farebbe un politico straniero qualsiasi se parlasse un italiano stereotipato con un accento straniero abbastanza marcato. Anche se ci trattenessimo dal sorridere, finiremmo per concentrarci sulle sue intonazioni sbagliate e troveremmo le sue idee ingenue, perché espresse in modo ingenuo. Per contro, uno straniero che parla straniero con brio e convinzione ci sembrerà sempre forbito e impeccabile – di sicuro se dice papere o scemenze non ce ne accorgiamo, e poi ci sarà sempre un buon traduttore simultaneo o un buon sottotitolatore a metterci una pezza. E in lingua originale coi sottotitoli, ci avete fatto caso? Sembrano tutti un po' più intelligenti. Persino La Russa. Ma il problema è tutto qui, in fondo, La Russa non vuole più nemmeno sembrare. A questo punto forse è una semplice strategia di sopravvivenza, magari sperano che se ci faranno ridere ancora un po' ci dimenticheremo di avere davanti dei veri criminali, e li lasceremo andare. Pensa quando scopriranno che non sono mai stati divertenti, mai; che le risate di Striscia erano finte. Sono sempre state finte. E che non ride più nessuno, qui, da vent'anni o quasi.
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Ardaendutaét, Bambo!

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Siccome secondo me siamo ciò che leggiamo, è giusto che sappiate che da bambino ho letto di tutto: ingredienti di confezioni di biscotti a non finire, e topolini e giornalini e geppi e tiramolla, e quando proprio finivo tutto, quando non c'era proprio più una cosa non letta in casa, capitava che mi buttassi anche su questo.


E adesso scrivo il Santo del giorno per il Post. E oggi è proprio San Daniele Comboni, il bresciano volante. A ri-idis, gnari.

10 ottobre - San Daniele Comboni (1831-1881)

È solo una suggestione, e non è tutta colpa mia. Un po' è anche colpa di Balotelli, e molto prima di Idris, lo juventino nero di Quelli che il calcio. Fatto sta che per me i neri italiani hanno sempre un'ombra di accento bresciano. Al punto che passeggiando per la contrada del Carmine uno si può immaginare che i bresciani indigeni siano loro, e abbiano passato l'accento ai pensionati pallidi coi capelli bianchi venuti da lontano. In fondo ci sta, voglio dire che se a un semaforo rosso invece di partire chiudi gli occhi, il grido del bresciano che sale da dietro senti che potrebbe venire dalla profondità della giungla, dalla spaziosità della savana. Brescia è la leonessa d'Italia e se parli bresciano stretto a un leone, secondo me, lui un po' si spaventa. Poi ti mangia uguale, magari, ma portandoti il rispetto che meritano le prede importanti. Inoltre Brescia – non molti lo sanno – è oggettivamente una delle città e province più ospitali d'Italia: un Idris o un Balotelli avrebbero potuto saltar fuori da tante città padane, ma era statisticamente ragionevole che arrivassero da lì.

L'altro motivo per cui nella mia fantasia (strana) Brescia è alle porte dell'Africa è San Daniele Comboni, che era di Limone sul Garda e che a un certo punto dell'Ottocento risultava vescovo di tutta la Nigrizia, ovvero quell'immensa parte di Africa che nessun geografo europeo aveva ancora osato disegnare. Comboni era stato in missione nell'odierno Sudan per la prima nel 1857, a ventisei anni: in quell'occasione sopravvisse alle malattie che falciarono tre suoi compagni. Del resto era già l'unico superstite di otto fratelli (“di tanti figli me n'è rimasto uno solo, di carta” si narra dicesse la madre davanti al fotoritratto). Tornato a Verona, deciso più che mai a evangelizzare il continente nero, Comboni mette a punto un “piano per l'Africa” che oggi può apparirci datato, ma per i tempi risultava assolutamente rivoluzionario. In pratica Comboni aveva capito che noi europei, nel cuore dell'Africa, non ce l'avremmo mai fatta: non prima di inventare antibiotici e impianti di refrigerazione, perlomeno. E quindi l'Africa dovevano cristianizzarla gli africani – non gli africani venuti in Europa a studiare, come quelli che Comboni scopriva intirizziti nel suo collegio di Verona, ma gli africani delle coste, dove sarebbe stato opportuno rafforzare una rete di “fortini missionari”. Soltanto qui avrebbe avuto senso il lavoro degli europei – e delle europee, che secondo Comboni erano più adatte all'uopo, “le statistiche della Missioni africane avendo dimostrato che la donna europea, attesa la vantaggiosa elasticità del suo fisico, l'indole del suo morale, e le abitudini del suo vivere domestico e sociale, resiste a gran pezza più che il Missionario europeo all'inclemenza del clima africano”.

Dagli istituti impiantati sulle coste sarebbero scaturiti non solo i catechisti e i maestri (sempre e rigorosamente “d'ambo i sessi”) ma anche “virtuosi ed abili agricoltori, medici, flebotomi, infermieri, farmacisti, falegnami, sarti, muratori, calzolai etc.”, e io già mi sto immaginando tante piccole Bresce d'oltremare brulicanti di artigiani e partite iva. Eppure, con tutto il suo bresciano pragmatismo e la sua brescianissima testardaggine, a Comboni mancava forse il senso delle proporzioni: quella che lui affettuosamente chiamava “la grande famiglia dei negri” non era una famiglia in nessun senso: i popoli e le tribù dell'entroterra non avrebbero sempre ben recepito i missionari dalle coste, anche se avevano la pelle di un colore simile. Ma eravamo a metà Ottocento, in Europa e in America il “negro” era ancora sinonimo di schiavo. Nelle regioni della sua immensa diocesi il commercio di schiavi era stato vietato solo a parole: Comboni fece tutto quel che poteva per trasformarle in fatti. Al Concilio Vaticano I, come fece notare lui stesso, non c'era nemmeno un vescovo nero: quando all'inaugurazione del canale di Suez il Kaiser Francesco Giuseppe conobbe delle maestre nere che gli rivolgevano la parola in tedesco ne fu strabiliato. Erano studentesse comboniane.

Per rosicchiare il continente dai bordi, comunque, agli uomini e alle donne di Comboni sarebbe servito molto tempo e denaro; e in effetti forse Comboni da lì in poi viaggiò più per l'Europa per fare convincere scettici e a scopo di fundraising che in Africa, dove quando arrivava poteva finalmente concentrarsi sulla sua vocazione autentica, lontano dalle polemiche dei rivali e dalle malelingue che lo accusavano di avere una suora preferita. Può anche darsi che ce l'avesse, poveraccio, ma non dovevano permettersi di spifferarlo all'anziano padre. Questa cosa gli spezzò il cuore, e forse accelerò il decorso della malattia che lo uccise centotrent'anni fa oggi a Khartoum. Ne aveva cinquanta, per i parametri del Sudan di allora era già un uomo anziano, nel bel mezzo di una spaventosa carestia. Se fosse sopravvissuto un paio di anni, si sarebbe ritrovato al centro della rivoluzione del Mahdi, che si limitò a distruggere la sua sepoltura e a imprigionare i suoi missionari per più di dieci anni. Oggi i comboniani sono presenti in tutti i continenti: in sedici Paesi nella sola Africa. Hanno una rivista, “Nigrizia”, che è una fonte di informazioni di prima mano dai Paesi africani, e che soprattutto durante la direzione di padre Alex Zanotelli diventò un punto di riferimento per i cristiani più progressisti (Zanotelli poi dovette lasciare la rivista, si ritirò in Kenya, quindi tornò in Italia e divenne un leader noglobal: a proposito, se a i noglobal dovesse servire un santo protettore, direi che Comboni è libero). Oltre a “Nigrizia” i comboniani pubblicano anche il PM, che sta per “Piccolo Missionario”, ed è un giornaletto per bambini di cui mi è già capitato di parlare, anche se non ne ho più sfogliato uno dagli anni Ottanta, quando ero abbonato. Però mi è rimasto nel cuore.

