Un dibattito provinciale

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Si riparla di abolire le province, o perlomeno di accorparle. Se ne riparla come l'anno scorso in estate, e forse l'argomento si presta più di altri al dibattito sotto l'ombrellone; le province sappiamo tutti più o meno cosa sono (la nostalgia per le sillabe iniziali delle vecchie targhe), siamo tutti più o meno convinti di sapere a cosa servono (a poco), abbiamo tutti un'idea di come risistemarle: se Monza vada riaccorpata a Milano o annessa a Varese; quale sarò il capoluogo di Imperia-Savona? Meglio Rovigo-Ferrara o Rovigo-Padova? Eccetera. Peraltro la chiacchiera è sterile per definizione: sappiamo tutti che alla fine Monti deciderà senza consultarci.

E tuttavia qualche considerazione non banale sulle province, sul senso di una suddivisione secolare del territorio, si potrebbe anche fare. Sarebbe bello che nei giornali si riuscisse a parlarne lasciando perdere i campanilismi, non perché non esistano (accorpare Pisa e Livorno è senz'altro uno choc), ma perché tutto sommato hanno ben poco a che vedere col problema. Reggiani e modenesi continueranno a sfottersi anche se la provincia diventa una sola. Ma il motivo per cui molti pesaresi non sarebbero contenti di un'eventuale annessione alla provincia di Ancona non è una questione culturale o linguistica, addirittura, come ha scritto qualcuno. Più spesso di tratta di problemi pratici: se nevica sulle strade provinciali di Urbino, bisognerà attendere un sì da Ancona per spargere il sale? Che senso ha centralizzare gli uffici, se poi occorrerà immediatamente aprire sedi distaccate?

Alla base di molte chiacchiere c'è una competenza geografica data per scontata e che invece tante volte scontata non è (continua sull'Unità, H1t#135).

 Così ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccolo, il territorio a cui fa capo (la Valtellina) è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni. Monti e il suo governo saranno già lontani.
Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone. Si sa che in altri Paesi i territori poco popolati sono compensati, in sede istituzionale, da una maggior rappresentatività: negli USA anche i grandi Stati del Midwest hanno i loro due seggi al Senato, anche se la loro popolazione è molto inferiore a quella degli Stati sulla costa. È un metodo, certo non perfetto, di riequilibrare grandi territori poco popolati e piccoli Stati fortemente urbanizzati.

La distribuzione della popolazione, in Italia, è molto diversa. Ma spesso chi ritiene inutili le province vive in grandi centri, come Milano o Roma o Napoli, dove a conti fatti la provincia è davvero un doppione, la cui abolizione non sarà affatto rimpianta. Però la stragrande maggioranza degli italiani non vive in questi grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso. Di queste cose sarebbe bello discutere, non soltanto sotto l’ombrellone, mentre aspettiamo che Monti & co. ci mostrino la nuova cartina delle province italiane. Più che delle risse di cortile, dell’angoscia dei materani costretti a mescolarsi ai potentini, eccetera eccetera.http://leonardo.blogspot.com
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Ma zio che ci fai nel Mucchio Selvaggio

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Per chi ha cominciato a impratichirsi di cinema guardandolo con un occhio solo nei beati dopocena dell'infanzia, armeggiando nel frattempo coi lego sul tappeto, Ernest Borgnine c'era sempre stato. Come certi rassicuranti Immortali che non vivono nell'olimpo, ma più spesso nel tuo paesino, e a parte l'immortalità sono proprio persone normali che non hanno nessun desiderio di emergere in qualche modo dal paesaggio umano circostante: spesso fanno i bidelli, i fornai, i postini; sei convinto di conoscerli perché li saluti da quando hai imparato a salutare. Ma l'unica cosa che veramente sai di loro è che ci saranno sempre, e la loro faccia non smetterai mai di riconoscerla. Ora che l'ho scritto mi ci vuole poco a immaginare Ernest Borgnine bidello, fornaio, postino. Ma quando dico "Borgnine bidello", dico proprio che riesco a immaginarmelo mentre mi becca nel ripostiglio della palestra mentre armeggio intorno a pericolosissimi strumenti di sollevamento pesi, e mi solleva, lui, manovrando il lobo del mio orecchio destro. No, in realtà non aveva la faccia di Borgnine. Ma appicicare la faccia di Borgnine alle comparse dei propri ricordi d'infanzia è facilissimo. Provate. Visto? Quella faccia era incredibile.


