Giù le mani dal trombone
29-02-2016, 08:23Bologna, giornalisti, guerra, scuola, universiadePermalinkCari studenti del Collettivo Studentesco Autonomo (CUA), che siete finiti sul giornale negli ultimi giorni contestando ripetutamente il professor Panebianco durante le sue lezioni:
Sono stato giovane anch'io blablabla ho fatto le manifestazioni pacifista blablabla vi risparmio la tiritera. Anche perché non è che abbia cambiato molte idee da allora. Continuo a pensare che le guerre siano in linea di massima fregature da cui chi ha un po' di senno dovrebbe sottrarsi, e a esecrare ogni forma di violenza. E tuttavia debbo prevenirvi: se davvero riuscirete a fare di Angelo Panebianco un martire della libertà di opinione, io non risponderò più di me. Verrò a cercarvi, non sarò solo. Si possono commettere tante scemenze e per i migliori motivi: ma dare a un noioso propagatore di luoghi comuni l'occasione di mostrare un po' di coraggio è tra le più grosse.
Per quanto io possa ricordare, Panebianco ha sempre scritto sul Corriere. Stava in prima pagina quand'ero ragazzino e ci sta tuttora: e non mi è mai capitato di leggere nulla di suo non dico originale, almeno interessante. Sempre e solo i due o tre frusti concetti che il lettore-tipo del Corriere della Sera vuole sentirsi dire. Negli anni, la sua figura pubblica è finita per diventare l'illustrazione della voce "trombone" della mia enciclopedia interiore. Deve aver ricordato alla sinistra italiana i suoi errori e le sue compromissioni almeno una volta al mese per un migliaio di mesi. Poi ci fu la fase della guerra contro il Terrore, e anche lì, Panebianco ci spiegò che Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa; che esportare la democrazia era necessario, e chi a sinistra non capiva queste semplici verità era un imbelle, un pavido. A distanza di più di dieci anni da quella cantonata solenne, Panebianco continua a pontificare sugli stessi argomenti, a metterci in guardia sui presepi che scompaiono, e continua a saperne quanto me o quanto te, che il giornale in teoria lo compreremmo per imparare qualcosa di nuovo (e siccome ci scrive gente come Panebianco, non lo compriamo più).
In questi giorni ad esempio ha insistito sul fatto che Regeni non deve averlo ammazzato il regime di Al Sisi, ma gli oppositori islamici. Perché? Da cosa lo deduce? Ha accesso a fonti confidenziali? Ma no, ma che bisogno c'è, Panebianco è meglio di Poirot: da Bologna può risolvere un caso al Cairo. Lo devono avere ammazzato gli islamici, spiega, perché il corpo è stato ritrovato: se l'avessero ammazzato i governativi infatti lo avrebbero fatto sparire. Non fa una grinza, no? Se vi è capitato di sentire la stessa storia al bar sotto casa, da gente che in Egitto non c'è mai stata e avrebbe difficoltà a indicarlo su una cartina, ebbene, Panebianco è sulla stessa frequenza: Panebianco sa le cose prima che accadano, visto che le uniche cose che davvero gli serve conoscere sono gli umori di una classe media benpensante che se cambia idea, la cambia molto più lentamente di quanto ci mettono le loro chiome a incanutire.
Questa alla fine è anche la sua utilità - molto relativa, d'accordo. Panebianco probabilmente non ha mai spostato un voto, né convinto un solo lettore a invadere l'Iraq o votare moderato. Panebianco è un elegante barometro che ci mostra sinteticamente quello che un sacco di italiani pensano già. Cercare di metterlo a tacere sarebbe come fermare gli orologi per evitare che il tempo passi, truccare le bilance per riuscire in una dieta, censurare il meteo, aggiungete metafore a piacere. Dannoso, oltre che inutile: di Panebianco ne crescono in continuazione in tutte le redazioni. Se ne tagliate uno ne crescono altri sette, per tacere dei bot che già adesso probabilmente sarebbero in grado di scrivere fondi di Panebianco molto meglio di Panebianco.
E poi, sul serio, non fa comodo anche a voi dare un'occhiata al barometro ogni tanto? Quel che rivela al termine di quel suo fondo che vi ha fatto arrabbiare - quella voglia fino a questo momento inconfessabile di fare della guerra "la prima preoccupazione dell’Unione" - pensate che sia un'idea solo sua? (Come se P. potesse davvero maturare idee in autonomia). Non notate che è la conclusione naturale di un ragionamento collettivo? Date un'occhiata ai dati in giro. Siamo la quarta economia d'Europa, e stiamo sprofondando. Per trent'anni abbiamo fatto debiti e investito in tutto fuorché in ricerca e innovazione. Ora abbiamo la più alta percentuale di illetterati, un debito pubblico enorme, e una voragine di violenza dall'altra parte del mare. È il momento esatto in cui gli intellettuali, anche quelli un po' ribelli in gioventù, cominciano a sentire il prurito, a vedere Grandi Proletarie, a cianciare di Sola Igiene del Mondo. Sono criminali? Alcuni sì. Ma il prurito che sentono è una cosa collettiva.
Chi vi scrive è stato anche lui giovane blablabla. Ultimamente insegno in una scuola media, e di ragazzini iperattivi con una gran voglia di partire per la guerra ne ho avuti sempre, in una percentuale grosso modo costante. Da un po' di tempo a questa parte, però, mi accorgo di un fenomeno diverso. Arrivo con alcune nozioni, niente di speciale: debito pubblico, tasso di disoccupazione, piramide delle età, eccetera. E ogni tanto sul fondo un ragazzino - di solito un maschio - mi interrompe: "ma allora bisogna fare una guerra". Così. Non perché ne abbia voglia - molti ne hanno voglia, ma c'è anche un altra cosa: c'è la limpidezza del ragionamento, che poi con gli anni si annebbierà, intorbidandosi con la nostra voglia individuale di sopravvivere, avere eredi, ecc. ecc. Ma se fossimo razionali e irresponsabili come può essere un bambino di dodici anni, ci basterebbero un paio di grafici per giungere a una conclusione del genere. Abbiamo tanti disoccupati poco qualificati, abbiamo industrie che scalpitano, abbiamo un fronte pronto a poche miglia nautiche. Angelo Panebianco dà voce a quel ragazzino di ogni età. Volerlo mettere a tacere - non avete idea, fidatevi, di quanto sia patetico provarci.
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La Fornero e i tecnocrati che non sapevano fare i conti
02-05-2015, 19:491500 caratteri, Monti, universiadePermalink
Il paradosso dell’ex ministro Fornero è che pochi dei suoi predecessori avrebbero potuto vantare, al momento della nomina, un curriculum altrettanto prestigioso; e proprio a lei, un ‘tecnico’ di provata competenza, libero dai condizionamenti dei partiti, è intestata una serie di disastri contabili dai quali non ci siamo ancora ripresi.
Non è un caso isolato. Quando si installò il governo Monti anche a sinistra in molti lo salutammo come un salutare esperimento di meritocrazia: non ci illudevamo di aver davanti dei progressisti (e infatti), ma pensavamo che i professori almeno i conti li sapessero fare. Ci trovammo invece davanti a personaggi che parevano cascati dalla Luna come il ministro Profumo, che almeno per un giorno ritenne fattibile aumentare del 30% il carico degli insegnanti senza contrattazione. Non era un bieco schiavista: era un buon professore convinto che si potesse fare. Non aveva fatto due conti.
Se il ventennio di Berlusconi ci tolse ogni fiducia nella classe imprenditoriale italiana, nella sua capacità di rinnovare o anche soltanto di capire i problemi in cui si dibatteva, i 17 mesi del governo dei professori ci squarciarono il velo sul livello della nostra classe accademica e intellettuale. A quel punto tanto valeva far scrivere le riforme al primo arrivato. Non sarà poi difficile trovare qualche esimio costituzionalista pronto a mandar giù un premio del 53% per un partito che arriva al 40%. Del resto che pretendi: sono prof di diritto, mica d’aritmetica.
Non è un caso isolato. Quando si installò il governo Monti anche a sinistra in molti lo salutammo come un salutare esperimento di meritocrazia: non ci illudevamo di aver davanti dei progressisti (e infatti), ma pensavamo che i professori almeno i conti li sapessero fare. Ci trovammo invece davanti a personaggi che parevano cascati dalla Luna come il ministro Profumo, che almeno per un giorno ritenne fattibile aumentare del 30% il carico degli insegnanti senza contrattazione. Non era un bieco schiavista: era un buon professore convinto che si potesse fare. Non aveva fatto due conti.
Se il ventennio di Berlusconi ci tolse ogni fiducia nella classe imprenditoriale italiana, nella sua capacità di rinnovare o anche soltanto di capire i problemi in cui si dibatteva, i 17 mesi del governo dei professori ci squarciarono il velo sul livello della nostra classe accademica e intellettuale. A quel punto tanto valeva far scrivere le riforme al primo arrivato. Non sarà poi difficile trovare qualche esimio costituzionalista pronto a mandar giù un premio del 53% per un partito che arriva al 40%. Del resto che pretendi: sono prof di diritto, mica d’aritmetica.
