Il ministro della terza età
28-03-2012, 23:07giornalisti, invecchiare, repliche, tvPermalink(Chiedo scusa ai più giovani, ma per quelli della mia età il primo giorno senza un tg di Fede sarà davvero come il primo giorno senza muro di Berlino. Lo festeggio ripubblicando un vecchio pezzo che vaga malsepolto, spezzettato tra Piste e l'archivio dell'Unità.)
Il complotto dei vecchietti
E se il ministro Frattini avesse ragione? Se davvero esistessero "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale", cioè in pratica un complotto? È davvero così paranoico mettere in collegamento i crolli di Pompei, la crisi dei rifiuti, Finmeccanica che perde una commessa, e le altre figuracce che nelle prossime ore Wikileaks pubblicherà?
Ora, nella migliore tradizione della letteratura paranoica, facciamo un passo indietro. Qualche sera fa, mentre gli studenti cominciavano a scendere in piazza, in un ristorante di Milano due vecchietti si prendevano a botte. La notizia, succosa in sé (cosa ci fanno due settantenni, a mezzanotte, in un locale alla moda? Perché non se ne stanno tranquilli al caldo nelle loro case, magari circondati dagli affetti dei loro cari?) è passata quasi inosservata, occultata dalle generalità dei due personaggi. Uno dei due signori era Gian Germano Giuliani, produttore di un famoso amaro digestivo; l'altro, Emilio Fede, uno dei più dileggiati e sottovalutati uomini chiave di Berlusconi: il suo Ministro per la Terza Età, imbonitore di un favoloso parco buoi elettorale che può ancora fargli vincere le elezioni in barba a qualsiasi scandalo o contestazione.
È difficile perfino accorgersi che si tratta, in effetti, di due persone anziane. Giuliani è fresco di terze nozze, e terza separazione; Fede, l'aggredito, poche ore dopo era già davanti alle telecamere, coi lividi imbellettati, instancabile, a chiedere alla polizia di menare "la gentaglia", gli studenti "che capiscono solo di esser menati", i "poveri cuccioloni" che hanno osato violare il Senato, l'assemblea degli anziani intoccabili.
La vitalità di questi personaggi ha qualcosa di stupefacente. Non c'è dubbio che entrambi abbiano fatto cose importanti per l'Italia e gli italiani. Il primo negli anni Settanta vendeva a casalinghe e pensionati sostanze alcoliche sotto forma di prodotti medicinali; allo stesso pubblico, un po' più incanutito, Fede ha smerciato per anni un varietà propagandistico sotto forma di telegiornale. Tutto questo comunque andrebbe scritto su un libro di Storia, nelle ultime pagine riguardanti il secolo scorso. E invece questi e altri settantenni sono ancora qui, nelle prime pagine dei quotidiani del 2010, a reclamare il loro diritto a innamorarsi e fare a pugni. Esponenti di una classe di ferro che non ha nessuna voglia di mollare le redini del Paese.
Questi vecchietti, lo scrivo qui quasi di nascosto, mi riempiono di invidia e di ammirazione. Una loro seratina standard è più avventurosa di svariati miei semestri. Personaggi che si meritavano un Balzac che i figli e i nipoti non sono stati affatto in grado di produrre. Posso dirmi che è stato il boom, l'inflazione, una bolla d'ottimismo tutta finanziata dalla guerra fredda - posso suonarmela e cantarmela, ma mi resta il dubbio che le cose siano molto più semplici. Siamo figli dei titani, quando se ne saranno andati tutti di cosa parleremo, alle dieci e mezza di sera sul divano, la palpebra già a mezza serranda? Cosa ci racconteremo? Le barzellette sui bunga bunga che non abbiamo mai vissuto faranno ridere i nostri nipotini?
Quanto al complotto denunciato da Frattini... nulla, sono solo paranoie. Eppure... se uno prova a unire i puntini, si rende conto che le recenti disgrazie colpiscono un aspetto specifico del nostro Paese: il futuro. Quello dell'Italia, in fin dei conti, non è difficile da prevedere. Le coordinate le abbiamo: siamo una nazione piccola, con una grande Storia, in un mercato globale ormai aperto agli enormi serbatoi asiatici di manodopera a buon mercato. Per restare competitivi non possiamo che investire sulla ricerca, sull'innovazione, sull'istruzione. È una scelta obbligata, gli stessi imprenditori non fanno che ripeterlo. E proprio mentre continuiamo a ripetercelo, scuola e università crollano; il dicastero è occupato da personaggi di dubbia competenza, che elaborano fantasiose riforme che nascondono (neanche troppo bene) una realtà fatta di tagli all'osso.
L'altro investimento obbligato è quello sul carattere specifico dell'Italia: anche nel mezzo di una crisi come questa, il Bel Paese rimane apprezzato nel mondo per il suo patrimonio naturale e culturale. E qui si dovrebbe intervenire: salvando il salvabile, eliminando senza pietà gli eco-mostri, investendo pesantemente nel turismo. Magari anche nel cinema, che negli anni del boom ci rese un grandissimo servigio, diffondendo in tutto il mondo il sogno di una Dolce Vita che a ben vedere era ancora un sogno anche per noi. Dovremmo offrire a miliardi di potenziali turisti la forza di sogni nuovi... Sì, sono considerazioni perfino banali. E mentre le facciamo, il patrimonio è affidato a personaggi di conclamata incompetenza; siti archeologici unici al mondo giacciono in abbandono; il meridione, che potrebbe essere la nostra Mecca, qualcosa che ogni cittadino del mondo dovrebbe sentirsi obbligato a visitare, è stato convertito in discarica dalla malavita organizzata. In mezzo a tutto questo, il ministro dell'Economia dà le mazzate finali al settore affermando che con la cultura non si mangia. Possibile che tutto questo avvenga per caso? È davvero così azzardato ipotizzare un complotto?
Io non so che volti hanno gli uomini che, tra una cena e l'altra, complottano contro l'Italia e il suo futuro. L'unica teoria che mi sento di fare riguarda la loro età. Sono vecchi. Un po' più anziani di quella Repubblica che hanno offeso e depredato senza nessun timor reverenziale. Hanno vissuto alla grande gli anni del boom, hanno finanziato le loro avventure ipotecando il futuro di figli e nipoti. Oggi, nel mezzo di una crisi mondiale, vivono gli ultimi fuochi senza progetti a lungo termine - e perché dovrebbero averli? Ancora un'altra donna, un'altra barzelletta, un'altra bella serata al ristorante. Di accompagnarci al disastro non hanno nessuno scrupolo: sono i primi a sapere che se ne andranno prima.
Il complotto dei vecchietti
E se il ministro Frattini avesse ragione? Se davvero esistessero "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale", cioè in pratica un complotto? È davvero così paranoico mettere in collegamento i crolli di Pompei, la crisi dei rifiuti, Finmeccanica che perde una commessa, e le altre figuracce che nelle prossime ore Wikileaks pubblicherà?
Ora, nella migliore tradizione della letteratura paranoica, facciamo un passo indietro. Qualche sera fa, mentre gli studenti cominciavano a scendere in piazza, in un ristorante di Milano due vecchietti si prendevano a botte. La notizia, succosa in sé (cosa ci fanno due settantenni, a mezzanotte, in un locale alla moda? Perché non se ne stanno tranquilli al caldo nelle loro case, magari circondati dagli affetti dei loro cari?) è passata quasi inosservata, occultata dalle generalità dei due personaggi. Uno dei due signori era Gian Germano Giuliani, produttore di un famoso amaro digestivo; l'altro, Emilio Fede, uno dei più dileggiati e sottovalutati uomini chiave di Berlusconi: il suo Ministro per la Terza Età, imbonitore di un favoloso parco buoi elettorale che può ancora fargli vincere le elezioni in barba a qualsiasi scandalo o contestazione.
È difficile perfino accorgersi che si tratta, in effetti, di due persone anziane. Giuliani è fresco di terze nozze, e terza separazione; Fede, l'aggredito, poche ore dopo era già davanti alle telecamere, coi lividi imbellettati, instancabile, a chiedere alla polizia di menare "la gentaglia", gli studenti "che capiscono solo di esser menati", i "poveri cuccioloni" che hanno osato violare il Senato, l'assemblea degli anziani intoccabili.
