I funerali della volpe 876

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Lo so che non vediamo l'ora da anni, ma questa fretta è davvero perniciosa. C'è una troppa voglia di trenino qua in giro, troppa voglia di celebrare i funerali della volpe, e si sa di solito come vanno a finire, no?


Berlusconi non finisce mica oggi. Almeno, lo dice l'Unita.it, e si commenta di là (H1t#98).

Una volta le galline trovarono la volpe in mezzo al sentiero. Aveva gli occhi chiusi, la coda non si muoveva. - È morta, è morta - gridarono le galline. – Facciamole il funerale...

Credo che a questo punto nessuno, nemmeno l'on. Carlucci,
 dubiti più che Berlusconi sia un problema. Non è senz'altro il più grave – non lo è mai stato – ma è il problema che dobbiamo risolvere per primo, il primo nodo del groppo. Basta non credere che questo nodo si possa sciogliere domani, o posdomani, o comunque nel momento in ogni caso non molto remoto in cui Berlusconi accetterà di rassegnare le dimissioni. Quella sarà la fine di un governo (il quarto a portare il suo nome), non di Berlusconi. Che ha ancora diverse carte da giocare, e di sicuro non scomparirà dalla scena, come non è scomparso nel 1994 o nel 2006.

Se ormai possiamo parlare di ventennio berlusconiano è perché riconosciamo che anche nei periodi in cui non governava, B. è riuscito a mettersi al centro del dibattito politico e a trasformarlo in un eterno sondaggio su sé stesso. Non c'è motivo di pensare che non farà la stessa cosa anche stavolta: non gli mancano certo le risorse, né le strutture che in tutti questi anni hanno retto il suo consenso (tv, giornali, pubblicità). Le defezioni di questi giorni potrebbero certo indurci a pensare che gli mancano gli uomini (e le donne), ma in fondo sappiamo che non è vero: che per ogni Carlucci o Stracquadanio che se ne va, Berlusconi può trovarne altri tre, altri quattro aspiranti parlamentari ugualmente professionali e magari anche più piacenti. Mal che vada c'è il casting per il Grande Fratello.

Mettiamo pure che oggi (o domani, o tra una settimana, un mese) Berlusconi cada sul serio. A questo punto i commentatori ci mostrano due scenari: un governo tecnico fino alla fine della legislatura (sorretto da un inedito arco antiberlusconiano Fini-Casini-PD e forse anche dalla Lega) o un governo simile ma assai più breve che ci porti alle elezioni il più presto possibile, con o senza riforma elettorale (Maroni domenica sera sembrava possibilista: secondo lui si può abrogare il porcellum e andare a votare anche a gennaio con una legge decente; ma sembra fantascienza). In entrambi gli scenari c'è una zona d'ombra, ovvero: che farà, nel frattempo, Silvio Berlusconi? Se ne starà a guardare lo spettacolo dei suoi ex amici Fini e Casini che gli devono tutto e che tornano al governo coi voti dei suoi figuranti, scritturati dalle sue agenzie, lanciati dalle sue televisioni e coi suoi manifesti? Se abbiamo imparato un po' a conoscerlo in questi anni, sappiamo che non lo farà.

E che farà, quindi? Non importa quanti topolini abbandoneranno la nave del PDL nei prossimi giorni: Berlusconi continuerà a mantenere uno zoccolo duro di pretoriani in Camera e Senato, utili a mettere in crisi la composita maggioranza antiberlusconiana nei momenti in cui si troverà ad approvare decreti impopolari. Nel frattempo la vera artiglieria partirà da carta stampata e tv: di golpe si parlerà tutti i giorni sui canali Mediaset, su Libero, il Giornale, il Tempo, il Secolo d'Italia, il Foglio (Ferrara si accoderà, s'è sempre accodato). Ne parleranno anche i berlusconiani superstiti nei palinsesti Rai, visto che probabilmente la maggioranza antiberlusconiana sarà troppo timida per parlare di epurazioni.

Finché rimane al governo, Berlusconi è costretto a sfoggiare un europeismo d'ordinanza; una volta all'opposizione, non ci sarà più nessun attrito con la realtà e il partito-azienda potrà cavalcare gioiosamente l'ondata antieuropeista più becera che riterrà necessario per sopravvivere: tornerà quel vecchio ritornello mai veramente accantonato, “è colpa dell'euro”: qualche pseudointellettuale scritturato all'uopo chiederà a gran forza il ritorno della lira e di quel meraviglioso lubrificante del boom italiano che fu l'inflazione. Tutto assolutamente inverosimile, proprio come quando prometteva milioni di nuovi posti di lavoro. Del resto sono solo promesse, B. non ha mai avuto intenzione di mantenerle. È solo lo spettacolo che gli serve per presentarsi alle elezioni

Probabilmente gli italiani non la berranno come nel 1994 o nel 2001 o nel 2008, ma questo non ha molta importanza: l'artiglieria di Mediaset e dei suoi giornali gli consentirà comunque un buon piazzamento. E Berlusconi – anche questo dovremmo averlo capito – vince anche quando perde. La presenza di un suo partito in parlamento lo legittima, gli consente margini di trattativa, per non parlare dell'opportunità di comprarsi in aula i seggi che non è riuscito a vincere alle elezioni. Tanto più che mentre sta all'opposizione, sugli scranni della maggioranza siederà un'alleanza scarsamente coesa (sia che ne faccia parte l'UDC sia che ci entri la SEL di Vendola) costretta da Bruxelles e Fondo Monetario a scelte che deluderanno comunque gli elettori di centrosinistra – mentre a destra Lega e berlusconiani batteranno la grancassa dell'antieuropeismo. Avremo insomma un altro governo debole, come il Prodi 2, e forse perderemo altri anni – salvo che non abbiamo più anni da perdere. E allora?

E allora forse bisogna tornare da capo e avere il coraggio di mettere nero su bianco che Berlusconi è un problema, ma non perché sta al governo. Berlusconi è un problema perché da vent'anni occupa la scena politica col suo ingombrante partito-azienda. Quando osservatori stranieri certo non sospettabili di estremismo, come il Financial Times, ci chiedono di farla finita di Berlusconi, non intendono semplicemente di convincerlo a rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio. Loro parlano esplicitamente di esilio, e forse qualcuno dovrebbe cominciare anche qui. http://leonardo.blogspot.com
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Sporco maschio guardami

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Io queste attiviste ucraine che si spogliano per protesta è da un po' che le vedo in giro – su internet e riviste, intendo, non pensiate che io abbia una vita altrove ormai – e devo dire che non mi convincono.

Non è che mi scandalizzi, però sono diffidente. È la mia educazione: diffido di chiunque mi si spogli davanti, sono convinto che abbia qualcosa da nascondermi (vedi com'è tortuosa l'educazione). Da una parte, posso capire, manifestare significa attirare l'attenzione, e da questo punto di vista spogliarsi funziona – basta andare su Repubblica.it in questo momento, ma quest'estate tennero l'homepage anche sull'Unità, insomma, l'attivista nuda tira. Non è soltanto una pratica funzionale, è anche una delle meno violente che si possano immaginare: invece di tirare estintori o bruciare SUV, mostrarci per quello che siamo. Salvo che non siamo quasi mai così belli come le attiviste ucraine che si vedono spesso in foto sulle riviste o su internet (le foto di oggi non rendono loro giustizia).

Non so esattamente quanto il loro attivismo abbia a che fare col movimento internazionale degli SlutWalk, i cortei in cui le femministe si vestono da “sluts” (traduciamo “sgualdrine”, via) per protestare contro la violenza maschile. Gli SlutWalk sono cominciati a Toronto la scorsa primavera e stanno andando piuttosto bene, tanto che anche in Italia c'è chi comincia a pensarci. Visti in foto sembrano un po' la versione femminista dei gay pride (un'affermazione che immagino mi farà amare tantissimo da femministe, gay e femministe gay), una gara a conciarsi peggio non indenne da una certa dose di esibizionismo che però, diciamolo, quando vai in piazza c'è sempre. In piazza ci vai per attirare l'attenzione, e il tuo ego di solito non lo lasci a casa. Io perlomeno non lo facevo, e se non mostravo il corpo era semplicemente perché non avevo tutto questo gran corpo da mostrare (altrimenti chissà).

Comunque: dietro agli SlutWalk c'è una filosofia controversa. Quando un ufficiale della polizia di Toronto dichiarò che ci sarebbero state meno molestie se le donne avessero evitato “di vestire come sluts”, le femministe canadesi sfilarono mostrando il loro diritto costituzionale a vestirsi come volevano, e quindi anche come sluts. Non fa una grinza. Salvo che poi sui giornali non ci va la foto dell'impiegata cinquantenne con la panzetta, alla quale conciarsi da slut costa magari qualche sacrificio. Ci vanno sempre tipe in forma come le attiviste ucraine, per la gioia di noi guardoni di internet (mi ci metto anch'io ma devo dire che ormai guardo pochissimo). Il messaggio che ne ricaviamo è un po' diverso da quello che forse prevedevano le femministe: non è più “sono una donna e non mi devo vergognare di avere un corpo”, ma più qualcosa del tipo “guardami, te lo sogni di spogliare un corpo così”. Insomma, un corpo nudo brandito contro di me, maschio guardone. Non è contundente come un estintore, ma si suppone comunque che debba ferirmi, frustrarmi nei miei desideri, nelle mie pulsioni. E ammettiamo pure per un istante che in quanto maschio io debba vergognarmi per i crimini di tutti i maschilisti del mondo – ma quello che finisco per provare è un po' la sensazione che qualcuno mi voglia farmi vergognare del fatto che guardo una donna nuda. Come ai bei tempi dell'oratorio, insomma. Ma almeno all'oratorio non me le squadernavano in faccia, le donne nude. Invece qui ci sono donne nude che mi gridano: vergognati maschilista delle tue pulsioni. Tutto quello che mi viene da rispondere è: no, non mi vergogno. E a quel punto mi sale pure in punta di lingua una parola che in generale non amo usare, la traduzione letterale di slut, diciamo. Qualcosa di becero, di maschilista davvero, ecco: l'effetto pratico dell'attivista-nudista è farmi sentire un po' più maschilista di prima. Dura solo pochi istanti, ma non credo che sia l'effetto voluto. O no?

La prima volta che sentii parlare di questo gruppo di attiviste ucraine che si spogliavano era su una rivista, non mi ricordo più se D o Vanity Fair, però le foto erano notevoli. Donne nude aggredite da poliziotti. Protestavano contro lo stupro mettendolo in scena, praticamente. Ho cercato di guardare quelle foto da una prospettiva non guardona, ma temo di non averla trovata. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno scenderà a stuprare una ragazza perché ha visto una scena di stupro attizzante su D o Vanity Fair.

Ma la cosa che mi lasciò più interdetto è che nello stesso servizio spiegavano che queste donne bionde e molto belle (magari non sono tutte belle, ma in foto ci vanno quelle più belle) in quell'occasione stavano protestando contro il turismo sessuale degli italiani in Ucraina. E così, grazie al loro attivismo, il risultato è che io lettore italiano stavo guardando bellissime ucraine nude su una rivista. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno correrà a prenotare un fine settimana a Kiev perché ha visto delle attizzanti ucraine nude su D o Vanity Fair o... o no?
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Il patrono dei barbieri è un ne*ro!