Il PM non è che avesse dei fumetti meravigliosi. Alcuni erano proprio bruttini, e questo spiegava il perché se ne rimanesse incellofanato per intere settimane, finché non si esaurivano i Topolino inediti e i Braccio di Ferro prestati. Ecco, a quel punto si apriva il Piccolo Missionario e ci si trovavano storie a fumetti sulla vita di Santi famosi o del tutto sconosciuti; ma anche schede approfonditissime sui Paesi africani, così quando proprio non c'era più nulla di nuovo da leggere in casa, neanche le recensioni della GuidaTV o le ricette sulle confezioni dei biscotti, io mi mettevo da qualche parte e leggevo notizie sul postcolonialismo nella Guinea Conakry. Molti anni dopo, mentre scrivevo una tesina di letteratura francofona, avrei pagato qualcuno per riuscire a trovare informazioni fresche sui regimi della Guinea Conakry: ma wikipedia ancora non esisteva, e i vecchi Piccoli Missionari chissà in che scatolone erano andati a marcire.

In realtà era una specie di fanzine missionaria, si capiva che ognuno contribuiva per quel che poteva, con tanta passione ma poco rispetto per le scadenze. Eppure a distanza di anni ci sono pagine del PM che mi sono entrate dentro. Mi ricordo per esempio un articolone sui Testimoni di Geova, in cui per la prima volta scoprii che avevano già cannato tre volte la data della fine del mondo! Che buffoni! Il motivo per cui quell'articolo mi è entrato sottopelle è che ovviamente anch'io, in quegli anni, avevo una paura folle della fine del mondo, per via di questo o quell'asteroide o del 1999 o del 2000, e scoprire che i tizi del citofono ne avevano già annunciate tre senza beccarci mi tirò su il morale, rendendomi molto più scettico nei confronti di tutti i millenarismi. Così a scuola, quando mi capita di trovare un ragazzino terrorizzato dalle puttanate maya di Giacobbo (e ne trovo sempre, quell'uomo tra parentesi in questi anni ha fatto un uso criminale del mezzo pubblico), tiro sempre fuori questa storia dei Testimoni secondo i quali il mondo stava già finendo verso il 1914, e ci facciamo una risata. E di tutto questo sano scetticismo razionalista devo ringraziare, pensate, il Piccolo Missionario. E San Daniele Comboni, sempre sia lodato.
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Leonardo e altri fallimenti

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Non bastano cerniere lampo!

Non credo che abbiate davvero bisogno di un altro coccodrillo su Steve Jobs. Però da qualche parte vorrei lasciarlo scritto: sono stupito, davvero, come non mi aveva mai stupito nessun keynote. E non sono certo stupito che tante persone che da anni usano quotidianamente i suoi prodotti esprimano affetto e rimpianto. Lo trovo giusto, un indizio di cuore. Mi stupisce piuttosto Repubblica.it che manda in rotazione i messaggini dei lettori sotto la testata, non lo fece nemmeno per il Papa o per Alberto Sordi; mi stupisce Unita.it che continua ad averlo in homepage dopo due giorni – quando per contro un covo di macchisti come il Post alle dieci di giovedì già era tornato alla politica estera. Mi stupisce l'entusiasmo dei neofiti, forse perché avevo preso le misure a quello dei vecchi fanboy. E proprio mentre rifletto sulla mia refrattarietà all'entusiasmo, che è poi uno dei motivi per cui Jobs e i suoi prodotti non sono mai riusciti a conquistarmi, e mi dico che forse stavolta è meglio che sto zitto, sento qualcuno che tira fuori Leonardo Da Vinci.

Questo non è affatto sorprendente, succede ogni volta che si parla di un cosiddetto inventore. Quindici anni fa succedeva con Bill Gates, a quel tempo l'uomo che aveva cambiato la nostra vita era lui. Gates addirittura si aggiudicò un codice leonardiano e lo fece esporre a Venezia, perlomeno io lo vidi là. Già a quei tempi non facevo che maledire il modo in cui aveva riempito la mia vita di errori di sistema e dischetti smagnetizzati. Leonardo Da Vinci insomma è l'unico termine di paragone che sappiamo offrire ai lettori quando cerchiamo di spiegare quanto è importante un innovatore oggi. E c'è una maledetta ironia in questo.

Perché Leonardo Da Vinci alla fine ha innovato poco o niente. Cioè, non è che non ci abbia provato. Anzi per tutta la vita non ha smesso di provarci. Ma se misuriamo l'innovazione in termini di progresso, dobbiamo ammettere che ha fallito in tanti campi, in modo anche clamoroso. Non è, come si legge spesso, l'inventore dell'aeroplano, o del carro armato, o della bicicletta (disegno probabilmente apocrifo) o del paracadute. È uno che ha disegnato un carro armato che nessuno ha stimato saggio realizzare; un paracadute che non avrebbe funzionato; un veicolo a molla senza nessuna utilità pratica. L'immaginifico progetto per deviare l'Arno; l'enorme monumento equestre al quale lavorò per anni, finché ovviamente non scoppiò una guerra e non mancò il bronzo per fonderlo. E così via. Tanti suoi dipinti ci sono arrivati in pessime condizioni perché invece di affidarsi alle tecniche e ai pigmenti tradizionali ne sperimentava di nuovi, e si sa come vanno a finire gli esperimenti. Molte sue cosiddette scoperte in realtà rimasero lettera morta: dovette riscoprirle qualcun altro secoli dopo. Insomma Steve Jobs avrebbe potuto perfino offendersi, nel sentirsi paragonato a un inventore isolato, senza committenti davvero consapevoli delle sue potenzialità, né collaboratori all'altezza, quasi incapace di passare dalla fase progettuale a quella operativa. Eppure.

Gianni Rodari, il poeta più brechtiano che l'Italia abbia avuto, scrisse una volta una poesia che non riesco più a trovare. Ma in sostanza riprendeva diceva questo: Caro libro di storia, possibile che tra tante battaglie e rivoluzioni non trovo mai scritto chi è l'inventore dei bottoni? La poesia, se ricordo bene, finiva così: “per salvare il mondo non bastano le cerniere lampo”. Ecco. L'inventore dei bottoni, chiunque sia stato, ha reso al mondo più servizi di Leonardo Da Vinci. È vero che non ci ha dato la Monna Lisa, ma vi sta ancora reggendo i pantaloni in questo preciso momento. Eppure non si sa chi sia. Anche perché probabilmente non c'è stato un inventore solo, ma tanti. Leonardo Da Vinci, invece, lo ricordiamo perché è rimasto solo, e tutti i suoi progetti e prototipi nessuno li ha perfezionati: dopo secoli sono ancora sulla carta.

Questa cosa dei bottoni mi torna in mente ogni volta che in classe mi fanno una di quelle domande a bruciapelo che ti stroncano la reputazione, ad esempio: “chi ha inventato l'automobile?” “Chi ha inventato il televisore?” Già, in effetti, chi? Le prime dieci volte che te lo chiedono, insisti sul fatto che non è così importante associare l'oggetto a un nome, perché furono in tanti a studiare la tecnologia necessaria, a volte collaborando, a volte in competizione. L'undicesima volta ti poni finalmente la domanda: ma perché non lo so? Perché nessuno lo sa? Saranno anche stati in tanti, ma ce ne saranno stati almeno un paio più importanti degli altri, come Meucci e Bell per i telefoni, no? E pensare che se ci sono due tecnologie che ci hanno cambiato la vita, sono proprio televisore e automobile – non quanto i bottoni, si capisce, ma molto più di qualsiasi iPad o iPhone. Così ti documenti e dalla dodicesima volta in poi, tagli corto: rispondi “Benz” o “Theremin”. Lo so che non è vero. Più o meno come non è vero scrivere sul giornale che Jobs ha inventato l'home computer, o il lettore mp3, o il tablet. Sono miti.

