Guarda indietro con imbarazzo

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La mia generazione sarà tenuta prima o poi a render conto di un fatto paradossale e imbarazzante: avevamo una cosa, una cosa sola a cui tenevamo veramente, e l'abbiamo uccisa. Era la musica. Perché lo abbiamo fatto?

Sono cose di cui abbiamo discusso milioni di volte, però stavolta faccio lo sforzo di rivolgermi al futuro, un ipotetico futuro che dia per scontato che in Occidente tra il secondo dopoguerra e i '90 c'è stata un'importante fioritura artistica di questo genere che possiamo chiamare musica leggera - che si è interrotta più o meno nello stesso momento in cui la gente ha definitivamente smesso di comprare le canzoni, grazie al dilagare di tecnologie che consentivano di condividere la musica eludendo il mercato. Potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, ma in quel futuro sono quasi sicuri che non lo sia: i soldi sono finiti più o meno quando è finita la creatività. Cosa possiamo dire a nostra discolpa?

Prima scusa: non lo sapevamo. Cioè, potevamo immaginarci che tra il mercato musicale e la creatività ci fosse qualche connessione (io me lo immaginavo almeno nel 2001, quando chiusero Napster), ma non ne eravamo proprio sicuri sicuri. Gli spagnoli non lo sapevano, che portando in Europa l'oro del Nuovo Mondo stavano facendo abbassare la quotazione del medesimo, e causando un generale aumento dei prezzi; pensavano: "ehi, il pane diventa ogni giorno più caro, che si fa? Andiamo a prendere altro oro in America, così risolviamo il problema". Forse ragionavamo così: ci lamentavamo che ogni anno ci fosse sempre meno roba buona, e intanto ne scaricavamo sempre di più. Questa scusa equivale più o meno a invocare l'insanità mentale, e quindi magari per il momento l'accantoniamo.

Seconda scusa: il sistema era tutt'altro che perfetto. Magari voi nel futuro pensate che fosse una cosa semplice: inserisci la monetina, e dall'altra parte c'è un artista che si guadagna l'autonomia per creare qualcosa di nuovo e piacevole. No. Gran parte delle monetine finivano nelle mani di chi produceva mangime industriale. Una piccola percentuale veniva effettivamente reinvestita in ricerca, e in questo modo a un certo punto il mercato riusciva ad accorgersi di artisti interessanti e a metterli a contratto, però tutto questo a noi non sembrava affatto perfetto, ed effettivamente non lo era. Cioè ma vi ricordate quanti soldi facevano i divi negli anni Ottanta? Ne facevano veramente troppi, e spesso sbroccavano. Noi di tutto il sistema vedevamo solo gli eccessi, e non ci piacevano. Non stavamo rubando musica ad artisti disperati sull'orlo del suicidio. All'inizio la stavamo rubando a scapestrati che non sapevano dove sbattere i soldi, e al loro indotto di puttane e pusher, vabbe', pazienza. C'era anche un certo moralismo nel nostro febbrile downloading. Li volevamo punire, perché guadagnavano troppo. C'era anche dell'invidia, certo, noi nel frattempo perdevamo potere d'acquisto - forse esagero, ma a me è capitato di vivere il boom di Napster e di ricevere la mia prima busta paga, orribilmente bassa, nelle stesse settimane, e mi è impossibile non collegare le due cose.

Terza scusa: voi non avete idea (voi del futuro, intendo) di cosa fosse il mondo in cui noi siamo nati e cresciuti, il Consumismo. Vi guardate le vostre clip degli anni Ottanta, tutte restaurate coi colori fluo al posto giusto, e pensate che doveva essere bellissimo consumare tutte quelle cose - ma tutte quelle maledette cose costavano, e noi dovevamo pagare, pagare sempre, sin da piccoli col PacMan, e le centolire non ci bastavano mai, noi forse ci salvammo dall'eroina perché avevamo già iniziato a ragionare da eroinomani a sette anni con le centolire per il PacMan, quando tutto quello che ci interessava veramente era un'altra manciata di centolire. E poi i vestiti, e i dischi, e i libri, e man mano si andava avanti si scoprivano sempre più mondi interessanti, ma non era come oggi: di ogni mondo ti facevano vedere soltanto uno spiraglio, un bagliore ammiccante, e se volevi entrare anche solo a fare un giro dovevi pagare. Per dire: hai notato quel mezzo vecchio video di David Bowie? Interessante, vero? Ti interessa sapere che dischi faceva dieci anni fa? Paga. Sai quanti ne ha fatti? Comincia a mettere da parte i soldi, e prega di trovarne qualcuno a metà prezzo, o uno zio che te ne presti. Magari qualcuno è brutto e non vale la spesa, ma come fare a saperlo? Da qualche parte ci dev'essere anche un libro che ti orienta. Paga. E avresti sempre dovuto pagare, e tutta la cultura che avresti ammucchiato l'avresti conteggiata in multipli di centolire.

Voi che adesso giudicate, voi potete giocare a Pacman gratis dal gabinetto di casa vostra per ore, finché non vi si marmorizza il culo - ma probabilmente Pacman smette di essere interessante nel momento in cui dal destino del mangia-fantasmini non dipende nemmeno un centolire. In pochi minuti vi potete scaricare la discografia completa di Bowie, che non ascolterete mai: chi ce l'ha il tempo e l'attenzione per una discografia completa? Poco importa, su Wiki in pochi clic potrete sapere cosa vi conviene ascoltare e cosa no. Non scoprirete mai nulla che non sappia già il più stupido contribuente alla pagina wiki su Bowie, ma probabilmente il concetto di scoperta personale vi è alieno tanto quanto l'arcana iscrizione INSERT COIN.