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E che nero.


Bidello, scassinatore, guaritore, Martin de Porres è il Santo da invocare quando il vostro barbiere attacca con le sue tirate anti-extracomunitarie e si stava meglio quando si stava peggio signora mia. Occhio che sa volare e moltiplicarsi, insomma se fosse un Pokemon varrebbe tantissimo. Tutto sul Post, che oggi era a terra, scusate.

3 novembre – San Martin de Porres (1579-1639)

Pittore, lascia perdere: angeli neri non ne risultano. La Bibbia non ne parla, lo PseudoDionigi nemmeno... In compenso di Santi neri cominciano a essercene parecchi, e promettono di aumentare man mano che il cattolicesimo diventa una confessione sempre più africana e sudamericana. Ma il primo santo nero cattolico qual è stato? È difficile dire. Se escludiamo i nordafricani (tra i quali pezzi da novanta come Agostino e Antonio Abate), santi diventati neri per errori di traduzione o perché le antiche statue si erano affumicate creando un equivoco,  e gli etiopi che fanno come sempre storia a sé... può darsi che il primo santo cattolico propriamente “nero” sia stato il peruviano San Martin de Porres (mi sbaglio? Bastonatemi nei commenti). Anche se è stato canonizzato solo nel 1962 – nella sua patria però era già adorato in vita. Certo, più che nero era un mulatto, ma chi non è un po' mulatto in Sudamerica? Si sa come la tendenza degli hidalgos spagnoli a partire scapoli e a seminare figli illegittimi un po' dovunque abbia contribuito a rendere il melting pot sudamericano più amalgamato di quello statunitense. Lo stesso Martin era figlio di un pezzo grosso dell'amministrazione coloniale, che lo ebbe dalla sua domestica e ci mise un po' a riconoscerlo – poi comunque partì per Panama dove lo avevano nominato governatore. Martin rimase a Lima e divenne apprendista in una bottega di barbiere-chirurgo: a quel tempo era più o meno lo stesso mestiere e si faceva più o meno con le stesse lame. Per questo Paolo VI lo ha nominato protettore di barbieri e parrucchiere, fatelo presente al vostro coiffeur cattolico la prima volta che attacca una tirata contro i negri: lo sai di che colore è il tuo Santo Protettore?

Non è invece patrono dei chirurghi; eppure Martin fu un grande guaritore, e forse la sua origine mulatta c'entra per qualcosa. In un mondo in cui la medicina si studiava ancora sui testi aristotelici, e dissezionare cadaveri ti portava davanti all'Inquisizione, Martin senza nessun titolo accademico poteva davvero saperne più dei professionisti laureati. Dalla parte materna aveva probabilmente a una tradizione erboristica e autoipnotica africana sconosciuta a latini e indios. Viceversa africani e indios potevano trovare nella sua bottega medicine di origine europea a loro altrimenti precluse. Il suo schermirsi quando i pazienti soddisfatti gridavano al miracolo è un tratto tipico di molti guaritori (anche Gesù nel Vangelo prega gli apostoli che non ne parlino troppo in giro, col bel risultato che sappiamo): può essere cattolicissima modestia, ma anche un modo per conservare certi segreti del mestiere ed evitare magari l'accusa di praticare la magia nera, la magia dei neri.

Del resto Martin aveva un solo sogno nella vita: vestire il saio bianconero dell'ordine domenicano, viaggiare per il mondo e trovare il martirio, magari in Giappone. Morì invece relativamente anziano, senza aver quasi mai lasciato la sua città natale. I domenicani lo accettarono tra loro con qualche difficoltà: è vero che aveva un papà di una certa importanza, ma insomma, come dire, era nero. Per una decina d'anni lo tennero come inserviente: da lì l'iconografia tradizionale del Santo-nero-con-la-ramazza-in-mano, per cui se andate in giro per chiese e volete stupire gli amici, mi raccomando: se ha in mano la spada è San Paolo, se ha in mano la testa mozzata è San Dionigi di Parigi, se ha la testa di cane è San Cristoforo (ne parleremo), se è nero e ha la scopa in mano, beh, andate tranquilli, è Martin de Porres, chi altri?

L'inserviente, o bidello che dir si voglia, è una figura tragica. Spesso ne sa più dei professori, e deve far finta di niente, mentre torce i pugni intorno al manico. Immaginatevi San Martin de Porres, guaritore, in un convento domenicano, durante una pestilenza, con tutti questi frati senza la minima cognizione:
“Ehm, fratello, per lenire il dolore di questo moribondo si potrebbe fargli inalare il fumo di una certa erba medicamentosa che...”
“Zitto tu, bidello negro”.
“Sì, scusa fratello, non intendevo disturbare fratello, c'è qualcosa che posso far...”
“Va' in cucina, chiedi se hanno altre sanguisughe”. (Continua...)


Alla fine i miracoli, la bontà d'animo e magari la tendenza a levitare durante le preghiere finirono per abbattere i pregiudizi razziali: Martin fu ammesso tra i frati nel 1611, dividendosi da quel momento in poi tra l'infermeria e le mense dei poveri. Durante un'epidemia si narra che abbia curato da solo sessanta confratelli: a leggere bene, si capisce che i confratelli erano in quarantena e che nessuno aveva il permesso di toccarli, ma Martin era di quel genere di santi che quando abbraccia i lebbrosi si premura di toccare ben bene le piaghe (a uno si racconta che offrì il suo letto). Altre fonti riportano contrasti con i suoi superiori che pur senza microscopi e manuali di epidemiologia avevano ormai capito (in anticipo su Don Ferrante) quanto toccare i malati fosse controproducente. Di fronte a loro Martin difende il principio della carità cristiana; tanto più che di quel convento era stato inserviente per tanti anni, per cui è plausibile che le serrature non avessero più segreti per lui, come per il dottor Foreman. Insomma, questi sessanta sostengono di essere stati tutti curati da Martin, che si materializzava nelle loro celle senza passare dalla porta. Tutti e sessanta? Ah, ma un altro attributo di San Martin è l'ubiquità – senza spostarsi da Lima fu avvistato in Cina, Algeria, Giappone, Messico...E qui l'avvocato del diavolo che c'è in me sussurra: non è che per i viaggiatori del tempo i neri si assomigliavano un po' tutti, per cui appena ne vedevano uno educato e sorridente lo prendevano per Martin de Porres? Ma persino alcuni schiavi africani dicevano di averlo già incontrato prima di arrivare a Lima.

Adorato da indios, schiavi e viceré, Martin morì a cinquantanove anni. Prima di seppellirlo, tutti gli abitanti di Lima vollero salutarlo, e siccome la santità era ormai data per scontata, molti cercarono per l'occasione di procurarsi una reliquia, strappando via un lembo di quel lurido saio che da anni Martin aveva rifiutato di cambiarsi. Prima della sepoltura il vestito sarebbe miracolosamente ricresciuto tre volte; in questo modo magari si tentava di spiegare l'improbabile quantità di reliquie circolanti a Lima dopo la morte del Santo.

Un'altra immagine ricorrente è San Martin che nutre dallo stesso piatto un cane, un gatto, un canarino e un topo. Martin è l'unione mistica tra padrone e schiavo, predatore e preda. Lui comunque era vegetariano.
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Dillo ancora che lo ami

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E ieri dunque si celebrava Monica Vitti, giustamente, e un tg (non mi ricordo neanche quale) ne ha approfittato per montare un'antologia delle sue pizze più celebri. Perché è vero, la Vitti ha lavorato con Bunuel e con Antonioni, è stata la musa dell'incomunicabilità, bla bla bla, ma noi la conosciamo soprattutto per le pizze che si prendeva in faccia nella commedia all'italiana. Con quel rumore classico di pizza in faccia che se ci pensi è impressionante – il cinema è tanto cambiato negli ultimi cinquant'anni, la resa del sonoro ha fatto passi da gigante – eppure continuiamo a sentire pugni e schiaffi con gli stessi rumori assurdi di quarant'anni fa, e non facciamo una piega. Voglio pensare che sia un buon segno: che il rumore vero dei pugni e degli schiaffi non lo riconosceremmo. Ma è innegabile che di pugni e ceffoni la Vitti ne abbia presi tanti, francamente troppi. Può darsi che a suo modo fosse un tormentone pre-televisivo: per dire, così come un artista finissimo come Totò per contratto doveva anche piazzare quattro o cinque smorfie per far ridere i bimbi piccoli; così come Sordi probabilmente avrebbe potuto essere molto meno macchietta di come gli chiedevano di essere da un certo punto in poi; può darsi che un certo pubblico da un film con la Vitti si aspettasse soprattutto una scena in cui strilla e si fa menare, una specie di madrina nobile di Bud Spencer e Terence Hill. E i rumori infatti erano gli stessi. Però Bud Spencer ci faceva ridere da bambini; la Vitti presa a botte da Sordi, o da Mastroianni, o da Giannini, era uno spettacolo per gli adulti.

Ripensandoci, non un gran spettacolo. Vale la pena di ricordarselo, ogni dieci o venti volte che i film italiani bruttini di oggi ci fanno rimpiangere la Commedia all'Italiana dei bei tempi che furono: non furono dei tempi così belli, dopotutto. In particolare per le donne, quasi sempre subalterne, in ruoli ritagliati a tavolino da sceneggiatori anche sensibili, anche geniali, anche anticonformisti, ma quasi sempre maschi, e anche abbastanza maschilisti. E fieri d'esserlo. A rivederla, quella scena di Amore mio aiutami, sorprende per il meccanismo di complicità che scatena: la Vitti procede a rendersi insopportabile finché lo spettatore maschio non riesce a piegare telepaticamente la volontà di Alberto Sordi, a serrargli i pugni. Era un film che prendeva in giro le coppie aperte, nel 1969: La donna ha appena messo il naso fuori dal sacro matrimonio e già gli autori della commedia all'italiana si affrettano a romperglielo – con tanta ironia, ovviamente. Poi c'è questa storia che Fiorella Mannoia facesse la stunt per la Vitti, e che durante la scena riportò ecchimosi sufficienti a convincerla a cambiare mestiere. Però è una cosa che ho letto solo su internet, non ho tanta voglia di crederci.
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Il più grande B. dopo il Big B.

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Io ovviamente non ho un cervello paragonabile a quello del brillante trust di Renzi, e inoltre sono distratto da tutti questi scricchiolii. Però qualche pensierino non banale al proposito del suo programma in 100 punti spero di riuscire a farlo. Intanto un complimento al coraggio, raramente in Italia qualcuno si è presentato col programma in mano, nero su bianco.

