Un Natale anarchico e informale

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Io sulla Federazione Anarchica Informale ho, più che una teoria, una sensazione; non sono in grado stasera di dimostrarlo, ma mi pare proprio che colpiscano sempre a fine anno. Questa cosa li rende un po' più simili a dei maniaci seriali che a dei rivoluzionari. Come rivoluzionari anzi faccio sempre più fatica a immaginarmeli, di solito un rivoluzionario o ha molta pazienza o molta fretta; uno che smolla due pacchetti bomba sotto le feste ogni anno, e qualche volta salta pure l'anno, che razza d'insurrezione ha in mente?

Quel che è peggio è che ormai gli anarchici informali si sono impregnati di quello spirito natalizio ancora lieve dei primi di dicembre, privo delle angosce che ci attanagliano dal venti dicembre in poi: senti che hanno messo una bomba e ti viene in mente che è ora di addobbare l'albero e telefonare agli amici lontani. Forse c'è una spiegazione tecnica, forse sotto le feste è più facile contrabbandare esplosivi in mezzo ai botti di fine anno, non lo so. In realtà non ne sa niente nessuno.

Due anni fa (avevo appena cominciato a scrivere sull'Unità), trovai su un forum anarchico un testo che è la cosa più vicina a un manifesto della Federazione Anarchica Informale. Anche in quel caso si respira a pieni polmoni l'atmosfera della notte di San Silvestro, con quell'acre sentore di petardo. Ci scrissi un pezzo che coi suoi difetti mi sembra ancora interessante, anche se ormai di difficile reperibilità. Lo ricopio qui, credo di fare cosa non troppo inutile.


“Abbiamo scelto di colpire dove meno ve lo aspettate”, scrivono le “Sorelle in armi” nel comunicato in cui rivendicano la bomba alla Bocconi. E invece non c’è mai stata una bomba tanto prevedibile, nel luogo e nel momento in cui più avremmo potuto aspettarcela. 

Una bomba anarchica a Milano, nell’anniversario della morte di Pinelli. Una bomba anarco-insurrezionalista, mentre al vertice di Copenaghen i black bloc attiravano (o distoglievano, a seconda del punto di vista) l’attenzione del pubblico mondiale. Una bomba in un ateneo privato, mentre gli studenti italiani manifestavano per la scuola pubblica. Una bomba gravida d’odio proprio mentre Berlusconi, percosso al volto ma non domo, si dichiarava sicuro della “Vittoria finale dell’Amore”. Tanto maldestre in fatto di detonatori, queste Sorelle, quanto raffinate nella scelta dei luoghi e dei momenti più suggestivi. Raffinatezza che molti hanno voluto trovare sospetta – non saremmo più in Italia se pochi minuti dopo il ritrovamento della bomba non fosse già fiorita una specifica dietrologia. Ma bisogna anche capirci: abbiamo stragi che aspettano un colpevole da trent’anni, poliziotti che piazzano molotov… con simili precedenti è effettivamente dura per un’organizzazione terroristica alle prime armi farsi prendere sul serio. 

Il comunicato non aiuta, perché le citazioni che fino a qualche anno fa avrebbero dimostrato inoppugnabilmente il radicamento delle Sorelle nell’anarcoinsurrezionalismo ‘latino’ (la citazione dell’anarchico spagnolo Pombo da Silva, il richiamo all’anarchico cileno Mauricio Morales), nell’era di google diventano facilmente falsificabili: chiunque può farsi una cultura su da Silva o Morales in dieci minuti, e magari condirla con un verso di De Andrè che fa sempre anarchia. Questo in effetti è il punto meno credibile del comunicato: un anarchico che cita De Andrè è un po’ banale, ma un anarchico che cita De Andrè fraintendendolo così (il Bombarolo che vuole terrorizzare per non “ammalarsi di terrore” è un borghesotto figlio di papà) o è un ragazzino o un impostore. Brutta storia in entrambi i casi.

L’attenzione dei giornalisti si è concentrata sulla sillaba finale
. Bastano infatti tre lettere, la sigla Fai, per trasformare la bomba di un gruppo sconosciuto nell’ultima azione del più temibile gruppo terroristico italiano. La Fai, spiegano, sta per Federazione Anarchica Informale: e se ti dicono così, significa che la Fai ha già vinto. Non la guerra, ma almeno una battaglia di immagine contro la vera FAI, la Federazione Anarchica Italiana nata nel 1945, editrice della malatestiana Umanità Nova e depositaria della storia più nobile dell’Anarchia italiana. La storica FAI non ha mai perso un’occasione per dissociarsi dal gruppo di bombaroli che ne usurpa la sigla: anche in questo momento sul suo sito compare un comunicato che “denuncia la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d'Isonzo”. Fatica sprecata: ormai per il grande pubblico la Fai sono gli anarchici che mettono le bombe. “La principale minaccia terroristica di matrice anarco-insurrezionalista a livello nazionale», secondo l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Se non proprio l’unica. 

Una “galassia”, scrive Paolo Colonnello sulla Stampa, addirittura un “universo che nel 2003 provò a colpire Prodi”. Visti gli effettivi attentati portati a termine sarebbe il caso di parlare, più che di galassia, di una costellazione. Una manciata di gruppetti, disseminati in tutt’Italia, senza nessuna velleità di costituire un movimento armato unitario (anzi, la frammentarietà è quasi rivendicata), che tra il 2003 e il 2006 hanno piazzato e spedito ordigni che anche quando sono scoppiati non sempre sono riusciti a guadagnarsi le prime pagine. Unico risultato concreto: oggi la sigla Fai è cosa loro. Fino al 2006 le periodiche consegne esplosive della Fai informale ribadivano l’esistenza di una corrente sotterranea violenta annidata tra le pieghe del “Movimento dei Movimenti”. Per i Movimenti invece la Fai informale non è mai esistita: si trattava di infiltrati, servi del potere. I loro comunicati, come s’è visto, non appaiono molto convincenti.

Forse la sola testimonianza a favore della ‘genuinità’ della Fai è l’unico bizzarro comunicato divulgato su internet, dal sito Anarchaos.it (ma “a semplice scopo informativo”). Risale al Natale del 2006 e porta il nome di “Documento-Incontro della Federazione Anarchica Informale a 4 anni dalla nascita”. Dopo una cronistoria accurata delle azioni compiute dai gruppi prima e dopo la nascita della Fai informale, il Documento riporta i verbali di una riunione natalizia in… “casa di Paperino”. Sì, perché per ragioni di segretezza i nomi degli esponenti dei vari gruppi (“COOPERATIVA ARTIGIANA FUOCO E AFFINI, BRIGATA 20 LUGLIO, CELLULE CONTRO IL CAPITALE, IL CARCERE, I SUOI CARCERIERI E LE SUE CELLE, SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALE”) sono sostituiti da quelli della banda Disney. 
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Ce ne vogliamo almeno andare dall'Afganistan?

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Ok, sembra proprio che quei diciotto miliardi in cacciabombardieri ci tocchi spenderli. Però non è vero che non si possa fare proprio nessun taglio. L'Afganistan, per esempio.
Loro a un certo punto se ne sono andati. Dovremmo esserne capaci anche noi. Sull'Unità (h1t#102), anzi, comunita.it, vi imploro non fate troppo caso alla foto del pirla.

Sarà una crisi di crescita: se non economica perlomeno morale. Diventeremo tutti un po’ più adulti, ci sta già succedendo. Per esempio, siamo già passati nel giro di poche settimane da popolo di Commissari Tecnici della Nazionale a popolo di Ministri dell’Economia: abbiamo tutti qualche rilievo da fare alla manovra Monti, abbiamo tutti critiche costruttive e competenti. Mi piace pensare che sia un progresso; un anno fa passavamo il tempo a chiacchierare delle Olgettine. Ora invece su Facebook scopriamo che il governo potrebbe far cassa semplicemente sospendendo l’acquisto di 131 cacciabombardieri per un totale di diciotto (o tredici) miliardi di euro: più o meno mezza manovra, quanto basta per rimettere in sicurezza i pensionati. A un certo punto l’appello è stato raccolto da Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell’IdV – a proposito, secondo me non è così che dovrebbe funzionare, la politica sui social network. Piuttosto il contrario: i leader politici dovrebbero cercare di servirsi dei social network per far conoscere e diffondere le proprie idee: invece in questo caso l’idea ce l’ha messa facebook, Donadi l’ha presa da lì ed è andata a diffonderla in parlamento. C’è da stupire che poi i conti non tornino?
Comunque è sempre meglio che parlare di Ruby Rubacuori: adesso sappiamo (anche grazie alla discussione che è nata in rete, soprattutto sul blog Noise From Amerika, a cui ha contribuito con molta franchezza lo stesso Donadi) che sì, quei 131 cacciabombardieri li compreremo davvero, e ci costeranno davvero almeno 13 miliardi… ma spalmati in un intervallo di tempo che va dal 2013 al 2026. Se anche decidessimo di annullare la commessa (i nostri Tornado sono comunque ormai mezzi obsoleti), il risparmio sarebbe dunque relativo. Il discorso a questo punto dovrebbe spostarsi sulla nostra spesa militare: ha un senso che una nazione senza nemici dichiarati, inserita stabilmente in un sistema di alleanze militari e politiche, continui ad armarsi così? Ma quanto si sta armando l’Italia? È veramente difficile da calcolare:però almeno se ne può parlare serenamente, ora che non siamo più distratti dalle scenette dell’ex ministro La Russa.
Io devo dire che sono un po’ in affanno: fino a due settimane fa bastava abbaiare un po’ contro Berlusconi e il pezzo era pronto. Invece adesso bisogna fare conti, interpretare tabelle, non credo di essere la persona adatta. Ho solo una modestissima proposta: non mi azzardo assolutamente a quantificare il risparmio che ne deriverebbe, ma per me varrebbe la pena in ogni caso. Quand’è che ce ne andiamo dall’Afganistan?
Siamo arrivati lì nel 2003, senza davvero volerlo (fu una delle decisioni meno popolari del secondo governo Berlusconi). La guerra, appena dichiarata finita e vinta dal commander in chief Bush, in realtà è proseguita a bassa intensità per tutti questi anni, più o meno come ai vecchi tempi delle “pacificazioni” coloniali. Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo fugato col nostro atto di presenza la sensazione che l’occupazione dell’Afganistan fosse un gesto unilaterale del gigante americano ferito dall’11 settembre. Abbiamo avuto una quarantina di perdite. Ci siamo invischiati in una situazione tutt’altro che chiara: tra Pakistan e Nato in questi anni sono successe cose che soltanto gli storici della prossima generazione riusciranno a vedere con chiarezza. Magari nel frattempo avremo anche fatto qualcosa di buono, non lo so, non è di questo che si parla adesso. Ora dobbiamo semplicemente chiederci: vale la pena di restare?Possiamo davvero permetterci di aiutare gli afgani, mentre in Europa a chiedere aiuto siamo noi?
Alla conferenza internazionale sull’Afganistan, che si è appena tenuta a Bonn, il ministro Terzi ha riaffermato che nei prossimi dieci anni non lasceremo l’Asia centrale. Ridurremo soltanto il nostro contingente, che in questo momento ammonta a 4200 unità, man mano i reparti locali che addestriamo diventeranno operativi. Speriamo soltanto che non diventino operativi contro di noi (non sarebbe la prima volta). Terzi ci ha anche spiegato che negli ultimi dieci anni (in realtà un po’ meno) abbiamo “impegnato 570 milioni di dollari in cooperazione allo sviluppo e interventi umanitari”: forse il margine per risparmiare qualcosa c’è. Più che lamentarsi con Terzi, che nella democratizzazione dell’Afganistan mostra di crederci ancora seriamente, bisogna rivolgersi con franchezza ai leader del PD: nei primi mesi del nuovo anno si voterà, presumibilmente, il rifinanziamento della missione. In tutti questi anni il PD, sia quand’era al governo sia quando preferiva l’opposizione, ha sempre votato responsabilmente. Adesso si tratta semplicemente di individuare qual è la scelta più responsabile: continuare a sostenere il regime di Karzai, o salutare, ringraziare americani e altri alleati per la bella occasione che ci è stata offerta di aiutarli a salvare il mondo, e riportare i ragazzi a casa? http://leonardo.blogspot.com
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I CD sono brutti

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(Questo pezzo era nato per rispondere alla sollecitazione di Bastonate, ma ovviamente mi è venuto troppo lungo - ho qualche difficoltà con la sintesi negli ultimi tempi - e ho pudore a mandarglielo).