No, in realtà Benz e Theremin non sono davvero diventati dei miti. Se lo meriterebbero, e hanno un sacco di aneddoti interessanti dalla loro parte, oltre al fatto che la maggior parte di noi passa la vita a spostarsi in automobile da una postazione video all'altra. Ma nessuno paragona Jobs a Benz o a Theramin. Lo paragonano a Leonardo, che forse ha disegnato una specie di calcolatrice, ma gli mancava un fabbro di precisione per realizzare gli ingranaggi. È come se ci affezionassimo agli inventori solo quando in realtà falliscono. Ma Steve Jobs non è mica fallito, no?

Adesso che ci siamo scaldati – e molti hanno smesso di leggere – lo posso scrivere. Steve Jobs, nell'ultimo decennio perlomeno, non mi è sembrato un innovatore, ma piuttosto un conservatore. Non tanto per la sua ritrosia a farci guardare i porno sul suo tablet – un indizio interessante, comunque. Forse era già diventato un conservatore quando capì che la fase eroica dei garage di Silicon Valley era finita, e che i personal computer stavano diventando anonimi scatoloni di latta. Quando smise di vendere hardware o software e cominciò a vendere filosofia: pensala diversamente, comprati un oggetto un po' diverso che fa fatica a dialogare con gli altri (all'inizio faceva davvero fatica) ma funziona un po' meglio, eccetera. Già da allora in fondo stava difendendo l'idea – ormai tramontata – della computer house anni '80 che progetta il suo computer da cima a fondo e ci scrive il suo sistema operativo dedicato. E probabilmente per alcuni anni i computer progettati così funzionarono davvero un po' meglio degli altri. Poi fu sempre più una questione di design, e per carità, non c'è niente di male nel voler produrre oggetti belli invece che brutti. Anzi forse è il motivo per cui nei libri di Storia c'è Leonardo Da Vinci coi suoi progetti avveniristici, mentre chi ha progettato e realizzato i brutti canali che ci salvano dalle inondazioni non compare nemmeno in una noticina. Per non parlare di chi ha inventato i bottoni: probabilmente i primi furono oggetti bruttissimi, sassi od ossicini di pollo, bleah.

Quando dico che Jobs è stato un grande conservatore, non intendo biasimarlo: noi nati col mangiadischi e arrivati a trent'anni con gli mp3 probabilmente avevamo bisogno di tipi come lui, che ci facessero un po' respirare tra un balzo in avanti e un altro. Guarda iTunes. In fondo Jobs cos'ha fatto? Si è ritrovato in mezzo alla rivoluzione del p2p, ha capito rapidamente quello che le major discografiche per altri dieci anni non hanno voluto sentirsi dire (è finita la festa, non c'è nessun motivo per cui adulti normodotati debbano continuare a strapagare gli orribili cd), e ha cercato di ripristinare un minimo di ordine fissando un tetto minimo: le canzoni scaricabili a uno o due dollari. La potete considerare una rivoluzione soltanto se in quel momento stavate ancora catalogando la vostra ricca e scelta collezione di cd. Io per esempio ero in piena scimmia di Napster – poteva chiudere da un momento all'altro e scaricavo tutto quello che trovavo, come gli sciacalli nelle case che bruciano – e ricordo che la cosa mi sembrò lievemente reazionaria. Per carità, equa: probabilmente Steve Jobs aveva capito come salvare il mercato musicale. Ma forse era troppo tardi, e iTunes un po' troppo brutto. È uno di quei casi che mi fanno pensare che Jobs potrebbe essere davvero il Leonardo del nostro tempo: uno che le ha provate tutte per salvare prìncipi e princìpi, ma non ce l'ha fatta.

Esce il 20 ottobre. E' davvero bellissimo.
Un altro caso è l'iPad, che non fu lanciato come un semplice tablet (sarebbe bastato e avanzato), ma come la via di salvezza per l'editoria: un bel giardino recintato in cui magari sarebbero entrati soltanto contenuti a pagamento. E per qualche settimana editori e redattori ci hanno creduto davvero. Ancora una volta, quello che ci mise Jobs non fu tanto l'innovazione: un tablet simile qualcun altro avrebbe potuto realizzarlo, di lì a un anno. Ma il modo in cui l'innovazione veniva adoperata per salvare qualcosa di antico come l'editoria. In fondo Jobs ha continuato a lottare contro un certo tipo di progresso condiviso e spersonalizzante, che a fine Ottanta trasformava i computer in scatoloni tutti uguali, a fine Novanta le canzoni in file compressi scaricabili gratuitamente, negli anni Dieci tutti i quotidiani in blog gonfi di pubblicità. Immerso fino alla cinta in questa fiumana, questo grigio diluvio democratico che lui stesso aveva contribuito a far sgorgare, Jobs per tutto questo tempo ha continuato a insistere sul fatto che i computer possono essere oggetti ben programmati e ben disegnati; che c'è ancora lo spazio per un mercato musicale onesto; che c'è speranza anche per i giornali di qualità. E che insomma, dietro ai nostri congegni luccicanti non c'è una marea di operai e ingegneri senza volto, ma ci sono ancora gli inventori di una volta, quelli geniali, i personaggi che quando muoiono passano alla Storia, come Leonardo Da Vinci, o Steve Jobs. Noi infatti ci ricorderemo di Da Vinci, e di lui. Anche se iTunes lo disinstalliamo appena possibile, e le canzoni ormai le ascoltiamo da youtube direttamente, e le notizie continuiamo a leggerle gratis su un browser.

Jobs forse ha perso. Se avesse vinto sarebbe uno tra tanti, non avrebbe dovuto difendere i suoi prodotti con la sua faccia, e qualcun altro sarebbe già al suo posto a perfezionare le sue idee. Come quello che ha inventato i bottoni. Jobs invece è uno di quei geniali artigiani che inventa una cerniera lampo molto elegante ed elaborata che forse hanno già messo in un museo. Se vuoi ti ci porto. Abbottonati però che comincia a far freddo.
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L'Eurovergine

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Ma lo sapete che incredibile giorno è oggi? Ma sì che lo sapete. Oggi sono 440 anni che abbiamo stracciato i Turchi a Lepanto, vi rendete conto? Se avessero vinto loro oggi fumeremmo tantissimo e scriveremmo con l'alfabeto, ehm, latino, e invece della polenta mangeremmo, ehm, kebab. Comunque sia: vi siete mai chiesti come abbiamo fatto a vincere? Chi ha guidato le nostre flotte usualmente così riottose e abituate a prenderle? Chi era il nostro valoroso ammiraglio? Chi ci ha guidati alla vittoria?


Sì, è stata la Madonna, mi spiace, è andata così. E sapete cosa si è presa in cambio? Un aiutino: contate il cerchio di stelle intorno alla testa. Quante sono? Di che colore è lo sfondo? Non vi ricorda niente?
Vabbe', la soluzione è sul Post e si commenta laggiù (c'è già una certa maretta). Attenzione a chi si abbona al feed: mi sono reso conto che taglia gli articoli senza avvisare, per cui sul feed ne leggete soltanto metà. Troveremo senz'altro soluzioni.

7 ottobre - Madonna del Rosario

"Al mio segnale, scatenate il Paradiso!"
Quante Avemarie ci sono in un rosario? Ok, "questa la so": cinquanta. No, non proprio. Certo, nella collanina del rosario ci sono cinquanta chicchi piccoli, e a ogni chicco piccolo corrisponde un'Avemaria. Ma il rosario completo, quello da beghina seria, prevedeva tre giri di collana, per un totale di centocinquanta Ave, quindici Pater e quindici Gloria (ne parlo al passato perché con Wojtyla, sempre abbondante, siamo passati rispettivamente a 200 Ave, 20 Pater, 20 Gloria). E perché proprio 150? Siccome è l'esatto numero di Salmi della Bibbia, l'ipotesi è che il rosario sia nato come rito sostitutivo, per devoti analfabeti che non avrebbero potuto leggere il salterio. E questo ci dice molto sul cattolicesimo, sapete.