Ecco, voi non potete capire che importanza avesse in quegli anni condividere, registrare, duplicare, masterizzare, prestare, non restituire, e poi finalmente scaricare. Era la lotta al Consumismo. Era la resistenza umana. Era l'unico modo per imparare qualcosa in più, perché il mondo era già vastissimo e complicatissimo, e le centolire per accumulare conoscenza non sarebbero bastate mai.

Quarta scusa: eravamo tirchi. Io, almeno, tirchissimo: non per inclinazione, ma per ideologia. Questa magari ve la racconto un'altra volta.
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Congiunzione di tre crisi

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I am thinking of your v o i c e

Magari è solo un fenomeno raro come può essere rara una congiunzione astrale: la congiunzione di tre crisi.

(1) La prima è una crisi personale, di cui ho già reso conto: è un periodo che non ascolto musica. Problema mio.

(2) Poi c'è una crisi commerciale, così evidente che non c'è bisogno di parlarne: la musica vende sempre meno, in Italia e nel mondo. I negozi chiudono, le vendite on line non tengono il passo, qualche musicista si suicida, altri ci danno dentro coi concerti ma in generale guadagnano meno dei loro omologhi di dieci anni fa; potremmo dare la colpa alla crisi globale (quella dei debiti sovrani o quella dei mutui subprime o quella post 11 settembre? boh), però la cosa convince fino a un certo punto: nel passato ci sono state fasi di recessione in cui la gente continuava a comprare dischi. È più facile ammettere che siano stati gli mp3, così facili da scambiare (non solo on line) da far crollare le vendite della musica non compressa. Tutto questo era facilmente prevedibile ed è successo. Forse i negozi di CD non avevano speranza sin dal giorno in cui la voce di Suzanne Vega fu compressa per la prima volta in un mp3. Come i manoscritti dopo la prima Bibbia di Gutenberg: nel giro di pochi anni un supporto prima indispensabile diventa un pezzo da museo, magari più prezioso, ma inutile.

(3) E poi, sotto le altre due, c'è una terza crisi, che è quella su cui ci dovremmo interrogare, ma prima devo ammettere che c'è, che non è un bagliore riflesso dalla congiunzione delle altre due. Una crisi creativa, ma anche industriale. A partire dal dopoguerra, e almeno fino a tutti gli anni Novanta, la musica che all'inizio si definiva "leggera" ha conosciuto un'esplosione creativa senza paragoni, per la quantità e la qualità e la varietà. Dieci anni fa è cominciata una contrazione: si compone e si produce e si suona ancora molta musica (moltissima), ma l'innovazione è rimasta al palo. Le ultime tendenze sono di solito la commistione di cose già fatte in periodi precedenti, magari finiti temporaneamente sotto un cono d'ombra e poi ciclicamente riscoperti. L'ultima grande diva pop, anche a causa di una morte veramente troppo prematura, cantava R'n'B. Ma in generale tutto quello che è saltato fuori di interessante negli anni Zero è comunque scomponibile in fattori primi che esistevano già negli anni precedenti.

Se ammettiamo che oltre alle prime due crisi, c'è anche questa terza, la situazione si fa più preoccupante. Forse il vero motivo per cui non riesco più ad affezionarmi alla musica è che non mi sorprende più, non mi presenta più qualcosa di nuovo. E forse non succede soltanto a me, forse è un problema di milioni di persone in tutto il mondo, milioni di potenziali acquirenti di musica nuova che negli ultimi anni nessuno riesce più a trovare. La crisi n.3, se esistesse, potrebbe spiegare la n.1 e la n.2.

Ma potrebbe anche essere l'inverso. Il venir meno della creatività, nell'ultimo decennio; la lenta trasformazione del concetto di "originalità" da "fare qualcosa di nuovo" a "essere i primi della stagione che scoprono il filone di 23 anni fa che tra sei mesi copieranno tutti" - potrebbe essere il risultato della crisi commerciale. Si sperimenta meno perché non ci sono più soldi, e quando non ci sono soldi nessuno si prende più i rischi, le major tirano i remi in barca e danno alla gente "quel che la gente vuole" ossia le vecchie canzoni rimiscelate. Per questo, oltre che creativa, la definisco una crisi industriale. Perché la musica leggera è anche un'industria, un settore industriale dove da dieci anni non si progetta più nulla di nuovo, non si osa niente. E forse la colpa è mia. Nostra, cioè.

Cosa abbiamo da dire a nostra discolpa?
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Lose This Skin

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Uno dei difetti strutturali del bloggare è che consiste nel definire regole generali partendo da osservazioni limitate, di solito autobiografiche. Si può fingere che non sia così, dissimulare; però alla fine bloggare significa scendere a far la spesa, stupirsi del prezzo delle zucchine, risalire, scrivere un post sul carovita. Questo è il blog, un posto dove un tizio che quest'anno non ha ancora scaricato un solo mp3 - neanche illegale! neanche gratis! niente - si lamenta perché in giro non c'è più musica buona. Magari ce n'è di buonissima, anzi senz'altro.