Come ho ucciso la musica

Il progresso tecnologico ha questa cosa strana: che inseguendo quasi sempre la funzionalità, il rapporto ottimale tra costi e ricavi, a volte produce oggetti bellissimi e suggestivi: ad esempio, il disco in vinile. Sì, scusate, sono vecchio, per me i “dischi” sono quei cosi neri lì, che quando li racconto ai ragazzini (“un lato durava venti minuti e poi dovevi voltarlo!”) mi guardano come una specie di reduce dalla campagna di Russia. Anche chi non ne compra più da trent'anni; chi non è legato a nessun ricordo d'infanzia; anche chi non ha perso ore della sua vita ad ascoltare il crepitio della polvere sui solchi ipnotizzato dalla label rossa di Tommy che ruotava su sé stessa all'infinito mentre Roger Daltrey implorava adeguate cure mediche; anche chi ricorda benissimo che fatica fosse pulirli e con che facilità si graffiassero, s'imbarcassero, un bambino nella scuola materna di mia madre mozzò il lobo di un orecchio al compagno; anche chi fucilerebbe tutti i nostalgici che tengono ancora in vita il mercatino dei dischi in vinile; anche costui deve ammettere che l'oggetto era bello in sé. Era nero. Rifletteva la luce. Lo guardavi girare. Vedevi la musica, un solco spiraliforme e misterioso che conteneva il mistero del tempo: se un film è fatto di ventisei fotografie al minuto, la musica di cosa è fatta? Come suona un solco fermo? I bambini di adesso non lo sanno, ma i dischi in vinile suonavano anche senza luce elettrica, sì: girando a mano il disco sul piatto, accostando l'orecchio alla puntina, potevi sentirli suonare. Forse avresti potuto suonarli anche senza giradischi, con uno spillo o qualcosa del genere, anche se non hai mai voluto provare. Questa cosa – che si potesse ascoltare musica senza il consumo di elettricità – i ragazzini non lo concepiscono: la sola idea che un oggetto possa riprodurre una canzone (anzi “suonare” una canzone, i dischi in vinile si “suonavano”) senza la preventiva pressione di un tasto ON, ha del magico, come ogni tecnologia desueta: dateci un altro secolo di microonde, e i nostri nipoti guarderanno con occhi sbarrati la pentola che bolle.

I dischi in vinile erano oggetti magici, li compravamo per questo. E per le copertine, gli unici quadri che abbiamo mai fissato per più di tre minuti: tuttora, socchiudendo gli occhi, mi è più facile rammentare il nanetto di Strange Days che la tizia con l'orecchino di perla. Di sicuro non li compravamo per il crepitio né per la facilità con cui si segnavano, né per la gioia di dover cambiar lato ogni venti minuti. Probabilmente, fatti i dovuti conti, chiunque non avesse uno stereo hi-fi di quelli dal milione in su e non passasse il tempo a lucidare i suoi LP con un panno elettrostatico, avrebbe dovuto preferire le cassette, col loro fruscio standard di cui smettevi di accorgerti al terzo minuto: più versatili, meno ingombranti. Ma noi adolescenti invece compravamo i dischi in vinile, proprio perché erano roba da vecchi. Paradossalmente, per noi le musicassette erano l'infanzia, la compilascion di Sanremo se non quella dello Zecchino d'oro, e le schifezze che alle medie ci eravamo registrati per darci un tono col walkman della Sony, insomma, tutto ciò che ci imbarazzava del nostro passato più recente era su nastro. Invece nulla dava più il tono allo studente liceale della bustina quadrata del negozio dietro la stazione delle corriere, che richiamava immediatamente il formato 33 e 1/3 anche se dentro ci avevi messo le scarpe da ginnastica. Tanto più che dischi e musicassette costavano uguali: quattordicimila lire, poi diciassette; la sopraggiunta maturità era gratis.

Sto andando fuori tema, lo so, la traccia dice: parla della tua collezione di dischi. Io però mi sento a disagio, come l'orfano a cui chiedono un tema sulla mamma. Con l'aggravante, non prevista da Tricarico, che l'orfano in questione cova un terribile segreto, insomma l'ha uccisa lui. Io non posso parlare della mia collezione di dischi, perché l'ho abbandonata in un qualche solaio, dopo che nei primi Novanta il giradischi smise di funzionare. Me ne sono liberato e sono passato in clandestinità. Tuttora, io per l'industria musicale non esisto, per il motivo che non compro nulla da loro più o meno da vent'anni – salvo qualche cosa da regalare, di solito a Natale. Persino se mi va di ascoltare uno di quei vecchi dischi che possedevo, preferisco rubarlo da qualche parte piuttosto che cercarlo in quel solaio. Sì, sono uno di quelli che ha ucciso la musica, sono io. Non è che ne vada fiero. È una cosa che certo andava fatta, ma che comunque non avrei potuto impedirmi di fare: la musica mi piaceva, ma a un certo punto cominciò a costare troppo. Fino diciamo al 1988, facendo i miei conti, tenendomi abbastanza aggiornato, potevo gratificarmi ogni quindici giorni con un disco scelto con attenzione, una bustina quadrata. Poi all'improvviso ci fu un ricarico pazzesco, un aumento quasi del 100%, e io dopo qualche esitazione mi diedi alla macchia. Era arrivato il CD. Niente di personale, ma a quel punto l'industria musicale doveva morire. O io o lei, insomma; e io ero giovane.

Il progresso tecnologico ha questa cosa strana, che inseguendo quasi sempre la funzionalità, il rapporto ottimale tra costi e ricavi, a volte produce oggetti bellissimi e suggestivi: a volte invece orrori insensati. Prendete il vhs: quanto erano brutte le cassette vhs? Ingombranti, fragili, malvagie, deperibili, ma anche semplicemente brutte: piene di fori, di dettagli incomprensibili, impossibili da riparare e a volte persino da riavvolgere (anche se due o tre volte siamo riusciti a operarle a cuore aperto; ma di sicuro abbiamo fallito l'operazione con l'unica che ci interessava davvero salvare, il filmato raro e introvabile). E insomma non c'è un perché: i dischi in vinile erano belli, semplici, misteriosi; le vhs erano nere anche loro ma complicate, banali e brutte. E i cd?

I cd, la prima volta che un compagno di classe ha aperto lo scrigno per mostrarcene uno, ci parvero bellissimi: di colore cangiante, con quei riflessi iridati; e poi quando abbiamo potuto ascoltarli – niente fruscii, niente crepitii, i brani selezionabili con la pressione di un tasto – ci veniva quasi da piangere. I cd insomma all'inizio ci abbagliarono, con tutto il bello che potevano offrirci, così ci abbiamo messo persino degli anni a capire quanto fossero fragili, quanto fossero tristi. Non è che l'oggetto in sé non conservi una sua poesia, anche se ormai ne hai visti troppi penzolare dagli specchietti retrovisori dei marocchini, per via della nota leggenda urbana secondo la quale riflettono il flash dell'autovelox (che in fondo ha un senso, bisognerebbe farci degli esperimenti, attivare Attivissimo). Ma insomma è pur sempre un cerchio: forma semplice, perfetta. La vera nota dolente, sin dall'inizio, fu il contenitore. Se ci pensate, pochi oggetti di uso quotidiano sono più brutti e scomodi di un involucro di plastica per cd (non è un caso che in Italia non ci siamo nemmeno sbattuti più di tanto per trovare un nome alla cosa). Forse le cinture di sicurezza. I coperchi dei sottaceti. Ecco, l'involucro dei CD gioca in quella categoria. Quella forma quasi-quadrata che sembra fatta apposta per suggerirti che sì, puoi afferrarla con una mano sola, e invece no, una volta su dieci ti cade e dieci volte su dieci che cade – si rompono i dentini, quei ridicoli cardini che dovevano assicurare la rotazione del coperchio. Poi c'è la questione della plastica, che in teoria dovrebbe reggere il tempo meglio del cartone. E questi sono i veri misteri: perché il cartone che si deteriora diventa suggestivo e la plastica no e poi no? Perché qualsiasi bancarella di LP vecchi slabbrati e stinti sprizzerà sempre più poesia di un'analoga puzzolente rivendita di CD? È che i contenitori invecchiando opacizzavano, si segnavano, schermavano e schernivano i colori già sgargianti del booklet, l'ombra dell'entusiasmo con cui li avevamo scartati la prima volta. I booklet poi sono sempre stati un oggetto insulso – lo so, per voi è naturale, ci siete nati leggendo i ringraziamenti in corpo 6,5 sans serif – ma ai nostri tempi soltanto le Bibbie tascabili chiedevano tanto all'occhio del lettore. Certi dischi, soprattutto quelli dei magniloquenti anni Settanta, perdevano semplicemente ogni aura, hai voglia a stampare Dark Side Of The Moon in versione oro 24 karati: resta sempre un rettangolino, una vignetta in confronto all'impatto dell'originale. E il fastidio di sfilare e reinfilare il booklet sotto le ridicole linguette del coperchio di plastica – come, direte, non era molto più faticoso sfilare il disco in vinile dalla busta di carta velina contenuta nella busta di cartoncino contenuta nella busta di cartone? Sì, ma quelli erano gesti teatrali, apotropaici, facevano parte di una liturgia, del resto un LP durava al massimo tre quarti d'ora e avanzava un sacco di tempo per tutta questa liturgia. Invece il tempo del CD era già un tempo parcellizzato, cronometrato, il tempo in cui ogni minima contrarietà cominciava a romperci le palle. Che è il motivo per cui ormai sono soltanto dei soprammobili, i cd: se ti serve una canzone, fai quasi prima a cercarla su youtube, a scaricarla dal p2p, in certi pomeriggi l'idea di alzare il culo e andare a cercare il cd giusto da una mensola, sfilarlo, aprirlo... su internet nel frattempo hai già finito di ascoltarlo e puoi già fare altro, c'è sempre qualcos'altro da fare, ultimamente.