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Tutti Fallimmo all'Alba
25-07-2012, 16:41ho una teoria, scuola, universiadePermalink
Prima ti fanno studiare. Ti fanno comprare i libri, te li fanno leggere, te li spiegano, ti interrogano: qualche nozione a memoria, ma neanche tante, visto che le date e i nomi ormai non se li ricordano più neanche loro. Ti chiedono qualche concetto vago e se sentono che hai la voce sicura passano subito a interrogare qualcun altro, ché non c'è mai tempo. Ti diplomano, ti laureano, ti spintonano fuori e poi son problemi tuoi.
Poi ti dicono che se davvero t'interessa il mestiere d'insegnante... magari qualche posticino c'è. Con un'abilitazione, un concorso, un tirocinio, un piripacchio, ma soprattutto un bel bonifico. Tu paghi. Loro incassano.
Poi ti squadrano e ti dicono: lo sai, vero, che devi imparare tutto da capo? "Ma come", fai tu, "se è una vita che studio... ho anche la laurea..." Puah, dicono loro. Diplomi, lauree, pezzettini di carta. "Ma me li avete dati voi". Ora salta fuori che non sapete niente. Di niente. Meno di Socrate, lui almeno ammetteva la sua ignoranza, voi no, voi credete di conoscere qualcosa, ma cosa? Le "nozioni". Ma le nozioni non servono a niente, non lo sapevate? Non si va a scuola per imparare le nozioni, non ti paga lo Stato per impartire le nozioni, le nozioni sono inutili e dannose. Nozioni via, nozioni brutto. Come diceva l'immortale pedagogista, Eugenio Finardi, "l'unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare".
Voi ubbidite... (continua sull'Unità, H1t#137).
Poi ti dicono che se davvero t'interessa il mestiere d'insegnante... magari qualche posticino c'è. Con un'abilitazione, un concorso, un tirocinio, un piripacchio, ma soprattutto un bel bonifico. Tu paghi. Loro incassano.
Poi ti squadrano e ti dicono: lo sai, vero, che devi imparare tutto da capo? "Ma come", fai tu, "se è una vita che studio... ho anche la laurea..." Puah, dicono loro. Diplomi, lauree, pezzettini di carta. "Ma me li avete dati voi". Ora salta fuori che non sapete niente. Di niente. Meno di Socrate, lui almeno ammetteva la sua ignoranza, voi no, voi credete di conoscere qualcosa, ma cosa? Le "nozioni". Ma le nozioni non servono a niente, non lo sapevate? Non si va a scuola per imparare le nozioni, non ti paga lo Stato per impartire le nozioni, le nozioni sono inutili e dannose. Nozioni via, nozioni brutto. Come diceva l'immortale pedagogista, Eugenio Finardi, "l'unica cosa che la scuola dovrebbe fare è insegnare a imparare".
Voi ubbidite... (continua sull'Unità, H1t#137).
Voi ubbidite, ché tutte queste nozioni poi non vi sembrava di averle imparate, per esempio avete qualche difficoltà a ricordare le opere attribuite a Nevio, e l’anno di pubblicazione dell’Adelchi. Però se buttiamo via le nozioni cosa ci mettiamo al loro posto? Le competenze, ci spiegano. “E cosa sono queste competenze?” Allora cominciano a parlarcene, non la smettono più, le competenze sono bellissime. Sono come dei software, tu le installi sui tuoi studenti e loro imparano a imparare tutto senza bisogno di memorizzare date che non sono importanti, capito? Le date non sono importanti! Ma possibile che abbiate passato vent’anni tra scuola e università a memorizzare date? È una vergogna, è il sintomo del ritardo italiano, nel mondo nessuno più studia le date, eccetera. Voi prendete appunti.
Poi vi dicono che quei posti famosi in realtà non ci sono, perché non ci sono i soldi per mandare in pensione i vostri predecessori. Si tratta di aspettare che abbandonino loro per consunzione. A voi scoppia da ridere, poi vi rendete conto che non è uno scherzo. Ci si risente qualche anno dopo.
Nel frattempo voi questa cosa delle competenze l’avete introiettata, avete studiato anche un po’, ci credete! Viva le competenze, abbasso le nozioni! Soprattutto le date.
Nel frattempo voi questa cosa delle competenze l’avete introiettata, avete studiato anche un po’, ci credete! Viva le competenze, abbasso le nozioni! Soprattutto le date.
A un certo punto si fanno vivi loro, dicono che qualche posto finalmente c’è, però c’è anche una fila spaventosa, bisogna prima fare un bonifico, poi una preammissione, poi un orale, poi uno scritto, poi pagarsi un anno di tirocinio, poi un concorso. Ci state? Voi ci state, si vede che insegnare proprio vi interessa. Fate il bonifico e andate alla preammissione. È un test a crocette. 700 iscritti, solo 100 posti. 60 domande, bisogna azzeccarne almeno 42. La prima è questa…
…A quel punto voi li mandate a vaffinardi.
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Perché ho scelto Scienze Inutili
15-07-2011, 11:06chiudere i licei (con i prof dentro), scuola, universiadePermalinkLa stanzetta della principessa.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
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Tuo sinceramente
02-12-2009, 00:14calvario precario, generazione di fenomeni, universiadePermalinkRispostina
"Caro papà.
Come va? Io sto bene, ma la tua lettera mi ha un po' preoccupato.
Soprattutto mi ha preoccupato che invece di scrivere al mio indirizzo tu l'abbia mandata a Repubblica. Perché, ecco, se hai qualche problema preferirei che restassero in famiglia.
Allora, io il tuo messaggio non l'ho tanto capito. Ricapitolando: tu sei un pezzo grosso. Io sono tuo figlio e mi sto per laureare. Ora, dovrei essere veramente l'ultima anima candida d'Italia per non aspettarmi da un genitore serio e rispettato come te, in un momento così delicato per la mia formazione, un solenne spintone.
E invece mi arriva 'sta letterina aperta, in cui mi chiedi neanche tanto velatamente di levare le tende... Come no, certo, mio papà dirige la Luiss e io devo andare a fare l'assistente sottopagato alla facoltà di Stocausen... Papà, senti, senza tanta sociologia, dimmi qual è il vero problema: hai promesso a qualcuno un posto che tenevi per me? Ti sei innamorato? Ti ricattano? C'è in giro un tuo video con due trans e la Mussolini? Papà, sul serio, se c'è un problema possiamo parlarne.
Basta che non attacchi la manfrina della povera Italia – sai papà, noi giovani abbiamo tanti difetti, però non è che ci beviamo qualsiasi fregnaccia.
Tuo sinceramente".
"Caro papà.
Come va? Io sto bene, ma la tua lettera mi ha un po' preoccupato.
Soprattutto mi ha preoccupato che invece di scrivere al mio indirizzo tu l'abbia mandata a Repubblica. Perché, ecco, se hai qualche problema preferirei che restassero in famiglia.
Allora, io il tuo messaggio non l'ho tanto capito. Ricapitolando: tu sei un pezzo grosso. Io sono tuo figlio e mi sto per laureare. Ora, dovrei essere veramente l'ultima anima candida d'Italia per non aspettarmi da un genitore serio e rispettato come te, in un momento così delicato per la mia formazione, un solenne spintone.
E invece mi arriva 'sta letterina aperta, in cui mi chiedi neanche tanto velatamente di levare le tende... Come no, certo, mio papà dirige la Luiss e io devo andare a fare l'assistente sottopagato alla facoltà di Stocausen... Papà, senti, senza tanta sociologia, dimmi qual è il vero problema: hai promesso a qualcuno un posto che tenevi per me? Ti sei innamorato? Ti ricattano? C'è in giro un tuo video con due trans e la Mussolini? Papà, sul serio, se c'è un problema possiamo parlarne.
Basta che non attacchi la manfrina della povera Italia – sai papà, noi giovani abbiamo tanti difetti, però non è che ci beviamo qualsiasi fregnaccia.
Tuo sinceramente".
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Ho scritto un libro
16-11-2009, 22:24autoreferenziali, futurismi, segnalazioni, universiadePermalinkGiovedì 19, presso la biblioteca del Teatro India a Roma, la collana Sguardomobile presenterà i suoi nuovi libri. Ci saranno Valerio Magrelli, Andrea Cortellessa, Antonio Prete. E cercherò di esserci anch'io, visto che ho scritto uno dei libri.
La mia lunga e assai tormentata storia di non-amore con l'università italiana è finita in un burrascoso giorno di primavera del 2008, con il conseguimento di un dottorato di ricerca. Vi risparmio le frustrazioni, i dubbi, le avventure, i concorsi persi male e vinti per caso, i grandi viaggi inutili ma divertenti, le lunghe notti vegliate al lume di qualcosa che all'inizio era ancora un 486 e alla fine un laptop. Tanto ormai è tutto finito.