Date un'occhiata per esempio alla galleria pubblicata ieri dal Post, in cui compaiono tra l'altro quasi tutte le sue buffe mogli, e altri uomini celebri, e donne anche belle; ma non c'è niente da fare. Se nella foto c'è lui, la foto è sua. Il punctum se lo mangia, Ernest Borgnine, probabilmente gli rimane incastrato tra i denti. Se dovete spiegare a qualcuno cosa sia la fotogenia, mostrategli Ernest Borgnine. Un attore molto bello (o un po' brutto) può senz'altro ipnotizzarci per un po', ma Borgnine era uno dei pochi che poteva convincerci in qualsiasi momento di essere nostro zio, di esserlo sempre stato, ehi zio! Scusa che non ti ho fatto gli auguri a Natale. Al punto che viene il dubbio che non fosse nemmeno un grande attore, così come un camaleonte non è un esperto pittore: forse la sua espressività irradiata dalle rughe sottociliari era un caso particolarissimo di pareidolia; forse Borgnine non ha mai fatto altro che mostrare la sua faccia, e tutte le emozioni ce le mettevamo noi. Però, accidenti, funzionava. Borgnine ti metteva a tuo agio, anche quando ti trovavi a 24 ore dall'Apocalisse in una Manhattan popolata esclusivamente da mostri e criminali... ma quando hai visto lui hai tirato fiato: va bene, ci saranno i mostri e i criminali, ma c'è anche lo zio che guida il taxi, non può finire troppo male. Non c'era nemmeno bisogno di fargli imparare troppe battute, bastava metterlo in un angolino e la scena, qualsiasi scena, acquistava più realismo e naturalezza: per forza, c'è lo zio. Bisogna anche dire che una delle rare volte che ha fatto il protagonista, ha portato a casa un Oscar, quindi il professionismo c'era. Ma soprattutto c'era quella faccia.

La faccia dei nostri zii, dei nostri nonni. Dentature sgraziate, ma bianchissime di speranza. Una generazione che non è mai stata veramente giovane, tranne forse qualche mese durante la guerra, il tempo per posare in bianco e nero con l'uniforme e la brillantina. Fino agli anni Sessanta di giovani, anche nei film d'azione, non ce ne sono mica tanti. Anche nei film di guerra hanno pance, rughe, passati da rimproverarsi. Alla bruttezza classica del suo tempo, Borgnine aggiungeva un pizzico di esotismo che però (come nell'altro caso eclatante di Charles Bronson) non tradiva nessuna provenienza geografica specifica: Borgnine non era proprio l'americano medio, ma poteva essere qualsiasi esponente di qualsiasi minoranza in qualsiasi momento: dal capo indiano al capoclan di camorra; e i cheyenne e i borsaneristi di Poggioreale avrebbero invariabilmente esclamato: ehi, zio! Per dire, venerdì pomeriggio mentre la creatura giocava col tappeto la tv mostrava un film degli anni Settanta ambientato in Israele: e rieccoli entrambi, Bronson nell'IDF e Borgnine burocrate in un qualche ministero, coi baffoni e la camicia spiegazzata, zio! Ma sei pure ebreo e non mi avevi detto niente? (chiedo scusa, in quel film in realtà non c'è, boh).

Borgnine in realtà era di Hamden, Connecticut; però la mamma era nata a Carpi. Non so quanto questo c'entri col fatto che di tutti i caratteristi del cinema americano '50-'60-'70 è l'unico di cui ho sempre saputo il nome, sempre, fin dai lontani tempi del lego sul tappeto. È pur vero che mi sembra una faccia familiare, ma credo che mi sembrerebbe così anche se fossi vissuto nel Delta del Mississippi; anzi, se socchiudo gli occhi e ci penso tre secondi, riesco a immaginarmi anche Borgnine afroamericano, sputato! Che suona la tromba in qualche vecchio film in B/N, giusto una comparsata mentre Satchmo si terge la fronte.