In realtà la notizia è tutta nella premessa, ed è una notizia molto intima, da diario privato: *io* non sto più ascoltando musica. È finita. Cioè. Non è vero. Ascolto la solita musica vecchia che ascolto tutti gli anni. Ma anche quella con un orecchio solo. La notizia è che a Natale ho sbattuto via un 'vecchio' laptop, e in quello nuovo non c'è il Mulo, non c'è torrent, iTunes fammi controllare... no (scusate, è che certa roba a volte s'installa da sola). Non sto ascoltando musica. I cd prendono polvere. I vinile l'ultima volta li ho visti nel solaio dei miei. Le cuffiette. Ne rompo ancora una al mese, la novità è che la ricompro due mesi dopo. In fonoteca non so più cosa prendere in prestito, mi sembra di aver ascoltato tutto. Dovrei oltrepassare delle soglie che non m'interessano, cioè un disco dei Jefferson Airplane va bene, è cultura generale, due dischi anche anche, ma io non voglio diventare un esperto dei Jefferson Airplane, nessuno mi pagherà mai, e non ne traggo altre soddisfazioni tangibili. Dovrei passare alla classica, era una svolta prevista a una certa età, ma mi sembra ancora presto e se provo qualche passo incerto mi vergogno di essere rimasto tanto ignorante tanto a lungo. Mi manca l'imprudenza, il coraggio che avrei se tutto questo m'interessasse davvero.

Insomma quando scrivo che la musica è finita, dovrei avere il coraggio di aggiungere: per me. C'è gente che la sta scoprendo in questo esatto momento, e ci scopre un giardino di delizie. Io non ci passo più, la scusa ufficiale è che non ho tempo. Ma ho tempo per cose che una volta erano meno importanti, meno vitali. Un tempo non avrei semplicemente resistito. Quest'anno devo ancora ascoltare una canzone nuova: nel mio diario personale questa è una notizia più rilevante del primo capello bianco. Non è semplicemente "sto invecchiando". Suona piuttosto "sono invecchiato".

Eppure è già successo. Sono fasi. Posso recuperarle con una precisione quasi maniacale perché niente, nella mia vita, ha trattenuto più segni del tempo della musica: ci sono stati mesi e anni in cui improvvisamente ho smesso di ascoltare musica, proprio come in questo già per altri versi apocalittico 2012. Ci sono stati  momenti in cui improvvisamente la musica che ascoltavo sempre non suonava più interessante. Potevano coincidere con cambiamenti di ambiente, di scuola o città o compagnie o fidanzata, o niente di preciso. La metafora migliore che mi viene è con la muta dei serpenti. La musica di sempre, quella che hai portato addosso con orgoglio - e ti serviva anche per mimetizzarti, o viceversa per risaltare in certi contesti - ti si desquama all'improvviso e tu resti lì, atono e scorticato, e non te ne frega niente. Tanto prima o poi cresce sempre un'altra pelle. Di solito è facile come svegliarsi al mattino, e scoprire che c'è di nuovo della musica che ti piace. Non sono soltanto artisti nuovi, nuovi generi: è il disegno delle squame che è cambiato. Nella nuova trama c'è posto anche per canzoni che amavi già; ma adesso le ami a un livello diverso; magari prima per il ritornello, adesso per la strofa, o l'arrangiamento, o la progressione, o la regressione, qualsiasi cosa. Sono periodi delicati. Molta musica che prima ti piaceva, da un momento all'altro potrebbe non piacerti più. E viceversa. Stai per scoprire mondi nuovi, ma stai anche per rinnegarne altri, è complicato.

Ma è anche bello: è il modo che alcune persone hanno di cambiare, di evolversi. Quindi succederà di nuovo, si tratta soltanto di aspettare e di non lamentarsi nel frattempo, di non generalizzare, perché là fuori probabilmente ci sono grandissime cose che tu non conosci: magari il 2012 sarà ricordato dagli storici musicali del futuro come un Anno Mirabile, non sarà il primo che ti sei perso in diretta. Insomma niente panico, aspetta - e soprattutto non scrivere di queste cose. Non scrivere di queste cose su un blog.

E se invece stavolta fosse finita? Non posso desquamarmi in eterno, e nemmeno evolvermi in eterno. Prima o poi si tirano i remi in barca, si prosegue per inerzia. Ma non è solo questo.

È che nel frattempo là fuori, oltre alle cose interessantissime che non riesco più a percepire, c'è una crisi commerciale e industriale. Strutturale. Quella altroché se la percepisco: non credo di avere assistito a una crisi da una postazione così privilegiata, tanto da aver pensato nel 2000 "ma per i negozi di dischi non c'è più speranza", e aver visto i negozi chiudere nel 2008 (e riaprire nel 2011 con più vinile che laser, ma quella è un'altra storia). Magari la musica no, ma il modo in cui la si è prodotta per 50 anni, quello è morto. Ammazzato. E pare che il colpevole sia io.
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Fin qui nessuna traccia dei nativi

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The class they couldn't teach