Prendiamo un musulmano, un protestante e un cattolico. Il primo ha un libro sacro, ma spesso non sa leggerlo: quindi lo impara a memoria. In arabo. Altrimenti non sarebbe un buon musulmano. Il secondo ha un libro sacro, ma non riesce a impararlo a memoria, in una lingua che oltretutto non parla più da secoli: quindi impara a leggere. Così può essere un buon protestante. E il cattolico? Anche lui ha un libro. Ma studiarlo a memoria è troppa fatica. Imparare a leggere? Non se ne parla. E quindi? E quindi invece di leggere guardi le figure - le chiese ne sono piene - e al posto di ogni salmo che non hai imparato a memoria, reciti la stessa preghierina. Breve. Semplice. Una religione, come dire, accomodante.

Resta da capire perché a ogni salmo si debba sostituire una preghiera proprio alla Madonna. Non è detto che sia stato sempre così. Nel medioevo la collana del rosario era conosciuta come “paternoster”, il che lascia pensare che a ogni chicco corrispondesse piuttosto la recitazione del Padre Nostro, preghiera fissata già nei Vangeli. L'Ave Maria, nella sua versione definitiva, è parecchio più tarda: così come la devozione alla Madonna, personaggio abbastanza in ombra nei primi secoli della Chiesa (ne riparleremo). Di recitazioni di Avemaria in batteria da 50 o 150 si comincia a parlare nel tredicesimo secolo, quando San Domenico, (terrore degli eretici, flagello degli albigesi) lo riceve in sogno dalle sante mani della Vergine, come arma finale contro la mala pianta delle eresie. Sin dall'inizio dunque il Rosario alla Madonna assume una valenza battagliera che oggi può sembrare curiosa: che c'entrano le vecchiette salmodianti con le guerre, ancorché sante? Ma all'indomani della storica vittoria di Lepanto – 7 ottobre 1571, esattamente 440 anni fa – mentre genovesi e veneziani litigano su chi ne sia stato l'artefice, e se l'ammiraglio Gianandrea Doria abbia praticato una geniale strategia diversiva o più semplicemente cercato di tagliare la corda, Papa Pio V taglia la testa al toro decretando che a vincere era stata la Madonna del Rosario, con l'implicito ausilio dei milioni di vecchine recitanti avemaria a raffica.

In pratica il Papa aveva introdotto il televoto: un mantra che annulla la tua identità ma ti rende protagonista delle grandi svolte storiche. Altro che Gianandrea Doria! A sconfiggere i feroci turchi sei stata proprio tu, vecchietta analfabeta, li hai battuti tu gli infedeli saraceni, al ritmo impareggiabile di 6 avemarie al minuto (fanno 5 rosari all'ora, al netto di misteri e litanie) che nessun muezzin di Istanbul evidentemente poteva reggere. Da lì a poco la Madonna del Rosario si insedia a Pompei, diventando meta di pellegrinaggi di massa che continuano tuttora, specie in ottobre e in maggio.

Sempre a Pompei un allievo di Luca Giordano la ritrae coronata di dodici stelle, come la misteriosa donna che nell'Apocalisse compare "vestita di sole" in piedi sulla luna. Quelle dodici stelle in cerchio richiamano effettivamente un po' il rosario, ma in realtà nessuno sa esattamente cosa rappresentino: le dodici tribù di Israele? I dodici apostoli? Insomma, la donna misteriosa sarebbe la Chiesa che si espande nel mondo? Potrebbe darsi. La cosa curiosa è che quelle dodici stelle, dipinte a Pompei su uno sfondo blu, assomigliano terribilmente a...



...esatto. Vedi cosa succede ad andar per rosari. Siamo inciampati nelle famigerate radici cristiane dell'Unione europea!

Non è possibile, direte voi. Sarà solo una coincidenza. Tanto più che le dodici stelle della bandiera europea hanno una storia diversa, no? Già, a proposito, perché ci sono dodici stelle nella bandiera europea? Ecco, non è affatto chiaro.

Va detto che né il Consiglio d'Europa, che issò per primo il vessillo a dodici stelle, né l'Unione che lo copiò, erano composti da dodici membri quando lo adottarono come simbolo. All'inizio il Consiglio di membri ne aveva quindici, salvo che uno era il Saarland, una piccola regione della Germania che nell'immediato dopoguerra era amministrata dai francesi e di cui non era ancora chiaro il destino: raffigurarla con una stella su una bandiera internazionale poteva apparire come un passo ulteriore verso la definitiva separazione dalla Repubblica Federale Tedesca. Quindici no, insomma. Ma non è comunque chiaro perché non quattordici. Tredici men che meno (oltre alla sfortuna, è veramente difficile da disegnare, un circolo di tredici stelle), e quindi, insomma, dodici. Proprio come la Madonna, che coincidenza. Ma un cattolico non metterebbe mai "Madonna" e "coincidenza" nella stessa frase. Ed ecco l'autore del bozzetto della bandiera, Arsène Heitz, rivelare ai giornalisti cattolici di essere un devoto mariano, e di essersi ispirato a una medaglietta mariana che portava sul petto; ecco fiorire leggende intorno a Paul Lévy, politico belga di origine ebraiche, sopravvissuto a Dachau, convertitosi al cattolicesimo, che davanti a un'immagine della Vergine ha un'illuminazione: ma come stanno bene dodici stelle gialle in campo blu. E appena vede il bozzetto di Heitz fa di tutto affinché i colleghi lo approvino. Ma c'è di più: per la gioia di tutti i Teocon presenti e futuri il Consiglio decise ufficialmente di approvare il suo vessillo l'otto dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Insomma, sarà anche una coincidenza, ma la donna misteriosa vestita di sole e in piedi sulla luna che sconfisse i turchi a Lepanto sembra aver posato la testolina anche a Bruxelles. A pensarci bene è un po' inquietante.
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L'Itaglia senza wikipedia

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Coraggio, è andata, Wikipedia è tornata on line. Possiamo ricominciare a fingere di sapere cose.
Certo che è stata dura, eh. Anche se in fondo non è l'unica enciclopedia on line, no? Per esempio c'è la Treccani, potevamo usare la Treccani, no?



No, non potevamo. E dire che non è affatto male. Ma Wikipedia funziona meglio (H1t#94). Lo dice l'Unita.it, io mi fiderei (si commenta laggiù).

Martedì, come probabilmente già sapete,Wikipedia Italia ha sospeso il suo servizio in segno di protesta contro quel comma del disegno di legge anti-intercettazioni che prevedeva per ogni sito web l'obbligo di rettifica entro le 48 ore (ne avevo già parlato un anno fa). Ieri il testo è stato modificato: l'obbligo di rettifica dovrebbe riguardare soltanto le testate giornalistiche on line, risparmiando quindi wikipedia e i blog. Ma nel frattempo abbiamo sperimentato in tanti il senso di vuoto di chi cerca qualcosa su internet e... non la trova più. Proprio quando ormai davamo per scontato di poter recuperare qualsiasi informazione in pochi secondi. Forse non ci rendevamo conto di come buona parte di tutte le informazioni che trovavamo provenisse in realtà da un sito preciso: Wikipedia. Incompleto, inattendibile, ma anche insostituibile, ormai.

Mentre noi fissavamo il vuoto un po' sgomenti, altri esultavano. “La nuova legge sulle intercettazioni potrebbe avere un merito inaspettato: far scomparire Wikipedia”, scrivevaAntonio Di Majo sul Tempo. “L'enciclopedia sul Web, scritta e modificata dai lettori, piena di strafalcioni e di fonti incerte, ha fatto impallidire studiosi, spaventato accademici e depistato studenti”: se scompare tanto meglio, fa capire Di Majo, e suggerisce: “Rispolveriamo la Treccani”.

Non c'è alcun bisogno di rispolverarla, aggiungo io, visto che da qualche tempo la Treccani è presente on line in un'ottima versione molto comoda da consultare. A questo punto però vorrei chiedere una cosa a Di Majo: lei la usa davvero la Treccani, voglio dire abitualmente? Io no. Una volta ci ho anche provato, volevo fidarmi. Non mi ricordavo più chi fosse Mister Pesc e sulla Treccani c'era scritto: "attualmente la carica è ricoperta dallo spagnolo Javier Solana". Così ho scritto, sul mio blog, "Javier Solana". E ho fatto una figura orrenda, visto che (come un commentatore mi ha subito fatto presente) dal novembre 2009 è subentrata, nel suo ruolo, Catherine Ashton. Ma la voce della Treccani non è stata aggiornata. Probabilmente non è facile modificarla. Invece aggiornare una pagina di wikipedia è semplicissimo, come sappiamo tutti. E infatti su wiki è segnalata la Ashton, non Solana. Con tanto di foto e rimando alla biografia.