La vitalità di questi personaggi ha qualcosa di stupefacente. Non c'è dubbio che entrambi abbiano fatto cose importanti per l'Italia e gli italiani. Il primo negli anni Settanta vendeva a casalinghe e pensionati sostanze alcoliche sotto forma di prodotti medicinali; allo stesso pubblico, un po' più incanutito, Fede ha smerciato per anni un varietà propagandistico sotto forma di telegiornale. Tutto questo comunque andrebbe scritto su un libro di Storia, nelle ultime pagine riguardanti il secolo scorso. E invece questi e altri settantenni sono ancora qui, nelle prime pagine dei quotidiani del 2010, a reclamare il loro diritto a innamorarsi e fare a pugni. Esponenti di una classe di ferro che non ha nessuna voglia di mollare le redini del Paese.
Questi vecchietti, lo scrivo qui quasi di nascosto, mi riempiono di invidia e di ammirazione. Una loro seratina standard è più avventurosa di svariati miei semestri. Personaggi che si meritavano un Balzac che i figli e i nipoti non sono stati affatto in grado di produrre. Posso dirmi che è stato il boom, l'inflazione, una bolla d'ottimismo tutta finanziata dalla guerra fredda - posso suonarmela e cantarmela, ma mi resta il dubbio che le cose siano molto più semplici. Siamo figli dei titani, quando se ne saranno andati tutti di cosa parleremo, alle dieci e mezza di sera sul divano, la palpebra già a mezza serranda? Cosa ci racconteremo? Le barzellette sui bunga bunga che non abbiamo mai vissuto faranno ridere i nostri nipotini?
Quanto al complotto denunciato da Frattini... nulla, sono solo paranoie. Eppure... se uno prova a unire i puntini, si rende conto che le recenti disgrazie colpiscono un aspetto specifico del nostro Paese: il futuro. Quello dell'Italia, in fin dei conti, non è difficile da prevedere. Le coordinate le abbiamo: siamo una nazione piccola, con una grande Storia, in un mercato globale ormai aperto agli enormi serbatoi asiatici di manodopera a buon mercato. Per restare competitivi non possiamo che investire sulla ricerca, sull'innovazione, sull'istruzione. È una scelta obbligata, gli stessi imprenditori non fanno che ripeterlo. E proprio mentre continuiamo a ripetercelo, scuola e università crollano; il dicastero è occupato da personaggi di dubbia competenza, che elaborano fantasiose riforme che nascondono (neanche troppo bene) una realtà fatta di tagli all'osso.
L'altro investimento obbligato è quello sul carattere specifico dell'Italia: anche nel mezzo di una crisi come questa, il Bel Paese rimane apprezzato nel mondo per il suo patrimonio naturale e culturale. E qui si dovrebbe intervenire: salvando il salvabile, eliminando senza pietà gli eco-mostri, investendo pesantemente nel turismo. Magari anche nel cinema, che negli anni del boom ci rese un grandissimo servigio, diffondendo in tutto il mondo il sogno di una Dolce Vita che a ben vedere era ancora un sogno anche per noi. Dovremmo offrire a miliardi di potenziali turisti la forza di sogni nuovi... Sì, sono considerazioni perfino banali. E mentre le facciamo, il patrimonio è affidato a personaggi di conclamata incompetenza; siti archeologici unici al mondo giacciono in abbandono; il meridione, che potrebbe essere la nostra Mecca, qualcosa che ogni cittadino del mondo dovrebbe sentirsi obbligato a visitare, è stato convertito in discarica dalla malavita organizzata. In mezzo a tutto questo, il ministro dell'Economia dà le mazzate finali al settore affermando che con la cultura non si mangia. Possibile che tutto questo avvenga per caso? È davvero così azzardato ipotizzare un complotto?
Io non so che volti hanno gli uomini che, tra una cena e l'altra, complottano contro l'Italia e il suo futuro. L'unica teoria che mi sento di fare riguarda la loro età. Sono vecchi. Un po' più anziani di quella Repubblica che hanno offeso e depredato senza nessun timor reverenziale. Hanno vissuto alla grande gli anni del boom, hanno finanziato le loro avventure ipotecando il futuro di figli e nipoti. Oggi, nel mezzo di una crisi mondiale, vivono gli ultimi fuochi senza progetti a lungo termine - e perché dovrebbero averli? Ancora un'altra donna, un'altra barzelletta, un'altra bella serata al ristorante. Di accompagnarci al disastro non hanno nessuno scrupolo: sono i primi a sapere che se ne andranno prima.
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Non avrai altro giuslavorista
27-03-2012, 01:42lavoro, PdPermalinkGli ichinoduli
Una delle poche cose che ho capito della riforma Fornero è che non è, tra le altre, la riforma Ichino: e questo lo ha riconosciuto con molta serenità Ichino stesso. Non è nemmeno un'evoluzione, una variazione, una rielaborazione della bozza Ichino; è proprio un altro progetto, scritto da una persona che aveva una visione diversa dell'Italia e del lavoro e degli italiani. Fin qui penso che siamo d'accordo tutti.
E quindi insomma per mesi - per anni - abbiamo litigato, tra PD e dintorni, su una cosa che alla fine è rimasta una bozza, una lista di buoni propositi; come i capponi di Renzo, ci siamo beccati tra noi mentre il padrone ci spennava. Non c'è nemmeno motivo per cui smettere adesso: con un po' di impegno, finché la temperatura del forno ce lo consente, possiamo continuare a litigare su Ichino. C'è per esempio una corrente di pensiero, ben rappresentata da Francesco Costa, che se la prende con gli ichinoclasti del PD: se la riforma Fornero picchia duro è colpa loro che non hanno voluto la riforma Ichino. Chi troppo vuole nulla stringe, il meglio è nemico del bene eccetera.
Senza dubbio molte critiche che venivano fatte a Ichino e alle sue proposte erano pregiudiziali. Però c'erano anche i capponi che scuotevano la testa ritmicamente non per inerzia, ma perché banalmente Ichino non li convinceva. Non è che fosse un brutto concetto la flexsecurity, anzi, bellissima: ma con che soldi? In Danimarca credo anch'io che si stia bene: ma è verosimile pensare di trasferire un modello che è prima di tutto culturale, partendo dalla normativa sul lavoro? Io ero uno di quei capponi che diceva no, no, no, e qualche beccata me la sono presa, per carità, robetta.
In generale noi ichinoscettici, più che ichinoclasti, pensavamo che tante buone idee sarebbero restate slogan, buoni per aizzare i giovani arrabbiati contro la casta dei sessantenni col posto fisso, ma senza altre conseguenze pratiche; che di quanto Ichino prometteva, la parte "flex" sarebbe passata liscia liscia per le camere fino alla Gazzetta Ufficiale e agli uffici legali delle aziende; la parte "security" invece si sarebbe incagliata in qualche angusto anfratto dell'iter parlamentare; magari impigliata a vecchi faldoni, gli ammortizzatori sociali del pacchetto Treu, o quelli della legge Biagi. Eravamo prevenuti, decisamente. E adesso ci becchiamo la Fornero e ce la meritiamo.
Eppure dal nostro scettico punto di vista le cose sono proprio andate così. Dopo mesi di slogan e contrapposizioni generazionali, quando si è trattato di mettersi a tavolino e scrivere una legge praticabile, la bozza Ichino non è stata presa nemmeno come punto di partenza. Forse a causa del livore degli ichinoclasti, è un'ipotesi. L'altra ipotesi è che semplicemente la bozza Ichino non sia praticabile. È una bellissima bozza, contiene meravigliose danimarche flessibili smontabili trasportabili e rimontabili in loco, e altri mondi immaginari, come quel bel libro di Tommaso Moro, come si chiama. Però quando si tratta di riformare realisticamente il mercato del lavoro in Italia, magari cercando di attirare qualche negriero, pardon, delocalizzatore (un tentativo disperato, ma a questo siamo), ecco, semplicemente non c'è più tempo per le fiabe nordiche, che pure sono tra le mie preferite.
A questo punto però assistiamo a uno di quei fenomeni sui quali secondo me non si riflette abbastanza, ovvero: la nascita di una religione. Proprio nel momento in cui la bozza Ichino viene rigettata, e anche Ichino lo sa e legittimamente continua a fare controproposte, i suoi seguaci (molto più ichinoduli di lui) elaborano la sconfitta in forma di Martirio: la bozza non è caduta perché non funzionava, ma perché noi eravamo troppo peccatori per meritarcela. Se solo avessimo accettato nel nostro cuore la verità della Bozza... ma noi, che pure abbiamo veduto, non abbiamo creduto: guai a noi, guai a Fassina, guai alla CGIL, guai insomma un po' a tutti. Non meritiamo di partire per la danimarca promessa dove scorrono il latte, il miele e la security.