Cominciamo da quello che non c'è: mi sembra che lo sintetizzi abbastanza efficacemente. Malvino. Non c'è una sola parolina sulla Chiesa, quella cosa che potrebbe pagare un sacco d'ICI e da un po' di tempo non lo fa. Non una parola pro o contro l'eutanasia, pro o contro il reato di clandestinità. Non si capisce se è favorevole a regolarizzare le unioni gay, ma si capisce abbastanza bene che non è tra le sue cento priorità. Ma soprattutto non si parla di conflitto d'interessi, è come non ci sia mai stato. È come se Berlusconi fosse già stato infarinato, fritto, digerito. Renzi sembra non sapere (qualche suo collaboratore potrebbe ragguagliarlo) che per quanto la persona-Berlusconi possa essere al termine della sua parabola, dietro c'è un partito-azienda che non si arrenderà senza combattere. Anche laddove fosse sconfitto, Berlusconi o un suo eventuale successore potrebbe continuare dall'opposizione ad avvelenare i pozzi del dibattito politico, come già gli è riuscito benissimo tra il '96 e il 2000 e nel biennio 06-08: soprattutto se nel frattempo gli si lascia il controllo di Mediaset. Ora, è comprensibile che Renzi&co. vogliano marcare le distanze tra la loro nuova sinistra e l'antiberlusconismo: però se su 100 punti ti dimentichi proprio di questo, e il tuo programma te l'ha scritto Giorgio Gori, e qualche mese fa sei andato ad Arcore senza avvisare nessuno, insomma, a un certo punto unire i puntini diventa imbarazzante e forse è meglio che cominci a marcare le distanze tra te e Alfano.

1 – Basta con il bicameralismo dei doppioni inutili.
È una riforma costituzionale: serve una maggioranza qualificata, servirà una bicamerale, un referendum confermativo, si andrà al duemilaeventi... non che il principio non sia condivisibile. Però è poco più che uno slogan, anche perché sembra che Renzi&co. vogliano una camera sola, e invece due righe più giù già stanno introducendo un senatino delle regioni “Al posto dell’attuale doppione serve un organo di raccordo tra lo Stato e i governi regionali e locali che possa anche proporre emendamenti a qualsiasi proposta di legge”, sembra di capire che i membri li nominerebbero i consiglieri regionali – quelli provinciali no, perché vogliono abolirli...

2 – Abolizione del Porcellum
Ma figurati, tutti vogliamo abolire il Porcellum. È più interessante con cosa lo vogliano sostituire: collegi uninominali. Non lo scrivono, ma sarebbero secchi, secchissimi, niente più quota proporzionale alla Camera o al Senato, visto che di Camera ce ne sarebbe una sola. E sarebbero collegi enormi: cinquecento in tutt'Italia. A questo punto diventa fondamentale la possibilità di disporre di ingenti fondi per la campagna elettorale. Di questo argomento Renzi &co. parlano estesamente più in basso, ma posso anticiparvi che in sostanza i casi sono due: o sei Berlusconi o sei Montezemolo (o sei loro amico).

5. Abolizione delle province. Più di 100 province non ce le possiamo permettere. Vanno abolite. Nei territori con almeno 500.000 abitanti si può eventualmente lasciare alle Regioni la facoltà di istituire enti di secondo grado per la gestione di funzioni da loro delegate.

(Update, probabilmente avevo capito male, grazie a Delio) Le uniche regioni inferiori ai 500.000 abitanti sono Val d'Aosta e Molise. Se ne deduce che la provincia di Isernia è fottuta, e io non è che starò a piangere per lei. Le altre province, già abolite virtualmente nella letterina di Silvio a Bruxelles, rientrerebbero dalla finestra nel momento in cui si lascia “alle Regioni la facoltà di istituire”: allora sapete cosa faranno le Regioni? Le re-istituiranno. Non solo per la possibilità di distribuire poltrone a soci e clientele, ma anche perché, dopotutto, sono utili. Certo, Renzi e compagni non lo possono sapere, stanno a Firenze che è una capitale dal Quattrocento. Nel frattempo, a pochi chilometri dalla Leopolda, c'è una provincia toscana devastata dalla piena di un fiume, e due sindaci di due comuni che litigano su chi doveva inoltrare un fax a chi. Come se Aulla dipendesse da Pontremoli. Per quel poco che ne so, Aulla non dipende da Pontremoli: entrambe dovrebbero essere coordinate dall'ente della provincia di Massa e Carrara, che dovrebbe disporre del budget necessario per sovrintendere efficacemente alla gestione delle vie fluviali, vigilare contro la cementificazione e il disboscamento, e verificare la tenuta della rete stradale provinciale. Senza aspettare che lo decida il Granduca a Firenze – ma questa è una battaglia persa ormai, lo so. Berlusconi le vuole abolire, così da qui in poi il fax partirà da Firenze - sempre che il Granduca abbia voglia di spendere soldi per gestire territori remoti e che dal punto di vista elettorale contano poco come la Lunigiana. Renzi si contenta di abolire quelle piccole, che secondo lui sono "piccole" perché ci abitano pochi abitanti. E sì che la Toscana mi sembra il classico esempio di regione ricca di territori da preservare, a prescindere se ci vivano ancora molti o pochi toscani.Però a quest'ora vi siete già addormentati. Invece, sai cos'è che ti dà la sveglia, un bello slogan! Aboliamo le regioni! Non servono a niente! Tanto le montagne franano uguale!

6. L’unione fa la forza: mettiamo insieme i piccoli comuni.
Un'altra cosa che i granduchi tendenzialmente non capiscono è che l'Italia non è un insieme omogeneo, non è un frattale. Se in una zona ci sono piccoli comuni, non è per un capriccio di chi disegnò i confini comunali – ok, quasi mai. Di solito c'è un motivo, di solito sono zone di montagna. Vuoi unire dieci comuni su quattro montagne diverse? Sai cosa avrai ottenuto? Una provincia. Proprio quella che avevi abolito al punto 5. Sarà una provincia un po' più piccola, ma di sicuro non sarà un comune. "L'unione fa la forza" - però le province le hai sciolte. Scommetto che scioglierai anche le comunità montane. Resta da unire i sindaci, ma è un'unione che non fa la forza, fa solo il deserto. Un comune è un pezzettino di territorio che un sindaco può ispezionare in un giorno. Se il comune è piccolo, avrà un piccolo budget. Ma probabilmente sono meglio quattro sindaci part-time su quattro montagne che un sindaco a tempo pieno su e giù su quattro montagne diverse. È meglio un vigile per montagna che quattro vigili in una sede centrale, incapaci di intervenire prontamente su altre tre montagne. Quando voi dite “piccoli comuni”, pensate solamente in termini di popolazione. Ma l'Italia è anche un territorio. Questa cosa nell'Ottocento la sapevano (e disegnavano i confini di conseguenza), voi ve la siete scordata.

7. I partiti organizzino la democrazia, non siano enti pubblici. Il finanziamento pubblico va abolito o drasticamente ridotto e in ogni caso commisurato al solo rimborso delle effettive spese elettorali, condizionandolo al fatto che i partiti abbiano statuti democratici, riconoscano effettivi diritti di partecipazione ai propri iscritti e selezionino i candidati alle cariche istituzionali più importanti con le primarie. Favorire il finanziamento privato sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità.


Ecco una lieve concessione a una delle stravaganze veltroniane (istituire le primarie per legge in tutti i partiti). Le primarie peraltro sono costose, ma pazienza. Viva i partiti poveri. Però... e se un miliardario decidesse di fondare un partito, comprare un sacco di spazio televisivo e pubbliche affissioni, oltre a tre o quattro quotidiani intestati ad amici e parenti? Come si difendono i partiti poveri da un tizio così? Loro dovranno svenarsi a fare le primarie, mentre lui potrà farne a meno... Lo so, è un'evenienza talmente assurda che a Renzi e Gori non è nemmeno venuta in mente (a proposito, la Leopolda chi l'ha finanziata?)

8. Azzerare i contributi alla stampa di partito. Con internet, chiunque può produrre a costo zero il suo bollettino o il suo house organ. I contributi alla stampa di partito vanno aboliti.


Vabbe', cazzata. Tra l'altro il principio è perfino condivisibile, ma sono riusciti lo stesso a scrivere una cazzata. Se volete un'analisi più approfondita vi rimando a Mazzetta, comunque è una cazzata. Certo, se hai in mente il bollettino parrocchiale, sì, su internet puoi produrlo a costo zero (ma le vecchiette non lo leggeranno mai e continueranno a guardare il tg4). Ma sei vuoi addirittura vincere le elezioni, ti serve un prodotto professionale, altrimenti finisci come quelli che volevano fare il wiki pd e sono riusciti giusto ad appiccicare il thread dei commenti su facebook. Si vede che lo stagista più di così non riusciva – ma anche gli stagisti, prima o poi con Ichino sarete costretti a pagarli. Nel frattempo, se a un miliardario con un sacco di soldi ed emittenze venisse l'uzzo di candidarsi, lui sì che avrebbe di che pagarsi fior di... sì, vabbe', adesso mi metto a scrivere fantascienza.

13. Eliminiamo la classe politica corrotta. Lo strumento è una amnistia condizionata. Al rispetto di 5 punti: ammissione della colpa, indicazione di tutti i complici, restituzione del maltolto, impegno a non fare più politica. In caso di nuovo reato, la pena si somma a quella del reato oggetto dell’amnistia.

Chiedo scusa, per tutto questo tempo ho dubitato che fosse davvero un wiki. Ma prendi il punto 13, chi può averlo scritto? Giusto un bambino che passava di lì, vero? E quanti anni aveva, dodici, undici? I politici corrotti che ammettono la colpa, coinvolgono tutti i colleghi ugualmente corrotti, restituiscono il maltolto e poi promettono che mai più, mai più, giurin giuretta? No, sul serio: pensate di presentare una legge su questa cosa qui? Lo avete capito che c'è gente là fuori che è stata condannata a un paio d'anni e stappa lo champagne, perché non gli hanno requisito tot miliardi? Secondo voi un politico corrotto dovrebbe rinunciare ai conti in Isvizzera e alla vita politica in cambio di? In cambio di? Di un'”amnistia”? Cioè di non andare in galera? Ma se in una legislatura di cinque anni io riesco a metter via anche solo un milioncino d'euro, e il giudice non me li confisca, ma due anni in galera me li faccio tranquillamente (con la condizionale, poi), e la vostra amnistia la racconto la sera ai bambini prima di addormentarli: e allora il Granduca decise di amnistiare tutti i ladri, e quelli da quel giorno non rubarono più.
“Papà, ma è una cazzata”.
“Ssssst, è il più grande spettacolo dopo il big bang”.

14. Razionalizzare le missioni italiane all’estero. Definire una strategia di coordinamento della presenza militare all’estero in pieno accordo (e non in competizione) con l’Europa

A parte che con le spese che ci troviamo la cosa più razionale sarebbe salutare tutti e andarsene, credo che il senso del punto 14 sia: basta prendere ordini dalla Nato, d'ora in poi vogliamo prenderli dall'Europa. Che li prenderà, presumo, dalla Nato. Oppure l'Europa e la Nato litigheranno, e noi ci barcameneremo. Che è un po' quello che facciamo già. Ma non ci sarà più Frattini, quindi sembrerà comunque infinitamente meglio.

16. Cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico. Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai 1 e Rai 2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati.

Non sono carini? È vero che si sono scordati il conflitto d'interessi, però si sono ricordati che bisogna privatizzare la Rai. Il principale competitor della Mediaset. Va privatizzata. E si capisce, altrimenti sul digitale terrestre non c'è più posto – no, veramente ce n'è un sacco, però... però... vabbe', dai privatizziamo. E alla rai che ha una valenza “pubblica” diamo solo i due spicci del canone. Così se al Tre gli scappa di fare un programma interessante per gli inserzionisti, dopo non gli scappa più.

17. Fuori i partiti dalla Rai.

Disse Renzi, prima di andare a Che tempo che fa. Ieri sera invece era a Matrix. Comunque ha ragione, eh, cosa se ne fanno i partiti di un canale? C'è internet che a costo zero ti permette di fare informazione, tu carichi su youtube i video di Renzi e lui vince le elezioni, senza bisogno di passare per l'untuoso Fazio. Anche Berlusconi farà così: caricherà su youtube i suoi video. E poi li riprenderà su quindici emittenze del digitale terrestre, vabbe', ma che c'entra, quei canali sono sono roba sua, guadagnata col sudore della sua fronte, eccetera.

(Non so se continuo)
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Triste terra senza morti che camminano

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E così stasera è Halloween, la festa che in Italia non si potrebbe festeggiare perché noi avremmo delle radici, noi, per esempio noi il due di novembre festeggiamo gli, ehm, morti, e in certe regioni intagliavamo le, ehm, zucche. Se ne parla sul Post, si commenta là, portate i dolcetti.


1 novembre - Tutti i Santi
Sì, in realtà Ognissanti è domani. Stasera invece sarà la notte di Halloween in cui i bambini tormentano i citofoni minacciando scherzetti ed estorcendo dolcetti, secondo l'usanza americana, mentre i preti e i severi opinionisti borbottano che non si può, secondo l'usanza italiana. Perlomeno questa è la tradizione: lamentarsi della non italianità di Halloween. Durerà?

L'impressione è che i severi opinionisti stiano cedendo, man mano che arrivano figli e nipotini. Com'è noto, nessuna convinzione politica o culturale regge l'impatto di un marmocchio che frigna: così, dopo aver visto leader noglobal rincasare sul presto da un picchetto antimultinazionali per accompagnare la figlia a un compleanno da McDonald's, credo che la resistenza di molti anti-halloweenisti italiani sia destinata a dissolversi al primo urlo di un frugoletto che vuole la zucca illuminata e la vuole subito. Per lo stesso motivo immagino che invece i preti resisteranno per qualche altro secolo. Però prima o poi bisognerà spiegarglielo, che un prete che si lamenta di Halloween-festa-pagana è un prete che non sa fare il suo mestiere.

Ovvero: ammettiamo pure che Halloween sia una festa pagana, anche se "All Hallows' Even" vuol proprio dire "Vespro d'Ogni Santo", e l'usanza d'intagliare rape o zucche è attestata in Toscana e fin in Sardegna. Ma fa lo stesso. Fingiamo che Halloween sia un rito pagano proveniente da un universo culturale radicalmente alieno, e tuttavia ai bambini piace. Piace anche a qualche grande. Cosa fa a questo punto il prete che sa fare il prete? Scrive ad Avvenire o al Foglio che è una vergogna? Cosa fecero i preti quando l'imperatore Aureliano intimò di festeggiare la terza notte dopo il solstizio d'inverno (25 dicembre) come vittoria del Dio Sole sulla notte? Non c'era ancora Avvenire su cui sfogarsi e forse fu una fortuna, perché decisero di celebrare anche loro la nascita di Gesù (che comunque è il Giorno che vince la Notte, più o meno, dai, metaforicamente) e la cosa funzionò. E quando Sant'Odilone di Cluny nel decimo secolo si rese conto che nello spazio enorme tra un monastero e l'altro i villici francesi pur battezzati ai primi di novembre amavano ancora festeggiare il capodanno celtico, l'alba delle Pleiadi, il trionfo della Notte e dei morti che tornano sulla terra, cosa fece? Scrisse un tonante editoriale su qualche pergamena che avanzava? No: provò a spostare la festa cristiana d'Ognissanti in quella zona del calendario, e da lì in poi tutti contenti. I preti bravi fanno così. Se la montagna non va da Maometto... ops. Insomma, ci siamo capiti. Dovete immaginarvi più o meno situazioni del genere:

Non è che la tribù avesse ancora tutta questa paura dei morti, e tuttavia alcuni di loro ancora tornavano a tormentare i sonni dei parenti, dei bambini soprattutto, specie quando le notti s'allungavano. Per ovviare al problema s’inventò la sepoltura; restava il problema dei morti dispersi. Si pensò allora di celebrare un rito anche per loro, una volta all’anno. Finché dalla città arrivò un predicatore, sembrava un tipo in gamba, spiegò che Gesù era risorto anche per loro, che il Paradiso era un gran posto, e battezzò tutta la tribù in mezza giornata. Prima che andasse via gli chiesero: ma possiamo ancora festeggiare la prima notte di novembre?
“E cosa sarebbe?”

“È il giorno in cui lasciamo i dolci per i morti”.
“I dolci per i morti. Dunque… nel Vangelo non se ne parla. Ma cosa se ne farebbero, i morti, insomma?”
“Sono morti dissepolti, che altrimenti vanno negli incubi dei bambini”.
“Aaah, è per i bambini”.
“In pratica sì”.
“Ma se lasciate i dolci sui davanzali, le bestie selvatiche…”
“Dopo un po’ in effetti li togliamo e li diamo ai bambini. Dici che è una cosa troppo pagana?”
“Via, non si dica che Gesù è venuto a togliere i dolci ai bambini. Fate pure. E intanto dite delle preghiere”.
“Preghiere?”
“Dei discorsi, delle richieste a Dio... Santo cielo che campagnoli [pagani, da pagus, contado]. Chiedete a Gesù che porti i morti in paradiso. Teologicamente non fa una grinza, e rispetta anche le tradizioni del territorio. Col vescovo poi me la vedo io. C’è altro?”
“No, direi di... Aspetta. C'è questa cosa dell’equinozio di primavera”.
“Perché, cosa fate nell’equinozio di primavera?”
“Ma una cosa da nulla, noi rubiamo un bambino alla tribù vicina, che ne ha tanti e, ehm, lo sgozziamo”.
“D’ora in poi sgozzerete un agnellino”.
“Ma gli agnellini sono carini!”
“Stop. Su questo Gesù Cristo non transige. Stop ai sacrifici umani”.
“Uffa”.

Io poi, lo confesso, non ho bisogno di nessun marmocchio tra i piedi per apprezzare Halloween. Sarà anche un’americanata, ma se funziona (e funziona), forse risponde ad esigenze a cui la cattolica liturgia dei Morti non risponde più.
Per esempio, l’elemento paura. Non venite a dirmi che è un sostrato celtico: i morti fanno paura a tutte le tribù del mondo. Morte e Paura vanno a braccetto: ma Halloween celebra la paura, Ognissanti no.
Ora arriverà qualcuno a spiegarmi che noi latini siamo troppo solari per celebrare questo tipo di cose. La letteratura gotica non l’abbiamo inventata noi. Le storie di fantasmi non sono roba nostra.

Ma non è vero. Noi siamo il popolo del sangue e del terrore. Gli elisabettiani ambientavano le tragedie in Italia perché il pubblico si metteva paura solo a sentire i nomi delle città… Noi facevamo splatter nel Trecento, con Dante Alighieri e i suoi effettacci che gli americani ancora c’invidiano! E anche Boccaccio quando voleva sapeva mettere insieme storie di fantasmi mica male. E certe pagine di Ariosto, del Tasso… ma restiamo nel folklore. Prendiamo le Fiabe Italiane e andiamo a vedere quanti boschi oscuri e quanti diavoli incontriamo. No, quello che fa rabbia di Halloween, è che fino a due secoli fa avevamo tutto il materiale culturale per farcelo da soli, il nostro Halloween, anche più spaventoso di quello americano. E poi cos’è successo?

Sbaglio di troppo a dire che l’egemonia anglosassone nella letteratura fantastica nasce proprio dalla consuetudine di raccontarsi storie di fantasmi ad Halloween? Pensate a Henry James, a Dickens. Col suo Cantico, Dickens si è preso persino il Natale, l’ha trasformato in un’anglosassonissima leggenda di fantasmi. Con i Fantasmi dei Natali Passati e Futuri, Dickens ha persino inventato la nozione moderna di viaggio nel tempo. La moderna letteratura fantastica e fantascientifica deve moltissimo alle storie di fantasmi. Gli inglesi e gli americani sono abituati a raccontarsele da bambini, noi no.

Alla fine, sarà un caso? Loro hanno un immaginario vivace, pieno di instrusioni fantastiche e what if, e noi andiamo avanti con il nostro realismo borghese minimalista. Non c'è ancora nessuno che abbia pensato di fare i Promessi Sposi Zombie, che è un'idea persin banale, con un po' di sforzo poteva venire anche a don Alessandro, in fin dei conti l'epidemia e gli incubi ci sono già, se mi date un congruo anticipo ve li scrivo io i Promessi Sposi Zombie (devo solo chiedere l'aspettativa). (Update: mi segnalano nei commenti che qualcuno ha finalmente scritto i Promessi Sposi Zombie).

Non ditemi che ci manca l'inclinazione, perché noi siamo quelli che abbiamo lanciato Dario Argento e Dylan Dog. Se penso a un film letteralmente terrificante, penso alla Casa delle Finestre che Ridono di Avati, che non solo è orrore puro, ma folklore italiano al 100%: il pittore matto, il prete ambiguo… Il nostro problema è che tutto questo rimane confinato nel “genere”. La più grande fregatura degli ultimi vent’anni. Dieci anni fa era un ghetto, oggi ha messo i cancelli d’oro, ma sempre ghetto è. Nel mondo anglosassone la storia di fantasmi non è per forza “genere”: può essere benissimo grande letteratura. Amleto è un groviglio di psicanalisi e antropologia, ma allo stesso tempo è anche una grande storia di fantasmi. I fantasmi sono una cosa seria. Il racconto dell’orrore, quando lo scrive Kafka in una notte insonne, mette a fuoco l’umanità meglio di cento o mille romanzetti minimal-realisti. Se nei nostri film non atterrano mai gli alieni, se non si risvegliano gli zombie, se non si riesce mai a fare un discorso che vada un po’ più in là del nostro naso, è proprio perché a un certo punto abbiamo voluto tenere i fantasmi fuori dal nostro Ognissanti. Abbiamo fatto male. Non so se ce lo meritiamo, Halloween, ma un po' ci serve. Prendete un bambino sulle ginocchia, questa sera. Raccontategli qualche storia spaventosa. Ve ne sarà grato per la vita.
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Ma i dinosauri, poi, chi è stato?