Non so se il cinema di oggi sia migliore, davvero non lo so, tra l'altro non vado al cinema da così tanto tempo che potrebbe anche essere risorto e rimorto, il cinema. Di sicuro mancano facce come la sua. Certo, se ci voleva un conflitto mondiale a produrle, se ne può anche fare a meno. Però la tranquillità di poter trovare il mio bidello, il mio macellaio in una sequenza - anche in un ruolo di psicopatico, va bene - quella tranquillità che ti trattiene dal cambiare il canale, nei pigri pomeriggi o a tarda notte, quella non mi torna più. Gli attori della mia età non mi mettono a mio agio, molti di loro hanno deciso di non invecchiare e la cosa comincia a inquietarmi. Magari i bambini che giocano sul tappeto al giorno d'oggi li troveranno amabili zii ugualmente. Ci spero; nel frattempo uno come Borgnine mi manca.
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Il glande di Papa Sisto

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Va volutamente a casaccio.

Ieri su Repubblica si sono incrociati due fenomeni che da qualche anno seguo con una certa attenzione, non so nemmeno io perché: il dibattito sull'abolizione delle province e la prosa di Francesco Merlo. Il risultato lo definirei clamoroso, ma forse per riuscire a cogliere l'infinita assurdità del tutto bisogna essere dei maniaci come me.

Comunque provo a spiegare. La parola "provincia", come tante parole della nobile ma non ricchissima lingua italiana, ha diversi significati. Ogni vocabolario ne riporta almeno tre o quattro, ma i più importanti sono i primi due. Vedi ad esempio il Sabatini Colletti:
  • 1 Circoscrizione territoriale amministrativa in cui si suddividono le regioni dello stato italiano e che raggruppa insieme più comuni limitrofi; (anche con iniziale maiusc.) ente amministrativo con competenza su tale territorio:presidente della p.; sede di tale ente: andare in P.
  • 2 In contrapposizione alla capitale o ai grandi centri urbani, il complesso delle città e dei paesi minori: abitare in p. || fig. di p., tranquillo, monotono, oppure retrogrado, ristretto (con riferimento a una presunta arretratezza sociale e culturale della p.): vita, mentalità di p.
Ora, quando il governo anticipa che ha intenzione di abolire e accorpare delle "province", il contesto dovrebbe rendere chiaro oltre ogni possibilità di dubbio che il significato della parola è il numero 1: circoscrizioni territoriali amministrative, di cui possono far parte sia grandi e grandissimi centri, sia la campagna disabitata. Secondo alcuni di queste circoscrizioni ne esistono troppe (anche secondo me) e quindi ridurle potrebbe portare a un risparmio senza una riduzione significativa dei servizi offerti. Io poi da anni continuo a notare che chi ne discute ha spessissimo scarsa nozione di cosa sia questo tipo di circoscrizione e che tipo di servizi offra al cittadino. Però questo non è il problema di Merlo.

Merlo è oltre. Merlo ieri su Repubblica ha scritto una paginata sul significato numero 2. Per tre colonne ha continuato a strascicare l'equivoco; ha chiesto al lettore di sospendere la credibilità e di assumere che Mario Monti volesse abolire "il complesso delle città e dei paesi minori", "con riferimento a una presunta arretratezza sociale e culturale della p.": basta con il tedio di vivere in provincia, tutti metropolitani d'ora in poi. Per capirsi, è come se di fianco alla notizia di un restauro della cappella sistina un editorialista scrivesse tre colonne sul glande di un pontefice del Rinascimento. E per favore non traducete più "inquinamento" con "polluzione", anche se i vocabolari lo consentono, perché se Merlo se ne accorge ti fa una pagina sui sogni bagnati della sua, della nostra ruggente pubertà.

Poi uno si domanda: perché crollano le vendite dei giornali? Perché? Io ieri su Repubblica ho letto un titolo, ho visto una cartina, sembrava che Monti volesse abolire la mia pur ricca e popolosa e vasta provincia. Leggo sotto e scopro che non è proprio così: può darsi che si vada a un accorpamento con un'altra provincia, anche lei ricca e popolosa e tra l'altro ci ho dei parenti,e in generale mi sembra gente con la testa quadra sulle spalle, quindi non è un dramma; però a quel punto cosa vorrei da un quotidiano? Vorrei che mi spiegasse perché un accorpamento di questo tipo conviene. Non solo delle informazioni, che tutto sommato ho trovato, ma degli scenari: come potrebbero cambiare i confini? Conviene far gestire le scuole superiori a livello comunale o regionale? Secondo me no, ma discutiamone. Tutto questo io vorrei da un quotidiano, e su Repubblica queste cose un po' ci sono, ma in poco spazio. Di fianco però c'è una paginata di Merlo sul glande di Papa Sisto. No, in realtà sul provincialismo come fenomeno dell'italianità (il severgninometro s'impenna): ma non è che faccia molta differenza. Alla fine Merlo potrebbe parlare di qualsiasi cosa, non è per la sua attinenza ai fatti del giorno che lo leggiamo.