"Eravamo la classe a cui gli insegnanti non potevano fare lezione, perché ne sapevamo più di loro". Questi due versi di una canzone dei Police, quindi molto vecchia ormai, mi sono tornati in mente lunedì mentre partecipavo a una chiacchierata sull'insegnamento, e in particolare sull'insoddisfazione dei professori. Il pretesto era un rapporto della fondazione Gianni Agnelli, ma a un certo punto qualcuno ha tirato in ballo la questione dei nativi digitali: che è il modo anni '10 di definire i giovani d'oggi, la generazione che è nata davanti al computer e che quindi malsopporta una didattica tradizionale a base di quadernini a righe e quadretti e lavagne di ardesia. Io a quel punto forse sono stato antipatico, forse ho recitato fino in fondo il mio ruolo di insegnante scettico che in tutte queste novità digitali ci crede fino a un certo punto. A mia discolpa posso solo canticchiare una vecchissima canzone dei Police, intitolata Born in the 50s: Sting è del '51, avrà finito il suo percorso scolastico intorno al '68, e già allora condivideva la sensazione di avere una marcia in più rispetto ai suoi insegnanti. Probabilmente è stato sempre così, soprattutto nei periodi di crescita, quando i cambiamenti veloci mettono in discussione le conoscenze del passato e la scuola si scopre improvvisamente come il baluardo di tradizioni inutili. Probabilmente ogni generazione è insoddisfatta dei suoi insegnanti, e il cosiddetto "digitale" è semplicemente il terreno in cui si esprime oggi questa insoddisfazione: finché alla lavagna di ardesia non si sostituisce quella digitale, giusto per scoprire che comunque la lezione bisogna studiarla lo stesso, e che studiare è comunque fatica. Probabilmente la sensazione di "saperla più lunga" l'hanno avuta tutte le generazioni, compresa la mia.

Il fatto è che io, che pure su internet ci passo parecchie ore al giorno, non posso dire di conoscere nativi digitali. So che da un certo punto in poi devono esserne nati, so che a un certo punto arriveranno, posso anche immaginare che siano già tra noi: però non li vedo (i lamenti del barbogio professore proseguono sull'Unità, H1t#138).

Forse sono davvero troppo avanti per me, invisibili nelle pieghe della social-network-sfera. Oppure semplicemente sono gli stessi avatar goffi che vedo io, che pasticciano su wikipedia, lucrano aiutini per le interrogazioni su yahoo answers, mandano in trend imbarazzanti catene su twitter, e a quindici anni ancora ignorano che se posti una foto su facebook non è più tua, è di facebook (qui da me almeno è così, tutti gli anni mi tocca spiegare la stessa cosa ai cosiddetti “nativi”: se fossero davvero così nativi, a questo punto spetterebbe a loro spiegarla a me).
Forse c’è un equivoco. Forse ce ne sono parecchi. Forse ci ha messo fuori strada il cliché anglosassone del nerd (o geek), come se bastasse nascere davanti a un computer per diventare geni del computer: non è così, la maggior parte dei bambini che tirano pallonate nei cortili non diventano Balotelli, e la maggior parte di quelli che chattano su facebook non creano nessuna nuova dimensione comunicativa: si stanno solo scrivendo bigliettini, telegrafici e sgrammaticati come quelli che si scambiavano i fratelli maggiori via sms e che noi ci mandavamo a mano. Addirittura la novità è che oggi l’adulto, l’insegnante, il non-nativo, li può intercettare più facilmente, e se ha facebook (e facebook ormai lo hanno tutti) può impratichirsi dei loro linguaggi. Ogni generazione ne sviluppa di nuovi, però oggi possiamo sapere cosa significa LOL WUT prima che qualcuno ce lo scriva sulla lavagna. Ai miei tempi non era così, ai miei tempi i grandi erano veramente tagliati fuori. I nativi digitali nascono già colonizzati dagli adulti, che sono arrivati da un altro continente con già tutto il bagaglio di esperienza necessario a spadroneggiare.
Io non sono affatto sicuro di sapere come ragiona un nativo digitale. Per prima cosa perché non sono sicuro di averne già visto uno; ma forse, quando finalmente arriverà, mi sarà del tutto incomprensibile. Posso solo immaginare che darà poca importanza alla memorizzazione delle nozioni: perché perdere tempo a immagazzinarle in un archivio difettoso come il cervello, quando ormai sono ovunque, “nella nuvola”, a portata di clic? A quel punto io, se farò ancora questo mestiere, cercherò per quanto posso di spiegargli che le nozioni sono fondamentali: sono i corpuscoli, le particelle minime che compongono le nostre conoscenze, le nostre curiosità: che indubbiamente il cervello è un hardware difettoso, ma che il suo fascino sta proprio negli arbitri che commette, nelle cancellazioni impreviste e negli abbinamenti inconsulti. Che non saprò mai cosa trovare “nella nuvola” se non parto da qualcosa che so già nella mia testa: il motivo per cui ancora oggi un nativo digitale non ha nessun vantaggio intellettuale su un tizio di dieci anni in più che abbia studiato su normalissimi libri di carta. Tutte queste cose cercherò di spiegargliele, e magari avrò torto, spesso i vecchi lo hanno.
Nella stessa canzone Sting raccontava che sua madre pianse “quando Kennedy morì. Diceva che erano stati i comunisti: ma io la sapevo più lunga”. Un ragazzo nato negli anni ’50, cresciuto leggendo i giornali in casa, i libri a scuola, poteva effettivamente capire il senso di un fatto di cronaca prima e meglio dei genitori. Il “nativo digitale” di oggi ha un vantaggio del genere? Se guardo al pezzo di internet dove abito io, e penso alle emergenze degli ultimi mesi – crisi economica, terremoto, guerra in Siria, crisi dei partiti – tutti questi giovani che “la sanno più lunga” non li vedo. Vedo un po’ di gente che crede alle scie chimiche e al signoraggio, ma voglio sperare che non si tratti di loro. http://leonardo.blogspot.com
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Non ti sento non ti sento la la la