Ecco, devo dire che questa reazione mi inquieta un po'. Di solito l'utopismo sta ai margini del dibattito politico; il caso degli ichinoduli mi sembra una cosa curiosa, un utopismo moderato, ma comunque abbastanza irrazionale. E poi sto in pensiero per Ichino, che mica voleva fondare una religione. Con quel che costano in sacrifici. A volte anche, ehm, umani.
Una delle poche cose che ho capito della riforma Fornero è che non è, tra le altre, la riforma Ichino: e questo lo ha riconosciuto con molta serenità Ichino stesso. Non è nemmeno un'evoluzione, una variazione, una rielaborazione della bozza Ichino; è proprio un altro progetto, scritto da una persona che aveva una visione diversa dell'Italia e del lavoro e degli italiani. Fin qui penso che siamo d'accordo tutti.
E quindi insomma per mesi - per anni - abbiamo litigato, tra PD e dintorni, su una cosa che alla fine è rimasta una bozza, una lista di buoni propositi; come i capponi di Renzo, ci siamo beccati tra noi mentre il padrone ci spennava. Non c'è nemmeno motivo per cui smettere adesso: con un po' di impegno, finché la temperatura del forno ce lo consente, possiamo continuare a litigare su Ichino. C'è per esempio una corrente di pensiero, ben rappresentata da Francesco Costa, che se la prende con gli ichinoclasti del PD: se la riforma Fornero picchia duro è colpa loro che non hanno voluto la riforma Ichino. Chi troppo vuole nulla stringe, il meglio è nemico del bene eccetera.
Senza dubbio molte critiche che venivano fatte a Ichino e alle sue proposte erano pregiudiziali. Però c'erano anche i capponi che scuotevano la testa ritmicamente non per inerzia, ma perché banalmente Ichino non li convinceva. Non è che fosse un brutto concetto la flexsecurity, anzi, bellissima: ma con che soldi? In Danimarca credo anch'io che si stia bene: ma è verosimile pensare di trasferire un modello che è prima di tutto culturale, partendo dalla normativa sul lavoro? Io ero uno di quei capponi che diceva no, no, no, e qualche beccata me la sono presa, per carità, robetta.
In generale noi ichinoscettici, più che ichinoclasti, pensavamo che tante buone idee sarebbero restate slogan, buoni per aizzare i giovani arrabbiati contro la casta dei sessantenni col posto fisso, ma senza altre conseguenze pratiche; che di quanto Ichino prometteva, la parte "flex" sarebbe passata liscia liscia per le camere fino alla Gazzetta Ufficiale e agli uffici legali delle aziende; la parte "security" invece si sarebbe incagliata in qualche angusto anfratto dell'iter parlamentare; magari impigliata a vecchi faldoni, gli ammortizzatori sociali del pacchetto Treu, o quelli della legge Biagi. Eravamo prevenuti, decisamente. E adesso ci becchiamo la Fornero e ce la meritiamo.
Eppure dal nostro scettico punto di vista le cose sono proprio andate così. Dopo mesi di slogan e contrapposizioni generazionali, quando si è trattato di mettersi a tavolino e scrivere una legge praticabile, la bozza Ichino non è stata presa nemmeno come punto di partenza. Forse a causa del livore degli ichinoclasti, è un'ipotesi. L'altra ipotesi è che semplicemente la bozza Ichino non sia praticabile. È una bellissima bozza, contiene meravigliose danimarche flessibili smontabili trasportabili e rimontabili in loco, e altri mondi immaginari, come quel bel libro di Tommaso Moro, come si chiama. Però quando si tratta di riformare realisticamente il mercato del lavoro in Italia, magari cercando di attirare qualche negriero, pardon, delocalizzatore (un tentativo disperato, ma a questo siamo), ecco, semplicemente non c'è più tempo per le fiabe nordiche, che pure sono tra le mie preferite.
A questo punto però assistiamo a uno di quei fenomeni sui quali secondo me non si riflette abbastanza, ovvero: la nascita di una religione. Proprio nel momento in cui la bozza Ichino viene rigettata, e anche Ichino lo sa e legittimamente continua a fare controproposte, i suoi seguaci (molto più ichinoduli di lui) elaborano la sconfitta in forma di Martirio: la bozza non è caduta perché non funzionava, ma perché noi eravamo troppo peccatori per meritarcela. Se solo avessimo accettato nel nostro cuore la verità della Bozza... ma noi, che pure abbiamo veduto, non abbiamo creduto: guai a noi, guai a Fassina, guai alla CGIL, guai insomma un po' a tutti. Non meritiamo di partire per la danimarca promessa dove scorrono il latte, il miele e la security.
Ecco, devo dire che questa reazione mi inquieta un po'. Di solito l'utopismo sta ai margini del dibattito politico; il caso degli ichinoduli mi sembra una cosa curiosa, un utopismo moderato, ma comunque abbastanza irrazionale. E poi sto in pensiero per Ichino, che mica voleva fondare una religione. Con quel che costano in sacrifici. A volte anche, ehm, umani.
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Chi gli ha dato la password
25-03-2012, 01:49autoreferenziali, blog, Cragno, giornalisti, tvPermalinkSalve, sono quello che se n'era andato da Piste qualche mese fa e ora si sente un po' come Rutelli quando se n'è andato dal PD. Anzi peggio, perché quando se n'è andato Rutelli il PD è giusto risalito un po' nei sondaggi, ma da quando me ne sono andato Piste è stato segnalato dalla Stampa, dal Post, da Linkiesta, dal Giornale, da Libero e ieri sera da Gramellini a Che tempo che fa. In prima serata tv. No, ma fa veramente piacere, dopo tanti anni e tante tastiere consumate, vedere riconosciuto il lavoro di qualcun altro.
Onori quindi a Cragno, che più o meno è restato solo, e fa una cosa semplicissima ma la fa lui e gli altri no. Seguono alcune considerazioni tecniche:
1. Malgrado tanta segnalazione la fiammata negli accessi è stata inferiore ad altri episodi (l'apparizione di Padre Pio in formato Megaborg, ad esempio). Sarà che è primavera e tutti sono a spasso, ma la sensazione è che ormai il grosso del traffico passi dai social. È chiaro che sulla stampa.it un link a un blog lo vedono millemila persone in più, ma non cliccano.
2. Quello che ha trovato il Cragno (la pagella scolastica della Fornero) era sotto gli occhi di tutti, e quindi tutti quelli che ci hanno linkato avrebbero potuto tranquillamente ignorare la fonte. La Stampa per esempio, se ho capito bene in un primo momento ha fatto lo gnorri (d'altro canto era tutto materiale suo); poi i commentatori hanno protestato ed è spuntato il link. Fino a qualche mese fa tutto questo non sarebbe successo: al massimo gli organi di stampa avrebbero scritto cose come "un blog ha trovato" o "il tam tam della rete". Credo che sia un effetto collaterale della socializzazione delle informazioni: la sensibilità è cambiata, o meglio prima non c'era una sensibilità e adesso sì (addirittura una notizia può risultare più sexy se a trovarla invece che un professionista è stata "un blogger").
3. La Fornero mi sembra un esempio di scuola del secondo paradosso di Otis-Findlay, ahinoi. Una figlia di papà avrebbe picchiato molto meno duro.
E adesso se scusate vado nel mio angolino a sentirmi poco bene. Gramellini ha citato Cragno. È nata una stella. Ed è Cragno.
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Guida al suicidio responsabile
23-03-2012, 14:36ho una teoria, Monti, PdPermalink
Ma ammettiamo pure che abbiano ragione Monti e la Fornero; che davvero i lavoratori italiani non si possano più permettere il diritto di reintegro; che in questa congiuntura europea e mondiale l’Italia abbia bisogno, più che di una riforma del lavoro, di una sua decostruzione; che i licenziamenti facili siano la scossa positiva di cui le imprese hanno bisogno. Ammettiamo, per amor di ipotesi, che questa riforma di destra abbia un senso. Ma perché la dobbiamo sostenere noi che di destra non siamo?