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Non pensare all'asinello

A questo punto cara Repubblica, caro Ezio Mauro, io da lettore ed elettore del PD credo di meritare qualcosa di più. Perché noi abbiamo in Italia un partito, direi il solo, in cui esiste oggi una dialettica, un confronto tra diverse “non-si-possono-chiamare-correnti”. Guarda caso è l'unico partito che ogni tanto cambia leader: gli altri senza il loro capo naturale sono quasi inimmaginabili (SEL senza Vendola? UDC senza Casini?), quasi tutti sono semplicemente comitati elettorali intorno a un personaggio televisivo di riferimento. Il PD invece è un partito. Possiede una dialettica interna, appassionata, a tratti violenta. Evviva. E voi scegliete di raccontarla, in prima pagina, come fosse un episodio della Pimpa. Bersani a Renzi: basta calci / lui replica: non sono un asino. È una notizia? Che Renzi non sia un asino, dico. Capirei Libero o il Giornale. Ma il lettore di Repubblica non si merita di più? Un sunto delle idee di Renzi, le divergenze col gruppo dirigente che contesta, qualcosa di sinistra, qualcosa anche di destra, qualcosa? Ed è colpa di Bersani e di Renzi che per sentirsi più vicini al territorio continuano a colorare i loro discorsi con scipite metafore contadine, asini e bastoni, sembra che stiano già pensando allo sketch di Crozza; o è colpa di chi nei titoli (ma anche negli articoli) riprende i colori e non si preoccupa dei contorni? Vale veramente la pena di comprare un quotidiano per trovare un riassunto scadente di quello a cui posso assistere gratis on line? Ieri la Leopolda prendeva due pagine in cui, a parte il dibattito asino vs bastone, la retorica su rottamatori e dinosauri che, tra parentesi, nessuno sa ancora bene perché si siano estinti, non c'era una sola riga che aiutasse a capire che tipo di Italia e che tipo di PD vorrebbero Renzi & co: che ne pensano dei licenziamenti facili? Della pensione a 67?

Forse è un'esigenza mia: io, di fronte a Renzi, vorrei concentrarmi sui contenuti. La cosa mi risulta faticosa perché tutt'intorno a Renzi continua a vorticare una coreografia che magari è irrilevante, eppure sembra studiata apposta per dar fastidio a me: cioè è proprio come se dietro la Leopolda ci fosse un team di strateghi della comunicazione che, per nessun motivo al mondo, si fossero detti: mettiamoci dentro tutto quello che può risultare molesto a Leonardo, avete presente? Quel blog che fa sì e no mille accessi. Per cui: Jovanotti. L'autocoscienza di Baricco, uno che si presenta ciao non voglio fare il presidente. E meno male, sennò al Teatro Valle Occupato dovresti mandarci i carri armati. Il frigorifero Smeg che fa pendant col Mac.(Donde il dubbio: ma la Smeg ha capito tutto perché fa i frigoriferi a forma di Mac o è Steve Jobs che...) Potrei andare avanti a lungo, però non vorrei farne una questione estetica. Anche Veltroni aveva intorno a sé un'estetica che mi urticava, ma non era quello il suo problema. Il problema non era il suo ridurre il Novecento a figurine: in fondo era una cosa anche simpatica, funzionale a un certo tipo di divulgazione eccetera. Il problema è che sotto la figurina non c'era niente: che quando Veltroni si ritrovò a dirigere il PD, per sei mesi non fece niente. Io vorrei capire cosa farebbe Renzi e non m'interessa se Jovanotti gli piace o no.

E così, a occhio, mi pare che Renzi sia quel tipo di personaggio in grado di fare quello che tutto il mondo chiede al PD (meno forse gli elettori del PD), ovvero sfrattare Berlusconi da Palazzo Chigi. Il che è un valore in sé, per i mercati, la credibilità delle istituzioni eccetera. Dopodiché non è che resterebbe molto da fare, visto che la Repubblica continuerebbe a essere commissariata da Bruxelles e Francoforte. Così, con la sua umoralità che divide più che conquistare, Renzi sembra fatto apposta per battere Berlusconi di striscio alle elezioni e farsi odiare dai suoi stessi elettori a partire dalla settimana successiva. A quel punto improvvisamente tanti aspetti che abbiamo digerito fingendo di trovarli simpatici improvvisamente li riconosceremmo indigesti, e a quel punto vedrete che glielo faremmo pagare il frigorifero Smeg, e la biblioteca proiettata, e Jovanotti, e la toscanità piaciona e pacciana, tutte cose che appena sanguinerà un po' attireranno i blogger come squali. Questo, a occhio, il destino di Renzi. Non è che sia colpa sua: i margini probabilmente sono questi, a questo punto dalle sorti del PD dipende semplicemente se coleremo a picco con Berlusconi o un po' più tardi senza di lui. Io ovviamente preferisco senza, ma è un po' come il diritto di scegliere che tipo di orchestrina vuoi a bordo del tuo titanic.
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Ehi! Qualcuno è cretino sull'internet!

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Io posso morire per tante cause, ma per Nonciclopedia, mmm, ecco, facciamo che muoio di morte lenta, lentissima. Detto questo:


Vabbe', Fiorello, e una volta che l'hai visto in faccia? Lo fai menare? Perché è un infame? Vuoi eliminare l'infamità dalla terra una faccia alla volta? Ma lo capisci che internet non è che un bar come gli altri, dove si dicono cretinate come in tutti gli altri? Se sei entrato in un bar lo sai, no?

Ma aspetta. Tu sei Fiorello. Forse non sei entrato in tutti questi bar, dopotutto. Cioè, se entri in un bar tutti si voltano e ti dicono: "Fiorello!" e l'esperienza va a farsi indeterminare. Ma la sensazione di entrare in un bar e ascoltare sconosciuti che dicono fesserie, forse davvero non te la potevi permettere... finché non hai scoperto anche tu Twitter. E adesso forse ho capito perché ti piace così tanto cinguettare (continua sull'unita.it, H1t#97, e si commenta laggiù).

Internet è quel posto, ormai dovremmo averlo capito, né bello né bruttissimo, dove si possono incontrare notizie e persone straordinarie, e dove appena muore un personaggio famoso, da qualche parte scatta la gara a chi ci scherza sopra per primo. È legittimo? È indecente? È discutibile. In effetti non facciamo che discuterne, da quando siamo qui. Dieci anni fa ce lo domandavamo sui forum. Poi siamo passati ai blog. Oggi siamo più spesso sui social network. Ma forse abbiamo cambiato più piattaforme che argomenti.

Magari la vera novità è il fatto che oggi ne discutano personaggi come Fiorello o Vasco Rossi. Ed è probabilmente una buona cosa, la dimostrazione che internet sta prendendo sempre più piede anche qui in Italia – non necessariamente tra i cosiddetti 'giovani'. Vasco e Fiorello sono della generazione che era giovane ormai trent'anni fa: hanno in comune una enorme popolarità, rinsaldata dopo aver sconfitto una tossicodipendenza. A decenni di distanza sembrano avere sviluppato una dipendenza molto, molto meno nociva, per il web: Vasco ha aperto un incontenibile canale su Youtube, Fiorello si è generosamente riversato su Twitter. Le motivazioni che portano due personaggi del genere su internet sono molto diverse da quelle di quasi tutti noi, che ci tagghiamo e linkiamo e apprezziamo a vicenda nel tentativo disperato di farci notare per primi a noi stessi; che spesso cerchiamo di usare internet per quello che non è, uno sgabello su cui salire per farci sentire da più persone possibile.

Fiorello e Vasco non hanno certo bisogno di nessun piedistallo: sono saliti spesso su quello più alto (la tv) e hanno capito prima di altri che è meglio non restarci troppo tempo. Quello che oggi trovano su internet è la possibilità di farsi vedere da meno persone: non gli anonimi milioni di telespettatori, o le solite trentamila teste di San Siro, ma qualche centinaia di commentatori su Youtube, di seguaci su Twitter. Anche Fiorello, anche Vasco, devono aver capito che in fin dei conti i social network non sono altro che dei bar. Ma per due personaggi pubblici del genere, l'esperienza del bar dev'essere davvero qualcosa di inedito e prezioso.

E questo spiega forse anche le difficoltà di Vasco con Nonciclopedia, o la reazione scomposta di Fiorello per qualche battuta su Simoncelli. È sorprendente che esistano siti in cui si approfitta di un lutto per giocare a chi inventa la barzelletta più sconveniente? Formulerò la domanda in maniera più sintetica: è sorprendente che esistano degli imbecilli su internet? La risposta mi pare scontata: ne esistono ovunque – basta dare un'occhiata ai bar – quindi no, non dovrebbe sorprendere che alcuni si esprimano sul web, dove lo spazio non manca. Però, appunto, per rendersene conto bisognerebbe frequentare i bar, e forse Twitter è il primo vero bar che Fiorello frequenta da anni.

Quanto a Vasco, la cosa veramente triste è che un vecchio leone come lui, che ha sconfitto ben altri demoni, non riesca a togliersi la scimmia di Nonciclopedia, un sito che non ha mai fatto ridere nessuno nemmeno per sbaglio, e che grazie a lui ha ottenuto una visibilità assolutamente, smisuratamente immeritata. Visto che di battutine su Vasco e la droga se ne raccontano da trent'anni, in tutti i bar e perfino in molti oratori: Vasco forse non se ne rendeva conto (possibile?), ora grazie a internet lo sa. È il prezzo da pagare per poter di nuovo entrare in un bar dove nessuno ti conosce: scoprire che in quel bar danno ancora del drughè a Vasco Rossi, e ridacchiano, proprio come nel 1986.

E le battute su Simoncelli? Sono senz'altro sconvenienti: offendono la famiglia e la comunità dei tifosi (nonché chiunque passi di lì e voglia offendersi per le battute su un morto). Proprio per questo motivo è meglio non prestarsi a diffonderle, come Vasco e Fiorello ingenuamente hanno fatto. Se, come dice il primo, “Internet è una jungla come la vita”, cercare di evitare almeno le bestie più stupide dipende da noi e soltanto da noi. Che magari al prossimo funerale lotteremo contro l'umanissimo, atavico, cretino istinto di ridacchiare. Quel pezzetto di jungla che è nei bar, è su internet, ed è anche dentro di noi. http://leonardo.blogspot.com
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La passione apocrifa di SJ

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[Questa è la versione integrale di una lunga chiacchierata cominciata sul Post con Riccardo Bagnato, l'autore di iJobs, la prima biografia italiana non autorizzata di Steve Jobs che sarebbe uscita in questi giorni anche se non fosse morto Steve Jobs, a differenza di quella autorizzata e americana, che sarebbe uscita tra sei mesi, se non fosse appunto morto Jobs].