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Se canti questo allegro ritornello

Uno dei motivi per cui di solito quando parliamo di musica non ci capiamo è che in realtà ciascuno parla di qualcosa di diverso. Per alcuni è un linguaggio, per altri un museo, una tappezzeria, un sottofondo, il ritmo cardiaco, un carattere sessuale secondario. Devo dunque procedere a definire cos'è la musica per me. In generale, oggi come 39 anni fa la musica è per prima cosa un bambino interiore che al mattino mi strilla nelle orecchie che vuole ascoltare una canzone. E siccome nessuno gliela canta - di solito è un brano scemissimo ascoltato il giorno prima - me la ripete lui, a squarciagola, nelle orecchie, finché non cedo e mi metto a canticchiarla anch'io, di solito cedo tra gabinetto e cucina.

Questa è la musica per me. Un'ossessione. C'è sempre questo bambino che mi urla nel cervello un ritornello scemo, e io devo venirci a patti. Un sistema è capitolare e cantare quello che vuole lui, foss'anche il ballo del qua qua qua. Può effettivamente succedere che sia il ballo del qua qua, più l'inciso che la strofa. Se invece voglio resistere, combattere, non cedere all'attacco di Romina Power a massimo volume che in effetti potrebbe tranquillamente ricadere nelle forme di tortura sperimentate a Guantanamo, mi servono due tipi di munizioni. Ho bisogno di musica scema, molto scema, perché per esperienza un ritornello cretino può essere sconfitto entro la colazione soltanto da un ritornello ancora più cretino, la moneta cattiva scaccia la moneta buona, i Righeira hanno l'utilità di scacciare Howard Jones, ma poi ci si dovrà porre il problema di scacciare i Righeira, e su questa china se non ci si sa ritirare quand'è ora, molto presto ci si imbatte nel Brano Musicale Più Stupido Della Storia, il chiodo scacciatutto, che è... non ve lo dico. Ma so qual è.

Ho bisogno insomma di musica scema, nel corto periodo, perché sto cercando di placare un bambino interiore che grida e canta incessantemente. Ma ho anche bisogno di buona musica, nel medio-lungo termine. Musica leggera e un po' complicata, musica sofisticata, musica di qualità. Ne ho bisogno perché la prevenzione è meglio della cura, e l'unico modo per evitare che il bimbo intoni Nek domattina è escludere Nek dal mio paesaggio musicale, frequentare solo grandi artisti, finché il bimbo non capisce l'antifona e magari un giorno si sveglia con un'ouverture di Rossini, non chiedo mica molto, Rossini.

Ora forse posso far capire quanto è stato per me importante, vitale, trovarmi in una provincia in cui esistevano radio decenti, con dj magari imbronciati, magari non sempre professionali, ma che ascoltavano musica decente. Ancora oggi poche cose mi deprimono e disgustano come l'ascolto saltuario di una radio commerciale, coi suoi jingle scemi che voi vi dimenticate appena spegnete l'apparecchio, invece io no, io posso svegliarmi dieci anni dopo con in mente un jingle scemo di Albertino; non scherzo, è successo. Rivalutatelo voi Albertino, io quando lo vedo devo cambiar canale immediatamente, ne va della mia salute mentale. Una delle cose che più temevo del mondo del lavoro non erano le otto ore, non era la ripetitività, l'angustia degli spazi e degli orizzonti, no, è che in certi posti tu la musica la devi ascoltare, sei proprio costretto, e poi vai a casa e hai ore di Fargetta in testa e non te le leva più nessuno. Milioni di persone in Italia sono cresciute così negli ultimi 30 anni, e secondo me hanno riportato dei danni. Non voglio dire che abbiano perso gradi di intelligenza, o che gli sia irrimediabilmente precluso l'ascolto di Mahler, non voglio togliere loro il diritto di voto, quasi mai. Però secondo me un bambino interiore che canticchia ce lo abbiamo tutti, chi più forte chi più piano, e se per anni ha ascoltato Radio Utz Utz Utz o Radio Solo Musica Italiana Brutta, quel bambino ora ha dei grossi problemi, è un fatto.

D'altro canto anche questo sta finendo, le radio commerciali sono sempre meno muzak e sempre più chiacchiericcio (fastidioso ma meno frastornante), nei centri commerciali ci sono playlist dedicate di tutto rispetto, e comunque il più delle volte abbiamo le cuffiette e ascoltiamo quel che ci pare. Ma lo ascoltiamo davvero? Ma è ancora musica?
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L'ultima canzone al mondo (era piratata)

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You wouldn't steal a nightmare
C'è un ragionamento che mi piacerebbe portare avanti quest'agosto, se ho tempo - e non è detto - che potrei cominciare da mille parti, per esempio da qui: hanno scoperto che la colonna sonora del più famoso spot antipirateria è... piratata. La cosa si presta a considerazioni ironiche che avete già fatto da soli, bravi - quando l'ironia si deposita, rimane un'osservazione quasi disperata: è capitato a tutti di piratare qualcosa per scelta, ma sembra proprio che a un certo punto dell'ultimo decennio non piratare sia diventato impossibile; al punto che piratavano anche i signori del copyright... vabbe'.