Lo leggiamo perché ormai ci offre scorci inediti, lussureggianti, sulla cultura di un intellettuale che dorme. Senza offesa, non voglio dire che Merlo stia dormendo quando scrive, però il modo in cui si concatenano le immagini, nel suo flusso di incoscienza, ti dà l'impressione di un sogno. Il sogno di una persona che ha letto molto, che conosce tante cose, e di notte se le ripassa saltabeccando da qua a là per associazione di idee, se le conta come le pecorelle, cos'è la provincia per Merlo? C'è dentro Sciascia, Keynes, Jimmy Fontana, Pasolini, Giorgio Bocca, il latte di capra, le melanzane, e ho letto soltanto le prime dieci righe. Però io ormai ho un'età, qualche riferimento insomma riesco a coglierlo: mi domando che effetto possa fare tutta questa roba a un lettore di venti - io ne avevo meno quando cominciai a leggere Repubblica - uno a cui gli immortali versi di Jimmy Fontana non dicono niente, uno che Keynes vorrebbe prima sapere chi era, non è che si possa andare su google ogni tre righe. O meglio: se costringi il tuo lettore ad andare su google ogni tre righe, lui va a finire che su google ci rimane, scopre il tasto "news" e smette di comprarti. Secondo me. Poi fate voi.

A un certo punto c'è un inciso commovente: mentre prosegue in una burchiellesca lista di provinciali di successo (che avrebbero avuto successo anche se le circoscrizioni territoriali di cui si stava parlando fossero state disegnate in un altro modo), Merlo lo scrive: "vado volutamente a casaccio". Ecco.
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Scampato alle Diaz

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un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo). 

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
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Maria 12 ci perdona, tutti.

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5 luglio - Santa Maria Goretti (1890-1902)

La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d'estate, col caldo che fa, c'è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c'è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio - sarà che hai caldo anche tu - sei in un'altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all'inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c'è Maria Goretti: l'ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po' arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile, se scavi un po' ti accorgi che sotto c'è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c'è chi compra.


Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall'altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell'uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un'altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano (continua sul Post...)
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E il Veneto? (e il Vesuvio?)

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Va bene, abbiamo capito, siamo una terra sismica e avremmo dovuto saperlo prima. Facevamo finta di niente, ignoravamo tutti gli indizi che pure erano a portata di mano, scommettevamo sul fatto che certe cose capitano una generazione ogni venti, vuoi proprio che dovesse capitare a noi? Siamo stati ingenui e sprovveduti, criminalmente sprovveduti. Soprattutto coi capannoni: li volevamo sempre più grossi, sempre più alti, sempre più rapidi da tirar su, ci siamo tirati il collo per acquistare o prendere in affitto delle trappole per topi. È stata una grossa cazzata. Però possiamo rimediare. I morti restano morti, ma i feriti possiamo curarli, i senzatetto indennizzarli, e l'Emilia può diventare antisismica, se si impegna. Ci vorranno soldi ma li troveremo, ci aiuterà l'Italia e persino l'Europa, e in generale ci aiuteremo da soli. Magari nel giro di pochi anni la casetta di legno diventerà un elemento tipico del paesaggio, dove prima c'era il casolare ristrutturato. Magari i nuovi capannoni antisismici saranno anche più belli. In fondo tutto cambia, perché non dovrebbe cambiare la Bassa, anche in meglio. Va bene.

E il Veneto?
Perché, cosa c'entra il Veneto, adesso? (Scopritelo sull'Unita.it, H1t#134).