Non potevano scriversela e votarsela loro, quelli che dicevano di essere di centrodestra e che hanno avuto governo, maggioranza parlamentare e largo consenso nel Paese per otto anni degli ultimi dieci? Dovrebbe invece sostenerla il PD di Bersani, a costo di alienarsi una larga fetta del suo elettorato, che andrà a ingrossare le file del nuovo massimalismo antieuropeo e complottista? E perché va sempre a finire così, che il centrodestra governa e non fa nulla finché non arriva la crisi, e quando arriva la crisi le misure punitive deve intestarsele anche il centrosinistra? (continua sull'Unità - H1t#118, niente di originale ma mi sembra che funzioni ancora).
Non potevano scriversela e votarsela loro, quelli che dicevano di essere di centrodestra e che hanno avuto governo, maggioranza parlamentare e largo consenso nel Paese per otto anni degli ultimi dieci? Dovrebbe invece sostenerla il PD di Bersani, a costo di alienarsi una larga fetta del suo elettorato, che andrà a ingrossare le file del nuovo massimalismo antieuropeo e complottista? E perché va sempre a finire così, che il centrodestra governa e non fa nulla finché non arriva la crisi, e quando arriva la crisi le misure punitive deve intestarsele anche il centrosinistra? (continua sull'Unità - H1t#118, niente di originale ma mi sembra che funzioni ancora).
Il sospetto è che in Italia, più che tra sinistra e destra, si assista a una finta dialettica tra il principio di realtà e il principio del piacere. Chi ha votato Berlusconi o Bossi – scrivevo qualche tempo fa – non è di destra in senso storico, o liberale, o perfino fascista: Lega e PdL si votavano per la soddisfazione immediata che garantivano, promettendo ogni volta di tagliare le tasse e ridisegnare fantomatici confini federali. Allo stesso modo, chi vota centrosinistra ormai ha ben poco di comunista o di socialdemocratico (anzi ha contribuito più volte al varo di riforme di sapore liberale); di solito lo fa per un senso più o meno consapevole di responsabilità individuale o collettiva; per entrare in Europa, o restarci, per salvare il bilancio, il buon nome del Paese, eccetera eccetera. Il Centrodestra regala sogni, il centrosinistra interviene ogni cinque anni a salvare i conti. Da questo punto di vista non si tratta di due schieramenti contrapposti, quanto piuttosto complementari: se Berlusconi ha potuto folleggiare (ma gli italiani non è che abbiano folleggiato parecchio, nemmeno durante i suoi mandati), lo deve agli odiatissimi Amato, Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, che al momento giusto arrivavano a salvare i conti e a porre le basi per una nuova trionfale campagna anti-oppressione-fiscale.
Nei fatti anche questa manovra sembra un prendere-o-lasciare: il PD lascerà? O farà qualche distinguo, tenterà di concertare qualche contentino, metterà il musetto, ma in sostanza voterà una manovra che è una botta dura al suo bacino elettorale? Se cederà sarà in nome del supremo valore della “responsabilità”: l’unico paletto rimasto saldo nel cedimento ideologico circostante. Il PD è un partito che se c’è da sacrificarsi, lo fa. In fondo è nato dal sacrificio di due identità (democristiana e postcomunista) che Veltroni sanciva in nome del bipartitismo di domani e di una vittoria nel futuro remoto. Ma l’idea di sacrificarsi per il bene del Paese viene più da lontano: è l’eredità di Prodi, l’idea che l’Italia possa pensare di rivolgersi al centrosinistra soltanto quando è con l’acqua alla gola e deve essere salvata da sé stessa. Dovevamo entrare nell’Unione Europea, ce l’abbiamo fatta, poi dovevamo entrare nell’Euro, missione compiuta, ora dobbiamo restarci a dispetto dello spread: e ogni volta c’è sempre un professore che fa due conti, e un partito che fa un po’ di manfrina e poi si adegua. Il canovaccio è così vecchio che i protagonisti di oggi sembrano recitarlo istintivamente.
Una volta questa tendenza della sinistra responsabile italiana a farsi responsabilmente male la si chiamava tafazzismo. Io però sarei per eliminare questa parola di cui i giovani d’oggi (spero) ormai ignorano l’etimo. Preferisco raffigurarmi il PD come una mamma sollecita che con le sue continue attenzioni e autoimmolazioni non fa che ritardare il momento in cui gli altri membri della famiglia cominceranno a sviluppare una qualche forma di responsabilità, o anche solo di dignità. E mi chiedo se non è ora di mollare il pupo, e che si voti la sua Thatcher da solo se davvero ne ha il coraggio.http://leonardo.blogspot.com
Le misure della strada
22-03-2012, 01:14cinema, coccodrilli, Emilia paranoica, poesiaPermalinkSE VINCIAMO NOI
(Non è Sa vinzém néun, di Tonino Guerra, 1920-2012)
Se vinciamo,
se vinciamo noi,
io
se vinciamo noi,
ti vengo a prendere in casa:
ti faccio venire in mente quel che mi hai fatto
e poi ti ammazzo
a morsi
nella testa
e dappertutto
se vinciamo noi,
se noi
vinciamo
se.
Anche se poi
se vinciamo noi
lo so già
come va a finire:
che avrò tanto da fare
per averti pure tra le palle
che pigoli pietà per i figlioli
se vinciamo noi
se noi vinciamo
e se
per caso mi vedrai dietro la casa
sta calmo lì da sotto la finestra
che se vinciamo noi, veniamo solo
a prender le misure della strada.
A me dispiace che Guerra sia noto ai più per uno spot pubblicitario, per il personaggio del vecchietto sprint che sembra precipitare da Amarcord. In generale mi dispiace che Amarcord gli sia rimasto cucito addosso, a lui e un po' anche a Fellini, non perché sia un brutto film, ma perché ha ridato fiato a un bozzettismo strapaesano che ha spalancato le porte a due generazioni di scrittori cispadani tutti un po' matti, tutti un po' simpatici, tutti un po' minimali, tutti un po' boccaloni, tutti un po' una lieve rottura di coglioni, coi nostri accenti assortiti da pubblicità di generi alimentari. Ecco, almeno Guerra reclamizzava gli elettrodomestici, il Futuro, no i tortellini. È sempre stato molto più cosmopolita di noi, ha scritto Deserto Rosso e Blow Up e Zabriskie Point - è l'unico grado di separazione tra Ciccio Ingrassia e i Pink Floyd. ha preso un De Filippo e ci da scritto Matrimonio all'Italiana; ha preso uno Sheckley e ha scritto, ehm, la Decima vittima (forse l'esperimento più folle, un film di fantascienza sociologica con Ursula Andress e Mastroianni biondo canarino, ambientata in un futuro ipertecnologico dove ci sono comunque ancora i caroselli coi balletti e la riforma pensioni prevede l'eliminazione fisica degli anziani, salvo che i giovani italiani sono piezz'e'core e quindi li nascondono negli scantinati iperaccessoriati; e però non c'è ancora il divorzio, perché il divorzio nel 1965 in Italia non era nemmeno fantascienza). In seguito ha lavorato con Tarkovskij e Angelopoulos, sì, in film che di solito non avevamo voglia di vedere, però capiamoci: Tarkovskij e Angelopoulos, mica ciccioli e salama da sugo. Insomma di strada ne ha fatta tanta, Guerra, si vede che la sapeva fare. Noialtri non so.
(Non è Sa vinzém néun, di Tonino Guerra, 1920-2012)
Se vinciamo,
se vinciamo noi,
io
se vinciamo noi,
ti vengo a prendere in casa:
ti faccio venire in mente quel che mi hai fatto
e poi ti ammazzo
a morsi
nella testa
e dappertutto
se vinciamo noi,
se noi
vinciamo
se.
Anche se poi
se vinciamo noi
lo so già
come va a finire:
che avrò tanto da fare
per averti pure tra le palle
che pigoli pietà per i figlioli
se vinciamo noi
se noi vinciamo
e se
per caso mi vedrai dietro la casa
sta calmo lì da sotto la finestra
che se vinciamo noi, veniamo solo
a prender le misure della strada.
***
Ai miei nonni, bianchi, era capitato di avere casa e podere nel bel mezzo di un triangolo rosso. Succede. Una volta stavano bruciando, credo, delle sterpaglie, era il 18 aprile 1948. Per strada passava gente che andava in frazione a votare. Si conoscevano tutti. Qualcuno passando "bruciate bruciate" disse, "che quando torniamo bruciamo poi voi". Erano tempi così. Tonino Guerra aveva appena iniziato a pubblicare.