In questo blog, oltre ai Santi standard, mi piacerebbe ogni tanto inserire quei personaggi che nel calendario ci entreranno tra qualche tempo; quelli che quando se ne vanno lasciano nell'aria un profumo di gloria, e tutti si mettono ad acclamare “Santo Subito”. Per esempio in questi giorni un po' avari di Santi interessanti mi sarebbe piaciuto scrivere un pezzo sulla Santificazione di Steve Jobs. Purtroppo ci aveva già pensato Wired. Io però ho un piccolo vantaggio, ovvero conosco il primo vero biografo italiano Non Autorizzato di Steve Jobs. Con cui ho chiacchierato un paio di settimane fa. Si chiama Riccardo Bagnato e probabilmente di lui avete già letto qualcosa. Per esempio, su Repubblica.it con cui collabora, o sul settimanale VITA di cui è redattore: i pezzi più interessanti sulle nuove tecnologie sono spesso suoi. Bagnato è anche co-autore con Benedetta Verrini di un fondamentale libro-inchiesta su una delle più importanti produzioni industriali italiane, di cui si parla sempre stranamente così poco: Armi d'Italia.

Invece il tuo ultimo libro (diamoci del tu... neanche fossimo vecchi compagni di scuola) si chiama, appunto, iJobs ed è uscito in questi giorni in cui tutti ovviamente parlano dell'altra biografia, quella di seicentotrenta pagine autorizzata da Jobs stesso, e che arriva nelle librerie anglosassoni un po' in anticipo rispetto alla prima data prevista, vero?

Sì, l'uscita del libro era stata fissata a marzo 2012. Poi il 24 agosto, quando Jobs si è dimesso da CEO, era stata anticipata al 21 novembre di quest'anno. Con la morte è stata di nuovo spostata prima al 28 ottobre mi pare, e poi al 24. Ma non è che dobbiamo per forza parlare dell'altra biografia... che dici? Inoltre, non l'ho ancora letta.

Invece avevo voglia di parlarne perché secondo me, a partire da questi giorni, la storia della vita di Jobs si sta cristallizzando nella forma che assumerà nei secoli a venire. Come la vita di alcuni Santi o di Gesù nel Vangelo, che nei primi secoli è un po' ambigua, evanescente, e poi a un certo punto viene fissata per sempre, in una successione di episodi canonici che sono poi quelli che conosciamo, quelli della cosiddetta vulgata. Ecco, secondo me questa Grande Biografia Autorizzata è destinata a diventare il Vangelo di Jobs, e tutti quelli che parleranno di Jobs da qui in poi si sentiranno costretti ad attenersi a questa fonte primaria. A questo punto quello che hai fatto tu diventa ancora più interessante, perché hai messo insieme un altro vangelo totalmente apocrifo, che darà un'idea di Jobs per forza di cose molto diversa dalla futura vulgata...

Beh, ovviamente sono molto curioso, anche se mi spaventano un po' le seicento pagine...

Spaventano anche me, ma bisogna dire che sono un po' le dimensioni standard dei best sellers anglosassoni, no? Sono sempre quei mattoni lì.

Sì, ma allo stesso tempo la trovo una cosa per certi aspetti poco jobsiana.
In effetti sarei curioso di sapere quanti Mac Air pesa, il mattone.
Ti racconto un aneddoto: sai che a un certo punto Steve Jobs esce da Apple e fonda un'altra azienda, NeXT, con l'obiettivo di costruire e offrire il computer migliore che ci sia al mondo per un target che era più o meno quello del mondo accademico. In realtà col progressivo fallimento del progetto – perché di questo si deve parlare – ad un certo punto Jobs decide di mollare quella che per lui è una grande passione, cioè la costruzione e il design dell'hardware, e di concentrarsi su quello che in realtà NeXT era riuscito a fare egregiamente e tutti gli invidiavano, cioè il sistema operativo. È il cosiddetto NeXTStep, che poi diventerà il sistema operativo sui cui si basa il MacOsX, quello che usiamo oggi. Ma in quegli anni NeXTStep faceva gola a molte aziende. Persino a IBM, il grande nemico contro cui Jobs si era scagliato nel 1984 con il famoso spot per il lancio di Macintosh. Ecco, a un certo punto IBM, l'azienda dorsale della industria informatica ed elettronica americana, chiede a Steve Jobs di poter utilizzare NeXTStep sui propri computer. Siamo a una svolta epocale: è vero che Windows sta diventando sempre più dominante, ma IBM è interessata a installare NeXTStep sui suoi portatili. Bene, a questo punto l'IBM spedisce a Jobs un contratto di diverse centinaia di pagine, com'era uso da parte di una grande multinazionale, e Jobs risponde buttando via quel contratto e chiedendo molto incazzato di mandargliene un altro, perché lui non si sarebbe letto nessun contratto che superasse le dieci pagine.

Stai dicendo che è per questo che non abbiamo il MacOS X sui PC? Perché Jobs odiava i mattoni di carta?

Riducendo ai minimi termini, con sessanta “se” davanti... Sta di fatto, che quello è stato senz'altro un passaggio cruciale. Ed è anche il motivo per cui trovo poco jobsiana l'operazione della biografia – che ovviamente avrà un successo strepitoso. Io però ho fatto tutt'altra operazione. Da un lato non potevo permettermi gli stessi strumenti e godere delle stesse relazioni. Dall'altro mi interessava sinceramente mettere in fila i fatti, costruire una narrazione semplice e godibile, in cui far parlare chi aveva vissuto, discusso o lavorato con Jobs. Non un'agiografia, né un pamphlet polemico, ma una biografia critica nell'accezione “filologica” del termine se me lo permetti.

Ecco, appunto. Tu hai scritto una biografia di Jobs dall'Italia. Anche se a Cupertino lo sanno. E la loro reazione è stata “Come osi”, una cosa del genere?

Sì, io sono in contatto con la Apple per motivi professionali. Sai, ogni volta che esce una notizia le aziende per prime, attraverso i manager o gli uffici stampa, sono disponibili a rilasciare dichiarazioni o comunicati. Con Apple ho ottimi rapporti: sono sempre stati cortesi e molto disponibili. Perciò mi è sembrato opportuno avvertirli, qualche mese fa, quando era già uscita la notizia che questa biografia non autorizzata sarebbe uscita in ottobre (almeno nel nostro caso la data di uscita non è cambiata dall'inizio). La prima reazione, un po' sgomenta è stata: “Ma tu come fai a scrivere una biografia dall'Italia di Steve Jobs? Io l'ho interpretata così: stiamo parlando di uno degli uomini più in gamba e geniali dell'universo... tu piccolo giornalista italiano come osi affrontare questa montagna?”

Ma lo sanno che internet ce l'abbiamo anche noi?

Lo sanno, lo sanno, ma è ovvio che c'è una certa ipersensibilità all'interno dell'azienda... Comunque uno dei motivi principali per cui ho intrapreso questa avventura (oltre al fatto che un editore mi ha chiesto se ero disponibile a farlo) è che mi sono reso conto che non era disponibile su carta stampata, in libreria, una vera e propria semplice ricostruzione biografica di quello che oggi è il “fenomeno Steve Jobs”, che in realtà è un essere umano che è nato, è vissuto, ha fatto determinate cose ed è morto. In Italia sono stati tradotti pochi libri, e la maggior parte sono dedicati al suo stile di management.... uno dei pochi testi per così dire “biografici” è stato tradotto per Arcana nel 2002 con un titolo osceno: “I su e giù di Steve Jobs”. In realtà è la traduzione di un bel libro di Alan Deutschman che si chiama “The Second Coming of Steve Jobs”.

Il Secondo Avvento! Che – ricordiamo – è quello di Gesù Cristo che tornerà alla fine dei tempi per resuscitare i vivi e... no, scusa, hai detto Arcana? Quella dei libri coi testi delle canzoni, con la copertina verde, che compravamo negli anni Ottanta per capire cosa stavamo cantando in corriera... insomma loro ci traducevano il rock.

Con una certa disinvoltura se ricordi...

Con una bellissima disinvoltura, praticamente hanno inventato Jim Morrison... in generale l'Arcana pubblicava mitologia intorno a quelli che tutto sommato erano i nostri idoli. Oggi però ho la sensazione che gli idoli non vengano più dalla musica, che per vari motivi non mi sembra più un orizzonte in grado di creare mitologia originale, e allora l'Arcana cosa fa? mette in giro una biografia di Steve Jobs. Ora vedremo se la biografia ufficiale spingerà ancora di più sul pedale dell'agiografia. Ma tu che hai presente la vita di Jobs per come si raccontava fino a ieri, prima che arrivasse la Vulgata, quali aneddoti ritieni che potrebbero più facilmente prestarsi a una mitologia delle gesta di Jobs?


In linea di principio Jobs incarna un'età dell'oro. Gli anni Settanta, la controcultura, l'immaginazione al potere... paradigmi che poi con ritardo di dieci o vent'anni arriveranno anche in Europa per infilarsi anche qui nel settore dell'economia (con risultati discutibili, però). E poi la new economy: le aziende che nascono nei garage e che si quotano in borsa come già all'inizio degli anni '80 aveva fatto la Apple, con la IPO più grande dai tempi in cui si era quotata in borsa la Ford. Jobs è stato uno degli ultimi e principali testimoni di quell'epoca. Ci sono degli aneddoti che fanno della sua avventura sulla terra un alternarsi di cadute all'inferno e rinascite – se non vere e proprie resurrezioni. Come per esempio l'esilio forzato dell'85, da cui però poté risollevarsi – vale sempre la pena ricordarlo - grazie ai grossi capitali che aveva guadagnato con Apple. Se è stato uno straordinario e visionario imprenditore è anche perché ha potuto reinvestire una quantità di denaro guadagnata con Apple difficilmente immaginabile. NeXT gli costò decine di milioni di dollari: lui quasi azzera il proprio capitale ma nel frattempo crea un'azienda e ne compra un'altra (la Pixar!) Nel libro che citavo prima, Deutschman descrive Jobs con un sostantivo che secondo me è tra i più azzeccati: superstite. Jobs può essere un idealista, un fanatico per molti versi, ma sa anche essere assolutamente pragmatico, e questo gli consente di sopravvivere in situazioni anomale, fuori dalla norma. Nasce da una coppia di giovanissimi: studente americana lei, ricercatore di origine siriana lui, che nel 1955 in California affidano in adozione questo figlio a una coppia. Il patrigno non ha neanche il diploma delle superiori e la moglie è sostanzialmente una casalinga: questa è la coppia che adotta Steve Jobs.

Qui più che a una leggenda di santi mi viene da pensare a uno di quei romanzi “Rags to riches” che nell'Ottocento imperversavano negli USA: storie di trovatelli che cominciano raccogliendo le cartacce e poi diventano magnati...

Sì, forse per capire come si parla di Jobs negli USA dovremmo partire da quel tipo di mitologia. Non è un caso che uno dei più grandi amici di Steve Jobs sia Larry Ellison, uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, il numero uno di un'azienda ancora più grande di Apple, per certi aspetti, Oracle (che produce, per semplificare, database). Ellison è un altro trovatello che si fa dal nulla, e tra i due scoppia una vera e propria amicizia che con alterne vicende è durata per tutta la vita.

Due trovatelli in cima ad Apple e Oracle. Poteva succedere fuori dalla California?