Sono tempi duri per i collezionisti, ormai tutti i loro pezzi preziosi qualcuno li sta condividendo su una nuvola. Tempi duri per i feticisti, nessuno si impressiona più entrando nelle vostre camerette e vedendo esposti certi film, certi dischi. Forse è la crisi e forse è l'età, ma l'impressione è che la stagione in cui l'identità era una collezione esposta a scaffale sia tramontata. Non voglio dire che l'identità stia meglio spalmata sulla bacheca di facebook, forse è pure peggio. Ma con tutta la buona volontà non riesco a provare nostalgia per i CD. Non mi sono mai piaciuti. Non sono mai riuscito a trovare un portaCD che mi piacesse. Ho odiato quei vent'anni di plastica opaca e di VHS, culminati con l'erezione della Biblioteca Mitterand che voleva suggerire la forma di quattro libri aperti e invece si rivela, lapsus colossale, un enorme porta-cd, o porta-vhs, fate voi. In realtà sono un ingrato oltre che un assassino, perché la mia cultura musicale sarebbe un'esigua frazione di quella che è senza quelle fonoteche comunali che per più di quindici anni mi hanno rifornito quasi settimanalmente di CD originali, quasi tutti recanti la scritta “vietato il noleggio” che continuo a domandarmi cosa significhi, esattamente. Per cui quando mi dite che il p2p ha ucciso l'industria musicale, io non sono d'accordo, io la stavo pugnalando già nel Novantacinque nelle celle di un torrione medievale (la fonoteca era al terzo piano, giuro). Non è che me ne vanti, no. Ma è stato divertente.
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La sindrome di Lynette

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Il partito suicida

Non ho fatto i compiti. Ballarò l'ho visto con un occhio solo, Vespa men che meno. Per cui probabilmente mi sbaglio, ma la sensazione è che il PD si sia fatto incastrare un'altra volta, nel modo splendido in cui solo il PD ci riesce, anche quando non si chiamava ancora così. Cioè, ripeto, ne ho visto poco, ma da quel poco che ho visto mi è sembrato che la democratica Finocchiaro stesse difendendo la sua manovra dalle critiche di Maroni, della Gelmini, di Belpietro, ma cosa diamine? Manco l'avesse scritta lei.

Ora: nei fatti è così, la manovra Monti è un prendere-o-lasciare, e il PD prenderà. Farà qualche distinguo, concerterà qualche contentino, metterà il musetto, ma in sostanza voterà una manovra che è una botta dura al suo bacino elettorale di salariati, dipendenti pubblici e diciamolo, pensionati. Lo farà perché è un partito responsabile, in effetti questo aggettivo (“responsabile”) è una delle poche cose che può dire di sé: l'unico paletto rimasto saldo nel cedimento ideologico circostante. Il PD è un partito che se c'è da sacrificarsi, lo fa. In fondo è nato dal sacrificio di due identità (democristiana e postcomunista) che Veltroni sanciva in nome del bipartitismo di domani e di una vittoria nel futuro remoto – nell'immediato si tirava a prendere il trenta per cento e sbattere i partitini di sinistra fuori dal Parlamento. Ma l'idea di sacrificarsi per il bene del Paese viene più da lontano: è l'eredità di Prodi, l'idea che l'Italia possa pensare di rivolgersi al centrosinistra soltanto quando è con l'acqua alla gola e deve essere salvata da sé stessa. Dovevamo entrare nell'Unione Europea, ce l'abbiamo fatta, poi dovevamo entrare nell'Euro, missione compiuta, ora dobbiamo restarci: e ogni volta c'è sempre un professore che fa due conti, e un partito che fa un po' di manfrina e poi si adegua. Il canovaccio è così vecchio che i protagonisti di oggi sembrano recitarlo istintivamente.

Dall'altra parte c'è il principio del piacere, l'irresponsabilità, l'oblio. Maroni non può ricordare di essere stato ministro fin quasi alla settimana scorsa; cioè, l'uomo Maroni di certo lo sa, ma il personaggio-Maroni è già altrove, nella sua Padania tra le nuvole, oppresso da questo governo tecnocrate. Anche in questo caso, la rapidità e la facilità con cui certe facce da culo si adattano al nuovo ruolo non stupisce più, ci siamo abituati: loro sono fatti così, lotteranno sempre per la pensione, per i Comuni tartassati, per non toccarci le tasche, per l'orfano, per la vedova, per la Padania. Davvero, ci stanno così bene all'opposizione. Invece il PD si sente sempre al governo. Sempre responsabile, sempre ragionevole. Responsabile come certe persone travolte dagli impegni, che nascondono dietro l'ansia per le scadenze (dobbiamo pareggiare il bilancio subito! Dobbiamo entrare nell'Euro!) il fatto che non riescono più ad alzare lo sguardo oltre l'orizzonte di sei mesi, un anno, una legislatura, un decennio. Del resto chi ha bisogno di Visione, quando ha Emergenze? Voteranno la manovra Monti: si lamentano, ma l'avrebbero votata anche più dura di così. C'è da salvare l'Italia e loro si aspettano che l'Italia sarà in qualche modo riconoscente. Questa è la forma più pura del tafazzismo, io però sarei per eliminare questa parola di cui i giovani d'oggi (spero) ormai ignorano l'etimo. Preferisco raffigurarmi il PD come una mamma sollecita che con le sue continue attenzioni e autoimmolazioni non fa che ritardare il momento in cui gli altri membri della famiglia cominceranno a sviluppare una qualche forma di responsabilità, o anche solo di dignità.

Io poi se fossi nell'on. Finocchiaro mi comporterei probabilmente allo stesso modo, e nel mio piccolo di tesserato CGIL onestamente non so nemmeno se farò il prossimo sciopero, poco più di un atto di testimonianza. Però anche la forma ha la sua importanza. Un conto è bere l'amaro calice, un conto è mettere la faccia sullo spot. Perché devo vedere la Finocchiaro che difende Monti e Gelmini che lo critica? Questa manovra fa più comodo al centrodestra, non fosse altro perché allontana il PD dalla sua base, rafforza Vendola, Di Pietro, Grillo, chiunque non si senta obbligato da un vincolo di responsabilità. Nel gioco delle parti per cui prima di votare la manovra gli esponenti di PD e PDL si faranno un po' guardare mentre litigano, è già chiaro che vinceranno i secondi anche stavolta: non li si può almeno attaccare per primi, non gli si può almeno lasciare l'ingrato ruolo di essere quelli che parlano bene di Monti? Tanto la voteranno: si terranno Monti fino all'esatto momento in cui gli conviene. Non è la prima volta che alla fine di una gestione Berlusconi arriva un professore a rimettere i conti in ordine. E allora perché loro possono brontolare finché vogliono, senza pudore, senza rispetto per il loro pubblico... e la Finocchiaro no? Ops, mi sono risposto da solo.
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La Madonna ti dà una mano

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Non sono soltanto i musulmani a non *apprezzare*, diciamo così, le immagini sacre: anche ai cristiani ogni tanto viene il sospetto che tutto questo traffico di icone e immaginette sia un filo idolatra. Abbiamo anche noi avuto le nostre fasi iconoclaste, specie ai tempi dell'Impero Bizantino, dove le dispute teologiche erano il secondo sport nazionale dopo la corsa delle bighe.


Comunque, proprio nel momento in cui a Costantinopoli gli iconoclasti sembravano trionfare, e ci si preparava a un Medioevo tutto astratto e geometrizzante come sull'altra sponda del mediterraneo, è venuto a salvarci un Dottore della Chiesa, Giovanni Damasceno. E volete sapere la cosa buffa? Damasceno sta per "di Damasco", sì, Giovanni in realtà era nato Mansour. Era un arabo, insomma. Molto devoto alla Madonna, che gli diede una mano. Non in senso figurato. Gliene avanzava una (contate bene le mani lì sopra). L'arabo che amava la Madonna, sive de iconoclasmo, è sul Post, decisamente l'unico magazine on line in cui potrete mai trovare Madonne con tre mani e Axl Rose nello stesso pezzo.

4 dicembre - San Giovanni Damasceno (676ca.-749ca.), dottore della Chiesa

Il calendario dei Santi è un oggetto infido. Certe settimane non sai più a che Santo votarti, non ce n'è uno che ti ispiri; poi magari in una grigia domenica di dicembre ti piazza due pezzi da novanta come Santa Barbara, patrona della folgore, degli artificieri e di una ridente contea californiana; e San Giovanni Damasceno, l'Ultimo dei Dottori dell'Est. La prima ha scalzato dal suo patronato nientemeno che Giove Pluvio, il secondo ha fatto crescere una mano alla Madonna. Non me ne voglia la Santa così esplosiva da essere divenuta sinonimo di arsenale, se scelgo il secondo che per una volta è un personaggio storico; però davvero Giovanni “tre mani” di Damasco presenta notevoli motivi d'interesse.

Per prima cosa, al secolo si chiamava Mansour Ibn Sarjun, e probabilmente era di etnia araba, in un momento in cui Damasco con tutta la Siria erano ormai definitivamente entrate a far parte del Califfato e del mondo islamico. Per cui la prossima volta che dal barbiere sentite dire che le moschee in Italia non è giusto farle perché gli arabi non ci lasciano fare le chiese là, poi potreste obiettare che “là” è un termine vago, che in Egitto ci sono chiese per almeno dieci milioni di cristiani, e che in Siria persino ai tempi degli antichi Califfi un arabo cristiano poteva mantenere un lignaggio di alto funzionario e produrre teologia ai massimi livelli, tant'è che Mansour-Giovanni di Damasco è il vero eroe dell'ultimo vero Concilio della Chiesa unita, con esponenti occidentali e orientali, il Niceno Secondo; a quel punto probabilmente nessuno oserà più obiettare, ma se ci provano voi aggiungete, perentori, che se non ci fossero stati i musulmani a proteggerlo, la mano sinistra Giovanni l'avrebbe persa davvero. Perché la leggenda dice che gliela fece tagliare il Califfo, sì, ma soltanto su istigazione dell'Imperatore cristiano di Costantinopoli, Leone III, che fece avere quest'ultimo dei documenti top secret in cui Mansour-Giovanni veniva descritto come uno dei capi di una fantomatica rivolta cristiana.

Iconoclasmi moderni. Lucio Fontana, Concetto spaziale: limiti
Tutte infamie, calunnie, illazioni; la verità – che filtra anche da una leggenda farlocca come questa – è che l'unico vero nemico di Giovanni era l'imperatore Leone III, l'iconoclasta che a partire dal 730 bandì e fece distruggere tutte le immagini di Cristo e dei Santi dalle chiese bizantine. Giovanni invece fu la voce più autorevole degli iconoduli, quelli che volevano continuare a venerare mosaici, affreschi e legni policromi. Sulle prime Leone sembrò averla vinta: aveva dalle sue non soltanto il potere militare, ma anche una certa insofferenza del popolo minuto nei confronti del clero e dei monaci, che di icone facevano già un grosso commercio. C'era poi da dare risposta a una sensazione diffusa: che il cristianesimo con le sue figurine fosse un po' la religione del passato, che la novità dell'ottavo secolo fosse questa nuova fede semplice, guerriera, minimale: l'Islam. Anche i musulmani erano iconoclasti, sin da quando Maometto aveva distrutto gli idoli presso la Ka'ba.