È solo un piccolo esempio, ma ne potrei fare tanti altri. Per dimostrare quello che gli studiosi del campo hanno ormai accettato, più o meno dallo studio di Nature del 2005:Wikipedia è autorevole quanto l'Encyclopaedia Britannica. Certo, Nature ha esaminato la Wikipedia inglese, molto più elaborata e condivisa. Ma tutto sommato anche la wiki italiana si difende bene. Non avrà l'autorevolezza della Treccani, ma sa aggiornarsi e correggere i suoi errori assai più rapidamente.

Ammettiamo per amor di discussione che su tanti argomenti la Treccani sia più precisa di Wiki: ci sarà sempre qua e là qualche errore o qualche dato non aggiornato. L'utente della Treccani però rischia di non rendersene conto, lasciandosi cullare da un'impressione di infallibilità che nessuna enciclopedia può davvero garantire. L'utente di Wikipedia no, e forse la differenza più importante è questa: chi consulta Wikipedia impara presto che nulla è sicuro. La pagina che sta leggendo potrebbe contenere soltanto informazioni sbagliate: potrebbe essere stata falsificata pochi minuti prima da un vandalo o un burlone. Su wikipedia non ci si può fidare mai al cento per cento. Bisogna stare attenti. Dare un'occhiata alle fonti, se ci sono – e se non ci sono, l'articolo non è così buono.

Bisogna insomma sviluppare un senso critico. Chi consulta la Treccani non ne ha certo bisogno: come scrive Di Majo, gli serve un sapere “sicuro”, “verificato da esperti”. Va bene, facciamo così: chi ha bisogno di sicurezza, chi non sa verificare da solo e ha bisogno degli esperti, usi pure la Treccani. Al massimo confonderà Catherine Ashton con Javier Solana, in fondo su certi siti che differenza vuoi che faccia. Almeno finché qualche Solana o qualche Ashton non avrà niente di meglio da fare che chiedere una rettifica. http://leonardo.blogspot.com
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Ma tu non sei Eugeeeeeeeeeeeeew

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Più fatti, meno Ferrara

Una cosa non privata che vorrei salvare della Blogfest 2011 (a proposito, grazie!, pensavo proprio peggio) è il vicedirettore del Fatto Quotidiano, Gomez, che gela il pubblico dicendo, testuale: “abbiamo quattrocento blogger che lavorano per noi assolutamente gratis [...] speriamo che questi quattrocento diventino presto quattromila, e forse ci arriveremo a prendere anche quegli altri” [intendeva Repubblica Corriere e Stampa, gli unici siti giornalistici che vanno più forte del FQ].

In realtà l'infortunio sta tutto in un verbo, “lavorare”. Bastava che Gomez dicesse “collaborare”, e tutto sarebbe filato abbastanza liscio. Perché no, nessuno si aspetta che il Fatto paghi quattrocento o quattromila blogger per commentare i fatti del giorno. È comunque curioso che la strategia d'attacco del FQ sia aumentare i blog, questi vecchi arnesi che evidentemente però fanno rete, fanno traffico, fanno scalare posizioni in classifiche a cui gli inserzionisti danno peso, e insomma a qualche punto della filiera il blog produce soldi, anche se il volenteroso blogger del Fatto Quodiano probabilmente quei soldi non li vedrà mai, nemmeno in percentuale. Lui comunque è contento di sopperire con la libera espressione del suo ingegno ai fondi per l'editoria che il FQ non percepisce, e un po' lo capisco.

Una cosa privata che vorrei salvare della Blogfest è la sensazione di disgusto fisico provata l'indomani mattina mentre sfogliavo la Repubblica, e a un certo punto mi trovo alla pagina dei commenti, con l'animo bendisposto a leggermi il mezzo lenzuolo di Scalfari, quello in alto a destra, esatto. E tuttavia, mentre proseguivo con la lettura, mi sembrava che qualcosa non tornasse: don Eugenio mi sembrava meno serio del solito, non citava nessun dato macroeconomico, addirittura si metteva a chiacchierare con Giuliano Ferrara, gli dava del tu, cosa esecrabile, addirittura lo chiamava "mio amico Giuliano", lodava "la sua audace e bella penna", ma quando mai, aspetta... ma non stavo leggendo il fondo di Eugenio Scalfari. L'avevo pur notato, in prima pagina, che non c'era nessun fondo di Eugenio Scalfari. Stavo leggendo... mio dio! Francesco Merlo.

Capite, non è tanto Merlo in sé. Merlo si può leggere, a volte è discutibile ma non è che sia disgustoso. Ma leggere Merlo credendo di leggere don Eugenio, come posso descrivere la sensazione perturbante, heimlich/unheimlich... è come scoprire che la biondina che state spiando nella cabina dello stabilimento balneare è vostra sorella ciccia coi brufoli, ecco. E qualcosa dentro di te in quel momento si ribella, nel mio caso il cappuccino.

Il rigurgito interiore che ne consegue apre la strada a due considerazioni. (1) Eugenio Scalfari, vorrei dirlo prima che sia un po' tardi, è come l'acqua corrente: ci accorgeremo di quanto era prezioso solo quando ce lo toglieranno. Fino a quel momento continueremo a snobbarlo, ma chi vuoi che lo legga ancora fino in fondo, ecc. E invece sapete una cosa? Io. Io continuo a leggerlo fino in fondo, va bene? Per me vale ancora la pena. No, non è molto brioso, no. Certo, sa scrivere meglio di molti fighetti che ho in mente io. Di sicuro non occupa metà pagina di quotidiano per conversare con un suo "amico" lasciando il lettore quasi al buco della serratura. In realtà l'editoriale di Scalfari c'entra poco con il genere-editoriale per come si è ridotto negli ultimi vent'anni, con le opinioni precotte di adesso. Scalfari ha questa mania per i dati, vuole sempre partire da dei dati o infilarli comunque da qualche parte, poi per forza non ci sta nelle cinquemila battute che sono più che larghe per quel che deve dire un Panebianco o un Ostellino o un Mieli o un Merlo (o un blogger). Scalfari alla sua età ci tiene ancora a far vedere che le sue osservazioni sono interessanti perché osservano cose concrete, non perché le fa lui che si chiama Eugenio Scalfari. Poi i suoi calcoli li avrà sbagliati cento, mille volte, ma appunto, sono calcoli: si possono sbagliare. Gli altri non sbaglieranno mai, al massimo un anno fa mettevano Neutrino Gelmini nella lista dei ministri migliori del governo – eh, ma sono opinioni, ognuno ha le sue, per esempio sapete alle mosche cosa piace. Volete invece sapere cosa manca ai quotidiani di adesso? Non certo i blogger, anzi, sono tutti lì che ronzano attorno e non vedono l'ora. Anche gratis. Secondo me mancano coraggiosi produttori di lenzuoli alla Scalfari, che prendano dei dati interessanti, non visibili a tutti, e li usino per costruire dei ragionamenti, anche sbagliati. Però ragionamenti, ipotesi, proposte. Non opinioni. Per le opinioni, davvero, i blog bastano, avanzano, sovrabbondano.