Questa è una cosa che viene spesso trascurata. Almeno nel libro ho cercato di sottolineare che in quegli anni '70 la California, e in particolare quell'area geografica tra San Francisco e Los Angeles o più specificatamente la Silicon Valley, è un'area con delle caratteristiche peculiari che in un qualche modo predestinano l'esistenza di personaggi come Jobs. È un'area in cui, per volontà di un'università – Stanford – e di un complesso militare che pure è presente, si concentrano aziende di elettronica e di informatica. Le stesse scuole superiori offrono corsi di elettronica, e siamo alla fine degli anni '70! Jobs e il suo futuro socio Wozniak frequentano corsi di elettronica a scuola a cavallo tra '60 e '70: Wozniak vince premi per la costruzione fai da te di primi marchingegni elettronici. Se Jobs fosse nato in qualsiasi altro posto del mondo io sinceramente non so dirti se sarebbe diventato Mr Apple. So sicuramente dirti che quella è una zona su cui le occasioni e le possibilità sono tante. C'è una frase di Jobs che ho messo all'inizio del libro perché mi è parsa molto significativa: “Non esiste una “punizione” per aver fallito in questa Valle. Né economicamente, né psicologicamente. Nel senso che se hai un’idea e inizi la tua attività, anche se fallisci, sei considerato generalmente meglio di prima, per il semplice fatto che nel frattempo hai acquisito una serie di nozioni importanti in diverse discipline”.

Questo era lo spirito di quel periodo. Al quale bisogna associare un'infinità di influenze alternative che vanno verso il buddismo il vegetarismo, l'elettronica, la libertà sessuale, i concerti, le droghe... Prendi ad esempio la rivista di cui parla Jobs durante il famoso discorso all'Università di Stanford: The Whole Earth Catalog. Bisogna averlo far le mani, sfogliarlo, vedere la grafica e i temi che tratta e tutto d'un tratto ti accorgi, quasi senti, quel clima. E capisci molto di più di quanto sia possibile spiegare. A questo aggiungi la storia personale del suo fondatore, Stewart Brand, oggi un settantenne che ha rinnegato quasi integralmente le promesse di cui parlava su quella rivista, ma a ben guardare senza mai tradirle. E vuoi sapere dove vive oggi?

Spara.

Dal 1982 su un rimorchiatore ormeggiato a nord di San Francisco. E oggi, oltre a passare le sue giornate sul “Mirene” al largo di Sausalito in compagnia della moglie Ryan Phelan (fondatrice e presidente della DNA Direct per le cure genetiche), divide il proprio tempo tra la Long Now Foundation, di cui è presidente, impegnato a prevedere cosa succederà nei prossimi 10mila anni, e il Global Business Network, un’agenzia di consulenza californiana per imprese.

Metto su Aquarius?

Fra qualche secondo... La Whole Earth Catalog nasce nel 1968 con un testo introduttivo celebre, che dà l'idea del clima che si stava respirando: in questo incipit, Stewart Brand scrive: “Siamo come Dei, e potremmo anche abituarci ad esserlo. Fino ad ora il potere e la gloria generati lontano da noi individui, e cioè attraverso il governo le grandi aziende, le istituzioni formali, la Chiesa, hanno avuto successo, ma adesso è l'individuo che deve creare in autonomia una propria strada”.

Sento già su di noi l'ombra gelida di Paulo Coelho.

Eh, sì, Coelho è di quella generazione, anche lui hippie, infanzia travagliata... l'ultima volta che l'ho visto intervistava Sean Parker (quello di Napster e Facebook) a cui chiese di commentare il film The Social Network.

Allora già che ci siamo parliamo dell'influsso orientale, del viaggio in India... Io ho sempre un certo pregiudizio verso questi personaggi che vanno in India in un periodo storico così particolare, cioè mi chiedo oggettivamente cosa potesse offrire l'India a questi occidentali, a parte diverse varietà e dosaggi di sostanze. Ho letto su Wired l'aneddoto di Steve Jobs che si lascia rasare i capelli da un guru, e lo stesso Jobs ammetteva di non aver la minima idea del perché l'avesse fatto. Insomma sempre quest'India surreale in cui accadono cose simpatiche e incomprensibili. Cosa tira fuori Jobs dall'India, secondo te?

Secondo me una delle lezioni di quel periodo è proprio la necessità di cercare la propria strada. Vuoi una frase ad effetto? Secondo me si sono saldati insieme il percorso alla ricerca di una “luce interiore” e la dottrina della predestinazione di matrice calvinista. Matura in Jobs una fede nelle grandi possibilità del singolo individuo di trovare la propria vocazione. Jobs vive questa ricerca in modo molto personale. Proprio nel periodo del viaggio in India l'adozione e la ricerca dei propri genitori naturali sembrano ossessionarlo, tanto da suggerirgli di assoldare un detective per cercarli.

Possiamo dire la banalità per cui Steve Jobs in India ha trovato la fede in sé stesso?

Sì. Jobs, nella prima biografia semiautorizzata descrive il suo viaggio a Micheal Moritz dicendo: “Non stavamo andando alla ricerca di un posto dove stare per un mese ed essere illuminati. Fu una delle prime volte in realtà in cui realizzai come probabilmente Thomas Edison avesse fatto molto di più per migliorare il mondo di quanto non avessero fatto Karl Marx e Neem Karoli Baba messi assieme.

Ecco, in India l'inventore capisce che deve concentrarsi sulle sue idee. Una cosa abbastanza calvinista, perché io per esempio nella mia mentalità veterocattolica se vado in India penso subito a Madre Teresa e ai poveri. È anche il motivo per cui mi passa anche la voglia di andarci... Invece quando Jobs e compagni si chiedono come possono aiutare i poveri del mondo, la loro risposta è: concentrandoci su noi stessi, arricchendoci finché la nostra ricchezza non avrà qualche ricaduta anche su di loro. Questo magari ci porta al discorso della Foxconn, che imbarazza particolarmente noi italiani, che avremmo tutti voglia di prostrarci e adorare Steve Jobs (perfino Sinistra e Libertà), però poi ci ricordiamo che è un capitano d'industria che fa lavorare gli operai cinesi a pochi centesimi l'ora, insomma uno schiavista.

Bisogna ovviamente dire che Apple non è l'unica azienda a utilizzare fornitori terzi in Cina. Molte altre aziende lo fanno: questo non giustifica Apple, ma mi domando cosa non giustifichi Apple, visto che la responsabilità ultima e prima di ciò che succede a Foxconn è di Foxconn. Dopodiché noi possiamo fare il passaggio ulteriore, cioè senza metterci le famose bistecche sugli occhi possiamo domandarci se è sostenibile da un punto di vista etico che Apple, punta di diamante di un certo sistema industriale, sia strutturata come tante altre aziende lasciando la testa pensante e progettante in California e le mani assemblanti in Cina; anche dal punto di vista di quella che viene chiamata sostenibilità d'impresa. Ecco, Apple ha fatto una serie di mosse per arginare quello che sicuramente è un problema oggettivo, quello dei suicidi alla Foxconn, un fornitore che non garantisce i diritti minimi: ma sinceramente allo stato attuale queste attività mi sembrano ancora poco convincenti. È una questione che dovremmo porci da un punto di vista squisitamente economico, ovvero: Apple esisterebbe se non esistesse un fornitore terzo di assemblaggio del tipo Foxconn, con quel che ne consegue a livello economico? Questo è una delle domande su cui si potrebbero fare ulteriori inchieste, e non sarei sicuro della risposta. 

Certo, da noi in Italia pensare ai computer, neanche necessariamente Apple, è già una cosa progressista; poi però a un certo punto i progressisti si ricordano che in Cina i computer che ci liberano dall'ignoranza del regime televisivo li assemblano gli operai sfruttati e ci resta un dissidio interiore. Ma secondo me questo dissidio Steve Jobs non l'aveva, era fuori dalla sua prospettiva di vita. Per quel poco che lo conosco non credo che si sia mai posto il problema se la sua ricchezza, la sua capacità straordinaria di fare soldi su soldi si basasse o no sullo sfruttamento di qualcun altro. Non è che si rispondesse di no, secondo me è proprio che non si poneva il problema, non faceva parte del suo universo morale...

Ora, se io dovessi per un attimo calarmi nella testa di Steve Jobs per come l'ho conosciuto, quindi indirettamente, attraverso la sua vita come l'ho ricostruita attraverso fonti secondarie, mi verrebbe da dire che quando si è parlato di Foxconn lui almeno ci ha messo la faccia, in diverse occasioni. Diciamo che anche mettendoci la faccia non ha dimostrato di considerarla una questione di primaria importanza rispetto a quella che era la sua missione, da sempre perseguita, cioè costruire il miglior computer del mondo. Alla delocalizzazione di Apple ha contribuito enormemente il nuovo CEO di Apple, Tim Cook, che ne è il responsabile sotto diversi aspetti. Nell'ultimo capitolo del libro, che è quello in cui cerco di affrontare Jobs non più dal punto di vista biografico, c'è una parte intitolata “Designed in California, made in China”, in cui mi domando fino a che punto Tim Cook potrà portare avanti questo tipo di azioni e operazioni senza lo schermo protettivo di quella figura iconica che è Steve Jobs. Non a caso, forse, che nel frattempo si sta insistentemente parlando di un'espansione di Foxconn in Brasile.

Quindi probabilmente quando sarà finito il contraccolpo emotivo della morte di Steve-Jobs-Santo-Subito, la Apple potrebbe avere più problemi di immagine a gestire la manodopera sfruttata nel terzo mondo.

Mettiamola così: nella misura in cui hanno già problemi di questo tipo altre aziende. Jobs era, lo dico provocatoriamente, un eccellente straordinario meraviglioso schermo deformante in cui e attraverso il quale abbiamo tutti, consumatori e giornalisti in primis, guardato i prodotti Apple con uno sguardo particolare. Lui e loro ci hanno convinti perché ben progettati, ci hanno affascinato la precisione e l'affidabilità (un po' meno il prezzo), ma ci hanno anche parlato. Mi spiega meglio, ci hanno suggerito chi potevamo essere per il semplice fatto di possedere un iPhone o un iPad. Una sorte di ipnosi commerciale, che per ora si fondava sul magico curatore delle nostre ambizioni: Jobs. Tim Cook non mi pare abbia le stesse qualità.

Ricordo come il grande uomo a cui tutti si ispiravano nel decennio precedente, Bill Gates, questo genere di problemi di immagine lo ha risolto facendo tanta beneficenza, un'altra cosa molto anglosassone che noi non capiamo del tutto: il fatto che le falle del sistema vadano turate con la beneficenza dei ricchi. Mentre Jobs di beneficenza se non sbaglio ne ha fatta poca, addirittura a volte l'ha sospesa per motivi di budget... Insomma non ci teneva molto all'immagine del Buono, mi pare.