Fu sulla soglia della fine che, compilando un modulo qualsiasi, diedi quasi inavvertitamente il consenso a pubblicare la mia tesi su internet. Mi sembrava una formalità: in generale mi piaceva l'idea di poter consultare on line le tesi di tutti e quindi anche la mia. Ero un po' scettico sul fatto che la mia facoltà avrebbe realizzato davvero una cosa del genere – finora tesi on line non ne avevo mai viste. Scoprii qualche mese più tardi, con disappunto, che finora non ne avevo mai viste perché pochi avevano avuto il fegato di dare il consenso; e che di fegato si trattava, perché grazie ai potenti ragnetti di google il mio nome-e-cognome sarebbe stato per sempre legato alla versione grezzissima della mia tesi, consegnata via cd un mese prima, ricca di refusi e ripetizioni e tutto quel che serve a far vergognare uno studioso da qui all'eternità. Più vari inserti erotici, per la gioia di vecchi e bambini (dove “bambini” sono i miei studenti che sanno guglare e “vecchi” i loro genitori).
D'altro canto, se non avessi sventatamente consentito a liberare la mia tesi nell'internet, essa non sarebbe mai piaciuta a Giulio Braccini, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, i magnifici redattori del progetto Sguardomobile, che qualche mese più tardi mi chiesero se volevo rilavorarci sopra e pubblicarla. Non potevo non accettare un'offerta così, se non altro per riparare allo sgorbio che era stato messo on line (e ahimè, c'è ancora).
Si trattava insomma di riprendere in mano Marinetti. L'uomo che con le sue provocazioni sgrammaticate mi ha segnato la vita, dalla gita di seconda media del 1986 (mostra del Futurismo a Palazzo Grassi), attraverso la tesi di laurea, fino allo stramaledetto dottorato. Detta così, sembra che io abbia passato almeno vent'anni a studiarlo, e in un certo senso è vero; l'ho studiato nei ritagli di vent'anni, mentre facevo qualsiasi altra cosa. Sempre nella speranza di trovare qualcosa di interessante, di originale, ma soprattutto di, come dire... unificante: una formula, un trauma infantile, la soluzione di un mistero. Probabilmente avrei sofferto molto meno se mi fossi rassegnato subito: non c'è nessun mistero, i comportamenti di F. T. Marinetti sono stravaganti ma perfettamente spiegabili, e molti sono stati già spiegati da gente più acuta di te, quindi molla l'osso. Sì, ma dopo dieci anni è dura da ammettere. Comunque alla fine, da centinaia di abbozzi e piste perdute e ritrovate, è sorto il mio lavoro. Un buon lavoro, tutto sommato. E ci sono anche i siparietti erotici.
I tre redattori, dalla encomiabile pazienza, mi dissero che la tesi era piaciuta proprio perché poco accademica: nessuna sorpresa, io l'accademia non sono mai riuscito a capirla fino in fondo. Lo dico con amarezza, perché sul serio, mi sarebbe piaciuto, ma sto fuori Bologna e ho sempre altro per la testa (di solito lavorare), e anche se sembro in grado di scrivere qualsiasi cosa ve lo dico, cercare di produrre roba anche solo vagamente accademica mi è costato la fatica di tre traslochi. A un certo punto avrei donato una parte del corpo a caso per farla finita, anche la cistifellea. Sono inoltre un solitario, che ha sempre fatto fatica a rapportarsi al giudizio altrui: fortunato di aver trovato un maestro a cui piacevo così, bello ruspante. Io ero sempre sospettoso di quello che gli portavo, ma funzionerà dal punto di vista accademico? Lei cosa dice? Lui mi correggeva l'ortografia. Ho sempre avuto il sospetto di piacergli più per come scrivevo le cose: più come scrittore che come studioso. Ma nel frattempo come scrittore 'puro' non riuscivo a combinare un granché, giusto un blog dove poi si finisce sempre per parlare di politica e litigare, e quindi ho fatto il possibile per essere almeno uno studioso decente. E insomma, è andata com'è andata, il libro adesso è lì.
Non è, bisogna dirlo, quella biografia romanzata di F.T. Marinetti che ogni tanto sogno di fare (poi il sogno diventa un incubo di 500 pagine con cui soffoco G.B. Guerri e Mughini, e mi sveglio tutto sudato). È materiale un po' più specifico, scritto in un tono assai più impacciato di quello che riesco a usare qui. Un'indagine sulle follie forse meno note di FTM, come ad esempio finanziare una manciata di poeti nel 1909 e litigare con tutti loro nel 1912; andare in cerca di emozioni e tornare a casa con una sintassi fratturata come una spina dorsale sotto una bomba a mano; pensare furiosamente alla guerra in tempo di pace e poi, quando la guerra finalmente scoppia, pensare furiosamente al sesso; e a proposito di sesso, farsi teorico e propagandista di quella che oggi è l'unica abiezione imperdonabile, l'eiaculatio praecox: sì, anche in questo campo lui si vantava della sua futuristica rapidità, la elevava a sistema: e come non scrivere una tesi su qualcosa del genere? E poi la sua cultura pseudoscientifica, che lo faceva abboccare a qualsiasi leggenda urbana degli Anni Dieci: le avventure sessuali di Rasputin, “ehi, avete sentito di quella cosa che hanno scoperto i Curie, il radio? Beh, pare sia un afrodisiaco”. Oggi non si perderebbe una puntata di Voyager, FTM. In controluce la nascita del fascismo, una miscela fortuita ottenuta in laboratorio: mescoli l'amore per una patria sconosciuta e sottosviluppata con il motore a scoppio, la rotativa, qualche pizzico di Nietzsche Bergson e Sorel, e Patatrac! Cos'è successo? Forte, ci riproviamo? La spettrale coincidenza di macchina e di morte, il paradosso di un futurista che ogni volta che si arrischia a scrutare davvero il futuro ci vede solo guerre catastrofiche e regressioni alla preistoria: uno che insomma fa il gradasso letterario perché in realtà del nuovo ha una paura fottuta. Ma detto con più diplomazia, e i siparietti erotici.
Studiare Marinetti, frugarci dentro, è stato faticoso ai limiti dello strazio, ma anche molto divertente. Non so se un po' di questo divertimento traspaia dalle pagine di questo libro. Volevo cercare di essere serio, parlando di cose molto buffe. In questo in fondo simile al mio oggetto di studio, che viaggiava per i teatri del mondo, declamando i suoi tatatatatà marziale e imperturbabile sotto una pioggia di ortaggi, ogni tanto afferrandone qualcuno e morsicandolo gloriosamente. Consapevole, come il migliore Buster Keaton, che anche il comico è un ruolo da recitare con la massima serietà.
La mia lunga e assai tormentata storia di non-amore con l'università italiana è finita in un burrascoso giorno di primavera del 2008, con il conseguimento di un dottorato di ricerca. Vi risparmio le frustrazioni, i dubbi, le avventure, i concorsi persi male e vinti per caso, i grandi viaggi inutili ma divertenti, le lunghe notti vegliate al lume di qualcosa che all'inizio era ancora un 486 e alla fine un laptop. Tanto ormai è tutto finito.
Fu sulla soglia della fine che, compilando un modulo qualsiasi, diedi quasi inavvertitamente il consenso a pubblicare la mia tesi su internet. Mi sembrava una formalità: in generale mi piaceva l'idea di poter consultare on line le tesi di tutti e quindi anche la mia. Ero un po' scettico sul fatto che la mia facoltà avrebbe realizzato davvero una cosa del genere – finora tesi on line non ne avevo mai viste. Scoprii qualche mese più tardi, con disappunto, che finora non ne avevo mai viste perché pochi avevano avuto il fegato di dare il consenso; e che di fegato si trattava, perché grazie ai potenti ragnetti di google il mio nome-e-cognome sarebbe stato per sempre legato alla versione grezzissima della mia tesi, consegnata via cd un mese prima, ricca di refusi e ripetizioni e tutto quel che serve a far vergognare uno studioso da qui all'eternità. Più vari inserti erotici, per la gioia di vecchi e bambini (dove “bambini” sono i miei studenti che sanno guglare e “vecchi” i loro genitori).
D'altro canto, se non avessi sventatamente consentito a liberare la mia tesi nell'internet, essa non sarebbe mai piaciuta a Giulio Braccini, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, i magnifici redattori del progetto Sguardomobile, che qualche mese più tardi mi chiesero se volevo rilavorarci sopra e pubblicarla. Non potevo non accettare un'offerta così, se non altro per riparare allo sgorbio che era stato messo on line (e ahimè, c'è ancora).
Si trattava insomma di riprendere in mano Marinetti. L'uomo che con le sue provocazioni sgrammaticate mi ha segnato la vita, dalla gita di seconda media del 1986 (mostra del Futurismo a Palazzo Grassi), attraverso la tesi di laurea, fino allo stramaledetto dottorato. Detta così, sembra che io abbia passato almeno vent'anni a studiarlo, e in un certo senso è vero; l'ho studiato nei ritagli di vent'anni, mentre facevo qualsiasi altra cosa. Sempre nella speranza di trovare qualcosa di interessante, di originale, ma soprattutto di, come dire... unificante: una formula, un trauma infantile, la soluzione di un mistero. Probabilmente avrei sofferto molto meno se mi fossi rassegnato subito: non c'è nessun mistero, i comportamenti di F. T. Marinetti sono stravaganti ma perfettamente spiegabili, e molti sono stati già spiegati da gente più acuta di te, quindi molla l'osso. Sì, ma dopo dieci anni è dura da ammettere. Comunque alla fine, da centinaia di abbozzi e piste perdute e ritrovate, è sorto il mio lavoro. Un buon lavoro, tutto sommato. E ci sono anche i siparietti erotici.