Io ho una certa difficoltà con la poesia in dialetto, mi pare sempre che mi dica: Leggimi se sei capace. Non ne sono capace e spesso nemmeno mi sembra che ne valga la pena, ma questa poesia mi è sempre sembrata un'eccezione. Per la rabbia che concentra nella prima strofa, una rabbia storica e assoluta, per quell'Ugolino moderno che ti promette di morderti la faccia, se vincon loro. E per come la rabbia sbollisce, un verso alla volta, senza mai smarrire la direzione, finché non è più rabbia ma è una strada, e bisogna prendere le misure; per Guerra il futuro era così. Niente Libertà con la maiuscola, niente Democrazia o Uguaglianza o altre maiuscole (neanche Ottimismo, per il momento): strade, invece, minuscole, storte, da rifare, un sacco di lavoro, se vinciamo noi.
Se.
Chissà se abbiamo mai vinto, noi. A me a volte è sembrato - quasi sempre il medio termine mi ha dato torto - ma ogni volta mi sono sentito un po' smarrito e vagamente contento di viverla così, come il personaggio di questa poesia, uno che parte per bruciarti con le sterpaglie, e al ritorno sta già pensando a com'è brutta la strada, a quante buche e quante gobbe, e neanche ti saluta da tanto che è in pensiero per questa strada di merda. Sono relativamente contento anche di come è andata a finire con Berlusconi - ok, non è ancora finita, ma per capirci, c'è gente che credeva che avremmo abbeverato i cavalli in San Pietro eccetera. Che avremmo lapidato gli ex ministri, e poi stupri di olgettine, Sodoma, Gomorra, macché, neanche le monetine abbiamo sprecato. E già c'era qualcosa di meglio da fare, qualcosa di più importante a cui pensare. Poi vabbe', signori, è andata com'è andata, mi pare proprio che ci abbiano fregato anche stavolta. E va bene, un altro errore da cui imparare, tiriamo avanti, l'ottimismo è il sale della vita.
***
A me dispiace che Guerra sia noto ai più per uno spot pubblicitario, per il personaggio del vecchietto sprint che sembra precipitare da Amarcord. In generale mi dispiace che Amarcord gli sia rimasto cucito addosso, a lui e un po' anche a Fellini, non perché sia un brutto film, ma perché ha ridato fiato a un bozzettismo strapaesano che ha spalancato le porte a due generazioni di scrittori cispadani tutti un po' matti, tutti un po' simpatici, tutti un po' minimali, tutti un po' boccaloni, tutti un po' una lieve rottura di coglioni, coi nostri accenti assortiti da pubblicità di generi alimentari. Ecco, almeno Guerra reclamizzava gli elettrodomestici, il Futuro, no i tortellini. È sempre stato molto più cosmopolita di noi, ha scritto Deserto Rosso e Blow Up e Zabriskie Point - è l'unico grado di separazione tra Ciccio Ingrassia e i Pink Floyd. ha preso un De Filippo e ci da scritto Matrimonio all'Italiana; ha preso uno Sheckley e ha scritto, ehm, la Decima vittima (forse l'esperimento più folle, un film di fantascienza sociologica con Ursula Andress e Mastroianni biondo canarino, ambientata in un futuro ipertecnologico dove ci sono comunque ancora i caroselli coi balletti e la riforma pensioni prevede l'eliminazione fisica degli anziani, salvo che i giovani italiani sono piezz'e'core e quindi li nascondono negli scantinati iperaccessoriati; e però non c'è ancora il divorzio, perché il divorzio nel 1965 in Italia non era nemmeno fantascienza). In seguito ha lavorato con Tarkovskij e Angelopoulos, sì, in film che di solito non avevamo voglia di vedere, però capiamoci: Tarkovskij e Angelopoulos, mica ciccioli e salama da sugo. Insomma di strada ne ha fatta tanta, Guerra, si vede che la sapeva fare. Noialtri non so.
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Il patrigno di Dio
20-03-2012, 08:42Bibbia, papà, santiPermalinkLo sapevo, tutto sua madre. |
Giuseppe, dice il messale romano, è l'ultimo patriarca della Bibbia. Buffo, lui che non era nemmeno un vero padre. Però pensando ai suoi predecessori - Noè che ubriaco si fa ridere dietro da Cam e lo maledice; Abramo che quasi sacrifica Isacco; Isacco che benedice Giacobbe ma solo perché è travestito da figlio maggiore; Giacobbe che ha 12 figli ma sembra curarsi solo di Giuseppe e Beniamino; il profeta Samuele che quasi adotta Saul, lo unge re e poi lo tratta da mentecatto; Saul che quasi adotta Davide e poi cerca di farlo fuori... la lista potrebbe continuare, ma insomma in fondo alla sequela di tutti questi padri e patrigni arrabbiati o distratti, talvolta paranoidi, schizzati, tutte proiezioni di un Dio padre geloso e irascibile... Giuseppe sembra di gran lunga il più tranquillo e accomodante. In realtà non conosciamo quasi nulla di lui; anche nel suo caso molte cose che crediamo di sapere sono incrostazioni di leggende e chiose che non hanno fondamento nella lettera dei Vangeli. Per esempio ci piace raffigurarcelo come un tizio avanti negli anni ("i vecchi quando accarezzano" cantava De Andrè, "hanno paura di far troppo forte"). L'anzianità di Giuseppe è un dettaglio che diventa sempre più nitido man mano che si chiarisce, nel corso dei primi secoli, l'altro dettaglio fondamentale della verginità di Maria: immaginare il marito anziano era il modo più semplice per spogliarlo di qualsiasi attributo sessuale.
In realtà i pochi versetti che ce ne parlano hanno dato filo da torcere a chi voleva saltare a certe conclusioni. Di Giuseppe parla soprattutto Matteo, l'evangelista più legato al mondo ebraico dove Gesù era nato e vissuto; Luca, come abbiamo visto, è più liberal, scrive subito in greco e mette donne e proletari in primo piano, il suo Giuseppe è un semplice custode di Maria: è lei che viene visitata dall'angelo, è lei che acconsente, è lei che intona il Magnificat, che medita le cose nel suo cuore, Giuseppe è una semplice scorta. Matteo tratta il marito con più considerazione: nel suo vangelo è lui a ricevere più volte istruzioni dall'angelo. Il problema è che proprio in Matteo (1,25) c'è una parolina maledetta, che anche San Girolamo a malincuore dovette tradurre con "donec", "finché": Giuseppe "non ebbe con lei rapporti coniugali finché Maria non ebbe partorito un figlio". Non vi dico le arrampicate sugli specchi dei padri della Chiesa per dimostrare che quel finché in realtà non è quel che sembra, e che Maria restò vergine anche in seguito. Arrampicate rese ancor più disagevoli da quel che Matteo combina nel capitolo 13: mette per iscritto una lista di fratelli di Gesù, nientemeno. Hanno tutti nomi familiari. C'è da dire che a parlare è la folla, e si sa, la folla è sempre male informata. Ma comunque:
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?Anche qui si sono spesi in centinaia per dimostrare che "fratelli" non vuol dire proprio "fratelli", che al tempo di Gesù si diceva "fratelli" anche ai cugini, agli amici, ai conoscenti, come no, la Galilea era una specie di Bronx dove tutti si dicevano Hey Bro. Giusto per mettere il dito sulla piaga, anche Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nella Lettera ai Galati menzionano un personaggio importante della prima comunità di Gerusalemme chiamandolo Giacomo, "il fratello del Signore" (ne parleremo). Un'altra spiegazione è che i fratelli fossero in realtà fratellastri, e che Giuseppe avesse sposato Maria da vedovo. Ecco un'altra buona ragione per immaginarlo vecchietto incanutito (ma è anche un tizio che quando l'angelo gli dice in sogno: adesso prendi su con la tua sacra famigliola e ti rechi in Egitto per tot anni fino a nuovo ordine, lui lo fa; non era proprio un viaggetto di piacere da raccomandare a un pensionato).
Il versetto sopra è fondamentale anche per determinare la professione di Giuseppe: falegname. Di questo almeno siamo sicuri, o no? No, nemmeno di questo. (Continua sul Post...)