No, niente, è che… anche il Veneto, come l’Emilia, non esiste. Sono due nomi diversi per una terra che non comincia e non finisce, e si stende tra le Alpi e gli Appennini. Ci passa un fiume in mezzo, ma le faglie corrono molto più sotto, ignorando le futili divisioni amministrative. Quindi la domanda è: mentre qui ci mettiamo a montare case di legno (per ora sono poco più di rimesse per gli attrezzi, ma qualcuno la sta già ordinando coi servizi e la veranda), in Veneto qualcuno si preoccupa di verificare l’antisismicità degli edifici? Mentre noi ripensiamo totalmente la tipologia delle strutture nelle zone industriali, in Veneto qualcuno ci sta facendo un pensiero? O continuano a timbrare il cartellino e a entrare nei loro capannoni come niente fosse? Perché il Veneto è sismico quanto lo siamo noi. Perché il terremoto padano più distruttivo del medioevo non ebbe un epicentro in Emilia, ma tra Verona e Brescia: nel 1117, fece crollare il rivestimento esterno dell’Arena e il duomo. Naturalmente è lecito sperare che a una generazione che ha vissuto da bambina il terremoto del Friuli e da grande quello in Emilia almeno un sisma in Veneto dovrebbe essere risparmiato. Ma lo sciame che è venuto di qua dal Po, sarebbe potuto venire anche di là. Il fatto che sia venuto qua piuttosto che là non dovrebbe cambiare nulla. Certo ora noi siamo spaventati, siamo ansiosi, ci teniamo a mettere in sicurezza le nostre case e le nostre fabbriche, ma perché in Veneto non dovrebbero essere altrettanto preoccupati?
Dico il Veneto perché è una regione poco lontana, simile per prodotto lordo, per densità di popolazione… e per rischio sismico. Ma a ben vedere il discorso vale per tutte le regioni d’Italia: per qualcuna più che per le altre, ma nessuna dovrebbe sentirsi esclusa. Basta dare un’occhiata alla storia sismica del nostro Paese. Se però qualcuno vuole previsioni più accurate, c’è un altro fenomeno ricorrente che è particolarmente in ritardo sulla sua tabella di marcia: il Vesuvio. Da qualche secolo a questa parte si era stabilizzato in un ritmo ciclico, che prevedeva un’eruzione distruttiva più o meno ogni quarant’anni. L’ultima si è verificata durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi più niente. Il periodo ciclico si è evidentemente interrotto, e i vulcanologi ritengono che la prossima eruzione sarà particolarmente disastrosa. Capite cosa abbiamo qui? Qualcosa che i sismologi non possono assolutamente darci, la previsione di un disastro in una località geografica ben definita, i vulcanologi ce la servono un vassoio d’argento. Il Vesuvio erutterà: è già esploso in passato, e sappiamo bene cos’è successo. Una nube ardente, di gas ad altissima temperatura, sterminò la popolazione di Pompei. I lapilli poi la coprirono. Quel che è successo nell’antichità potrebbe succedere ancora: l’unica differenza importante è che oggi alle pendici del Vesuvio non sorgono alcune fiorenti cittadine, ma la seconda o terza hinterland italiana per densità di popolazione. Mentre noi qui ci riorganizziamo e ci addestriamo a reagire meglio a una calamità che nel nostro territorio potrebbe non ripresentarsi più per altri 300 anni, sotto al Vesuvio fanno qualcosa? Ci sono ancora feriti durante le esercitazioni? La statale è ancora parzialmente ostruita dallo sverso dei rifiuti? Il Vesuvio prima o poi si risveglierà. È un’evenienza ben più probabile e facile da localizzare di qualsiasi prossimo terremoto. Non c’è bisogno di consultare indovini o scienziati maledetti: il disastro è già stato previsto, il luogo dove si verificherà lo conosciamo. Vogliamo parlarne?
Spero di sbagliarmi, ma ho la sensazione che no, non se ne voglia parlare. Che almeno a un certo livello si sia già fatto un calcolo, troppo osceno per essere divulgato, e si sia concluso che anche in questo caso sarà più semplice sensibilizzare gli italiani dopo il disastro che prima. Ho la sensazione che nei cassetti delle redazioni, dove si tengono i coccodrilli per quei personaggi anziani che potrebbero morire da un momento all’altro, si possano trovare anche gli editoriali furenti e dolenti per un disastro naturale terribile e terribilmente annunciato – l’eruzione del Vesuvio. Con gli spazi bianchi dove inserire lo spazio per le vittime (decine? centinaia? di più?) e i miliardi di danni; e tante parole di sdegno per la speculazione edilizia sul cono del vulcano; per le prove di evacuazione insufficienti; per la criminale miopia della classe politica. Che forse non è poi così miope davvero. Forse – ed è terribile pensarlo – ha semplicemente già fatto i suoi conti.http://leonardo.blogspot.com