I tre redattori, dalla encomiabile pazienza, mi dissero che la tesi era piaciuta proprio perché poco accademica: nessuna sorpresa, io l'accademia non sono mai riuscito a capirla fino in fondo. Lo dico con amarezza, perché sul serio, mi sarebbe piaciuto, ma sto fuori Bologna e ho sempre altro per la testa (di solito lavorare), e anche se sembro in grado di scrivere qualsiasi cosa ve lo dico, cercare di produrre roba anche solo vagamente accademica mi è costato la fatica di tre traslochi. A un certo punto avrei donato una parte del corpo a caso per farla finita, anche la cistifellea. Sono inoltre un solitario, che ha sempre fatto fatica a rapportarsi al giudizio altrui: fortunato di aver trovato un maestro a cui piacevo così, bello ruspante. Io ero sempre sospettoso di quello che gli portavo, ma funzionerà dal punto di vista accademico? Lei cosa dice? Lui mi correggeva l'ortografia. Ho sempre avuto il sospetto di piacergli più per come scrivevo le cose: più come scrittore che come studioso. Ma nel frattempo come scrittore 'puro' non riuscivo a combinare un granché, giusto un blog dove poi si finisce sempre per parlare di politica e litigare, e quindi ho fatto il possibile per essere almeno uno studioso decente. E insomma, è andata com'è andata, il libro adesso è lì.
Non è, bisogna dirlo, quella biografia romanzata di F.T. Marinetti che ogni tanto sogno di fare (poi il sogno diventa un incubo di 500 pagine con cui soffoco G.B. Guerri e Mughini, e mi sveglio tutto sudato). È materiale un po' più specifico, scritto in un tono assai più impacciato di quello che riesco a usare qui. Un'indagine sulle follie forse meno note di FTM, come ad esempio finanziare una manciata di poeti nel 1909 e litigare con tutti loro nel 1912; andare in cerca di emozioni e tornare a casa con una sintassi fratturata come una spina dorsale sotto una bomba a mano; pensare furiosamente alla guerra in tempo di pace e poi, quando la guerra finalmente scoppia, pensare furiosamente al sesso; e a proposito di sesso, farsi teorico e propagandista di quella che oggi è l'unica abiezione imperdonabile, l'eiaculatio praecox: sì, anche in questo campo lui si vantava della sua futuristica rapidità, la elevava a sistema: e come non scrivere una tesi su qualcosa del genere? E poi la sua cultura pseudoscientifica, che lo faceva abboccare a qualsiasi leggenda urbana degli Anni Dieci: le avventure sessuali di Rasputin, “ehi, avete sentito di quella cosa che hanno scoperto i Curie, il radio? Beh, pare sia un afrodisiaco”. Oggi non si perderebbe una puntata di Voyager, FTM. In controluce la nascita del fascismo, una miscela fortuita ottenuta in laboratorio: mescoli l'amore per una patria sconosciuta e sottosviluppata con il motore a scoppio, la rotativa, qualche pizzico di Nietzsche Bergson e Sorel, e Patatrac! Cos'è successo? Forte, ci riproviamo? La spettrale coincidenza di macchina e di morte, il paradosso di un futurista che ogni volta che si arrischia a scrutare davvero il futuro ci vede solo guerre catastrofiche e regressioni alla preistoria: uno che insomma fa il gradasso letterario perché in realtà del nuovo ha una paura fottuta. Ma detto con più diplomazia, e i siparietti erotici.
Studiare Marinetti, frugarci dentro, è stato faticoso ai limiti dello strazio, ma anche molto divertente. Non so se un po' di questo divertimento traspaia dalle pagine di questo libro. Volevo cercare di essere serio, parlando di cose molto buffe. In questo in fondo simile al mio oggetto di studio, che viaggiava per i teatri del mondo, declamando i suoi tatatatatà marziale e imperturbabile sotto una pioggia di ortaggi, ogni tanto afferrandone qualcuno e morsicandolo gloriosamente. Consapevole, come il migliore Buster Keaton, che anche il comico è un ruolo da recitare con la massima serietà.
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- teaching teachers 3
08-09-2006, 03:21scuola, universiadePermalinkRiassunto delle prime perdibili puntate: in Italia c'è una tradizione umanistica che forma molti, troppi sventurati letterati, il cui unico sblocco è l'insegnamento... un lavoro difficile, a cui nessuno li prepara! Ma per fortuna è stato trovato un rimedio, la SSIS...
Non ce l'ho con le Sissine
La SSIS è la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario. È stata istituita pochi mesi prima del famoso Concorsone, quando si stabilì che non ce ne sarebbero stati altri. Io, in effetti, mi sono laureato nell’ultimo scaglione che aveva ancora il diritto di partecipare al Concorsone: dopo di me, per accedere all’insegnamento, occorreva iscriversi appunto alla SSIS. Faccio dunque parte di un’altra generazione rispetto alle sissine, anche se alcune di loro hanno praticamente la mia età.
(Ne parlo al femminile, perché il mondo della scuola è femmina. La lingua italiana – come tantissime altre – è incredibile: se in un’aula di cento maestre entra un maestro, di colpo nell’aula ci sono “101 maestri”. La sciocca rivalsa dei mille piccoli spermatozoi contro l’unico ovulo).
La SSIS, come dice il nome, è una scuola che ha il compito di formare gli insegnanti: di riuscire, cioè, laddove l’Università umanistica italiana ha fallito. Da questo punto di vista, la SSIS rappresenta la risposta al mio interrogativo esistenziale: perché nessuno mi aveva insegnato l’unico mestiere che il mio corso di laurea mi consentiva di fare? Perché nessuno aveva ancora pensato a istituire la SSIS. Perfetto. Peccato soltanto essermi laureato troppo presto.
D’altro canto, la SSIS dura altri due anni e – a differenza di gran parte delle università umanistiche italiane – costa. 1450 euro l’anno, se non sbaglio.
Questo è curioso. Non c’è nulla di male a pagare per imparare un mestiere – ma perché deve costare soltanto il biennio finale? Nei confronti degli studenti umanisti, lo Stato assume sempre di più gli atteggiamenti di un pusher. Il primo tiro è gratis – i primi quattro anni scorrono lisci, il livello generale d’insegnamento è buono, le lezioni sono affascinanti, gli esami sono relativamente pochi e non impossibili, persino il corso di studi è (o era) abbastanza libero. Come diceva un mio prof, ci sono corsi di laurea che sono impervi sentieri di montagna, ma Lettere è un autostrada. Già.
E come in ogni autostrada italiana che si rispetti, il pedaggio salato si paga alla fine. Dopo averti assuefatto alla cultura umanistica, dopo averti impedito di diventare nient’altro che un insegnante, il neolaureato scopre che per diventarlo davvero deve pagare. Ripeto, se c’è da pagare si paghi, ma perché soltanto nel tratto finale?
Il prezzo – in fondo non eccessivo – andava sommato agli altri due anni di probabile non occupazione. Sommati ai 4 anni di un corso di laurea in lettere, fanno 6: in realtà si arriva facilmente a 8, se non 9 o più. Questo ritardo assolve anche a una funzione economica: visto che comunque di insegnanti ce ne sono troppi, un modo per liberare dei posti è assumerli sempre più tardi. Si tratta di una pezza, naturalmente – specie se nel frattempo disincentiviamo i più anziani ad andare in pensione. Ma insomma, i due anni di SSIS funzionano anche come parcheggio. (Questa funzione di parcheggio si potrebbe estendere, a voler essere pessimisti, a tutto il sistema educativo umanistico italiano, dal liceo classico in su: siccome non sappiamo che lavoro insegnarvi, vi diamo una cultura di élite, così almeno sarete infelici con stile).
La SSIS, insomma, è una creatura insieme provvidenziale e diabolica. Riassumendo:
1. Insegna finalmente i laureati umanisti a insegnare.
2. Screma i candidati all’insegnamento meno motivati.
3. Parcheggia per altri due anni i candidati più motivati, in attesa che si liberi un posto.
La SSIS è un’invenzione di sinistra, che la Moratti non disdegnò. Ma non fu lei a permettere il sorpasso del 2003, quando io e molti altri reduci del Concorsone furono calpestati dalla prima ondata di sissine. Lei tra SSIS e Concorsone aveva cercato di barcamenarsi, in fondo eravamo tutti figli del buon Dio ed elettori. All’uscita delle prime sissine, cercò di tranquillizzarci regalandoci qualche punto in più. Fu il Terribile Tar del Lazio ad opporsi alla sua decisione, non so il perché. Il Terribile Tar è al di sopra del bene e del male.
Quella tra sissine e figlie del Concorsone è una guerra generazionale, ma soprattutto una guerra tra povere. Da una parte, trenta-quarantenni precari da una decade, eterni supplenti. Dall’altra giovani neo-laureate ferrate in pedagogia, ma senza trascorsi nelle aule. Naturalmente i primi tesseranno l’elogio dell’Esperienza, l’unica severa maestra di vita. Le seconde preferiranno far notare che hanno studiato didattica, loro, pagandola anche salata.