Quando ho letto la notizia mi è venuta in mente una cosa. Sono uno dei pochi che quel pezzo lo ascolta ancora, probabilmente; non perché noleggi ancora i dvd, ma ne ho comprati usati, e mi capita di guardarli, non da solo - non guardo più dvd da solo da ere immemori - ma in classe. Sì, sono dvd da combattimento che uso per proiettarli nelle aule scolastiche. Quando ci sono situazioni difficili e compromesse, supplenze, ponti soppressi, cose del genere, io arrivo col carrello, il vecchio monitor col tubo catodico, l'unico lettore dvd che funziona ancora (i lettori dvd si rovinano con niente), spengo la luce, abbasso le tapparelle, e carico questi vecchi dvd con il brano anti-pirateria un po' ansiogeno. Ma ansiogeno per modo di dire, penserete voi, cioè si sa, nei blog si esagera... no.

Non sto esagerando.
I dodicenni, quando carico questi dvd col brano antipirateria e le immagini tutte mosse, si agitano.
Anche i tredicenni.
Mostrano chiari segni di disagio.
Al che io non pauso - non posso pausare - ma accendo le luci e dico: ehi, scherzate? È solo una pubblicità, eddai, mica fanno sul serio. Cioè: è vero. Piratare è un furto. Ma piantatela di tremare, su. Passano pochi secondi ed è tutto finito, stanno già pensando ai fatti loro, al laptop in standby che li aspetta a casa col torrent del MagicoMondoDiPatty. Però accidenti, per qualche minuto ha funzionato. Gli adulti queste cose non le capiscono. Stanno sempre tra loro, hanno tutti questi filtri, queste ironie, tutta una struttura di diaframmi e di intercapedini che gli consente di non notare la differenza tra una lieve inquietudine e un gancio nel plesso solare. I ragazzini no, i ragazzini quando una cosa li fa piangere, piangono. Quando una cosa li rende nervosi, s'innervosiscono. Quello spot li rende nervosi. Perché?

Forse perché parla di loro. Che non hanno mai rubato, mai picchiato, mai fatto niente di male tranne, ehi, piratare questo o quel gioco, quel film, quel, come si diceva una volta? "Disco". Per la prima volta qualcuno osa mettere in dubbio la loro integrità morale. Neanche i preti ci provano più, assolvono tutti. In molti casi è un'ansia già retrospettiva. Quando gli chiedo cos'hanno, mi dicono che da bambini quella musica e quelle immagini mettevano loro tanta pura. Insomma sono entrato nella classe senza dire niente e ho iniziato a proiettare gli incubi della loro infanzia, Belfagor. Un mostro.

Forse è semplicemente uno spot ben fatto. La missione era spaventare: missione compiuta. Tendiamo a dimenticarci che anche lo spot migliore ha come obiettivo ideale "un undicenne neanche tanto intelligente". Tutti gli altri continueranno a scaricare e scambiare senza provare nessuna inquietudine - ma nel frattempo abbiamo messo l'ansia a una generazione di ragazzini. Vabbe', pazienza, sarebbe successo in un modo o nell'altro.

Qualcosa da aggiungere? Sì: in questi anni in cui abbiamo smesso tutti di ascoltare la radio, e ci siamo rinchiusi nelle nostre playlist autistiche, permettendoci soltanto qualche saltuaria incursione in podcast rigorosamente gestiti da amici di comprovata affinità elettiva; in questi anni in cui i negozi di dischi hanno chiuso e le tv musicali hanno smesso di programmare musica... forse questo è stato l'ultimo pezzo che abbiamo ascoltato tutti. Perché eravamo costretti, non si poteva skippare col telecomando, dovevamo ciucciarcelo tutto, e non lo sapevamo, ma forse la musica è finita lì. Era l'ultimo pezzo. Quella che stiamo ascoltando adesso non è più proprio musica, forse è un'altra cosa. È un'idea. Volevo provare a svilupparla nei prossimi giorni, non so se avrò tempo.
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In diretta su Fahrenheit?

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Ahem, tra pochi minuti, alle 15.00, se non è tutto uno scherzo, sono a una tavola rotonda in diretta a Fahrenheit su Radio3 con la Lipperini, Salvo Intravaia, un esperto della Fondazione Agnelli e altri. Si parla di formazione degli insegnanti, partendo da questo studio. Tenterò di commentare la cosa in diretta nei commenti, oppure forse qui (come viene viene).

(Update: ecco il podcast).

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Gesù e la colf

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Santa Marta e San Lazzaro, amici di Gesù, I secolo.