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e lascia pur grattar dov'è la rogna
19-03-2012, 11:00antisemitismo, Dante, ho una teoria, Islam, italianistica, scuolaPermalink"Vengono insegnati testi antisemiti, sia nella forma che nel contenuto, sia nel lessico che nella sostanza, senza che vi sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo. Un esempio emblematico è la Divina Commedia, caposaldo della letteratura italiana". (Dal documento "Via la Divina Commedia dalle scuole" del comitato per i diritti umani Gherush 92).Li hanno criticati in tanti, ma in realtà quelli di Gherush92 hanno capito tutto: in effetti io quando spiego l'Inferno di Dante in classe gliela metto giù proprio così. “È tutto vero”, dico ai miei pupilli, “lui c'è stato e la sua è una testimonianza oculare: se vi comportate male ci andrete, se fate la spia finirete conficcati per l'eternità in una calotta glaciale sotterranea al centro dell'universo (perché la Terra, vi rammento, è al centro dell'Universo, circondata da nove cieli di cristallo concentrici, e da Dio primo motore immobile); se nell'intervallo seminate la zizzania andrete nello stesso girone di Maometto e vi fate sbudellare tutti i giorni da un demonio preposto”. O pensavate che la spiegassi diversamente?
“Ma prof mi scusi, come fa la terra a essere al centro dell'universo se deve girare intorno al sole che è nella zona periferica di una galassia tra tante?”
“Chi è che ti ha raccontato queste cose?”
“La prof di scienze”.
“La prof di scienze sta seminando zizzania” (continua sull'Unità, H1t#117)
Sto scherzando, meglio dirlo subito. La questione è seria, invece. È vero, quell’atto di denuncia sembra provenire da un altro pianeta: un mondo in cui gli abitanti a furia di prendersela col relativismo etico devono aver rinunciato a qualsiasi forma di relativismo. Il passo successivo sarà smettere di leggere l’Iliade: per apprezzarla davvero bisogna convertirsi agli Dei dell’Olimpo e forse non vale la pena. Ma è proprio perché Gherush sembra venire da un pianeta diverso, che il suo sguardo sulla Commedia è interessante. La illumina da un lato diverso dal solito, un lato che a scuola e nelle università spesso non guardiamo, o fingiamo di non vedere. La Divina Commedia, e l’Inferno in particolare, è un edificio immaginario di inestimabile valore letterario, ma è un edificio costruito sull’odio.
Poco importa che gran parte dei destinatari di questo odio, più che le comparse ebraiche e musulmane, siano i compatrioti di Dante, e i toscani più di tutti; poco importa che la vera città diabolica, quella che sembra aver letteralmente colonizzato l’inferno, sia Firenze stessa; rimane il fatto che Dante abbia scritto cento canti, ripartiti in tre cantiche, tutti fondati sull’incredibile, sfacciata presunzione di conoscere la lista celestiale dei Buoni e dei Cattivi; quella che a norma di Vangelo solo Gesù stilerà a tempo debito. Nessun scrittore si era mai spinto così in là, nessuno aveva raggiunto simili livelli di autostima (lo stesso Dante sapeva che sarebbe restato a lungo nel girone dei superbi). Il titanismo di un poeta che si sostituisce al Cristo del giudizio e descrive in dettaglio regno dei morti e regno dei cieli: ce n’era abbastanza per scomunicarlo – tanto più che, com’è noto, nemmeno per i papi del suo tempo Dante aveva molta simpatia. Invece tutto sommato se la cavò: a differenza di altre opere dantesche la Commedia non finì nemmeno nell’Indice dei Libri Proibiti. E tutto questo per un motivo semplice, sul quale secondo me a scuola non si riflette mai abbastanza: Dante si salvò perché non fu mai veramente preso sul serio.
Lui voleva fare il profeta, voleva che nel suo Inferno ci credessimo veramente; con le sue cantiche intendeva dare il suo contributo a un progetto di restaurazione dell’Impero; noi abbiamo messo in secondo piano il messaggio di fondo e ci siamo concentrati sui dettagli, sulla sapienza narrativa, sull’abilità linguistica, sui versi memorabili, sulle sue doti visionarie… insomma abbiamo fatto finta che fosse semplicemente un poeta. Lo era, ma intingeva il pennino nel sangue delle battaglie del suo secolo: è il figlio di un mondo violento, superstizioso, intollerante. Questo Gherush92 lo ha capito, ben più di Benedetto Croce che trattava la Commedia come una vecchio mobile incrostato di gemme di poesia pura: se la struttura del mobile medievale era ormai inservibile, le gemme si potevano ancora estrapolare dal contesto e apprezzare oggi come nel Trecento, perché la poesia quando è pura è fuori dal tempo. Questo almeno pensava Benedetto Croce; ma mi chiedo se in fondo non lo pensiamo ancora noi, quando pretendiamo di leggere la paginetta di Paolo e Francesca come “poesia”, magari poesia amorosa, ignorando che Dante non voleva semplicemente commuoverci al pensiero di un amore tragico; Dante voleva spaventarci, Dante ci descriveva l’inferno in cui potevamo cadere se avessimo letto o scritto poemi galeotti, Dante voleva che nessuno li scrivesse più e che nessuno s’innamorasse più.
“L’arte forse è il più raffinato e subdolo strumento di comunicazione, il più potente veicolo di diffusione e il mezzo più suadente per l’incitamento all’odio” scrive Gherush92 nella sua controreplica; e io sono d’accordo. Se poi coi secoli ci ricordiamo solo dell’arte, e ci dimentichiamo dell’odio che l’aveva ispirata, non siamo veramente buoni lettori, e dobbiamo essere grati a Gherush e al suo sguardo così alieno dal nostro. Non si può capire Dante se non si capisce la rabbia che c’è dietro: una rabbia con coordinate precise, storiche geografiche e sociali, che a scuola dovremmo fornire ma non sempre riusciamo a farlo. Una rabbia magari più anti-guelfa e anti-fiorentina che anti-islamica o antisemita. Ma pur sempre rabbia.
Resta a questo punto da spiegare “perché i ragazzi delle scuole dovrebbero studiare un’opera che offende e denigra popoli, gruppi e categorie di persone”. Ebbene, proprio per questo motivo: per lo stesso motivo per cui a scuola studiamo la Shoah, nel suo contesto storico, proiettando immagini di nazisti sterminatori senza essere nazisti, di solito, né sterminatori. Perché odio e intolleranza sono una componente importante di quella cosa che si chiama umanità e che noi umanisti riteniamo di poter studiare (quando ancora non andiamo in cerca di gemme fuori del tempo, come Croce e i crociani pretendevano di fare). Perché se togliessimo la violenza e l’intolleranza dai programmi scolastici, alle medie non ci resterebbe che studiare la Melevisione (con la strega censurata) e al liceo, con calma, Moccia. Perché non crediamo più, non abbiamo creduto mai che l’Inferno e il Purgatorio e il Paradiso danteschi fossero resoconti di viaggi veri: ma ancora oggi crediamo che siano notevolissimi viaggi nel mondo interiore di un uomo che è straordinariamente rappresentativo della sua epoca e civiltà. Perché è fondamentale non solo spiegare che la terra è all’insignificante periferia di una galassia tra tante, ma anche che per millenni abbiamo pensato che fosse una Casa del Grande Fratello al centro dell’universo e che Dio spiasse ogni nostra mossa per giudicare se valesse la pena o no di torturarci per l’eternità. Se la insegniamo così – e in Italia dovremmo insegnarla così – allora sì, ne vale la pena, più di tante poesiole e prose edificanti. Sennò forse davvero sarebbe meglio studiare qualcos’altro. http://leonardo.blogspot.com
#Twitter vs #Serra vs #La_gente
17-03-2012, 11:08contro la lingua italiana, giornalisti, internet, TwitterPermalink
Da quel che ho capito su Twitter ieri è successa una tragedia orribile che non ha a che fare con crisi umanitarie o catastrofi naturali o quegli orribili fatti di cronaca che tengono in piedi i palinsesti pomeridiani, epperò è pur sempre orribile, ovvero Michele Serra ha parlato male di twitter. No.
Serra ha detto una cosa un po' più complessa: ha detto che se avesse Twitter, direbbe che gli fa schifo. Ma non ce l'ha. E non avendo twitter, non ha la necessità di essere sbrigativo e tranchant in quei 140 caratteri, che fra parentesi, non so se ci avete pensato, ma sanciscono il definitivo digital divide con gli anglosassoni: loro hanno molti monosillabi e in 140 caratteri riescono a farci stare pensieri complessi, noi - se non siamo battutisti di professione - no. E non siamo praticamente mai battutisti di professione. Ci mancano i monosillabi.