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Tota nostra est

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Giusto per rispondere alla domanda: una satira di destra è possibile? Altroché se è possibile. Una satira conservatrice, anzi proprio reazionaria, regressiva, istintiva, sempre pronta ad attingere dal sostrato arcaico della civiltà, dalle superstizioni e dalla scaramanzia; una satira di cattivo gusto (ma non lo dovrebbe essere sempre?), senza pudore (e perché dovrebbe averne?), ci sarà sempre. Avrebbe più senso domandarsi perché per tanti anni ce la siamo immaginata diversa.

C'è stato forse un equivoco, un'infiltrazione, un tentativo di usare caricature becere e scatologia prima per fare eversione (il Male), poi addirittura per scopo didattico (Cuore). Ma anche nel momento in cui sembrava che la satira dovesse creare una nuova consapevolezza in un nuovo ceto medio riflessivo, che saltava le pagine degli editoriali e andava a pescare l'inserto con le vignette, c'era sempre in prima pagina un Forattini a ricordarci che alla fine si tratta di disegnare pisellini e chiappe chiare. La satira è così, ed è tutta roba nostra, non ha molto senso aspettarsela migliore; forse migliorando un po' il mondo, ma rassegnamoci al fatto che ci sarà sempre chi guarda il peggio, chi fa le caricature e ci ride su.

Ci sarà sempre un giornale come Libero, che con falsa modestia afferma di non voler "fare concorrenza al Vernacoliere". Ah no? Siamo un Paese libero, anche di dire Cacca Tette Sfiga, e meno male, e non sarebbe un problema vedere quelle brutte caricature in edicola, tra le ristampe vintage del Tromba e i calendari di Mussolini. Il problema semmai è vedere chi esce dall'edicola con Libero sottobraccio - almeno lo nascondesse nella Gazzetta dello Sport, no: lo sfoggiano. Non sono gli scemi del villaggio, né i vecchi fascistacci già renitenti alla leva. Sono, ancora oggi, professionisti: hanno negozi, hanno aziende, hanno studi, e ci arrivano ogni mattina con quella schifezza sotto braccio: e non se ne vergognano. Qui c'è l'unico vero equivoco che non abbiamo ancora pagato abbastanza. Sono convinti di avere sottobraccio un giornale serio.


"Come un giornale serio? Con quelle caricature in prima pagina? Col faccione di Belpietro che ammicca, ma non è un comico anche lui? Lo vedo sempre a Ballarò con Crozza..."
"Guarda, lo so, anch'io all'inizio non ci volevo credere, però c'è una vasta fetta della popolazione convinta che Crozza sia un comico e Belpietro un giornalista serio".

Come si sia arrivati a quel regime di  deprivazione sensoriale per cui Belpietro titolando "Monti porta sfiga" può essere scambiato per un giornalista di opinione, è difficile spiegarlo. In fondo è lo stesso equivoco per cui Emilio Fede ha potuto condurre per anni un programma satirico che si fregiava della denominazione di "telegiornale", e nessuno sembrava avesse da ridire; e si faceva brutta figura a quei tempi a urlare: ehi, ma è sofisticazione, è frode, guardate che un sacco di gente ci crede; non scherzano, pensano di guardare un vero "telegiornale", sono convinti di informarsi. Però il tg4 era almeno roba da pensionati. Libero no, Libero è un rutto di carta e per carità non ci sarebbe nulla di male, viva i rutti in libertà... ma poi lo vedi bello spiegato sulla scrivania del tuo commercialista e pensi Dio Mio, questo appena mi volto col mio Modello Unico ci fa l'aeroplanino. Nel migliore dei casi.