(2) Un'altra cosa di cui secondo me i quotidiani non hanno più bisogno è di quel genere letterario in cui un giornalista cerca di convincere Giuliano Ferrara a non essere così Giuliano Ferrara: a essere un po' meno Giuliano Ferrara, a essere Ferrara in un modo un po' più ragionevole. Perché davvero, son vent'anni ormai, è un po' come il genere della pastorella per gli stilnovisti: loro volevano convincere una fanciulla a rotolarsi nel fieno, voi volete convincere una baldracca delle gioie della castità, ma la volete piantare? Ma ci spiegate una buona volta in cosa consiste l'importanza, la centralità di Giuliano Ferrara nella storia contemporanea? Ma sul serio vi piace il suo stile ampolloso a cui andava torto il collo in terza liceo? Ma sul serio Ferrara può rappresentare una categoria, per cui se riuscissi a convincere lui avrei convinto, boh, cinquecento persone in tutt'Italia? Quanti ci sono che lo leggono ancora sul Foglio senza che li costringano, e perché? E cos'è questa singolare proprietà traslucida di Giuliano Ferrara, per cui se ammetto che è intelligente, improvvisamente sembro più intelligente anch'io? Ma quindi è davvero colpa mia se il più delle volte mi sembra un buffone?

Vorrei essere più chiaro di così. Cari amici di Repubblica: ogni volta che un vostro editorialista, invece di occupare le sue colonne spiegando cose interessanti, si mette a spiegare all'amico Ferrara che non dev'essere troppo Ferrara, altri cento lettori paganti si spostano al Fatto Quotidiano. E magari aprono anche un bel blog gratis, che comunque fa traffico eccetera. Fate un po' i vostri conti.
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Francesco, la rockstar

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Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali?


che un po' ci somiglia. Il Santo del giorno è sul Post, con un pezzo che contiene musical parrocchiali, Baglioni che canta Donovan, Mickey Rourke che scopa la neve e tutto ciò che il buonsenso sconsiglia in un quotidiano on line formato famiglia (andatelo a commentare di là, che non vi flagella nessuno).


4 ottobre - San Francesco d'Assisi (1182-1226)

Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali? Primo grandissimo poeta della letteratura italiana, con quel Cantico delle creature pieno di k che piacciono ai giovani? Ce ne sarebbe da scriverci un libro. Ma lo hanno già fatto in tanti. E anche a proposito dei libri su San Francesco si potrebbe scrivere un libro. Ma hanno già fatto anche questo. Quindi a questo punto che si fa?

In San Francesco al massimo ci si può specchiare. Nel senso che è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante. Per esempio io, se penso al mio San Francesco, lo vedo ormai un po' datato; ma non datato al dodicesimo secolo; piuttosto agli anni Settanta, che sono quelli in cui sono cresciuto leggendo anche la bio a fumetti di San Francesco sul Piccolo Missionario; guardando il film di Zeffirelli (la cosa più gay che si poteva proiettare in un cinema parrocchiale); cantando le canzoni di Forza Venite Gente, il più fortunato musical da oratorio della storia (brevissima) dei musical da oratorio.



(Questo video è la cartina al tornasole. Se siete cresciuti in un oratorio, avrete un tuffo al cuore. Se non siete cresciuti in un oratorio, il tuffo potrebbe prendervi un po' più in basso e insomma, forse non vale la pena cliccare. Comunque sappiate che c'è gente in Italia che per queste cose prova un trasporto paragonabile a quello che potete provare voi per, boh, le sigle dei cartoni animati giapponesi).

Insomma che Francesco era il mio Francesco'70? Un fricchettone. Però di buona famiglia. Zeffirelli lo aveva capito benissimo, e la parte più interessante del suo film probabilmente è quella in cui la famiglia lo tratta un po' come si trattavano i figli da disintossicare, che fanno il gioco del silenzio e ti abbracciano, poi un mattino te li trovi sul tetto, “guarda mamma adesso volo”



“Va bene, adesso mi dite chi è che continua a vendergli le pasticche”.

E prima o poi – come tutti gli eroi medievali di Zeffirelli – ti mostra angelico il suo culo. Erano tempi così. La colonna sonora, tutti lo sanno, la canta Baglioni. Invece non tutti sanno che in originale era di Donovan, esatto, sì, Dolce Sentire è Baglioni che canta su Donovan, e finì nei canzonieri liturgici, avete presente, quelli posati sui banchi di chiesa, con Noi vogliam Dio e Symbolum '77 (Tu sei la mia vita / altro io non ho). Si cantava di regola durante la comunione. Non che nessuna autorità ecclesiastica l'abbia mai omologata, ma i preti facevano finta di niente, erano anni così. Pur di avere giovani in chiesa avrebbero aperto le porte anche ai Black Sabbath.

Questo insomma era il mio Francesco '70-80: l'unico Santo che ci fosse vicino in quel periodo in cui volevamo stare in parrocchia ma anche farci crescere la barba, azzuffarci nei fienili e magari farci le canne. E i soldi di papà ci pesavano un po' in tasca. Fossi nato giusto qualche anno prima probabilmente sarebbe stato un tizio più tosto, come quello che fa la morale a Totò e Ninetto in Uccellacci: un estremista intransigente che rifiuta il concetto di proprietà privata (perché in fondo il pauperismo medievale consisteva in questo), occupa chiese diroccate e insieme ad altri giovani disadattati fonda comuni maoiste sul filo dell'eresia. Ma ormai gli anni Ottanta incalzavano e non ci voleva molto ad accorgersi che Francesco in realtà si chiamava Giovanni (e sarebbe stato il terzo o quarto Giovanni importante del calendario). Buon per lui che il padre, il solito paesan rifatto maniaco delle cose straniere, cominciasse a chiamarlo con quel nomignolo strano, “Francisco”, che in Umbria negli anni '80 del dodicesimo secolo doveva suonare più o meno come “Kevin” oggi (e ve lo dico, da qualche parte in questa terra d'animali c'è un Kevin o un Michael che sta facendo cose sante e che tra un secolo entrerà nel calendario, vi piaccia o no – ma dovrà piacere ai nostri nipoti).

I tempi erano maturi per un Francesco diverso, una rockstar. In realtà in questo blog io vorrei trattarli un po' tutti da popstar, i Santi; ma nel caso di Francesco l'approccio è perfino banale, voglio dire, la Cavani per il suo film francescano a colori scelse Mickey Rourke. Mickey Rourke! Che abbraccia un crocefisso di Cimabue buttato lì per caso e ci si struscia sensuale! Mickey Rourke nudo coi tatuaggi che si masturba nella neve! Ma vediamo il filmato.



Cioè, capite, Mickey Rourke. Agli altri santi, quando va bene, affibbiano Castellitto (quando va male Beppe Fiorello).

Però è finita anche quella fase – e pensando a Mickey, oserei dire che non è finita bene. A questo punto mi domando con che Francesco stiano crescendo i ragazzini di oggi. Esce ancora il Piccolo Missionario? Ok, il Francesco ambientalista funzionerà sempre, ma è plausibile, mi chiedo, un Francesco teocon? Perché no, dopotutto aveva la fissa per le crociate (a proposito, una delle molle per la conversione potrebbe essere stato un attacco di panico: partiva per la guerra, ma c'era già stato e non gli era piaciuta affatto, soprattutto l'esperienza della prigionia: mettersi addosso un sacco e fare il mendicante poteva essere un'exit strategy, ma il senso di colpa per essersi ritirato dalla lotta alla fine potrebbe avere prevalso e averlo portato in Terrasanta; è un'ipotesi come un'altra, ma Francesco ormai uno specchio, per cui l'ipotesi probabilmente somiglia meno a Francesco che a me).

Che altro potrebbe essere tornato di moda in questo momento? Di sicuro non il pauperismo, uno stile di vita che in fin dei conti consiste nell'elemosina: è un fenomeno tipico dei periodi di boom economico, ma quando il ciclo finisce la gente sbarra le case e comincia ad aver paura dei lebbrosi e degli zingari. Invece dovrebbero andare forte le stimmate: per molti secoli ne è stato l'unico portatore ufficiale. E in generale la sua sensibilità nazionalpopolare (ha inventato il Presepe vivente).

Sotto la superficie dello specchio, Francesco resta lì, aspetta le generazioni che verranno e lo vedranno in un modo diverso. Inutile ormai domandarsi chi fosse veramente - nel suo ritratto più antico e verosimile (quello di Cimabue nella Basilica inferiore di Assisi) è semplicemente un uomo che conosce il dolore e la povertà, e che da otto secoli, senza abbassare lo sguardo, sembra fissare proprio noi.
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La pallina di Dio

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E insomma, la novità è che sono sul Post, con una non-rubrica sul Santo del giorno (che non esce tutti giorni), per esempio oggi si festeggia Santa Teresa del Bambin Gesù, Teresina per gli amici.