Io, che sto in mezzo, quasi quasi do torto a entrambi. Non mi fido così tanto dell’esperienza – ma mi fido poco anche della SSIS. Purtroppo, posso parlarne solo per sentito dire: chi l’ha fatta di solito non ne parla un granché bene, e più che porre l’accento sulla didattica e sulla pedagogia, tende a lamentarsi d’aver speso due anni e 3000 euro senza la certezza matematica di un impiego.
Io, ripeto, non trovo nulla di sbagliato nell’idea della SSIS. Preso atto che l’Università è incapace di formarti all’insegnamento, non restava che escogitare una formazione ulteriore. La mia domanda è: perché questa formazione ulteriore è stata affidata a chi aveva già dimostrato la propria incapacità strutturale – le Università? Se non sono state in grado di insegnarci a insegnare in 4 anni, perché dovrebbero riuscirci in altri due? Che credibilità hanno?
(Continua)
Non ce l'ho con le Sissine
La SSIS è la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario. È stata istituita pochi mesi prima del famoso Concorsone, quando si stabilì che non ce ne sarebbero stati altri. Io, in effetti, mi sono laureato nell’ultimo scaglione che aveva ancora il diritto di partecipare al Concorsone: dopo di me, per accedere all’insegnamento, occorreva iscriversi appunto alla SSIS. Faccio dunque parte di un’altra generazione rispetto alle sissine, anche se alcune di loro hanno praticamente la mia età.
(Ne parlo al femminile, perché il mondo della scuola è femmina. La lingua italiana – come tantissime altre – è incredibile: se in un’aula di cento maestre entra un maestro, di colpo nell’aula ci sono “101 maestri”. La sciocca rivalsa dei mille piccoli spermatozoi contro l’unico ovulo).
La SSIS, come dice il nome, è una scuola che ha il compito di formare gli insegnanti: di riuscire, cioè, laddove l’Università umanistica italiana ha fallito. Da questo punto di vista, la SSIS rappresenta la risposta al mio interrogativo esistenziale: perché nessuno mi aveva insegnato l’unico mestiere che il mio corso di laurea mi consentiva di fare? Perché nessuno aveva ancora pensato a istituire la SSIS. Perfetto. Peccato soltanto essermi laureato troppo presto.
D’altro canto, la SSIS dura altri due anni e – a differenza di gran parte delle università umanistiche italiane – costa. 1450 euro l’anno, se non sbaglio.
Questo è curioso. Non c’è nulla di male a pagare per imparare un mestiere – ma perché deve costare soltanto il biennio finale? Nei confronti degli studenti umanisti, lo Stato assume sempre di più gli atteggiamenti di un pusher. Il primo tiro è gratis – i primi quattro anni scorrono lisci, il livello generale d’insegnamento è buono, le lezioni sono affascinanti, gli esami sono relativamente pochi e non impossibili, persino il corso di studi è (o era) abbastanza libero. Come diceva un mio prof, ci sono corsi di laurea che sono impervi sentieri di montagna, ma Lettere è un autostrada. Già.
E come in ogni autostrada italiana che si rispetti, il pedaggio salato si paga alla fine. Dopo averti assuefatto alla cultura umanistica, dopo averti impedito di diventare nient’altro che un insegnante, il neolaureato scopre che per diventarlo davvero deve pagare. Ripeto, se c’è da pagare si paghi, ma perché soltanto nel tratto finale?
Il prezzo – in fondo non eccessivo – andava sommato agli altri due anni di probabile non occupazione. Sommati ai 4 anni di un corso di laurea in lettere, fanno 6: in realtà si arriva facilmente a 8, se non 9 o più. Questo ritardo assolve anche a una funzione economica: visto che comunque di insegnanti ce ne sono troppi, un modo per liberare dei posti è assumerli sempre più tardi. Si tratta di una pezza, naturalmente – specie se nel frattempo disincentiviamo i più anziani ad andare in pensione. Ma insomma, i due anni di SSIS funzionano anche come parcheggio. (Questa funzione di parcheggio si potrebbe estendere, a voler essere pessimisti, a tutto il sistema educativo umanistico italiano, dal liceo classico in su: siccome non sappiamo che lavoro insegnarvi, vi diamo una cultura di élite, così almeno sarete infelici con stile).
La SSIS, insomma, è una creatura insieme provvidenziale e diabolica. Riassumendo:
1. Insegna finalmente i laureati umanisti a insegnare.
2. Screma i candidati all’insegnamento meno motivati.
3. Parcheggia per altri due anni i candidati più motivati, in attesa che si liberi un posto.
La SSIS è un’invenzione di sinistra, che la Moratti non disdegnò. Ma non fu lei a permettere il sorpasso del 2003, quando io e molti altri reduci del Concorsone furono calpestati dalla prima ondata di sissine. Lei tra SSIS e Concorsone aveva cercato di barcamenarsi, in fondo eravamo tutti figli del buon Dio ed elettori. All’uscita delle prime sissine, cercò di tranquillizzarci regalandoci qualche punto in più. Fu il Terribile Tar del Lazio ad opporsi alla sua decisione, non so il perché. Il Terribile Tar è al di sopra del bene e del male.
Quella tra sissine e figlie del Concorsone è una guerra generazionale, ma soprattutto una guerra tra povere. Da una parte, trenta-quarantenni precari da una decade, eterni supplenti. Dall’altra giovani neo-laureate ferrate in pedagogia, ma senza trascorsi nelle aule. Naturalmente i primi tesseranno l’elogio dell’Esperienza, l’unica severa maestra di vita. Le seconde preferiranno far notare che hanno studiato didattica, loro, pagandola anche salata.
Io, che sto in mezzo, quasi quasi do torto a entrambi. Non mi fido così tanto dell’esperienza – ma mi fido poco anche della SSIS. Purtroppo, posso parlarne solo per sentito dire: chi l’ha fatta di solito non ne parla un granché bene, e più che porre l’accento sulla didattica e sulla pedagogia, tende a lamentarsi d’aver speso due anni e 3000 euro senza la certezza matematica di un impiego.
Io, ripeto, non trovo nulla di sbagliato nell’idea della SSIS. Preso atto che l’Università è incapace di formarti all’insegnamento, non restava che escogitare una formazione ulteriore. La mia domanda è: perché questa formazione ulteriore è stata affidata a chi aveva già dimostrato la propria incapacità strutturale – le Università? Se non sono state in grado di insegnarci a insegnare in 4 anni, perché dovrebbero riuscirci in altri due? Che credibilità hanno?
(Continua)
Comments (15)
- 2025
17-06-2005, 04:092025, religioni, universiadePermalinkAntichrist for dummies
Caro Leonardo,
va bene, a me piace scherzare sullo stato catatonico dei miei studenti: però in qsto trimestre francam si esagera.
Posso capire tutto: l'aria condizionata, che ha non va, anzi peggio, fa finta: in teoria il solo frastuono della ventola dovrebbe, per autosuggestione, arrecare sollievo agli alunni nell'ora meridiana. Sì, col cacchio (Taddei mi sta contagiando con le sue scurrilità). E il libro, anche il libro è indubbiam una palla. Quando leggi i born again, rivaluti la Bibbia vera. Ma riabiliti anche la Tamaro. Riabiliti tutto. Non si capisce mai se abbiano deliberatam scritto un libro per bambini, o lo abbiano fatto scrivere ai bambini direttam.
"E così, nei giorni successivi alla Sparizione (Rapture) dei Giusti, mentre il pilota Rayford si converte alla vera fede e s'informa sulla Grande Tribolazione a venire, assistiamo all'ascesa al potere di Nicolae Carpathia, l'anticristo in pectore. Qui ci troviamo di fronte a una libera reinterpretazione di un personaggio dell'Apocalisse biblica, declinata secondo i gusti dominanti del Midwest usastro della fine del secolo scorso. Qlcuno mi sa definire i tratti caratteristici del personaggio?"
Niente, mi sembra di parlare un'altra lingua. Straniero in terra straniera. Sutherland in Animal House. Quasi rimpiango il branco di defargisti del trimestre scorso. Solo Aureliana è rimasta, e mi tiene il broncio. È ancora arrabbiata con me per quando mandai il suo amico nella stanza 68. Da allora niente più defargisti alle mie lezioni. Solo zombie.
"Va bene, li dico io. Carpathia, per prima cosa, è europeo. Per giunta rumeno, quindi connazionale di Vlad l'Impalatore detto Dracula; ma in alcuni passi si insiste sulla remota origine italiana: Carpathia, infatti, è ecumenico, favorevole alla creazione di una sola religione mondiale; purché la sede sia a Roma. Insomma, sotto sotto è anche cattolico e papista… e qsto spiega in parte il deterioramento dei nostri rapporti con gli usastri, quando i born again ebbero la maggioranza del Congresso, dopo la Rapture. Mi riferisco alla Rapture storica, non qlla immaginata dagli autori del libro vent'anni prima.