C'è poi stato l'incontro, funesto per le sorti della nostra classe dirigente, tra una manica di scribacchini mediocri e l'aggettivo "scorretto", che a un certo punto è diventato un must, dovevano tutti per forza fare qualcosa di scorretto e vantarsene con gli amici. Questo successe più o meno a inizio novanta tra la moda dei puttantur e quella della rucola sulla pizza, ma c'è gente che ci è rimasta di brutto. Ancora oggi a Libero, se truccano Monti da jellatore, sono convinti (sul serio) di fare "brillante giornalismo politicamente scorretto", dove sul serio mi piacerebbe andare lì col dizionario: Belpietro, mediocre buffone che giusto la spalla di Crozza meriti di fare, ma gratis: leggi un attimo cosa vuol dire "giornalismo". Leggi cosa vuol dire "brillante". Leggi cosa vuol dire "politicamente".
"Non c'è".
"Perché è un avverbio".
"Censura!"
"Ma no..."
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E noi abbiamo perso

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Non ha importanza quanto siate autoironici, quanto siate cinici, quanto siate comunque consapevoli che è solo un modo di dire figurati, no.

E non ha importanza quanto lui sia sputtanato, condannato, anzi no prescritto, ma comunque cotto, non ha importanza.

Non ha importanza quanto siate autoironici, cinici, sofistici, pragmatici, quanto siate loici.

Così come non ha importanza quanto lui sia fuori fase, fuori fuoco, fuori dall'euro, fuori dal pdl, fuori di testa, fuori del fuori.

Non ha importanza quanto siate post, quanto siate meta, quanto siate para.

E non ha importanza quanto lui sia sconfitto, bollito, spappolato, finito.

Ogni volta che voi pensate "culona", Berlusconi ha vinto.
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27 adulti andata e ritorno grazie

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Cara Trenitalia, quante te ne potrei dire, ma chissà quante te ne dicono tutti i giorni: chissà quanti ti rimproverano i tuoi ritardi, le tue biglietterie chiuse, il tuo sito inaffidabile, eccetera. Ma se proprio devo aggiungermi al coro dei tuoi detrattori, cercherò almeno di metterci qualcosa di mio. Per esempio: cara Trenitalia, cos'hai contro le gite scolastiche? (Continua sull'Unita.it, H1t#133).

Perché dai 12 anni in su non concepisci che una classe di scuola possa viaggiare in comitiva? Perché se voglio organizzare una gita in treno, un mezzo assai più sicuro delle corriere (e credo anche più educativo) mi tocca acquistare, per 25 alunni di 13 anni, 25 biglietti per adulti, a prezzo pieno? Oltre ovviamente ai biglietti per gli insegnanti, sia mai che ti venga in mente di offrire uno sconto a chi ti riempie un mezzo scompartimento.
Cara Trenitalia, perché invece di riempirmi la mail di offerte meravigliose sui Frecciarossa e i Frecciargento, non mi stupisci con una bella offerta per le gite scolastiche? Non ti ci vorrebbe nulla per essere competitiva con gli autotrasportatori. E dovresti essere la prima interessata a far conoscere il treno ai ragazzini. Il mezzo meno pericoloso di tutti, il più riposante. O hai paura che gli studenti disturbino i pendolari, o i manager col laptop che cercano di guardarsi i gol con la connessione WiFi che va a scatti?
Cara Trenitalia, perché insisti a volermi portare da Bologna a Milano in un’ora, quando l’unico treno che vorrei prendere ultimamente è un Modena-Verona, e ce ne mette due e venti? Ma ti pare normale che nel 2012 Modena e Verona stiano a 140 minuti di distanza? A volte, mentre guardo al finestrino la bassa emiliana diventare per un attimo lombarda, sento come uno spostamento d’aria: è il fantasma di un calesse ottocentesco che sorpassa il regionale Suzzara-Mantova. Lo so che darai la colpa alle regioni. Ma l’Italia è fatta di regioni, non viviamo tutti nell’immediata vicinanza di una stazione dell’Alta Velocità. Cara Trenitalia, ma che t’abbiamo fatto di male noi utenti? Perché fai di tutto per evitarci?
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Ribadisce la sua incompetenza

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Io ero un po' perplesso, ma alla fine mi hanno intervistato su State of Mind (giornale delle scienze psicologiche) a proposito del caso di Rignano Flaminio. Sono sicuro che c'è molta gente che ne sa più di me sull'argomento, compreso un blogger a cui hanno sequestrato il sito. Due anni fa. E non glielo rendono. È una cosa che mi rende più difficile star zitto, diciamo.
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