Non è adorabile?


1 ottobre - Santa Teresa di Lisieux, AKA Teresa del Bambin Gesù AKA Teresa del Sacro volto, vergine e dottore della Chiesa (1873-1897)

Può anche darsi che a un certo punto, dopo cinquant'anni di roselline, bacini, bambini Gesù e altri bamboleggiamenti, anche gli uomini di Chiesa non ne potessero più, di Santa Teresa del Sacro Volto e del suo cattolicesimo così irrimediabilmente pucci che nella prima metà del Novecento aveva scatenato una vera e propria Thérèse-mania nella profonda provincia francese. Però a quel punto forse si è un po' esagerato sull'altro versante, volendo per forza vedere in lei uno spessore intellettuale che l'ha esposta alla furia di esegeti intransigenti come Simone Weil e fior di analisti lacaniani. Al punto che vien da dire: lasciatela stare! in fondo era solo una ragazzina.

Certo, nei suoi nove anni di reclusione volontaria in convento le era capitato anche di desiderare un futuro da Dottore della Chiesa (ma anche da Guerriero, da Apostolo, da Martire: tante strade tutte troncate dalla tbc). Sono quelle cose che si dicono da ragazzini, appunto. E invece ce l'ha fatta: nel 1997 Wojtyla l'ha nominata Dottore, proprio lei! terza donna a entrare nel club dopo Teresa d'Avila e Caterina di Siena. Per intenderci, Agostino da Ippona per ottenere lo stesso titolo ha scritto le Confessioni e la Città di Dio. Tommaso d'Aquino ha messo giù la Summa Theologica, dimostrando l'esistenza di Dio tipo in cinque modi diversi. Teresina, dal canto suo, non lascia visioni particolarmente mistiche né edifici teologici o meditazioni metafisiche. Cosa v'aspettavate, del resto, da una ragazza morta a 24 anni? Poco più di un best seller del primo Novecento, Histoire d'une âme, l'autobiografia sgarzolina di una ragazza sveglia che perde giovanissima la mamma, vede le sorelle maggiori entrare in convento, vorrebbe seguirle subito ma il prete severo le dice di no, allora fa un viaggio lungo lungo fino a Roma per chiedere al Papa se la fa entrare subito in convento e il Papa le dice vediamo. Suo più grande desiderio, spiega al lettore, era diventare una pallina, un giochino nelle mani del Bambin Gesù. Tutti ci vedono subito il desiderio di umiltà, ma la pallina ha pur sempre qualcosa di sfuggente e capriccioso, che ti colpisce nei fotoritratti (fu una delle prime sante di cui circolassero immagini fotografiche, e questo può spiegare parte del suo successo).

Le sue compagne. Lei non c'è perché sta scattando.
È davvero ingiusto ridurla a Shirley Temple del cattolicesimo: Teresa studiò e scrisse molto, conobbe la sofferenza e il dubbio, che la tormentò negli anni della malattia. Però a noi piace ricordarla un po' così, più ragazzina che intellettuale, in posa da Giovanna d'Arco mentre prova il suo nuovo dramma con la filodrammatica del convento (i testi li scriveva lei); fanciullina vezzosa tutta contenta perché il suo ragazzo Gesù è il più figo del Creato mentre il fidanzato della sorella Giovanna, per quanto sia “una creatura molto perfetta”, è “pur sempre una creatura”. Quando le arriva la partecipazione delle nozze, lei risponde scrivendone una tutta per sé, traboccante come si vede di cristianissima umiltà:

“Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione [...] Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare”.


Non è in castigo, è travestita da Giovanna d'Arco.
Una cosa che mi fa impazzire dell'Ottocento è che tutto è già pronto per Freud, ma Freud non è ancora arrivato. Così nei diari e nelle lettere nessuno ha ancora alzato nessun schermo protettivo, e insomma tutti ti squadernano i loro complessi senza accorgersene, fanno una gran tenerezza. Una lettera del genere finisce dritta nell'autobiografia di un Dottore della Chiesa senza che nessuno abbia trovato niente da obiettare. Il libro è tutto pieno di perle così: per esempio, quando l'altra sorella prediletta che ancora vive nel mondo, Celine, riesce a farsi invitare a un ballo, Teresa non si vergogna a supplicare il Signore “d'impedirle di ballare”, con tanto di lacrimoni, finché “Gesù si degnò di esaudirmi”.

Tra le braccia del suo primo cavaliere, Celine si blocca, umiliando il povero ragazzo e costringendolo a una fuga ingloriosa. Quando lo viene a sapere, Teresina esulta senza vergogna e ringrazia Gesù di aver rovinato la serata alla sorella prediletta, che non a caso entrerà in convento poco dopo e l'aiuterà a scrivere quell'autobiografia che le porterà tanta gloria. Teresa è vicepatrona di Francia, patrona delle Missioni, dell'Australia e della Russia, tutti posti dove la pallina di Dio avrebbe rimbalzato volentieri. Se avesse avuto il tempo.
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Il vuoto incolmabile

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Come forse qualcuno avrà notato, da alcuni giorni a questa parte il Partito Democratico, il suo vertice, i suoi militanti, stanno in qualche modo cercando di sopravvivere alla notizia della defezione di Mario Adinolfi.


Lui nel frattempo gioca a carte. Sull'Unità.it comunque c'è un tentativo di prendere Adinolfi un po' sul serio (H1t#93), giusto per non lasciare nulla d'intentato. Si commenta laggiù.

(Ci si vede forse a Riva stasera).

Ma insomma perché nessuno vuole prendere sul serio Mario Adinolfi che abbandona il PD? Forse ha ragione il direttore di Europa Menichini, che dietro alle ironie e alle battutine sulla stazza e sul peso del personaggio intravede una certaarroganza togliattiana. Oggi stavo quindi cercando di rispondere alle critiche di Adinolfi nel modo meno togliattiano possibile, entrando nel merito delle importanti questioni sollevate eccetera, quando su twitter è arrivato un messaggio del Mario:

giornate di novità: ho firmato per i miei nuovi colori pokeristici, esordio all'Ept di Londra con il TeamPro1128

Allora, mettetevi anche un po' nei panni di noi togliattiani. Non siamo mai veramente riusciti a digerire la barca a vela di D'Alema (né l'appartamento newyorkese di Veltroni): cosa potevamo pensare di un giornalista che conciliava la militanza attiva in un partito di sinistra con l'esercizio professionale del gioco d'azzardo? Saremo provinciali, saremo vecchi, ma quando Adinolfi nel suo blog alternava i consigli al segretario sulla linea del PD con quelli ai lettori sulle squadre su cui scommettere, a noi cedevano un po' le ginocchia.

È sempre stato oggettivamente difficile prendere sul serio Adinolfi. Per prima cosa è una persona obesa, e noi a sinistra, sempre pronti a schizzare in piedi di indignazione alla prima barzelletta omofoba e sessista, non abbiamo nessuna difficoltà a ridere degli obesi (“ciccioni”) e dei bassi di statura (“nanetti”): Berlusconi e Ferrara ci hanno allenato bene, in questo senso. Poi è stato militante democristiano e non se ne è mai vergognato, e questo è parecchio destabilizzante. Aggiungi questa cosa del poker e delle scommesse che avrebbe destabilizzato anche i democristiani. Infine, nel momento in cui tutti i politici di sinistra cercavano di presentarsi all'elettorato nel modo più rassicurante e grigio possibile, Adinolfi non ha mai pensato di nascondere una personalità eccentrica e debordante. Nonché una mania di protagonismo che, se in parte era giustificata dalla necessità di restare a galla nel mondo difficile e competitivo dell'infotainment radiotelevisivo, dall'altra spiega il perché le non-dimissioni di Adinolfi (non ricopriva nessun incarico) siano quasi una non-notizia, che in linea teorica non avrebbe meritato più spazio di quella di un volontario della festa dell'unità di Reggio Emilia che oggi decidesse di stracciare la tessera. Certo, è pur vero che nessun volontario reggiano della festa dell'Unità si è mai presentato alle primarie del PD, ma probabilmente se lo avesse fatto avrebbe raccolto più voti di Mario Adinolfi. Quindi, insomma, di che stiamo parlando?