Insomma Serra ha fatto un'operazione un po' più barocca, un periodo ipotetico della possibilità, un mezzo adynaton, una forma di comunicazione che fino alla generazione scorsa funzionava, anzi io sono convinto che fino a qualche anno fa tutto questo equivoco su un'amaca di Serra non sarebbe scoppiato (una volta, secoli fa, le rubriche di Serra erano considerate eccezionali per brevità chiarezza e densità dei significati): Serra non ha detto che twitter gli fa schifo, ma che abitua le persone a esprimersi in affermazioni sbrigative e perentorie, come ad esempio "twitter fa schifo". Capito? Aspetta, controllo se l'ho spiegato in 140 caratteri. Se sono 140 caratteri è chiaro, sennò ormai è incomprensibile.
Nel frattempo si è aperto il cielo, ovviamente su twitter, perché tutte le forme di comunicazione sviluppano sindromi autoreferenziali, specie quando sono allo stato infantile (nei primi anni la maggior parte dei blog scriveva del fatto di scrivere di blog su un blog), insomma questa cosa che Michele Serra ha parlato male del nuovo giochino l'abbiamo presa proprio male. Serra vergogna, Serra chiudi, Serra apri twitter prima di giudicare, Serra sei vecchio. Gli anni passano per tutti e poi Serra è uno che non è mai sembrato un ragazzino, io lo stimo soprattutto per questo. Può darsi che sia invecchiato, ma non gli si può non riconoscere una profonda coerenza. Oggi torna sul luogo del delitto e ci fa notare che negli ultimi giorni ha criticato due cose: la superficialità dei quotidiani e la superficialità di twitter. L'amaca sui quotidiani è stato accolto con cinguettii di entusiasmo. Quella su twitter è stata rapidamente cosparsa da una pioggerella di guano. Non è una sorpresa, anzi, è la conferma di come funziona, di come ha sempre funzionato Michele Serra: è un osservatore dei costumi che da sempre guarda la società di sbieco e rivolge le sue critiche non nello stesso punto (il palazzo, la partitocrazia, eccetera) ma su un arco di 90°. Sin dai tempi di Cuore e forse di Tango, Serra aveva un'idea di satira che lo rendeva diverso dagli altri: non si trattava di prendersela coi potenti, ma anche con la gente. Per Serra la gente è colpevole tanto quanto i potenti: primo perché li vota, secondo perché ogni volta che Serra esce di casa e si fa un giro, nota gente che ha gli stessi identici comportamenti dei potenti. Quindi merita altrettanto di essere sbertucciata, almeno fino alla fase-Cuore: era una forma di satira curiosamente impermeabile al populismo, che in seguito non c'è più stata, anche perché (secondo me) il populismo ne è un ingrediente fondamentale, benché con Serra ci fossimo illusi di no. Ma solo Serra riusciva a esser cattivo con Andreotti e coi piccoli commercianti che danno nomi imbecilli ai propri negozi, e anche Serra non ci è riuscito a lungo. In seguito non è invecchiato, non subito almeno: si è solo evoluto nel classico paternalista che invece di sbertucciare la gente si arma di pazienza e cerca di spiegare alla gente che non ci si comporta così. (Sì, è la mia stessa tribù, sì, non siamo simpatici e non sempre ci teniamo).
Per esempio, non si affida a un mezzo pubblico qualsiasi parere ci venga in mente in mezzo secondo, perché non siamo battutisti o titolisti (Serra lo era, noi no). Critichiamo la superficialità dei giornalisti, il loro sensazionalismo, ma poi li imitiamo, pretendiamo di occuparci di problemi ma poi ci fermiamo sempre alla superficie, la Fornero dice "paccata" e tutti per una mezza giornata a dire "buu #paccata". Il mezzo è pericoloso proprio per la sua illusione di facilità: che ci vuole a sembrare intelligenti in 140 caratteri? Una vita, ci vuole, e certi non ci riescono lo stesso. E invece su Twitter c'è anche la gara a chi arriva prima, immaginatevi, su una pista per principianti. Va a finire che commentiamo cose che non abbiamo nemmeno fatto in tempo a capire, ad esempio le amache di Serra, e guardate che Serra è uno che scrive cose brevi e semplici. In mille caratteri più che in 140, sì, è il suo limite. Io per dire sotto i tremila sembro un deficiente.
(Però su twitter ci sono, eh, giusto perché poi arrivano quelli che "come fai a saperlo se non lo usi" eccetera).
Serra ha detto una cosa un po' più complessa: ha detto che se avesse Twitter, direbbe che gli fa schifo. Ma non ce l'ha. E non avendo twitter, non ha la necessità di essere sbrigativo e tranchant in quei 140 caratteri, che fra parentesi, non so se ci avete pensato, ma sanciscono il definitivo digital divide con gli anglosassoni: loro hanno molti monosillabi e in 140 caratteri riescono a farci stare pensieri complessi, noi - se non siamo battutisti di professione - no. E non siamo praticamente mai battutisti di professione. Ci mancano i monosillabi.
Insomma Serra ha fatto un'operazione un po' più barocca, un periodo ipotetico della possibilità, un mezzo adynaton, una forma di comunicazione che fino alla generazione scorsa funzionava, anzi io sono convinto che fino a qualche anno fa tutto questo equivoco su un'amaca di Serra non sarebbe scoppiato (una volta, secoli fa, le rubriche di Serra erano considerate eccezionali per brevità chiarezza e densità dei significati): Serra non ha detto che twitter gli fa schifo, ma che abitua le persone a esprimersi in affermazioni sbrigative e perentorie, come ad esempio "twitter fa schifo". Capito? Aspetta, controllo se l'ho spiegato in 140 caratteri. Se sono 140 caratteri è chiaro, sennò ormai è incomprensibile.
Nel frattempo si è aperto il cielo, ovviamente su twitter, perché tutte le forme di comunicazione sviluppano sindromi autoreferenziali, specie quando sono allo stato infantile (nei primi anni la maggior parte dei blog scriveva del fatto di scrivere di blog su un blog), insomma questa cosa che Michele Serra ha parlato male del nuovo giochino l'abbiamo presa proprio male. Serra vergogna, Serra chiudi, Serra apri twitter prima di giudicare, Serra sei vecchio. Gli anni passano per tutti e poi Serra è uno che non è mai sembrato un ragazzino, io lo stimo soprattutto per questo. Può darsi che sia invecchiato, ma non gli si può non riconoscere una profonda coerenza. Oggi torna sul luogo del delitto e ci fa notare che negli ultimi giorni ha criticato due cose: la superficialità dei quotidiani e la superficialità di twitter. L'amaca sui quotidiani è stato accolto con cinguettii di entusiasmo. Quella su twitter è stata rapidamente cosparsa da una pioggerella di guano. Non è una sorpresa, anzi, è la conferma di come funziona, di come ha sempre funzionato Michele Serra: è un osservatore dei costumi che da sempre guarda la società di sbieco e rivolge le sue critiche non nello stesso punto (il palazzo, la partitocrazia, eccetera) ma su un arco di 90°. Sin dai tempi di Cuore e forse di Tango, Serra aveva un'idea di satira che lo rendeva diverso dagli altri: non si trattava di prendersela coi potenti, ma anche con la gente. Per Serra la gente è colpevole tanto quanto i potenti: primo perché li vota, secondo perché ogni volta che Serra esce di casa e si fa un giro, nota gente che ha gli stessi identici comportamenti dei potenti. Quindi merita altrettanto di essere sbertucciata, almeno fino alla fase-Cuore: era una forma di satira curiosamente impermeabile al populismo, che in seguito non c'è più stata, anche perché (secondo me) il populismo ne è un ingrediente fondamentale, benché con Serra ci fossimo illusi di no. Ma solo Serra riusciva a esser cattivo con Andreotti e coi piccoli commercianti che danno nomi imbecilli ai propri negozi, e anche Serra non ci è riuscito a lungo. In seguito non è invecchiato, non subito almeno: si è solo evoluto nel classico paternalista che invece di sbertucciare la gente si arma di pazienza e cerca di spiegare alla gente che non ci si comporta così. (Sì, è la mia stessa tribù, sì, non siamo simpatici e non sempre ci teniamo).