Ma in fondo Gesù non aveva fatto qualcosa di simile scacciando i mercanti dal tempio? E Mosè, fondendo il vitello d'oro e facendolo inghiottire ai suoi stolti adoratori? Non era forse scritto nel Libro dei Libri: non ti farai alcuna immagine [di Dio]? Per uno strano paradosso, dal momento che gli iconoclasti si presentavano come i nemici delle superstizioni, a fare di Leone III e di alcuni suoi successori degli iconoclasti fu un riflesso superstizioso: la tendenza a vedere nelle proprie disfatte militari, o nelle eruzioni dei vulcani, la reazione di un Dio irritato con tutti quelli che pretendevano di ritrarlo in figurine e adorare il legno o il marmo. Tutto questo mentre sull'altro lato del confine l'Islam iconoclasta fioriva e si espandeva, riempiendo il Medio Oriente e il Maghreb di arabeschi e intricate architetture astratte. Insomma, ci fu un momento tra ottavo e nono secolo in cui sembrava che il futuro del Mediterraneo sarebbe stato iconoclasta: anche Carlo Magno era tentato dal fare pulizia nei santuari (era anche un'ottima scusa per raccattare parecchio oro e preziosi), forse se i sovrani bizantini avessero tenuto duro avremmo avuto anche noi un Alto medioevo astratto e poligonale...

Nel frattempo, nel suo monastero nel deserto, Giovanni-Mansour preparava il contrattacco. (Continua...)

La mano fatta mozzare dal Califfo, vuole la leggenda, gliela fece ricrescere la Madonna, per la quale Giovanni aveva una devozione speciale (come teologo non teorizzò soltanto la sua verginità, ma anche quella della madre, Sant'Anna: così Maria si ritrova a essere vergine, figlia di vergine e madre di vergine, tutta una dinastia). Da un'icona della Madre di Dio, adeguatamente venerata, uscì una mano nuova che si andò ad attaccare al moncherino del Santo: è una leggenda, appunto, anche se molte icone orientali mostrano una Madonna con una mano in più che sembra uscire dal quadro. La verità è che mentre i preti iconoduli oppositori di Leone III venivano perseguitati e degradati, obbligati a passeggiare mano nella mano con una donna (punizione suprema!)... nel suo eremo in mezzo all'Islam, Giovanni era l'unico teologo in lingua greca libero di criticare Leone quanto voleva: agli islamici iconoclasti non doveva affatto dispiacere tenersi in casa l'eretico dei propri avversari. La sua risposta ai nemici delle icone è sottile: Giovanni chiarisce da subito che gli iconoduli non adorano la materia (il legno delle icone, il marmo delle statue), ma la venerano, sì, perché no? Dopotutto anche la materia è opera di Dio; non solo, ma è attraverso la materia che Dio, facendosi uomo, ha salvato i cristiani. “Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole”. Qui si capisce che non c'erano in gioco soltanto le rendite delle manifatture di icone e dei santuari forniti di reliquie. Siamo all'ultimo round di una lotta che è durata secoli, nel cristianesimo orientale, tra spregiatori della materia (gnostici, ariani, monofisiti) e rivalutatori della medesima. Le omelie di Giovanni, scritte in un Greco semplice (ma Mansour era un erudito coltissimo, oltre a un musicista e poeta raffinato) passano rapidamente il confine e infiammano il dibattito.


Alla fine, anche grazie a un'imperatrice affezionata alle sue icone di famiglia, l'iconoclastia sarà rigettata come eresia. Cinquant'anni più tardi un'altra sconfitta militare e un altro imperatore perplesso rimetteranno in gioco tutto quanto, ma ormai la strada è segnata: di là dal confine l'Islam diventerà sempre più iconoclasta e astratto (ben presto dopo Dio anche Maometto diventerà irraffigurabile); al di qua produrre icone diventerà sempre più redditizio: le icone foreranno la seconda dimensione, gli italiani scopriranno la prospettiva, nel Quattrocento si riapproprieranno delle forme della classicità... e così via, fino al realismo moderno, che forse non avrebbe messo il corpo umano al centro della scena, se mille anni prima Giovanni Damasceno non avesse intimato ai cristiani di non offendere la materia. Forse. Certo, di sussulti iconoclasti nella nostra Storia ce ne sono stati altri. Per esempio la riforma protestante, che sostituì la lettura e la meditazione della Bibbia alla venerazione per le immagini; per la verità in molti distretti di Francia e Germania i contadini iniziarono a mozzare le statue delle chiese prima ancora di imparare a leggere, segno che pure in questo caso Lutero non faceva che dare un volto a un'avversione condivisa. Insomma, è curioso, ma periodicamente la gente si stanca delle icone. Curioso ma fino a un certo punto, in fondo un certo tipo di iconoclastia popolare e istintiva esiste ancora oggi, anche se lo chiamiamo vandalismo. Ed esiste anche l'iconoclastia degli intellettuali: almeno fino a qualche anno fa “iconoclasta” era un complimento, specie quando si rivolgeva agli artisti. “Il suo talento iconoclasta”. “La sua furia iconoclasta”. Il culmine della modernità sembrava in effetti la distruzione delle icone – e quindi anche dell'arte in sé.


Oggi, anche se “iconoclasta” conserva ancora qualche residuale eleganza, mi pare che si apprezzi ancora di più il termine “icona”. L'icona della rivolta, l'icona del cambiamento, l'icona gay, la postmodernità sembra dedicarsi con sommo zelo alla produzione di icone. È un atteggiamento più pragmatico: artisti e comunicatori in fondo hanno accettato che anche la distruzione delle icone è un'icona. Axl Rose, per fare un dotto esempio, non è mai stato tanto idolo come quando sfoggiava la scritta Kill Your Idols. Prima non riconoscevamo più il sacro, ora siamo pronti a riconoscerlo in Lady Gaga. È il postmoderno. Ma mi domando se non sia anche una sorta di reazione alla civiltà iconoclasta che ci è cresciuta accanto: l'Islam. Nel medioevo ci ha dato l'aritmetica e l'arte calligrafica, trionfi di un atteggiamento 'astratto' nei confronti dei fenomeni. In seguito sembrava aver ceduto al materialismo dei coloni europei. Il moderno integralismo religioso coincide con una nuova stagione iconoclasta. I talebani si presentano al mondo facendo saltare due statue di Buddha, anche se il mondo per l'occasione lì degnò appena di qualche occhiata di sdegno. Andò diversamente sei mesi dopo: buttar giù le due torri di Babele del World Trade Center, quello sì fu il vero gesto iconoclasta.


Dunque è così, la guerra tra iconoclasti e iconoduli non è finita? Siamo ancora arruolati? Non lo so, credo che nemmeno Giovanni (Mansour) oggi sarebbe sicuro di capire da che parte siamo della barricata. Prendiamo il caso delle vignette. A un certo punto alcuni disegnatori europei si sono fatti un punto d'onore nel voler mostrare il volto di Maometto, infrangendo un divieto che non è nemmeno nel Corano ma che è ormai prassi da più di un millennio. In gioco cosa c'era esattamente? L'idea che qualsiasi raffigurazione, qualsiasi icona, in Occidente sia possibile. Il fatto che ci sia anche un solo volto, che per questioni delicate non si può mostrare, appare agli occidentali, iconoduli da più di mille anni, semplicemente scandaloso. Non solo si può mostrare tutto: tutto deve essere mostrato, altrimenti siamo fuori dalla civiltà. E tutto deve essere mostrato a scopo di potersene burlare: il volto di Maometto non può essere al di sopra di quell'autorità suprema che è la Satira Occidentale. Ora, fermo restando che per me ha sempre torto chi usa l'esplosivo, mi resta il dubbio su chi in questa situazione sia il vero iconoclasta: gli autori di Charlie Hebdo che reclamano il diritto a raffigurare e farsi gioco anche dell'immagine del Profeta, o gli integralisti che gli fanno saltare in aria la redazione? Più iconoclasta il libico che protesta contro la maglietta scema di Calderoli o il ministro Calderoli che in piena emergenza mondiale sul terrorismo islamico si sforza di offendere qualche musulmano con una maglietta scema? 


In fondo anche Charlie Hebdo era l'icona di un'istituzione sacra all'Occidente: la Satira o la Libertà di Espressione. Chi è il vero iconoclasta, l'integralista Osama che per lottare contro il Grande Satana non disdegnava di mostrare in video la sua figura ieratica, o il democratico Obama che dopo averlo dichiarato morto non ha voluto né divulgare foto, né indicare il luogo di sepoltura? La motivazione ufficiale è che non si voleva creare un monumento, o altri materiali per future icone. Del suo martirio di Osama non circolerà alcuna immagine: sul suo volto devastato dalla sparatoria Obama ha tirato una tendina, simile a quelle che usavano i pittori medievali per coprire il volto dell'irraffigurabile Maometto. C'è dell'ironia. E c'è dell'iconoclastia. Ma non si capisce da che parte del velo.

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Due Edipi al prezzo di 1

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Che poi non ho capito come mai abbiamo le radici cristiane, non possiamo non dirci cristiani eccetera eccetera, ...e poi appena ci serve un mito o una leggenda le andiamo a prendere dai pagani.


Tipo Edipo. Come se i cristiani non avessero anche loro un loro Edipo. Altroché se ce l'hanno. Con il 100% di incesto in più. Si chiama Sant'Albano d'Ungheria, e lo trovate in esclusiva sul Post.

1 dicembre - Sant'Albano d'Ungheria (???-???), leggenda.

A volte mi sento così vecchio – immaginatemi come un venerabile monaco rinchiuso in qualche pertugio tra Alto e Basso Medioevo, che dopo aver passato il mattino a sgridare i novizi se ne sale nel suo scriptorium e comincia a vergare pagine su pagine di inchiostro, un po' alla carlona, come viene viene, per posteri che comunque difficilmente capiranno, in una lingua che a furia di rimasticare tra sé e sé non è poi così sicuro che sia comprensibile a qualcun altro. E la situazione mi diverte, debbo dire, anche se mi rimane la perplessità: questa lunga barba che mi s'impiglia nella tastiera quando mi è spuntata, come accidenti ho fatto a incanutire e invecchiare così in fretta, quale demonio, quale sortilegio?

Si chiama internet (avevate dei dubbi?) Luogo amenissimo, ma il tempo qui non scorre lineare come altrove, bensì accelera a ritmo esponenziale; cose avvenute l'altro ieri sono già medioevo, per esempio io mi ricordo di quando Twitter nemmeno esisteva, e Murdoch metteva da parte i soldini per acquistare un fantastico social network che avrebbe rivoluzionato l'internet due punto zero, MySpace credo che si chiamasse. Ricordo la crociata dei folli, o dei bambini, insomma le colonne di fanatici che partivano alla volta di un'isola misteriosa chiamata Second Life, donde non tornarono mai (in realtà tornarono tutti fischiettando e facendo finta di niente, ma erano già passati secoli e nessuno ci fece caso). Per farla breve io mi ricordo quando qui non c'erano città, e nemmeno campagna, ma una specie di palude, un brodino indigesto ma già molto interessante. E ho una precisa idea di quando la storia iniziò veramente: tanto che propongo d'ora in poi di contare gli anni così: Prima e Dopo Wikipedia.

Lo so, ci sono altri spartiacque interessanti. Prima e dopo Google, ad esempio. Ma io quei primi anni di Google me li ricordo, ai tempi scrivevo già biografie on line (per meglio dire le ricopiavo in modo che non sembrassero ricopiate, sostituendo a ogni parola un suo sinonimo). Ecco, rammento bene come Google sbaragliò tutti gli antidiluviani motori di ricerca, dimostrandomi con una rapidità e un'efficienza impareggiabili che su Internet... l'informazione che cercavi non c'era quasi mai. Internet, quella Terra Promessa virtuale, si rivelava una pletora di pagine statiche messe on line con tanto entusiasmo e subito abbandonate al loro polveroso destino, una foresta di errori 404 e di cartelli di lavori in corso... le miniature gif animate con l'omino che lavora davvero, vi ricordate? Alcuni di quegli omini hanno continuato a oscillare indefessi per più di dieci anni, se vai a vedere sono ancora lì che cazzuolano in loop.