Essendo tuttavia l'impersonificazione del Male Assoluto, Carpathia deve essere tante altre cose. È un ambiguo amico degli ebrei; ammette di essere una pedina delle "Banche Mondiali", anche se sta per prendere in mano le redini del gioco ammazzando a bruciapelo i suoi potenti amici londinesi. Ma è, soprattutto, un grande diplomatico, fautore della Pace mondiale e del disarmo multilaterale. Il suo programma prevede la distruzione del 90% degli arsenali militari di tutti i Paesi del mondo: il restante 10% sarà amministrato dall'Onu, cioè da lui. Carpathia è il Multilateralismo fatto uomo: ha studiato per anni la storia dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, sicché, quando giunge a New York, gli basta tenere una lezione di Storia dell'Onu per infiammare il Palazzo di Vetro. Pag. 201: "Per essere uno che non aveva mai messo piede sul suolo usastro, mostrava di possedere congnizioni stupefacenti sui meccanismi più reconditi dell'Onu". I "meccanismi più reconditi" sarebbero poi qlli del Consiglio di Sicurezza, che Carpathia estende a otto membri. Ora voi potreste chiedermi come fa, un signor Nessuno venuto dalla nazione letterariam più sfigata d'Europa ad arrivare come ospite all'assemblea Onu e a farsi proclamare dopo 48 ore Segretario Generale, a riformare il Consiglio di Sicurezza e a spostare, già che c'è, tutto il carrozzone onusiano a Babilonia…
(Vdrong, vdrong, fa la ventola. A. si mangia le unghie con ostentato metodismo)
…ma un'altra caratteristica di Carpathia è il suo ipnotico carisma, del resto non sarebbe Anticristo se la sua parola non facesse innamorare chi gli sta davanti. "People" lo nomina "Uomo sexy dell'anno", anche se è ancora febbraio; le donnine poco serie – perché non stanno a casa o in chiesa – cinguettano estasiate. Per qlcuno è la prima volta in trent'anni che un politico ha qlcosa da dire. "Carpathia poteva essere un altro Lincoln, un Roosevelt, o l'incarnazione di Camelot come a suo tempo lo era stato il clan dei Kennedy?" Domanda retorica, visto che siamo a pag. 291, e a qsto punto anche un bambino avrebbe capito che Carpathia è l'Anticristo, vale a dire il degno successore, se non di Lincoln, certo di Delano Roosevelt e Robert Kennedy. Ricco, democratico, diplomatico, idealista, multilateralista, sexy: in una parola, liberal. Ecco l'Anticristo per il Midwest.
Ora, malgrado le tesi di alcuni critici, che hanno tentato di identificarlo con Clinton, io credo che Carpathia tradisca un poco la difficoltà dei born again di visualizzare un nemico: nessun leader europeo o del Terzo Mondo, nessun candidato democratico alla Casa Bianca, poteva assomigliare realm a Carpathia. Si trattava di un modello già vecchio ai tempi della pubblicazione del libro. Voi che ne pensate?"
(Tanto ormai è finita l'ora…)
"Io lo trovo molto simile ad Arci".
"Eh?"
"Sì, anche lui ipnotizzava i suoi uditori".
"Ma…"
"E aveva un sacco di idee innovative, e riusciva a farle approvare tutte. Non trova, professore?"
"No professore. Io…"
"Sì, lo sappiamo, lei è appena un assistente didattico".
"E prima di essere assistente didattico…"
"Era l'assistente di Arci".
Uh-oh.
"Va bene, la lezione è finita. Per lunedì…"
"Professore, ci spieghi una cosa. Lei è un rivoluzionario, un patriota…"
"Un teopoppista della prima ora, uno di quelli che era passato in clandestinità fin dal 2005".
"Giugno ’05, il raduno segreto a San Firenze, si ricorda? E come mai oggi non è nemmeno Professore?"
"Mah, sapete, per molti anni mi sono disinteressato alla letteratura, ho fatto altro, e poi…"
"Certo, se uno pensa ai suoi compagni, non le è andata male".
"È vero, di qlli del 2005 è l'unico ancora in circolazione. Gli altri o sono caduti…"
"O sono scomparsi, come Arci".
"O come Defarge".
"E invece lei è ancora qua, a spiegarci l'Apocalisse. Che strano. Che strano".
"Bella, però, l'Apocalisse".
"La parola è molto bella, ma in bocca a lui…si sporca un po', non trovate?"
"È vero, c'è una sola Apocalisse, e non è qsta qui".
"Meriterebbe una punizione, professore".
"Pardon, assistente".
Ecco, ho capito adesso chi sono questi. Fallaciani.
Mi hanno teso un agguato. Inutile provare a scappare.
Inutile - soprattutto - tentare di ragionarci.
Caro Leonardo,
va bene, a me piace scherzare sullo stato catatonico dei miei studenti: però in qsto trimestre francam si esagera.
Posso capire tutto: l'aria condizionata, che ha non va, anzi peggio, fa finta: in teoria il solo frastuono della ventola dovrebbe, per autosuggestione, arrecare sollievo agli alunni nell'ora meridiana. Sì, col cacchio (Taddei mi sta contagiando con le sue scurrilità). E il libro, anche il libro è indubbiam una palla. Quando leggi i born again, rivaluti la Bibbia vera. Ma riabiliti anche la Tamaro. Riabiliti tutto. Non si capisce mai se abbiano deliberatam scritto un libro per bambini, o lo abbiano fatto scrivere ai bambini direttam.
"E così, nei giorni successivi alla Sparizione (Rapture) dei Giusti, mentre il pilota Rayford si converte alla vera fede e s'informa sulla Grande Tribolazione a venire, assistiamo all'ascesa al potere di Nicolae Carpathia, l'anticristo in pectore. Qui ci troviamo di fronte a una libera reinterpretazione di un personaggio dell'Apocalisse biblica, declinata secondo i gusti dominanti del Midwest usastro della fine del secolo scorso. Qlcuno mi sa definire i tratti caratteristici del personaggio?"
Niente, mi sembra di parlare un'altra lingua. Straniero in terra straniera. Sutherland in Animal House. Quasi rimpiango il branco di defargisti del trimestre scorso. Solo Aureliana è rimasta, e mi tiene il broncio. È ancora arrabbiata con me per quando mandai il suo amico nella stanza 68. Da allora niente più defargisti alle mie lezioni. Solo zombie.
"Va bene, li dico io. Carpathia, per prima cosa, è europeo. Per giunta rumeno, quindi connazionale di Vlad l'Impalatore detto Dracula; ma in alcuni passi si insiste sulla remota origine italiana: Carpathia, infatti, è ecumenico, favorevole alla creazione di una sola religione mondiale; purché la sede sia a Roma. Insomma, sotto sotto è anche cattolico e papista… e qsto spiega in parte il deterioramento dei nostri rapporti con gli usastri, quando i born again ebbero la maggioranza del Congresso, dopo la Rapture. Mi riferisco alla Rapture storica, non qlla immaginata dagli autori del libro vent'anni prima.
Essendo tuttavia l'impersonificazione del Male Assoluto, Carpathia deve essere tante altre cose. È un ambiguo amico degli ebrei; ammette di essere una pedina delle "Banche Mondiali", anche se sta per prendere in mano le redini del gioco ammazzando a bruciapelo i suoi potenti amici londinesi. Ma è, soprattutto, un grande diplomatico, fautore della Pace mondiale e del disarmo multilaterale. Il suo programma prevede la distruzione del 90% degli arsenali militari di tutti i Paesi del mondo: il restante 10% sarà amministrato dall'Onu, cioè da lui. Carpathia è il Multilateralismo fatto uomo: ha studiato per anni la storia dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, sicché, quando giunge a New York, gli basta tenere una lezione di Storia dell'Onu per infiammare il Palazzo di Vetro. Pag. 201: "Per essere uno che non aveva mai messo piede sul suolo usastro, mostrava di possedere congnizioni stupefacenti sui meccanismi più reconditi dell'Onu". I "meccanismi più reconditi" sarebbero poi qlli del Consiglio di Sicurezza, che Carpathia estende a otto membri. Ora voi potreste chiedermi come fa, un signor Nessuno venuto dalla nazione letterariam più sfigata d'Europa ad arrivare come ospite all'assemblea Onu e a farsi proclamare dopo 48 ore Segretario Generale, a riformare il Consiglio di Sicurezza e a spostare, già che c'è, tutto il carrozzone onusiano a Babilonia…
(Vdrong, vdrong, fa la ventola. A. si mangia le unghie con ostentato metodismo)
…ma un'altra caratteristica di Carpathia è il suo ipnotico carisma, del resto non sarebbe Anticristo se la sua parola non facesse innamorare chi gli sta davanti. "People" lo nomina "Uomo sexy dell'anno", anche se è ancora febbraio; le donnine poco serie – perché non stanno a casa o in chiesa – cinguettano estasiate. Per qlcuno è la prima volta in trent'anni che un politico ha qlcosa da dire. "Carpathia poteva essere un altro Lincoln, un Roosevelt, o l'incarnazione di Camelot come a suo tempo lo era stato il clan dei Kennedy?" Domanda retorica, visto che siamo a pag. 291, e a qsto punto anche un bambino avrebbe capito che Carpathia è l'Anticristo, vale a dire il degno successore, se non di Lincoln, certo di Delano Roosevelt e Robert Kennedy. Ricco, democratico, diplomatico, idealista, multilateralista, sexy: in una parola, liberal. Ecco l'Anticristo per il Midwest.