Stiamo parlando di un quarantenne che, a furia di accreditarsi come rappresentante di una generazione, in qualche modo è riuscito a impersonarne almeno alcuni difetti: Adinolfi, che pure è uscito di casa abbastanza presto e ha sempre in qualche modo lavorato, sembra morso dallo stesso demone di tanti trenta-quarantenni italiani che il precariato lo hanno interiorizzato, fino ad elevarlo, in mancanza di meglio, a filosofia di vita: e dopo un decennio passato a corteggiare diverse carriere, senza sceglierne veramente nessuna, si ritrovano a quarant'anni bloccati a un bivio, consapevoli che scegliere una via, una carriera, un mestiere, una vita, significa rinunciare ad altre vie, ad altri mestieri, altre vite. Per carità, qui non si giudica nessuno, ma posso dire che nel continuo saltabeccare di Adinolfi tra editoria politica e gioco d'azzardo un po' mi riconosco (in sedicesimo, diciamo). E in fondo sono contento che lui abbia saputo finalmente scegliere: e anche che non abbia scelto la politica, per la quale, non me ne voglia, forse non era troppo tagliato.

Anche la sua difficoltà a integrarsi nel PD si può leggere in modo generazionale. Un altro problema di noi trenta-quarantenni è che ci siamo sposati tardi, dopo fidanzamenti esageratamente lunghi. Allo stesso modo, dopo aver inseguito per anni il miraggio del grande partito di centrosinistra, quando finalmente l'impossibile si è avverato, Adinolfi ha scoperto sulla sua pelle i dolori e i fastidi della convivenza. Il motivo per cui oggi decide di divorziare è in fondo molto semplice: dalle ultime primarie in poi, Adinolfi si è ritrovato in una corrente di minoranza, e questo gli è insopportabile. È il paradosso per cui proprio gli alfieri del Grande Partito sono quelli che appena un partito abbastanza grandino prende forma non riescono ad accettare gli oneri che esso comporta: l'inevitabile nascita delle correnti, la dialettica interna tra maggioranza e minoranze, il triste centralismo democratico: tutte cose che l'ex democristiano Adinolfi dovrebbe conoscere bene – non ci fossero stati quei vent'anni di caos tra popolari, asinelli, margherite, ulivi, unioni, con tutte quelle intercapedini e quei margini di azione per capitani coraggiosi e un po' spavaldi. Ora il tempo dei corsari è finito: bisognerebbe indossare la giacca e la cravatta dell'uomo d'ordine, ma in quella giacca Adinolfi proprio non ci sta (e questa è l'unica battuta sulla sua taglia che farò, già una di troppo).

A proposito di partitini è buffo che Adinolfi ricordi di aver cercato il “coinvolgimento organico” di radicali e socialisti, oltre a Grillo, che avrebbe voluto candidato alle primarie. Ora, se c'è qualcosa che radicali, socialisti e Grillo hanno in comune, è di non avere mai realmente creduto nel PD, anche quando hanno cercato di usarlo per ottenere un po' di visibilità (il tentativo di Grillo di candidarsi) o per arrivare in Parlamento eludendo gli sbarramenti (la “delegazione radicale”, quei nove posti blindati ottenuti dal PD di Veltroni, la cui lealtà è ben provata dall'assenza di ieri alla Camera, e dalle dichiarazioni di Pannella). Quanto ai socialisti, parliamo di quel partito inesistente che negli ultimi dieci anni ha sempre fatto perdere punti in percentuale a qualsiasi lista con cui si è aggregato (memorabili le batoste di Rosa nel Pugno e Girasole)? Eppure Adinolfi dovrebbe sapere che i socialisti a centrosinistra non hanno mai trovato la porta chiusa, da Occhetto a D'Alema (che fece entrare almeno Amato) fino a quando Boselli, segretario di un partito da prefisso telefonico, fu invitato da Prodi alla costituente del PD e rifiutò sdegnosamente quello che definì il “compromesso storico bonsai”. Poi andò alle urne da solo e riprese il suo zero virgola per cento. Certo, esistono tante cose nell'universo; esistono i neutrini che hanno così poca massa che possono arrivare dal Gran Sasso a Ginevra senza tunnel; così può darsi anche che esista ancora un partito in Italia che si chiama socialista. Ma anche un bonsai non è che debba preoccuparsi di coinvolgere tutti i batteri che transitano nei pressi: la maggior parte sono innocui.

C'è poi la questione "omosex", come la chiama lui, che negli ultimi mesi è diventata una sua piccola ossessione - proprio mentre la passione per la militanza nel PD rapidamente scemava. Non è una coincidenza. Sui diritti civili dei gay ho una teoria: c'è un motivo per cui qualcuno ne parla oggi, quando in Italia governa la destra più becera e omofoba e nessuna reale messa in discussione dello status quo è praticabile. Ed è un motivo che purtroppo ha ben poco a che fare coi gay, e molto a che fare con la storia del PD, e la sua doppia anima catto-diessina. In sostanza si riparla di gay, e soprattutto di matrimoni di gay e di adozioni di gay, semplicemente perché di tutti gli argomenti al mondo è quello più pericoloso per la coesione del PD: quello che davvero rischia di farne cedere le giunture, tanta è la distanza tra le posizioni di cattolici e progressisti. Ora io sarò anche un togliattiano dentro: me lo hanno detto anche i miei quattro lettori, quindi c'è del vero. Però per me proporre un “referendum sul matrimonio omosex”, come Adinolfi dice di aver fatto, equivale a dichiarare di aver tentato di sventrare il PD, proprio nel punto dove la cucitura è più fragile. Solo così si spiega poi l'ossessione per questo argomento in un'estate in cui anche molti gay, più che al matrimonio, probabilmente pensavano ai loro risparmi, all'IVA e alle pensioni.

Già, le pensioni. Ad Adinolfi non è piaciuta l'adesione allo sciopero della CGIL, il sindacato dei pensionati eccetera. Non è una sorpresa che l'eterno precario della politica si trovi più vicino alle posizioni di Ichino: quanto agli ammortizzatori sociali, lui ha sempre rivendicato di trovare meno rischiose le ricevitorie delle banche, e a questo punto la cosa terribile è che non sembra avere tutti i torti. Ma insomma la posizione di Adinolfi la conosciamo da anni: i nostri padri pensionati ci rubano il futuro. Nel frattempo però (dovrebbe essersene accorto) cominciamo ad andare anche noi per la quarantina, e alla pensione iniziamo a pensarci, se non altro perché l'idea di ottenerla a ottant'anni un po' ci spaventa. Forse per Adinolfi il problema non si pone, forse sarà ancora un brillante bluffatore, o forse avrà già raggranellato abbastanza col suo personalissimo sistema integrativo. Noi però non siamo altrettanto capaci, né al tavolo verde né alla vita in generale. Così ci attacchiamo a quel che possiamo: un mestiere piuttosto che un altro, un sindacato piuttosto che un altro, un partito con tanti difetti ma che è meno peggio di tanti altri, eccetera. Nel frattempo Marione se n'è andato verso altre partite, altre sfide, altre avventure. Ci perdonerà se non siamo abbastanza togliattiani da non invidiarlo un po'. http://leonardo.blogspot.com
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Perché non sapete il giorno e l'ora

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Qualcosa di terribile sta per succedere


La blogpalla italiana non sarebbe così male, se solo non fosse quel nido di ateismo, laicismo e agnosticità che tutti ben conoscete. Forse è tempo di emendarsi e aggiungere, in mezzo a tante stridule voci di laicisti esasperati, la voce flebile ma giocosa del viandante nella fede.

Questione di giorni, ormai. Vegliate dunque!
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