Fu in quel periodo che aprii il mio primo blog e devo dire che ci si divertiva molto, a quei tempi: la gente era più disponibile al confronto, all'ascolto, e ti bastava veramente saperne poco per fare un figurone. Era il tempo in cui, per citare il poeta, i bambini facevano oooh. Ricordo per esempio che una volta in occasione di un ponte di dicembre scrissi un pezzo sull'Immacolata Concezione e un sacco di gente mi linkò e mi fece i complimenti, tra cui anche un giovane blogger che oggi è il meno giovane direttore del Post, tutto perché avevo scritto due cosine sull'Immacolata Concezione, davvero due cosine senza pretese, che però... però sull'Internet non le aveva ancora scritte nessuno. Capite la bellezza del far west, della pergamena bianca? In quegli anni, qualsiasi cazzata ti venisse in mente, “la marchesa uscì alle cinque di sera”, era un unicum, e da quel momento chiunque avesse cercato su Google una marchesa che usciva alle cinque di sera sarebbe finita sul tuo sito, ci fu gente che in questo modo si incontrò e concepì bambini. Però era chiaro che non sarebbe potuto durare. Prima o poi tutto questo caos spontaneo si sarebbe dato uno straccio d'ordine, e così fu.

Fu Wikipedia. Lo so che non si direbbe, ma Wikipedia è meno caos del precedente Chaos. Oggi non posso più fare il furbo come un tempo, rivendermi le mie quattro nozioni memorizzate tra liceo e facoltà; oggi chiunque può controllare su wikipedia e saperne subito più di me, o addirittura scoprire che anch'io sono andato, orrore! a controllare su wikipedia. Tanto che ormai non la linko neanche più, wikipedia, ormai sanno tutti come fare a cercare su wikipedia, ci vanno anche i bambini delle medie. E io non oso più parlare di teorie delle stringhe o diritto costituzionale, perché tutti potrebbero accorgersi di quanto improvviso. C'è un solo ramo dello scibile umano che è rimasto quasi intatto. (Continua...)

Controllo delle nascite
all'egiziana.

...Sì, dicevo che c'è un solo ramo dello scibile umano che è rimasto quasi intatto: le vite dei Santi. Qui ci si può divertire ancora come un tempo.

E dire che all'apparenza di vite di Santi qui se ne trovano parecchie. Però alla fine a guardare bene ripetono sempre gli stessi dettagli, presi da un paio di fonti (il più delle volte santiebeati.it, che è diventato una specie di punto di riferimento, e in effetti fornisce schede succinte ed esaurienti). Se uno vuole proprio farne un mestiere, su internet ci sono tutti i tomi degli Acta Sanctorum bollandisti, una sessantina di pesantissimi pdf (mille e più pagine l'uno) in latino, meravigliosi: quando finalmente il browser si apre, ti sembra di sentire l'odore della carta muffa di tre secoli. Ma comunque non puoi fare ctrl+f, quindi se cerchi, per dire, la vita di Sant'Albano d'Ungheria, puoi passare una vita intera a scrollare e a cercare – ma a quel punto fai molto prima a inventarti tutto quanto. E di colpo sono restituito al mio destino di venerabile contafrottole medievale, che su Sant'Albano di Ungheria non ha trovato che pochi dettagli (“È ricordato il 1° dic, ma è un santo inventato dagli agiografi” ci avverte perentoria l'enciclopedia dei Santi) e allungherà il brodo con quel che passa il convento, alla carlona, come viene viene.

Albano è uno dei tanti trovatelli che si trovano nei miti e nelle fiabe, a partire da Mosè. Siamo in un'Ungheria impossibile, un'Ungheria prima degli Ungari, visto che nella pianura omonima non si sono visti fin quasi al decimo secolo, e la leggenda è più antica. Sul ciglio di una strada viene trovato questo tenero frugoletto in una culla: nella stessa culla vengono rinvenuti un anello d'oro, una cauzione in monete d'oro, un pallio finamente decorato – il pallio è la sciarpina che portano i vescovi metropoliti e prima di loro i filosofi. Tutti indizi di ricchezza, saggezza, regalità, per cui il pacchetto con bambino incluso viene subito portato al re della finta Ungheria, il quale, guarda un po' la coincidenza, è sterile. No, in realtà secondo la leggenda è sterile la moglie, sono sempre le mogli nelle leggende. Sia come sia, i due reali quando vedono questo bambino così dolce non ci pensano due volte; la regina si chiude nei suoi appartamenti per nove mesi e quando ne riemerge dicono a tutti che il bambino è suo.

...un aiutino?
Albano cresce così nell'affetto dei genitori reali e adottivi, ignari che quello che stanno covando è un orribile mostro! Il frutto della colpa più orribile! Albano infatti è figlio di un Imperatore (non si sa bene di cosa, Imperatore e basta) che non avendo saputo tenere a freno i suoi appetiti incestuosi aveva giaciuto con la sua stessa figliuola. Costei, ben sapendo che il padre-amante avrebbe ucciso nella culla il suo figlio-nipote, aveva per l'appunto deciso di mandarlo per il mondo in un cestino. Sfortunatamente il mondo delle leggende è molto piccolo. Albano, principe d'Ungheria, cresce così bello e costumato che la sua fama arriva persino all'Imperatore, il quale con gli anni si è stancato dei vizi di un tempo, e sta cercando un buon partito per la sua figliola. Avete capito dove stiamo andando a parare? Cioè, Edipo al confronto è un chierichetto. Albano non giace soltanto con la madre, ma anche con la sorella, in un incesto al quadrato. Ovviamente è soltanto nella pagina successiva che l'anziano re d'Ungheria inferma, e prima di morire decide di rivelare i dettagli dell'adozione. Quando saltano fuori l'anello d'oro e il pallio, immaginate la reazione di Albano nello scoprire che è figlio della madre e del nonno, ma anche del padre e della sorella; non solo, ma se ci riflettete bene Albano è anche figlio del suocero e della sua amante, o se preferite della cognata e del papà. O del nonno. Insomma c'è di che impazzire e accecarsi, ma quello lo ha già fatto Edipo. Prostrati dalla consapevolezza della colpa, Albano, l'Imperatore nonno-padre-suocero e la principessa madre-sorella-cognata vengono indirizzati dal vescovo a un eremita nel bosco – il che ci conforta nella supposizione che la leggenda abbia qualche radice orientale. L'eremita, interrogato dai tre tremebondi, li rassicura: il peccato è orribile, ma salvarsi è ancora possibile. Bisogna però lasciare il mondo e vagare meditando per i boschi, ognuno per il suo sentiero, per sette anni. I tre eseguono. Ogni anno però tornano, a turno, dall'eremita, per riferire i propri progressi spirituali. La cosa sembra sul punto di funzionare, senonché...


Senonché il settimo anno, quando la salvezza sembra a portata di mano, qualcosa va storto nel programma e i tre, che non vedono l'ora di tornare dall'eremita, incrociano le loro strade quando il sole è già basso all'orizzonte. Pazienza, vorrà dire che dall'eremita ci arriveranno il giorno dopo: nel frattempo bisogna trovare un giaciglio per la notte. Albano, che è il più giovane, si prodiga a fabbricare per i genitori un letto di foglie, e quindi si appisola lui stesso tra le fronde di un albero. Ahilui! E maledetto l'usignolo molesto che lo svegliò nel cuore della notte, affinché potesse vedere coi suoi occhi il padre, e la madre (e la sorella, e la cognata, e il suocero, e il nonno) di nuovo succubi dell'antico orribile vizio, nell'atto di concupire e concepirgli un fratellino, ma anche uno zietto, e un cugino, e un cognato, e insomma, basta con questo orrore! Albano tira fuori la spada e ammazza tutta l'allegra famiglia. Poi ovviamente se ne pente, ma il più è fatto. L'eremita, interrogato, prescrive la stessa pena di prima. (Forse la prescriveva a tutti. Ehi, eremita, ho rubato una mela al mercato di Bonn. “Tu fare sette anni di penitenza in foresta e ogni anno tornare qui”). Albano ricomincia la sua peregrinazione nei boschi, finché al quattordicesimo anno finalmente non può dirsi mondo di ogni peccato, pronto per una vita di santità. A questo punto finalmente i ladroni del bosco lo assaltano e uccidono. Bella leggenda. Cosa ci voleva rappresentare?



Il palinsesto è quello di Edipo, d'accordo. Ma a essere interessanti sono appunto le differenze. Più della complicazione bizantina per cui l'incestuoso è a sua volta figlio dell'incesto, vale la pena di notare la mancanza di un dettaglio che in realtà nel mito di Edipo funziona da cardine della vicenda: la profezia. Edipo non viene allontanato perché è figlio di una colpa precedente, ma perché l'oracolo conosce già la sua colpa futura. Ucciderà il padre, così ha deciso il destino e il destino degli antichi è una profezia che si autoavvera: allontanandolo da sé, Laio crea le premesse affinché nel momento fatale Edipo infuriato non lo riconosca e lo faccia fuori a un crocicchio. Invece l'intenzione del contafrottole tardoantico che mette in circolazione questo Edipo alla seconda sembra essere l'opposta: nulla è scritto, anche il crimine più orrendo si può riparare. Però bisogna stare attenti, fino all'ultimo: si può peccare per sette anni e cadere l'ultimo giorno. Il mito è stato cristianizzato, ma come certi idoli sudamericani riverniciati alla bell'e meglio, trattiene ancora qualche pezzettino di carne umana tra i denti. Fino al settimo anno di penitenza non si capisce quale sia la colpa di Albano: da un punto di vista cristiano non ha avuto l'intenzione di peccare, quindi non ha peccato, almeno Abelardo la vedrebbe così (ma ha sfiorato il rogo, Abelardo). Poi alla fine un peccato lo commette, ed è quello di sostituirsi a Dio, punendo i genitori dell'incesto. Alla fine, quando tutto sembra risolto, arrivano dal nulla questi ladroni come a ribadire che un buon Santo deve morire di morte violenta. Non importa, anche se non ha fatto in tempo a fare veramente qualcosa di buono, Albano ha rimediato alle sue colpe ed è Santo. I miracoli li farà da morto, per i miracoli c'è sempre tempo.

Ed ecco qua, si è fatto tardi e poso la penna. Credo sinceramente di aver scritto la miglior leggenda di Sant'Albano in circolazione: perlomeno, superiore a quelle che ho trovato nella paludosa biblioteca del mio monastero, quod dicitur Internet. Magari qualcun altro tra qualche secolo la troverà interessante e la riscriverà ancora migliore. Magari invece arriveranno altre orde di barbari, il monastero cadrà in malora e nessuno saprà più leggere. Magari. Io il mio dovere di venerabile erudito l'ho fatto, adesso se permettete vado a dire i vespri e poi al refettorio mi faccio spillare una pinta di quelle buone. È stato un buon pomeriggio.

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101 teorie

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Ed eccoci qua. Ormai sono due anni che scrivo all'Unità, e in effetti non mi ero ancora presentato.


(È che detesto l'autoreferenzialità, sapete). La teoria numero centouno è sul mio nuovo blog sull'Unità (Sì! Abbiamo cambiato di nuovo la piattaforma! E per ora wordpress mi taglia le immagini! Ma il peggio è passato).