Ora, malgrado le tesi di alcuni critici, che hanno tentato di identificarlo con Clinton, io credo che Carpathia tradisca un poco la difficoltà dei born again di visualizzare un nemico: nessun leader europeo o del Terzo Mondo, nessun candidato democratico alla Casa Bianca, poteva assomigliare realm a Carpathia. Si trattava di un modello già vecchio ai tempi della pubblicazione del libro. Voi che ne pensate?"
(Tanto ormai è finita l'ora…)
"Io lo trovo molto simile ad Arci".
"Eh?"
"Sì, anche lui ipnotizzava i suoi uditori".
"Ma…"
"E aveva un sacco di idee innovative, e riusciva a farle approvare tutte. Non trova, professore?"
"No professore. Io…"
"Sì, lo sappiamo, lei è appena un assistente didattico".
"E prima di essere assistente didattico…"
"Era l'assistente di Arci".
Uh-oh.
"Va bene, la lezione è finita. Per lunedì…"
"Professore, ci spieghi una cosa. Lei è un rivoluzionario, un patriota…"
"Un teopoppista della prima ora, uno di quelli che era passato in clandestinità fin dal 2005".
"Giugno ’05, il raduno segreto a San Firenze, si ricorda? E come mai oggi non è nemmeno Professore?"
"Mah, sapete, per molti anni mi sono disinteressato alla letteratura, ho fatto altro, e poi…"
"Certo, se uno pensa ai suoi compagni, non le è andata male".
"È vero, di qlli del 2005 è l'unico ancora in circolazione. Gli altri o sono caduti…"
"O sono scomparsi, come Arci".
"O come Defarge".
"E invece lei è ancora qua, a spiegarci l'Apocalisse. Che strano. Che strano".
"Bella, però, l'Apocalisse".
"La parola è molto bella, ma in bocca a lui…si sporca un po', non trovate?"
"È vero, c'è una sola Apocalisse, e non è qsta qui".
"Meriterebbe una punizione, professore".
"Pardon, assistente".
Ecco, ho capito adesso chi sono questi. Fallaciani.
Mi hanno teso un agguato. Inutile provare a scappare.
Inutile - soprattutto - tentare di ragionarci.
- 2025
09-06-2005, 17:522025, Americana, religioni, universiade, vita e mortePermalinkCome sapete
Caro Leonardo,
ogni docente ha il suo intercalare preferito, che sarà senza dubbio rivelatore di qlcosa. Chi dice "è vero" ogni tre frasi ha paura di mentire (o di farsi scoprire?); chi dice: "se non vi dispiace" ha un gran bisogno di piacere a qlcuno.
Io credo di aver capito ql è il mio intercalare: "Come sapete". Simpatico modo di esorcizzare il fatto che i miei studenti non sanno un c.
"Come sapete, questo trimestre è dedicato a una delle opere di narrativa scritta più importanti del secolo scorso, Left Behind di Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Solo di recente l'opera è entrata nei programmi didattici del Teopop, in parte a causa del lungo periodo di ostilità tra il nostro Sistema e gli usastri. Perdurava inoltre la secolare, cattiva abitudine di studiare soltanto le opere narrative lette e divulgate dalle élites culturali, con qualche concessione ai generi che le élites stesse amavano consumare nel dopocena divertimento: il pulp, la space opera di Lucas… Oggi il nostro approccio è molto cambiato, come sapete".
(Due sbadigliano, uno già dorme. La coppia sul fondo è interdetta, pensava che si proiettasse un video. Adesso non sanno se uscire o limonarmi davanti).
"Oggi, dopo le varie rivoluzioni perlopiù religiose che hanno profondam mutato le società sulle due sponde dell'atlantico, il ruolo di qste famose élites è stato molto ridimensionato, e gli studiosi preferiscono occuparsi delle opere che hanno maggiorm segnato l'immaginario popolare: il codice Da Vinci, la profezia di Celestino, l'Alchimista, eccetera. E Left Behind ovviam. Non per il loro intrinseco valore letterario (che in certi casi, come il nostro, è irrisorio), ma per l'importanza che hanno avuto nel modificare il comportamento di vaste moltitudini di persone. Un libro può essere bello o no: ma quando riesce a riformare una religione, provocare una rivoluzione e svariate guerre, è senza dubbio importante, e meritevole di essere studiato. Siete d'accordo?"
Silenzio-assenso. "Left Behind descrive – e in parte provoca – il radicale mutam religioso della fede protestante usastra a cavallo tra i sec. XX e XXI. Sapete come in quel periodo molte vecchie comunità protestanti chiudano i battenti, sostituite da chiese di concezione nuova. Ora, se voi due in fondo mi date una mano ad abbassare le tende, proietterò il mio visore a pag. 104:
Ecco, direi che qui si descrive in sintesi il senso di un'appartenenza religiosa di fine secolo. La parrocchia come mini-lobby: in una società che sta smantellando il welfare, la Chiesa consente ai nuovi arrivati in un quartiere di inserirsi in un proficuo circuito di conoscenze e di scambio dei saperi. Una chiesa di qsto tipo "chiede poco e offre molto": non in termini di vita ultraterrena, ma di benessere quotidiano. A un certo punto, però qsto modello entra in crisi ed è soppiantato da qlcosa di nuovo, che all'inizio è solo "una stazione radio".
Si tratta evidentem di una chiesa born again. La prima reazione di Ray è tipica: alla larga, quelli fanno sul serio. Dopo qualche tempo inizia a temere per le "manie religiose" della moglie. Pag. 9:
Amway, tupperware, aerobica: il triangolo usastro delle Casalinghe. È questo il primitivo brodo di coltura delle chiese Born Again. Il libro insiste su qsto punto: è la Casalinga che deve pregare per il Marito, e tentare di evangelizzarlo. Anche se c'è il concreto rischio di allontanarlo da sé, come succede nel caso di Ray. Domande?
"Che vuol dire born again?"
"Significa «rinati». Per i born again occorre rinascere alla fede, buttar via la vecchia religione e rinascere alla nuova. Non a caso in qsto periodo viene esaltato il bambino appena nato, come individuo perfetto perché senza peccato".
"E il peccato originale?"
"Non è più così importante. Tanto che, come sapete, si arriva all'esaltazione del super-bambino: l'embrione, il feto. Sono senza dubbio meritevoli della vita eterna. Durante la Rapture spariscono bambini appena nati, come a pag. 41:
"Altre domande?"
"Cos'è Amway?"
Caro Leonardo,
ogni docente ha il suo intercalare preferito, che sarà senza dubbio rivelatore di qlcosa. Chi dice "è vero" ogni tre frasi ha paura di mentire (o di farsi scoprire?); chi dice: "se non vi dispiace" ha un gran bisogno di piacere a qlcuno.
Io credo di aver capito ql è il mio intercalare: "Come sapete". Simpatico modo di esorcizzare il fatto che i miei studenti non sanno un c.
"Come sapete, questo trimestre è dedicato a una delle opere di narrativa scritta più importanti del secolo scorso, Left Behind di Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Solo di recente l'opera è entrata nei programmi didattici del Teopop, in parte a causa del lungo periodo di ostilità tra il nostro Sistema e gli usastri. Perdurava inoltre la secolare, cattiva abitudine di studiare soltanto le opere narrative lette e divulgate dalle élites culturali, con qualche concessione ai generi che le élites stesse amavano consumare nel dopocena divertimento: il pulp, la space opera di Lucas… Oggi il nostro approccio è molto cambiato, come sapete".
(Due sbadigliano, uno già dorme. La coppia sul fondo è interdetta, pensava che si proiettasse un video. Adesso non sanno se uscire o limonarmi davanti).
"Oggi, dopo le varie rivoluzioni perlopiù religiose che hanno profondam mutato le società sulle due sponde dell'atlantico, il ruolo di qste famose élites è stato molto ridimensionato, e gli studiosi preferiscono occuparsi delle opere che hanno maggiorm segnato l'immaginario popolare: il codice Da Vinci, la profezia di Celestino, l'Alchimista, eccetera. E Left Behind ovviam. Non per il loro intrinseco valore letterario (che in certi casi, come il nostro, è irrisorio), ma per l'importanza che hanno avuto nel modificare il comportamento di vaste moltitudini di persone. Un libro può essere bello o no: ma quando riesce a riformare una religione, provocare una rivoluzione e svariate guerre, è senza dubbio importante, e meritevole di essere studiato. Siete d'accordo?"
Silenzio-assenso. "Left Behind descrive – e in parte provoca – il radicale mutam religioso della fede protestante usastra a cavallo tra i sec. XX e XXI. Sapete come in quel periodo molte vecchie comunità protestanti chiudano i battenti, sostituite da chiese di concezione nuova. Ora, se voi due in fondo mi date una mano ad abbassare le tende, proietterò il mio visore a pag. 104:
Per anni aveva sopportato la chiesa. Ne frequentavano una che chiedeva poco e offriva molto. Avevano allacciato diverse amicizie; avevano trovato il loro medico, il loro dentista, il loro assicuratore e persino avuto accesso al circolo sportivo grazie a quella chiesa. Rayford era riverito, presentato con orgoglio come il comandante di un 747 ai neofiti e agli ospiti; aveva prestato persino servizio nel consigli pastorale per diversi anni.