Era tutto ottimo.
Se abbiamo bisogno di qualcos'altro
ti chiamiamo noi, grazie.
Comincia tutto nel vangelo di Luca, con una episodio che sta in cinque versetti (10,38-42): Gesù predica in casa di due sorelle, Marta e Maria. Quest'ultima resta seduta ai suoi piedi ad ascoltarlo, mentre Marta attende ai lavori domestici, finché non sbotta: ehi, Gesù, lo vedi come sono messa? di' a mia sorella che mi aiuti.
Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Luca, lo abbiamo visto, è l'evangelista liberal: ha un debole per i poveri, gli extracomunitari, le donne. Forse, come ogni liberal si rispetti, a casa aveva pure dei domestici, che trattava con molta gentilezza, versando i contributi e usando la frusta solo in caso di estrema necessità. Chissà. In ogni caso ogni progressismo ha un limite, e quello di Luca riguarda i lavori domestici: tutti possono seguire Gesù, tutti possono entrare nel Regno dei Cieli, però gli sguatteri in seconda fila, grazie. Non è che il loro lavoro non sia utile, anzi. Però qualcun altro si è scelto la parte migliore: un modo educato per dire che a voi è rimasta la peggiore. Luca non immaginava forse che la religione che stava contribuendo a fondare avrebbe attecchito nelle metropoli proprio presso quel ceto sradicato senza tradizioni e senza prospettive, la servitù. Gli schiavi che venivano comprati e venduti nei porti del mediterraneo si mescolavano tra loro, cercavano un'identità comune e un riscatto almeno ideale: lo trovarono in una fede religiosa che implicava l'uguaglianza di schiavi e padroni davanti a Dio, ma a quel punto l'episodio di Marta cominciò a creare difficoltà. Per ogni vergine che si consacrava alla vita contemplativa, all'estasi e alle rivelazioni mistiche, dovevano esserci una o più Marte che continuassero a rigovernare le case. Tra la sorella incantata ai piedi del Salvatore, e quella indefessa e brontolona che continua ad andare su e giù tra cucina e lavatoio, lo zoccolo duro dei fedeli ha sempre istintivamente tifato per la seconda. Anche personaggi insospettabili, come Agostino e persino Teresa d'Avila, hanno lasciato scritto che la "parte" di Marta è fondamentale, irrinunciabile, complementare a quella di Maria, eccetera. Però alla fine se torniamo alla lettera del vangelo, vediamo che il Gesù di Luca la mette giù molto più semplice e brutale: Marta è una che si agita per molte cose inutili. Nel vangelo c'è scritto così, se non vi va scrivete un altro vangelo. Ciò è stato fatto (continua sul Post...)
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Arriva la Scossa

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In breve: ho scritto un libro in formato digitale sul Terremoto. Lo trovate sul sito di Chiarelettere, costa tre euro. Quel che spetta all'autore verrà devoluto in opere di ricostruzione nel comune di Cavezzo.

Più in lungo: due mesi fa – ma sembrano secoli – i redattori di Chiarelettere mi contattarono per propormi di scrivere un libro in formato digitale (ebook mi fa un po' schifo, scusate). Io mi misi subito a proporre idee, loro dissero che erano interessanti ma... ma non era vero, era una pietosa menzogna, io di solito ho idee troppo bislacche per riuscire a farne un libro (sennò ne avrei già scritti parecchi, a questo punto). Ci stavamo ancora riflettendo, quando la terra si è messa a tremare. Per un po' non ci siamo sentiti, poi su un trenino che mi riportava dalle mie parti mi è suonato il telefono; quel che mi chiedevano lo immaginavo già. Sapevo anche di non esserne capace. Ma mica per modestia, eh.

È che scrivere un libro su una catastrofe naturale è già di per sé un gesto sconsiderato. Ma scriverlo durante la catastrofe naturale, col pavimento che ogni tanto dà una botta e non sai se è l'assestamento quotidiano o la vicina di casa che ha urtato i puntelli con la carrozzina – non è proprio possibile, capite, ti capita di scrivere che il tale campanile ha retto e il giorno dopo magari lo buttano giù. Poi ti sembra di fare lo sciacallo. Ma in realtà, semplicemente, sei in mezzo a una battaglia, e chi è in mezzo a una battaglia non ci capisce nulla, non ha la minima idea di dove stia andando l'avanguardia e dove stia arretrando la retroguardia, non può dirti il numero dei morti e dei feriti, vede solo della gente che spara e della gente che scappa ed è tutto. Però.

Però mi avevano chiesto di scrivere un libro; mi avevano dato un tema, una data di scadenza. È una vita che sogno una situazione così. Io tutto sommato scrivere so, ma non mi è mai chiaro di cosa dovrei scrivere, non sono mai molto sicuro di quel che interessa la gente. Un libro poi non è questa cosa eccezionale, oggi lo si può pubblicare anche in proprio, ma non è che mi interessi molto rifriggere gli sfoghi quotidiani in un altro formato. Quello che mi interessava era avere un committente. Uno che mi dica: questo è interessante, prova a scriverci su, mandami tutto entro il 29. Ho sempre sognato che qualcuno si facesse vivo e me lo chiedesse, e ora potevo dire di no? Ho detto di sì, ci provo. E ho scritto un libro. Il 29 era finito.

Attenzione però. Esce con Chiarelettere, ma non è un'inchiesta. Non credo di essere in grado di farne una, ma anche se lo fossi, era troppo presto: tutto stava ancora succedendo. Ci sono cose molto interessanti su cui ho preferito non scrivere niente, perché ancora non c'è niente di chiaro. Lo abbiamo notato tutti, per esempio, che i capannoni costruiti negli anni Cinquanta hanno retto bene e quelli degli anni Ottanta no; è ormai una nozione condivisa, però... però non potevo esserne sicuro, non c'è ancora disponibile un censimento dei capannoni danneggiati. È una sensazione condivisa, tutto qui, ma molti hanno anche condiviso la sensazione che l'INGV truccasse i dati della magnitudo, e che il transito di Venere davanti al Sole c'entrasse qualcosa. Mi sarebbe piaciuto essere più tecnico, tirare fuori dei numeri veri, ma sui quotidiani ogni giorno c'era una storia diversa; le biblioteche erano tutte chiuse. Di cosa potevo scrivere?