Come avrete notato, qui sopra è cambiato qualcosa – ogni tanto succede. Nel gergo dei blog si chiama “cambio di piattaforma”, io da quando scrivo sull’Unita.it ne ho cambiate già tre – a proposito, da quando scrivo sull’Unita? Ormai sono due anni, ho iniziato nel dicembre 2009. E siccome la settimana scorsa ho pubblicato il post numero 100, ne approfitto per festeggiare parlando un po’ di me. Lo so che è una cosa imbarazzante, ma i blog lo fanno (anzi qualcuno dice che non facciano altro).
A volte diventa quasi indispensabile. Me ne sono accorto una volta mentre leggevo i commenti (sì, li leggo, tutti. E cancello solo i doppioni e le parolacce, neanche tutte). Sotto a non mi ricordo più quale fondamentale riflessione, c’era un lettore che diceva qualcosa del tipo: ‘interessante, però scusa, tu chi sei?’ Dove il “chi sei” si può leggere in tanti modi: chi sei tu per dire una cosa del genere? Hai un qualche tipo di autorità, hai studiato l’argomento, hai titoli, un curriculum qualunque? La risposta a queste domande in generale è no: non sono un esperto di niente. Se non avevate mai sentito parlare di me è perché io in buona sostanza sono un insegnante di scuola media con l’hobby della scrittura on line, tutto qui. E quindi, insomma, con che titolo mi metto a parlare di Berlusconi o di scuola media o di qualsiasi altro argomento?
Con nessun titolo, appunto. Per molti anni non mi sono nemmeno firmato col cognome, cosa di cui molti mi rimproveravano (la querelle tra anonimi e cognomi va avanti da sempre). In realtà quando alla fine scoprivano come mi chiamavo spesso ci rimanevano male, perché non corrispondeva appunto a nessuna persona di qualche importanza: e insomma avevano perso tempo a polemizzare con uno sconosciuto, credendo che magari dietro il nick ci fosse chissà chi. Le cose che scrivevo erano più interessanti della persona che le scriveva.
Ho sempre pensato che le cose avrebbero dovuto restare così: non chiedetevi se chi scrive è un esperto, leggete soltanto se trovate che ci sia qualcosa di interessante. Se parlo di scuola, è perché ci vado quasi tutte le mattine. Se parlo di Berlusconi è perché anche lui in un qualche modo fa parte della mia esperienza quotidiana da venti e più anni; credo che dopo averlo subito per così tanto tempo il minimo che ci meritiamo tutti è una laurea in berlusconologia ad honorem. Se parlo di qualsiasi altro argomento, ne parlo da dilettante: cerco di partire da dati oggettivi, osservazioni condivise; ci costruisco una teoria, il più possibile originale, qualcosa che ritengo non sia già stata scritta da qualcun altro sullo stesso argomento; e voi siete liberi di scannarmi nei commenti. Per inciso, all’inizio il blog (non era nemmeno un blog, era ancora una rubrica) si chiamava proprio “ho una teoria”, una specie di tormentone che mi capita di usare spesso, anche in modo involontario. È tutto quello che ho: teorie. Il più delle volte non reggono al collaudo, però restano interessanti. Cesare Buquicchio (che non smetto di ringraziare) invece mi aveva proposto di chiamarlo “Spero di sbagliarmi”, un’altra mia frase ricorrente, ma mi sembrava che rivelasse un po’ troppo di me. Sì, sono una persona fondamentalmente pessimista, che spesso teorizza catastrofi e poi aggiunge in calce, a mo’ di scusa, che spera di sbagliarsi. Qualche volta fortunatamente mi sbaglio davvero, anzi stavo quasi pensando di andare a contare la percentuale di errori nei 100 post che ho scritto, ma è un lavoraccio (e i primissimi sono un po’ difficili da reperire: comunque questo è il primo. È la risposta a un giornalista che si lamenta, ehm, dei commentatori che scrivono parolacce).
Quel lettore che mi chiese “chi sei”, magari aveva soltanto voglia di trovare o leggere altre cose mie. Anche questo è legittimo. Nella nuova piattaforma trovate foto e biografia minima. La foto è un’altra cosa che per molti anni non ho sopportato di vedere sopra le cose che scrivevo. Anche adesso mi dà un certo fastidio, in generale bisogna mostrarsi sereni e sorridenti, poi magari se frana una montagna è molto difficile riuscire a scrivere qualcosa di intelligente sotto un sorrisetto idiota (giusto ieri sul mio twit c’erano un paio di facciotte di opinionisti sorridenti che discettavano di suicidio assistito). Magari troverò una smorfia più seria. Comunque quello lì sono proprio io, senza occhiali. Se c’è una parola che mi dà fastidio è “cattocomunista”, ma forse è lo stesso fastidio che provo per la mia foto o la mia voce registrata, visto che io davvero sono nato cattolico e sono cresciuto un po’ materialista dialettico, e ho fatto in tempo, se non a conoscere Dossetti, almeno a stringergli la mano. Sono cresciuto e sto invecchiando nella provincia di Modena, nel famoso triangolo rosso; salvo che la mia era una famiglia di bianchi, a parte il nonno materno che leggeva l’Unità. In casa nostra invece passammo dal Resto del Carlino alla Repubblica mi pare verso il 1985, anche grazie all’inserto di vignette che si chiama Satyricon. Conservo da allora una deferente ammirazione per Scalfari, ma anche per Disegni e Caviglia. Sono stato scout cattolico dai lupetti fino a Capo-Reparto, più o meno come Matteo Renzi. Poi mi sono un po’ perso e adesso avrei qualche difficoltà a definirmi cattolico, anche se la storia del cristianesimo rimane uno dei miei hobby (da qualche tempo scrivo anche un blog sulle vite dei santi, dove nei commenti mi danno alternativamente del baciapile e del mangiapreti, è stimolante).
Mi sono laureato in Lettere, come milioni di altri umanisti frustrati, nel ’98, ma in un qualche modo mi sono messo subito a lavorare e, grazie anche a qualche sana botta di fortuna, non ho più smesso. Però sono un’eccezione; non fate come me, non laureatevi in lettere. Nel 2001, lavorando in un ufficio dove ero connesso per 8 ore al giorno, aprii un blog quasi per caso. Alcuni blog italiani esistevano già, ma in seguito hanno chiuso: il mio è uno dei più vecchi, e, a causa della mia verbosità, probabilmente uno dei più lunghi in assoluto. Secondo me ormai ho superato la Bibbia, anche se mi manca la forza di controllare.
Quando ci fu il g8 di Genova cercai di fare col blog quello che adesso tutti provano a fare con twitter, finché la polizia non troncò il cavo del mediacenter delle scuole Diaz e il resto della cronaca dovetti pubblicarmela da casa. È stata l’unica cosa vagamente giornalistica che ho fatto, perché io in realtà arrivo al blog da un percorso di scrittore frustrato. Alcuni pezzi che ho scritto sono stati raccolti in un volumetto che si chiama Storia d’Italia a rovescio (2006-2002), pubblicato da una casa editrice che ha chiuso i battenti immediatamente dopo. Ho anche scritto un libro serio, sull’unico argomento di cui sono un esperto, non scherzo, a livello mondiale: il futurismo letterario.
Veniamo alla politica, visto che è la cosa su cui di solito si litiga qui. Dunque io sono antiberlusconiano, come s’è capito: non credo che Berlusconi sia la fonte di ogni guaio dell’Italia, ma ne è un sintomo enorme, di cui non dobbiamo smettere di occuparci. Credo di essere stato antiberlusconiano ancora prima che Berlusconi scendesse in politica, forse ancora prima di captare Canale 5, può darsi che sarei stato antiberlusconiano anche in assenza di Berlusconi. Lo ero per vari motivi, a partire dalla violenza con cui interrompeva i cartoni animati per mostrare assurde pubblicità di bambole in rosa, il cui edonismo non condividevo. Ho odiato Craxi e il pentapartito di un odio che oggi faccio un po’ fatica a rievocare. Negli anni Novanta sono stato prodiano, avete presente quelli che dopo dieci anni ancora non perdonano Bertinotti (e Vendola) di aver fatto cadere il Prodi I, ecco, io sono uno di quelli. E ovviamente ce l’avevo con D’Alema, le sue barche, le sue bicamerali, il suoi calcoli astuti sempre sbagliati, eccetera. È buffo che adesso i lettori mi diano del dalemiano. Ma forse hanno ragione, e più che buffo è triste.
Durante e dopo il G8 mi sono trovato in una posizione abbastanza barricadera. Mi è capitato diraccogliere firme per la Tobin Tax, mentre confluivo nel Correntone e subivo (come tanti) l’infatuazione per Cofferati. A un certo punto, che non è chiaro nemmeno a me, devo aver ridimensionato di parecchio l’orizzonte delle attese, perché mi sono ritrovato a sperare nel secondo avvento di Prodi, e a soffrire molto per il suo governo nato zoppo. Veltroni, con tutta la sua valigia di sogni, mi ha sempre lasciato un po’ freddo, ma a un certo punto pensai che fosse un problema mio, che invece poteva essere l’uomo giusto per rilanciare un qualsiasi centrosinistra (però alle primarie votai Rosy Bindi). Sono diventato un antiveltroniano cocciuto quando mi sono reso conto che il problema non era soltanto mio, che l’uomo non riusciva a entusiasmare quasi nessuno. Alle ultime primarie votai Bersani e devo dire che non mi sono pentito, anche se in questi giorni mi è tornata in mente una cosa che avevo scritto un anno fa all’indomani di un insuccesso elettorale alle amministrative: “Bersani ha trenta mesi per mostrare che il suo partito non vuole cambiar pagina solo a parole. Siccome altri test elettorali per lui non ci saranno, e questo è stato deludente, forse è il caso di pensare a un altro turno di primarie nel giro di due anni. Se avrà fatto un buon lavoro sarà riconfermato”. In questa cosa ci credo ancora: invece non capisco perché dovremmo perdere tempo a fare primarie di coalizione, come se il problema sia decidere se il leader della coalizione è Bersani o Vendola. No, secondo me Renzi, o chiunque altro abbia un’idea del PD diversa da proporre, dovrebbe proporla agli elettori del PD, confrontarsi con Bersani, e lasciare che gli elettori del PD decidano. La butto lì, diciamo che è la teoria di uno che non ha nessuna voce in capitolo, nessun accesso a nessun retroscena, e non rappresenta altri che sé stesso. La mia teoria numero 101. Alla prossima settimana. http://leonardo.blogspot.com
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La Morte e il Comunista d'Unità Proletaria

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And I can take or leave it, if I please.

In Italia – in realtà sui giornali italiani, e nelle chiacchiere dei pochi che ancora li sfogliano – si tende a usare con molta libertà il termine “radical chic”, quasi sempre a sproposito. In realtà è una bella espressione, con una storia interessante dietro (vedi Bordone), però a un certo punto Feltri l'ha trovata in un cassetto della scrivania di Montanelli e adesso non ce ne liberiamo più, ormai mio padre, artigiano autoriparatore, se la sera al circolo Acli tira fuori una battuta su Berlusconi rischia forte di sentirsi dare del radical chic – capisco io col mio sontuoso stipendio di statale, ma mio padre radical chic insomma davvero no.