Per esempio, non si affida a un mezzo pubblico qualsiasi parere ci venga in mente in mezzo secondo, perché non siamo battutisti o titolisti (Serra lo era, noi no). Critichiamo la superficialità dei giornalisti, il loro sensazionalismo, ma poi li imitiamo, pretendiamo di occuparci di problemi ma poi ci fermiamo sempre alla superficie, la Fornero dice "paccata" e tutti per una mezza giornata a dire "buu #paccata". Il mezzo è pericoloso proprio per la sua illusione di facilità: che ci vuole a sembrare intelligenti in 140 caratteri? Una vita, ci vuole, e certi non ci riescono lo stesso. E invece su Twitter c'è anche la gara a chi arriva prima, immaginatevi, su una pista per principianti. Va a finire che commentiamo cose che non abbiamo nemmeno fatto in tempo a capire, ad esempio le amache di Serra, e guardate che Serra è uno che scrive cose brevi e semplici. In mille caratteri più che in 140, sì, è il suo limite. Io per dire sotto i tremila sembro un deficiente.
(Però su twitter ci sono, eh, giusto perché poi arrivano quelli che "come fai a saperlo se non lo usi" eccetera).
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Con questa lancia vincerai?
15-03-2012, 22:41nazismo, santi, superstizioniPermalink15 marzo - San Longino trafiggitore di Gesù e martire (I sec.)
Stasera parliamo un po' di Hitler. Prima o poi sarebbe successo, nessuna conversazione su Internet può farne a meno a lungo. È un principio noto come legge di Godwin, dal primo internauta che la formulò: essa afferma più o meno che, col proseguire di una conversazione, la possibilità di mettersi a parlare di Hitler o dei nazisti tende a 1. In realtà questo si potrebbe dire per qualunque cosa, non so, le zucchine: se conversiamo all'infinito, prima o poi ne parleremo. La differenza tra Hitler e le zucchine è che queste ultime non mandano necessariamente in vacca la discussione. Hitler sì, quasi sempre. Uno dei corollari della legge di Godwin era: quando su un forum cominciano a paragonare qualcuno a Hitler, scappate! Tutto quello che di intelligente e originale si poteva dire è già stato detto. (Non potete dire che non vi si è avvertiti).
Una delle difficoltà con Hitler è che non importa quanto il nostro sistema di valori possa essere complesso, stratificato, relativista: siamo comunque tenuti a considerare H. il Male Assoluto (un'espressione che, non esistesse lui, nessuno probabilmente riuscirebbe a pronunciare con serietà da un pezzo; e invece riesce a farlo perfino Gianfranco Fini). Se non lo facciamo, se ci permettiamo dei distinguo anche piccolini, veniamo subito relegati nell'angolo dei disadattati, tra i nostalgici, i mistici e gli sciachimisti. È una specie di deità al contrario, siamo tutti tenuti non a inchinarci ma a calpestarlo un po'. È un anti-tabù: non solo se ne può parlare, ma prima o poi siamo come costretti a farlo, a sproposito, con qualsiasi sciocchezza ci venga in mente, perché - questo è un ulteriore problema - su Hitler si può dire e scrivere veramente qualsiasi cosa: nessun erede protesterà. E quindi le abbiamo sentite tutte: Hitler pagano, Hitler indù, Hitler iniziato a questo o quel mistero, Hitler ovviamente satanico, Hitler ebreo (non proprio fiero di esserlo), Hitler che crede nella terra cava (ma Von Braun evidentemente no, se riesce a calcolare le traiettorie per far cadere i razzi V2 a Londra), Hitler che vuole prosciugare il mediterraneo per coltivarci il grano (progetto delirante che qualcuno in Germania effettivamente concepì, ma H. rimase scettico), Hitler ufologo, Hitler antartico, Hitler qualunque cosa, purché strana, esotica, fuori dal normale. Perché c'è una sola cosa che potrebbe essere peggio di Hitler.
Un Hitler banale. Un Hitler prosaico, un Hitler che frequenta maghi e guaritori perché è semplicemente superstizioso come tanti dittatori, un Hitler che accoglie certe sparate paganeggianti di Himmler con scetticismo; un Hitler senza fantasia, che perseguita teosofi e rosacroce; o peggio ancora, un Hitler cristiano, con tutto l'imbarazzo che ce ne deriva. E allora si fa finta di non sapere che sì, il tizio adorava Wagner come tanti tedeschi e austriaci della sua generazione, ma che si trattava di ammirazione artistica, non teologale; tutt'altro che entusiasta all'idea di ripristinare un Walhalla tramontato da un pezzo. "Mi sembra che niente potrebbe essere tanto stupido quanto ristabilire il culto di Wotan. La nostra mitologia antica ha smesso di essere realmente praticabile fin da quando il Cristianesimo si è impiantato. Niente muore, a meno che non sia già moribondo". Si dà credito alle figure di contorno che si ingegnavano a vedere in Hitler un nuovo Buddha, un nuovo Sigfrido, fingendo di non vedere che le uniche reliquie che gli interessavano davvero (il Sacro Graal, i gioielli della corona del Sacro Romano Impero, la Santa Lancia) erano tutte dannatamente cristiane. Certo, di un cristianesimo medievale, da ciclo bretone, più Artù che Gesù.
Ma è pur sempre oggettistica cristiana: prendi la Lancia, la reliquia più sacra su cui riuscì a effettivamente a mettere le mani. (Continua...)
Di storie in forme di fiore
13-03-2012, 23:06arti contemporanee, coccodrilli, fumetti, leggerePermalinkDunque io, che ho cominciato a leggere quasi prima di cominciare a pensare, sui cartelli stradali, i titoli dei giornali, io che ho imparato a leggere in officina sulle latte di OLIO FIAT con le lettere bene in evidenza, a un certo punto ho trovato i fumetti e per molto tempo non ho cercato di meglio. In seguito ho letto anche altre cose, il Codice della Strada e Svetonio in originale, ma probabilmente la cosa che riesco a leggere meglio, che mi viene più naturale leggere, sono i fumetti: una vignetta dopo l'altra, la nuvoletta in alto prima della nuvoletta in basso, certe linee sottendono il movimento e la didascalia è una voce fuori campo. Migliaia di Topolini e poi Giornalini, e Dylandog e tutto il resto, ma so che non è stato così per tutti. C'è gente che i fumetti non li legge.
Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d'inquadratura tra una vignetta e l'altra. Queste persone sono l'equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch'io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell'inciso).
Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c'è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.
C'erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l'editoriale Del Corno comincia a stampare l'Uomo Ragno e tu passi da Topolino all'Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc', e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d'estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).
Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c'erano Xbox, non c'era youtube né facebook, non c'erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall'eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell'Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l'Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l'esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev'essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.
E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermetico di Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d'inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. "Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!"; "Ciò che amo del garage ermetico è l'infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli"; "Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe". E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.
In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle "storie a forma d'elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino". Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell'ambiente. Prima di lui l'immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall'altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell'astronave di Alien si chiamano "sfinteri" e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un'industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più 'artista', nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni '80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall'altra, uno bianco e l'altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.
Oggi i giornaletti non si vendono quasi più, e chi vuole sopravvivere nell'ambiente lo sa, che margini non ce ne sono: la poca gente che ancora legge vuole storie, storie consequenziali, intricate ma non troppo, vignette ortogonali e magari anche qualche didascalia. Additare Moebius ai giovani aspiranti fumettisti sarebbe da criminali. Altro che storie in forma di fiore. Non c'è mercato per questa roba. Ripensandoci, non c'è mai stato, nemmeno in Francia, Métal Hurlant è durato quel che è durato. E allora?
E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c'era da capire.
Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d'inquadratura tra una vignetta e l'altra. Queste persone sono l'equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch'io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell'inciso).
Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c'è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.
C'erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l'editoriale Del Corno comincia a stampare l'Uomo Ragno e tu passi da Topolino all'Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc', e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d'estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).
Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c'erano Xbox, non c'era youtube né facebook, non c'erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall'eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell'Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l'Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l'esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev'essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.
E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermetico di Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d'inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. "Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!"; "Ciò che amo del garage ermetico è l'infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli"; "Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe". E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.
In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle "storie a forma d'elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino". Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell'ambiente. Prima di lui l'immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall'altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell'astronave di Alien si chiamano "sfinteri" e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un'industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più 'artista', nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni '80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall'altra, uno bianco e l'altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.
E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c'era da capire.
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