Jobs è sempre stato molto concentrato sul lavoro. Tutto ciò che lo distraeva dal suo lavoro e (nella seconda parte della sua vita) dalla sua famiglia non lo interessava granché. Jobs era molto disponibile a curare, anche a coccolare i propri dipendenti, ma nell'ottica dell'azienda: qualsiasi operazione filantropica che in qualche modo lo distraesse dall'azienda e dai prodotti non l'ha mai concepita. Una delle operazioni di lobbying non profit di Steve Jobs è quella che ha promosso nelle scuole, The Kids Can't Wait, un programma per mettere un computer in ogni scuola – che poi alla fine rimane circoscritto alla California: lodevole iniziativa, ma si tratta comunque di installare un prodotto che lui produceva. Una filantropia che qualcuno potrebbe considerare un po' pelosa. Poi c'è l'impegno sul registro della donazione degli organi, che ha cominciato a sostenere in seguito al trapianto del pancreas che lui stesso ha avuto, avendo avuto esperienza di qual è la fatica, la difficoltà, il dolore di questo percorso.
Un altro esempio: nel 1986 – siamo nel periodo in cui sta lavorando a NeXT – crea anche la Steve Paul Jobs Foundation, che nasce quindi ben prima della Bill and Melinda Gates Foundation: però decide di chiuderla dopo appena quindici mesi. Ti cito cosa dice Mark Vermilion, che era allora il responsabile della fondazione: “Non aveva il tempo per seguire questa attività. Steve si è impegnato in due cose nella sua vita: Apple e la sua famiglia. Tutto il resto era per lui una distrazione”.
Perfino quando torna ad Apple blocca i progetti filantropici. In questo senso la coerenza con cui si è mosso Jobs è in sé la sua vera forza di marketing, se si vuole.

Sai come molti Santi abbiano corso un rischio altissimo di finire come eretici. Ecco, nel caso di Jobs mi pare che per una lunga fase lui sia stato davvero l'eretico, l'uomo del think different. Poi a un certo punto Apple si conquista una specie di egemonia almeno a livello di immagine, e a quel punto è Jobs a mostrare una certa intolleranza contro chi pretende di produrre oggetti simili ai suoi. Mi riferisco per esempio al modello del giardino recintato su iPhone o iPad, o la vertenza con Samsung a cui Apple vorrebbe proibire di commercializzare un tablet simile all'iPad. E l'arrabbiatura quando capisce che a Google stavano lavorando a un sistema operativo per smartphone, Android, che sarebbe ovviamente diventato il concorrente naturale dell'iPhone...

Beh... non mi spingerei a considerare eretici Google o Samsung. Su Samsung è semplice questione di concorrenza: una corsa all'ultimo brevetto e all'ultima copiatura. Per quanto riguarda Android la questione è un po' più complessa, perché nel momento in cui Jobs stava lavorando sull'iPhone, Eric Schmidt, numero uno di Google, era all'interno del CDA di Apple. Così quando Jobs venne a sapere che Google stava lavorando ad Android è noto che se la sia presa con Schmidt, sospettando che ci potesse essere stato – noi non lo sappiamo – un passaggio di informazioni non autorizzate. Li visse come un tradimento.

Un altro aspetto importante dei Santi e degli Eroi è che ci permettono di dare un volto a periodi e sommovimenti storici che altrimenti forse non riusciremmo ad affrontare. Almeno, io ho la sensazione che dietro ai monumenti di parole che i giornalisti dedicavano a Bill Gates qualche anno fa e oggi a Jobs, ci sia anche una specie di paura del vuoto. L'idea che il progresso tecnico sia qualcosa di troppo spaventosamente complesso e spersonalizzato, l'opera collettiva di milioni di ingegneri anonimi che non sapremmo da che parte cominciare a raccontare: e allora ci raccontiamo aneddoti su Gates, leggende su Jobs...

Spesso e volentieri noi abbiamo di fronte delle aziende molto veloci che crescono o muoiono o che si trasformano o vengono comprate o cambiano facilmente CEO o amministratore delegato o proprietà. Da questo punto di vista Apple era un'azienda con un personaggio catalizzante il che semplificava enormemente la comunicazione. Delle tante aziende della Silicon Valley è una delle pochissime in cui fino a poco fa il CEO era il fondatore, uno che in trenta e passa anni, quasi quaranta ha depositato una storia, un significato. E questo lo ha fatto anche internamente a livello aziendale. La vera passione di Steve Jobs non era tanto l'elaborazione dei prodotti, ma la costruzione di un'azienda. Tutti, in azienda, sapeva in qualche modo cosa sarebbe piaciuto a Jobs, cosa avrebbe voluto, e tutti si sforzavano di crearlo. Per rispondere alla tua domanda: sì. Apple è un sistema molto complesso, che produce oggetti e idee complesse, ma (almeno fino a poco tempo fa) in maniera estremamente semplice e diretta. I miti e le leggende sono in questo senso uno dei registri più facili da adottare per trasmettere concetti complicati, emozioni complesse, in maniera estremamente semplice al maggior numero possibile di persone. Come in una narrazione. Salvo che, il 5 ottobre scorso, è morto il protagonista (e l'autore) del racconto. L'eroe nel mito.

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Il Papa può dimettersi

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Non nel senso che "deve", eh. Solo nel senso che quando vuole può. Di solito non vuole.


Se ne parla ovviamente sul Post - perché a scrivere i pezzi sui Santi famosi sono buoni tutti, ma un pezzo su Sant'Evaristo Papa non lo leggerete da nessun'altra parte, nessuno ha mai veramente scritto più di quattro righe sul povero Sant'Evaristo Papa.

27 ottobre 2011 - Sant'Evaristo Papa e Martire (†105)


Certi santi ci lasciano monumenti di carta; altri giusto tre righe nella pergamena di un cronista svagato che magari sta solo improvvisando per riempire un buco. È il caso di Evaristo Papa, che secondo la tradizione sarebbe nato a Betlemme, ma poi in un qualche modo sarebbe arrivato a Roma in tempo per essere il quinto o il sesto successore di Pietro. Siamo tuttavia nel primo secolo, la Chiesa di Roma è ancora una piccola setta che non lascia molte tracce di sé. Può darsi che l'abbia fondata davvero Simone detto Pietro, ex pescatore palestinese con trascorsi sovversivi, come può anche darsi di no: in una delle sue tre lettere dice di scrivere da “Babilonia”, che può essere Roma ma anche qualsiasi città grande e corrotta dell'impero, per esempio Antiochia di Siria (metropoli dove Pietro rimase molti anni, non lontana dalla Babilonia storica).

I nomi dei suoi immediati successori al soglio romano sono graffiti evanescenti: “Lino” sembra davvero un nome da nulla per il secondo vescovo di Roma (contrazione di Aquilino?) Poi ci sono Cleto, Anacleto e Clemente I, ma potrebbero anche essere la stessa persona in tre dialetti diversi. Dei tre Clemente è l'unico di cui abbiamo notizie abbastanza certe, insomma il primo vero vescovo di Roma potrebbe essere lui. Nel 97 l'imperatore Traiano lo avrebbe espulso da Roma, ordinandone la deportazione nel buco più remoto dell'impero – in quel periodo la Crimea. Clemente ovviamente ne avrebbe approfittato per evangelizzare anche quella remota regione, finché l'imperatore spazientito non lo avrebbe fatto gettare in mare con un'ancora al collo... ma non era di lui che dovevamo parlare. Bensì del suo successore, Papa Evaristo. Ecco, di lui si sa ancora meno, ma quel poco che si sa è una bomba.

Secondo alcune fonti, infatti, Evaristo diventa Papa nel 97, ovvero non alla morte del suo predecessore, ma quando questi fu esiliato. Insomma, non potendo per ragioni di forza maggiore continuare a dirigere la Chiesa di Roma, Clemente avrebbe rassegnato le dimissioni. È un precedente clamoroso. Sì, voi non ne sapevate niente, delle dimissioni di Papa Clemente, ma potete star certi che sia Wojtyla che Ratzinger ne abbiano discusso (anche tra loro). Di dimissioni pontificie ce ne sono state altre (il “gran rifiuto” di San Celestino V è il più celebre), ma non così tante, e non sempre in circostanze chiarissime. Anche il caso di Evaristo non è così limpido: secondo altri studiosi tra il 97 e il 99 non fu proprio un Papa, ma una specie di vicario, perché nessuno poteva escludere in linea di massima un rientro miracoloso di Clemente a Roma. (Una delle difficoltà della Chiesa quando cerca di istituire delle regole pratiche è che non può mai, per definizione, escludere eventi miracolosi, ovvero assurdità). Probabilmente ai suoi contemporanei la questione doveva sembrare di lana caprina: Evaristo era il vicario di Cristo o il vicario del vicario? L'importante era che mandasse avanti la baracca. Il problema si pone duemila anni dopo: può un Papa subentrare a un altro Papa vivo?

Pare di sì. I precedenti ci sono, come abbiamo visto. Non solo, ma il diritto canonico riconosce nero su bianco questa possibilità, senza neanche porre troppe condizioni. (Can. 332 - §2: "S i richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti"). Memore dell'esempio di Clemente, Pio XII aveva una lettera di dimissioni pronta nel cassetto nell'eventualità che i nazisti lo arrestassero. Anche Wojtyla aveva preparato una lettera del genere, da divulgare soltanto in caso di infermità inguaribile. Il problema è che per un cattolico fervente nessuna infermità può essere ritenuta veramente inguaribile: equivarrebbe a dubitare della provvidenza, e con tutto il suo coraggio Wojtyla non avrebbe mai realmente osato farlo. Prevalse su tutto una considerazione che non era dettata dalla legge o dalla tradizione (del resto Giovanni Paolo II cambiava leggi e tradizioni ogni volta che lo riteneva utile): nessuno avrebbe potuto essere un Papa credibile mentre Wojtyla era ancora in circolazione. Come aveva detto a un chirurgo già ai tempi delle frattura al femore: “Dottore, sia lei che io abbiamo una sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo guarire. Perché non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Una questione più mediatica che dottrinale.

Oggi che Ratzinger è stanco, e non si fa scrupolo di mostrarlo al mondo, la situazione è piuttosto diversa. Anche qui, non si tratta di dottrina – tutto sommato Benedetto XVI non si è discostato molto dal solco wojtyliano – ma di carisma mediatico: il predecessore ne aveva a pacchi, lui giusto qualche briciola. Il mattino in cui si dimetterà, decine di accorati vaticanisti si stracceranno le vesti, per poi passare immediatamente al toto-conclave senza concedere al rimpianto una mezza giornata in più. Nessuno gli chiederà nemmeno di andarsene, non c'è più nessuna Crimea da evangelizzare. Una camera nei palazzi vaticani non gliela dovrebbero negare, magari proprio quella in cui dormiva quando sognava di subentrare al suo capo. Il bello è che quando Wojtyla volle un parere serio sulla questione delle dimissioni, lo chiese proprio a lui. E lui, ovviamente dopo un accurato studio delle fonti e della patristica e del diritto eccetera, rispose sì, tranquillo, si può fare. Poi è rimasto paziente ad aspettare per altri anni. Troppi anni. I giardini Vaticani un po' come la Fortezza sul deserto dei Tartari. Quando alla fine i Tartari sono arrivati, Ratzinger era già stanco. Il parere che aveva fornito a Wojtyla alla fine sarà servito almeno a lui (è difficile non immaginare a questo punto W. da qualche parte che sorride, sempre tremando un po').
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