Detto questo, il radical chic è esistito, anche in Italia. Non lo coltivavano gli autoriparatori, né gli insegnanti statali: era gente che se la passava un po' meglio, possiamo anzi concludere che se la siano spassata abbastanza. Se avessimo a disposizione soltanto dieci righe per descriverli, forse quelle righe le ha scritte Simonetta Fiori ieri, siringando molta, troppa, ironia (involontaria?) in un pezzo che era oggettivamente difficile da scrivere: il resoconto della morte di Lucio Magri, come lo hanno vissuto nella sua casa i suoi amici distanti. In teoria, una situazione agghiacciante. E invece leggete:

A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c'è più.

La Roma papalina, il parquet chiaro, la scrivania impero, la scorza di limone, i divani bianchi, la cameriera sudamericana, il bicchiere a cono, il Manifesto che è (sublime dettaglio) “collezione” e come tale ben merita di essere accostato ai fascicoli di cucina, io che non so cosa pensare. Cosa stai facendo, Simonetta Fiori? Sei imbarazzata, come i bambini ai funerali, che non sanno dove guardare e cominciano a fissare ogni dettaglio? Oppure lo stai facendo apposta: ci tieni a far notare che Magri, già fondatore del Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, sarà anche stato depresso, ma aveva ancora la possibilità di farsi mescere dei Martini come si deve? Cosa mi vuoi dire, esattamente?

Che non è vero che era depresso, cioè era depresso allo stesso modo in cui poteva definirsi Proletario per il Comunismo uno che si fa servire il Martini nel bicchiere a cono dalla cameriera sudamericana: uno che da giovane fregava o si faceva fregare le ragazze da Guttuso, uno che nell'Italia fervida dei '60-'70 si è inventato il mestiere di rivoluzionario parlamentare e gli è andata, diciamolo, alla grande? Ma se capisco così, ovviamente, è tutta colpa mia; tu sei soltanto una lucida cronista.

Io a volte ci penso, al suicidio. In un modo abbastanza astratto, ancora, però ci ho sempre pensato. Soffro di una forma molto fisica di vertigine; ogni volta che mi sporgo da un balcone il flusso di sangue nei capillari mi dà una specie di botta. È sempre stato così fin da bambino, e la mia camera dava su un balcone. Secondo me suicidarsi non è un diritto, è qualcosa che viene addirittura prima del diritto: è una possibilità che ti porti con te per tutta la vita, al di là del fatto che la società te la riconosca o no. È un balcone che dà sulla tua stanza per tutta la vita: ogni giorno che vivi, hai deciso di viverlo, hai scartato l'alternativa. Può darsi che tu sia un asociale se vuoi suicidarti; può darsi che le tue ragioni (“sono depresso”) siano solo scuse; non importa. In realtà non dovresti nemmeno cercare delle scuse. Il mio suicida ideale non chiede scusa a nessuno e non vuole le scuse di nessuno. Il mio suicida ideale non si suicida perché soffre, o è depresso, o frustrato: si suicida perché ne ha voglia, si suicida perché può. Prima della società, coi suoi doveri e i suoi diritti, c'è il corpo, e il corpo è tuo. Devono metterti in una cella, toglierti la cintura, limarti le unghie, nutrirti a forza: a quel punto forse il corpo smette di essere tuo.

Di solito quando pensavo al suicidio pensavo a queste cose, molto astratte come si vede. Invece ultimamente mi è capitato di pensarci più concretamente – non preoccuparti mamma – per via che guardo troppi telegiornali e insistono molto sul fatto che io a settanta, forse anche settantacinque anni, dovrei essere ancora sul mio luogo di lavoro. Io poi lo amo il mio lavoro, e un giorno forse chissà, il mio amore mi corrisponderà – però onestamente, pensare di essere ancora lì tra quarant'anni, con marmocchi dotati della stessa energia, ma meno decifrabili, i nipoti di quelli che ho adesso – uno comincia a fare pensieri molto più concreti, del tipo: è meglio alla tempia o in bocca, la rivoltella? E dove me la procuro? Ma posso ottenere un porto d'armi se ho fatto obiezione di coscienza... e così via. Credo sia così per molti; credo che la questione generazionale, in Italia, potrebbe risolversi con un'epidemia di suicidi grosso modo verso il 2040.

Di fronte a questi pensieri un po' tetri e troppo prosaici, la figura di Lucio Magri, che prima ci pensa, poi va in Svizzera, ne discute, poi torna a casa, ne parla con gli amici (la cameriera serve da bere), poi torna in Svizzera (altre due volte), e gli amici intanto aspettano... la figura di Lucio Magri in questo cupo teatro d'ombre svolazza come una silhouette settecentesca, con una leggerezza che davvero non è più di questi tempi. Si capisce che ha avuto una vita bella, piena di ideali che poi sono falliti ma è quello che capita più o meno sempre; ricca di amici coi quali ha fondato il Manifesto, il PDUP per il Socialismo, DP, il Movimento poi Partito della Rifondazione Comunista, il Movimento dei Comunisti Unitari... E in mezzo a tutto questo viveva in una bella casa, con mobili chiari, tenuta sempre in ordine; una bella compagna che gli faceva pure il bancomat, e che un giorno se n'è andata, e da quel giorno la vita ha perso il senso: come forse è giusto che sia a 79 anni. E così Simonetta Fiori forse tu non volevi scrivermelo, ma io ho capito esattamente questo: il suicidio assistito è un lusso, roba da Svizzera, roba radical chic, insomma. In Italia continueremo a discuterne per anni, diritto o non diritto – come se davvero uno Stato, una società, possano costringerci a vivere se non ne abbiamo più voglia. Alla fine sarà come l'aborto, un orrendo delitto che non vorrebbero assolutamente farci commettere - soprattutto in un ospedale di Stato, a spese dello Stato: con tutte quelle belle cliniche private che ci sono: dalla Svizzera in giù.
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Cinguettami questo

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Contra Laconicos
(pezzo lungo e se ne vanta)

È stata una settimana qualsiasi su Twitter, il popolare servizio di messaggistica via internet. Domenica scorsa un giornalista italo-niuorchese, uno di quelli che praticamente c'era quando Al Gore inventava l'internet, ha lanciato un meme che è diventato subito popolarissimo: scrivere i nomi di tutti gli scrittori sopravvalutati, per esempio lui trova che Borges sia sopravvalutato. Da cui si vede la superiorità di twitter su qualsiasi altro social network o ambiente in rete: per dire, io se scrivessi su un blog che Borges è sopravvalutato (sì, io sarei abbastanza deficiente da farlo, qui per esempio ho stroncato Montale), per dare un senso alla cosa dovrei dilungarmi per migliaia di battute, e comunque mi scannereste nei commenti. Se lo facessi su un forum, o anche su quella amena palude che è Facebook, partirebbe subito un flame che avrebbe i caratteri della disputa medievale, qualche futuro studioso potrebbe persino trovarci qualcosa di interessante. Insomma, non importa quanto sia superficiale un'affermazione: la possibilità di scavarci sotto e trovare cose interessanti su internet c'è, lo spazio non manca mai.

Manca solo su Twitter, l'unico vero spazio angusto della rete. Come gli ascensori, che però non è che siano stati progettati bassi e stretti così è più facile scambiarvi banalità cogli sconosciuti. La limitazione la impone la natura, la maledetta forza di gravità, fosse per gli architetti loro gli ascensori li farebbero enormi. Invece gli architetti di twitter lo hanno progettato piccolo apposta; è forse il primo vero consapevole passo indietro della comunicazione via internet. Una televisione che ha deciso di tornare al canale unico, una radio che manda solo impulsi morse; twitter ti costringe a sbrigarti in 140 caratteri, e quindi niente spiegazioni: Borges è sopravvalutato, punto. Sono in superficie e ci resto. Anche le modalità di reazione sono deliberatamente limitate e superficiali: certo, puoi sempre replicare “kazzo dici? Borges é grandissimissimo”, ma la tua replica se la legge soltanto il destinatario (dai duecento followers in poi probabilmente non se ne accorge nemmeno).

L'unica vera modalità di reazione che twitter consente e facilità è l'emulazione, per cui nel giro di poche ore ti ritrovi a video centinaia di cinguettii di sconosciuti che ti informano che Umberto Eco e Marcel Proust sono autori sopravvalutati, mentre il giornalista tutto allegro stila la classifica. Lui è uno di quelli che ci tiene molto a mettere sempre il nome e il cognome, secondo lui tutti su internet dovrebbero mettere sempre il nome e cognome, così per esempio i posteri sapranno lui come si passava la domenica pomeriggio: stilando classifiche di scrittori sopravvalutati da un campione casuale di utenti di twitter anche loro con niente di meglio da fare la domenica pomeriggio. (Noto qui en passant che "follower" in italiano si potrebbe benissimo tradurre con "seguace": per una volta che abbiamo una parola chiara, suggestiva, ancora più breve dell'originale... non sarebbe così male usarla).

Durante la settimana sono successe tante altre cose interessanti, per esempio a un certo punto un esponente della Lega Nord, intervistato sull'esistenza della Padania, ha citato come prova dell'esistenza della suddetta denominazione geografica l'esistenza di un formaggio chiamato “Grana Padano”. L'esempio è effettivamente interessante, perché segnala un problema: la parola “Padania” esiste. Non è che per far dispetto ai leghisti – detestabili quanto si vuole – possiamo negare l'evidenza: esiste l'aggettivo “padano, -a”, esiste il nome proprio “Padania”: esistevano anche prima che Maroni e Bossi se ne impadronissero a scopo propaganda (storpiando anche l'accento). Affermare che la Padania non esiste, trasformare quelle tre sillabe male accentate in un tabù, è un paradosso linguistico che alla fine fa soltanto il gioco dei leghisti, che non vedono l'ora di recitare la parte della minoranza perseguitata nel nome di una patria rimossa financo nel vocabolario. Su tutto questo mi sono dilungato altre volte, per mille e più battute, del resto si sa come eravamo noi blog: inutilmente verbosi. Invece adesso c'è Twitter.

E su Twitter è tutto più facile. Un leghista cita come prova dell'esistenza di una nazione un formaggio? Divertente! Copiamo la battuta. È stato il meme più seguito di venerdì: la Catalogna esiste perché esiste la crema catalana, la Savoia per via dei savoiardi, eccetera. Divertenti, no? Ecco, appunto, no.

Poi per carità, l'umorismo è soggettivo, ma date un'occhiata a una raccolta qualsiasi, come questa, delle “battute più simpatiche che imperversano su twitter”, e ditemi che senso possa avere “simpatiche”, a parte “bruttine che s'impegnano, ma invano”. Però magari finché stavano nello stream di twitter sembravano davvero divertenti. In effetti il meccanismo dell'umorismo di twitter è assolutamente primitivo: è lo stesso che sfrutta il comico che dopo averti scaldato con qualche battuta davvero buona riesce a farti sganasciare per un'altra mezz'ora con materiale di scarto: la reiterazione ossessiva, nel soggetto ben disposto, è esilarante in sé. Insomma twitter fabbrica tormentoni. Non solo, ma ti dà anche la soddisfazione di partecipare: alla centesima battuta costruita sullo stesso meccanismo, anche tu che sei un cretino ce la fai a scrivere che Gorgonzola esiste per via dell'omonimo formaggio: e non importa che non abbia un senso, la gente riderà comunque, la gente sta ridendo da prima, oppure ha smesso di ridere ma nessuno se ne è accorto; twitter è un Drive In di Ricci senza silicone ma soprattutto senza risate finte.