In realtà di cose da scrivere ne avevo fin troppe, come al solito, e anche per questo sono contento che qualcun altro abbia letto e sfoltito e corretto (mi hanno corretto le bozze! È un lusso per me) mettendo a fuoco il tutto. Ho scritto la mia descrizione della battaglia, da un punto di vista qualsiasi: gente che scappa, gente che resta in posizione, gente che attende ordini che non arrivano, e nel frattempo si scambia informazioni. Quasi tutte sballate. Ho scritto un libro sulla gente che parla di Haarp, di fracking, di guerra ambientale americana, di perforazioni che non ci sono mai state, di previsioni di terremoto che vengono pubblicate invariabilmente dopo il terremoto. Ho scritto un po' sull'emilianità, questo concetto inventato l'altro ieri che improvvisamente ha individuato in mezzo alla pianura padana una comunità di persone delle quali viene dato per scontato il coraggio, la tenacia, la capacità organizzativa – mentre qui nel mezzo della battaglia si vedeva gente che piangeva, smadonnava, panicava, eccetera. Ho scritto anche un po' di me, quel poco che serviva a mettere le cose in prospettiva. E ho fatto tutto molto in fretta, volevo che si notasse. Su questo terremoto si scriveranno libri migliori, inchieste coi fiocchi, tra qualche anno sapremo tutto. Mi piacerebbe però che questo rimanesse fresco come rimangono certi taccuini di combattenti, con tutti gli inevitabili errori di prospettiva. Ero troppo vicino per capirci davvero qualcosa, ma qualcun altro leggerà e capirà. Grazie.
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Tutti Fallimmo all'Alba

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Prima ti fanno studiare. Ti fanno comprare i libri, te li fanno leggere, te li spiegano, ti interrogano: qualche nozione a memoria, ma neanche tante, visto che le date e i nomi ormai non se li ricordano più neanche loro. Ti chiedono qualche concetto vago e se sentono che hai la voce sicura passano subito a interrogare qualcun altro, ché non c'è mai tempo. Ti diplomano, ti laureano, ti spintonano fuori e poi son problemi tuoi.

Poi ti dicono che se davvero t'interessa il mestiere d'insegnante... magari qualche posticino c'è. Con un'abilitazione, un concorso, un tirocinio, un piripacchio, ma soprattutto un bel bonifico. Tu paghi. Loro incassano.

Poi ti squadrano e ti dicono: lo sai, vero, che devi imparare tutto da capo? "Ma come", fai tu, "se è una vita che studio... ho anche la laurea..." Puah, dicono loro. Diplomi, lauree, pezzettini di carta. "Ma me li avete dati voi". Ora salta fuori che non sapete niente. Di niente. Meno di Socrate, lui almeno ammetteva la sua ignoranza, voi no, voi credete di conoscere qualcosa, ma cosa? Le "nozioni". Ma le nozioni non servono a niente, non lo sapevate? Non si va a scuola per imparare le nozioni, non ti paga lo Stato per impartire le nozioni, le nozioni sono inutili e dannose. Nozioni via, nozioni brutto. Come diceva l'immortale pedagogista, Eugenio Finardi, "l'unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare".

Voi ubbidite... (continua sull'Unità, H1t#137).

Voi ubbiditeché tutte queste nozioni poi non vi sembrava di averle imparate, per esempio avete qualche difficoltà a ricordare le opere attribuite a Nevio, e l’anno di pubblicazione dell’Adelchi. Però se buttiamo via le nozioni cosa ci mettiamo al loro posto? Le competenze, ci spiegano. “E cosa sono queste competenze?” Allora cominciano a parlarcene, non la smettono più, le competenze sono bellissime. Sono come dei software, tu le installi sui tuoi studenti e loro imparano a imparare tutto senza bisogno di memorizzare date che non sono importanti, capito? Le date non sono importanti! Ma possibile che abbiate passato vent’anni tra scuola e università a memorizzare date? È una vergogna, è il sintomo del ritardo italiano, nel mondo nessuno più studia le date, eccetera. Voi prendete appunti.
Poi vi dicono che quei posti famosi in realtà non ci sono, perché non ci sono i soldi per mandare in pensione i vostri predecessori. Si tratta di aspettare che abbandonino loro per consunzione. A voi scoppia da ridere, poi vi rendete conto che non è uno scherzo. Ci si risente qualche anno dopo.
Nel frattempo voi questa cosa delle competenze l’avete introiettata, avete studiato anche un po’, ci credete! Viva le competenze, abbasso le nozioni! Soprattutto le date.
A un certo punto si fanno vivi loro, dicono che qualche posto finalmente c’è, però c’è anche una fila spaventosa, bisogna prima fare un bonifico, poi una preammissione, poi un orale, poi uno scritto, poi pagarsi un anno di tirocinio, poi un concorso. Ci state? Voi ci state, si vede che insegnare proprio vi interessa. Fate il bonifico e andate alla preammissione. È un test a crocette. 700 iscritti, solo 100 posti. 60 domande, bisogna azzeccarne almeno 42. La prima è questa…
…A quel punto voi li mandate a vaffinardi.
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