Sul serio, le ha tozzissime. Non vi immaginate il calvario.
Poi in settimana sono successe altre cose ugualmente divertenti, io non è che le abbia seguite tutte. Per esempio è successo che Scilipoti abbia fatto un errore di battitura, ma devo dire che ne faccio spesso anch'io d'imbarazzanti, perché credo di condividere con Scilipoti un difetto strutturale che non ci rende veramente adatti alla contemporaneità: le dita tozze. Così per esempio Scilipoti voleva scrivere “futuro” e ha scritto “fututo”, noterete che la t e la r sono proprio attaccate, insomma succede. E non è un problema; su qualsiasi altro servizio on line ci si può rapidamente correggere.

Su Twitter no.

Per cui capirete, che se Scilipoti pesta con un dito un tasto sbagliato, Twitter non glielo può assolutamente perdonare, e “fututo” diventa subito un fantastico, divertentissimo meme, che nella mia fantasia di portatore di dita tozze va a identificare quelle persone che nella vita reale si sganasciano se inciampi e cadi, e dopo tre anni t'incontrano ancora te lo raccontano, di quella volta che avevi fretta e sei inciampato e caduto, ah ah ah, ma quanto è buffo Scilipoti che scrive “fututo” - te lo scrive gente con dita affusolatissime che non riesce più a mettere la punteggiatura, ma del resto è Twitter, non vorrai mica stare a guardare.

Che altro? Ieri era contemporaneamente (come sempre) sia il Buy nothing day sia il giorno della Colletta Alimentare. Io avevo perso di vista da anni entrambe le iniziative, ma Twitter me le ha rammentate, con tutto il codazzo di polemiche e altre cose su cui senz'altro ho scritto migliaia di anni fa, non voglio nemmeno andare a cercare, del resto se sono vecchio è un problema mio, è giusto che altri si mettano a parlare delle stesse cose.

Però adesso lo fanno su Twitter, e su Twitter tutto è più rapido, scanzonato! A un certo punto Wu Ming ha fatto presente che dietro la Colletta Alimentare ci sono Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere. Subito è scattato l'allarme: Wu Ming boicotta la Colletta Alimentare! E i poveri li sfamiamo a copie invendute di Manituana? Coi Wu Ming pazienti a spiegarsi, però su twitter ogni spiegazione è un rivolo che cola via. Finché qualcuno non ha tirato la botta, che sicuramente i Wu Ming non potevano aspettarsi: siete venduti a Mondadori. Ecco, questa è stata la mia settimana su Twitter.

La settimana in cui – per una pura coincidenza, che si chiama Fiorello – Twitter è definitivamente entrato nel mainstream italiano, per cui tutto questo da qui in poi sarà la norma: Repubblica e Corriere i ragguaglieranno in tempo reale sull'ultimo errore di battitura di politico buffo che impazza sulla rete e scatena migliaia di divertentissime scimmiottate. E io ho sempre più nostalgia di Second Life, del 2006, di quando il futuro di internet era un brutto sfondo 3d dove dovevi lavorare sodo e guadagnare anche solo per permetterti un pene decente. Perché almeno quelli che ti dicevano che Second Life era il futuro di solito li vedevi sparire nelle loro stanze per qualche settimana; non ti si piazzavano al monitor coi loro assiomi di saggezza scartati dai baci perugina; non ti tiravano cancelletti con l'aria di chi ha finalmente trovato la battuta del secolo senza perdere tempo a informarti di cosa sta parlando; non si materializzavano dal Nulla per informarti che Dickens è sopravvalutato. Non ti rovinavano il caffè col loro umorismo da pulmino dalle medie, identificandosi come gli stessi che imparavano a memoria ogni battuta della Gialappa e non vedevano l'ora di ripetertela, costringendo tu stesso a guardare la Gialappa per cercare di capire cosa ci fosse di divertente, i momenti esatti in cui ridere, e perché. Ma sul serio perché non ve ne tornate tutti su un atollo di Second Life, vi fate un'orgia, e poi se qualcuno inciampa sul predellino di un motoscafo sai le risate, ecco, uno può farsi un avatar a forma di Scilipoti e giù tutti a ridere! È divertente! Un altro invece può fabbricare un cippo di marmo a forma di Borges e i giornalisti famosi italoniuorchesi possono farsi un avatar di barboncino e andarci a fare i bisognini, ecco, io preferirei.

Io me ne resto qui, a scrivere lenzuolate di roba che nessuno vi costringe a leggere, a scavare sotto qualsiasi minchiata che mi capiti di incontrare in superficie. Sono fatto così. Non è che non ami la sintesi, in alcuni la invidio proprio: in La Rochefoucauld per esempio, non nel primo bimbominchia italiano o niuorchese che mi tira un cancelletto.
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Potrebbe piovere

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A questo punto io sarei anche stanco di vivere sul promontorio delle catastrofi, sempre a scrutare l'orizzonte in attesa di barbari che arriveranno appena mi volto. Sono snervanti, le decadenze, non finiscono mai e coi posteri ci fai comunque brutta figura. Comunque già che sono qui, ecco le mie previsioni da Ezechiele presbite. I profeti in generale sono presbiti, non badano ai dettagli, stringono gli occhi finché non vedono soltanto chiazze di colore. Come fanno a indovinare? Hanno un trucco: scrivono tutte le ipotesi che vengono loro in mente, più sono meglio è. Una almeno l'azzeccheranno. Le altre nessuno se le ricorderà.

Chi vince nel 2013 vince "tutto"
La legislatura ha come termine naturale la primavera del 2013; l'Euro e l'Unione Europea potrebbero anche durare di meno. Per una coincidenza fortuita e rischiosa che dovrebbe capitare ogni vent'anni e invece si è verificata già cinque anni fa, nel 2013 scade anche il mandato di Napolitano. Non so esattamente (qualcuno lo sa?) cosa preveda la Costituzione, ma nel 2006 lo stesso Napolitano fu nominato da un parlamento appena insediato. È lecito quindi supporre che nel 2013 succeda la stessa cosa: prima si va alle urne, poi chi vince nomina il Presidente. Quindi chi vince nel 2013 vince tutto – ammesso che nel piatto sia rimasto un granché da vincere. In realtà, comunque vadano le cose, è improbabile che il futuro presidente possa provenire dall'area del PD: sono già riusciti a piazzare Napolitano, col senno del poi è stato un exploit fantastico (considerato che quelle elezioni le avevano praticamente pareggiate). Non solo, ma prima di Napolitano sul colle c'era un laico, Ciampi. A questo punto è chiaro che i cattolici reclameranno il posto, e considerata la loro centralità sarà molto difficile negarglielo. L'unico problema è trovarne uno abbastanza pulito (Pisanu?), cosa non semplice quando un monopolista dei ventilatori dispone del quantitativo necessario di merda: Casini è avvisato. Piuttosto è Monti ha buone carte da giocarsi, come il cursus honoris di Ciampi dimostra. Quanto ai piddini papabili, probabilmente loro si sono già segnati la primavera del 2020 su google calendar; per allora D'Alema avrà 70 anni, Veltroni pochi di meno... sarà l'ultima sfida, ma vien voglia di controllare se per caso non c'è un meteorite che impatta prima.

Restiamo al 2013: come ci arriviamo?
Fermo restando che un meteorite, una farfalla in Brasile, ma più probabilmente Angela Merkel in Germania possono fare e disfare in qualsiasi momento il nostro destino... proviamo a indovinare come andrà a finire il governo Monti. Il suo margine d'intervento è abbastanza ristretto: l'opinione condivisa è che profitterà della sua natura tecnica per chiedere sacrifici sia a destra e a sinistra; banalizzando (stringendo gli occhi): i berlusconiani dovranno mandare giù la patrimoniale, i bersaniani la fine dello stato sociale come lo conoscono (pensioni di anzianità, cassa integrazione, eccetera). Questo è il patto sottaciuto – non perché sia segreto, anzi è davanti agli occhi di tutti. La cosa interessante è capire chi lo rispetterà, o meglio: chi tradirà per primo.

Sulla base di nessun dato, ma semplicemente per il mio viscerale antiberlusconesimo, io dico Berlusconi. Lui ha il killer istinct, lui vuole e deve vincere (per la gloria, per salvare la famiglia) gli altri stanno sempre a pensare ad altro, come ad es. il bene del Paese. È anche vero che Berlusconi è una variabile indipendente, nel senso che è matto. Ma non è vero che i matti siano così imprevedibili, specie quando sono soggetti a fissazioni. Inoltre negli ultimi mesi lo abbiamo visto sotto stress, costretto in un ruolo istituzionale che non gli piace, sorvegliato a vista e probabilmente impossibilitato a sfogarsi come si deve. Ma chissà che una bella dormita, un beverone e un bunga-bunga fatto bene non ci restituiscano il combattente che conosciamo.

Berlusconi, dunque, con le corazzate mediaset, le teste di ponte in rai che a riallinearsi ci metterebbero comunque un po', e l'artiglieria in Senato puntata sul governo Monti, Berlusconi se ha ancora voglia di combattere cosa deve fare? Mantenere in vita il governo Monti fino all'esatto momento in cui avrà rimontato nei sondaggi. Nel frattempo, vai di microcriminalità al telegiornale (si è già registrata una certa recrudescenza delle rapine a mano armata). Ci saranno momenti anche paradossali, per esempio probabilmente Berlusconi farà votare ai suoi la patrimoniale e il giorno dopo farà cadere il governo e farà campagna elettorale contro la patrimoniale; è capacissimo di farlo, e lì il problema non è tanto la follia sua, quanto quella dei suoi elettori. Dopodiché chissà, magari perderà comunque, ma più per anzianità che per altro: Alfano come delfino non sembra quel mostro di carisma. Però a quel punto contro chi perderebbe? Contro un neo-CLN antiberlusconiano? Non credo che gli elettori sarebbero entusiasti, ma in quel caso il ticket più probabile sarebbe Bersani a palazzo Chigi e Casini al Quirinale, urge spolverare il lemma “cattocomunista”.

Un altro scenario è che i parlamentari berlusconiani, invece di far saltare il governo Monti in un momento qualsiasi da qui al 2013, riescano a sequestrarlo, imponendo un programma più destrorso che sinistrorso: una patrimoniale solo di nome e una riforma del lavoro che umili Bersani. A questo punto nel 2013 il “PDL” (che comunque non si chiamerà più così) potrebbe addirittura candidare Alfano al governo e Monti al Colle, con Berlusconi jolly che si tiene le sue aziende e scambia una sua uscita dalla scena politica con la sostanziale impunità per tutto quello che lui e i suoi hanno commesso. La sinistra a quel punto sarebbe probabilmente divisa tra massimalisti (Vendola più gli ex bersaniani delusi) e centristi (Renzi o un simil-Renzi che cerchi di rubare voti a Casini, o addirittura alleato con Casini: adesso sembra strano, ma tra un paio di anni chissà).

Dopodiché, ripeto, può succedere di tutto. Ad esempio: un processo qualsiasi di quelli che ancora coinvolgono B, e ai quali ora avrà molte meno ragioni di non presentarsi. Ad esempio: Beppe Grillo. Le cavallette. L'eruzione del Vesuvio. L'uscita dell'Italia dall'Euro, prospettiva che faccio fatica a visualizzare: l'unica cosa che mi viene in mente è una specie di Cuba con gli euro tedeschi al posto dei dollari americani e i puttanieri tedeschi al posto dei puttanieri italiani, e la pizzica al posto della salsa – e ditemi dov'è la nostra Miami che io sto già pensando a dove gonfiare il canotto.

(Poi ci sono anche le ipotesi ottimistiche, ma le tengo per me. Scaramanzie).
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