Ecco, direi che qui si descrive in sintesi il senso di un'appartenenza religiosa di fine secolo. La parrocchia come mini-lobby: in una società che sta smantellando il welfare, la Chiesa consente ai nuovi arrivati in un quartiere di inserirsi in un proficuo circuito di conoscenze e di scambio dei saperi. Una chiesa di qsto tipo "chiede poco e offre molto": non in termini di vita ultraterrena, ma di benessere quotidiano. A un certo punto, però qsto modello entra in crisi ed è soppiantato da qlcosa di nuovo, che all'inizio è solo "una stazione radio".
Dopo la scoperta della stazione radio cristiana e di ciò che definiva "la vera predicazione, la vera dottrina, Irene si era definitivam disillusa nei riguardi della loro chiesa e aveva preso a cercarne un'altra. Rayford allora aveva colto l'opportunità per abbandonare del tutto le sue frequentazioni, assicurando la moglie che quando lei avrebbe trovaro una nuova chiesa che davvero le piacesse, lui l'avrebbe seguita. Irene ne trovò una e Rayford occasionalm si provò a seguirla; ma prendevano le cose troppo alla lettera da qlle parti, scendevano troppo sul piano personale; il che era troppo gravoso per lui. Non era riverito, aveva come la sensazione d'essere parte di un progetto e quindi prese a tenersene più o meno alla larga.
Si tratta evidentem di una chiesa born again. La prima reazione di Ray è tipica: alla larga, quelli fanno sul serio. Dopo qualche tempo inizia a temere per le "manie religiose" della moglie. Pag. 9:
La più grande paura di Rayford era che le manie religiose di Irene non si sarebbero dissolte nel nulla come il suo entusiasmo di venditrice porta a porta per la Amway o di propagandista per la Tupperware, e come la sua passione per la ginnastica aerobica. Se l'immaginava tutta intenta a suonare campanelli e a chiedere alla gente se poteva leggere un paio di versetti.
Amway, tupperware, aerobica: il triangolo usastro delle Casalinghe. È questo il primitivo brodo di coltura delle chiese Born Again. Il libro insiste su qsto punto: è la Casalinga che deve pregare per il Marito, e tentare di evangelizzarlo. Anche se c'è il concreto rischio di allontanarlo da sé, come succede nel caso di Ray. Domande?
"Che vuol dire born again?"
"Significa «rinati». Per i born again occorre rinascere alla fede, buttar via la vecchia religione e rinascere alla nuova. Non a caso in qsto periodo viene esaltato il bambino appena nato, come individuo perfetto perché senza peccato".
"E il peccato originale?"
"Non è più così importante. Tanto che, come sapete, si arriva all'esaltazione del super-bambino: l'embrione, il feto. Sono senza dubbio meritevoli della vita eterna. Durante la Rapture spariscono bambini appena nati, come a pag. 41:
La CNN ritrasmise il video al ralenti mostrando il ventre ingrossato della donna che diventava quasi piatto, come se avesse partorito in quello stesso istante. […] La sequenza si bloccà nel momento in cui il ventre della donna si afflosciava. «Il camice dell'infermiera sembra ancora gonfio, come se lo indossasse una persona invisibile. È sparita! Lì, lo vedete?
"Altre domande?"
"Cos'è Amway?"
Comments (5)
- 2025
31-05-2005, 03:382025, Americana, religioni, universiadePermalinkApocalypse on air
Caro Leonardo,
giornate difficili. Taddei è depresso. Io soffro l'afa e un'ondata di polline micidiale, che mi ha spinto in piazza a cercare antistamina di contrabbando. E devo anche fare lezione.
E a lezione, come temevo, non c'è più lei.
"Qsto è l'incipit del romanzo che ha maggiorm segnato la cultura usastra nel ventunesimo secolo – benché sia uscito nel 1995. Ora, voi sapete che noi insegnanti amiamo fissarci sulle frasi iniziali dei romanzi, che sono spesso rivelatrici".
[In realtà noi insegnanti a volte arriviamo in Facoltà intorpiditi da dosi illegali di cortisone, abbiamo amnesie e crisi d'ispirazione, e ci fissiamo sulle prime righe di un libro in attesa che il buio passi o regni del tutto].
Ma in qsto caso, a dire il vero, l'incipit è depistante. Il lettore iper-occasionale, quello per intenderci che scorresse qste righe nel chiosco di un'edicola, s'immaginasse… che cosa? Voi cosa vi immaginate? Fingete di non aver letto le prime cento pagine per oggi.
[Fingono fin troppo bene, vedo].
"Prof…"
"No prof, ma dimmi".
"Sembra… un testo immorale".
"In che senso immorale?"
"L'apologia di un adulterio".
"Come il sessanta per cento di tutta la letteratura occidentale, esatto. Il caro vecchio adulterio. Ma il libro, come sapete, non ci racconterà nulla di tutto ciò. Rayford Steele non 'toccherà' mai la donna a cui sta pensando così intensam. Il lettore iper-occasionale non lo sa ancora, ma in ballo qui c'è molto di più di un banale adulterio con l'assistente di volo: in gioco c'è addirittura l'anima di Steele. Proprio all'inizio del libro, nel momento in cui in tutto il mondo i Prescelti sono assunti in cielo in anima e corpo, il pilota è sorpreso nel mezzo di un peccato di pensiero. La sua immaginazione corre liberam, come l'aereo in pilota automatico: Steele non pensa ai familiari che ha lasciato sulla terra, e qsti stanno volando in cielo. Passerà il resto del libro a pensare a loro. Altre considerazioni?"
"Mi stavo chiedendo… perché un aereo? Considerato che il libro poteva iniziare in qualsiasi punto del mondo, perché proprio un aereo?"
Tenera manina che spunti dalle ultime file, allora ci sei! Il cuore mi dà un colpo un po' più forte, un fiotto di sangue spazza via il cortisone soporifero e mi riporta in vita.
"Ecco una buona domanda. L'aereo risolve in maniera economica alcuni problemi narrativi. Come sapete, il libro è il primo di un ciclo di testi che si pone il problema dei problemi: come descrivere la fine dei tempi in modo verisimile? Come calare le profezie del Vecchio e Nuovo Testamento nella contemporaneità, e in particolare nella vita quotidiana di un lettore del midwest usastro? Per fare un esempio: nella Bibbia si parla di Rapture, di salita al cielo degli eletti del Signore. Un evento miracoloso che non è facile da immaginare. I pittori di tutte le epoche lo hanno raffigurato in modi diversi. Nel 1995 tocca a Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Noto qui che è erroneo chiamarli profeti, loro non hanno mai preteso di avere qsto dono. In realtà le profezie esistevano già. Qllo che LaHaye e Jenkins hanno fatto con i testi Left behind è un'opera di illustrazione: hanno illustrato l'Apocalisse, il Libro di Daniele, le Epistole di San Paolo eccetera… in sintonia con i canoni estetici del Midwest, l'area di principale diffusione della fede born again. Niente aure new age, dunque – ma neanche fanfare cattoliche, niente angeli sulle nuvolette che l'usastro Mark Twain aveva deriso un secolo prima. La genialità degli autori sta nella semplicità delle loro scelte. L'ascesa dei puri è una sparizione. Un momento prima c'erano, il momento dopo non ci sono più. Spariscono dai loro letti, dagli stadi, dalle ecografie. Abbandonano le macchine in strada, i carrelli nei supermercati, il bagaglio a mano nell'aereo. Segno della loro scomparsa, i vestiti abbandonati: proprio come il sudario di Gesù dopo la Resurrezione. Ecco un'illustrazione dell'ascesa al cielo abbastanza verosimile.
La verosimiglianza è ottenuta anche con riferimenti alle tecnologie più avanzate. Avrete notato che durante gran parte del libro i personaggi non fanno che chiamarsi in segreteria. Qsto può snervare il lettore contemporaneo, ma nel 1995 era il modo più moderno di comunicare. Il più 'sportivo' dei personaggi, Buck, riesce a connettersi a Internet sull'aereo; e pensate che il WWW era appena nato. E pensate all'aereo. Un non–luogo che li comprende tutti. La signorina si è in pratica risposta da sola. Proprio perché il libro deve cominciare in "tutto il mondo" (le sparizioni accadono nei cinque continenti), non può che iniziare su un aereo. Non c'è nulla come un Boeing per farti sentire che il mondo è piccolo rotondo. E Lahaye e Jenkins sono due scrittori apocalittici per un mondo piccolo e rotondo, così come San Giovanni era l'apocalittico di un mondo immenso e piatto.
Allo stesso tempo, il Boeing è anche un pezzo di Midwest semovente, che trascina con sé i suoi personaggi 100% usastri nel primo passo verso la fine dei tempi… toh, è già finita l'ora. Ci vediamo domani. Sì? Che altro c'è?"
"Prof, ma è successo davvero?"
"Sì, più o meno vent'anni dopo l'uscita del libro è successo qlcosa del genere. Molti usastri sono spariti dall'oggi al domani. Quelli che sono rimasti hanno rifondato la loro nazione su basi puritane e isolazioniste, come sapete".
"Allora l'apocalisse è già successa?"
"Tecnicam, è una cosa che è cominciata e che sta succedendo tuttora".
"E quando finisce?"
"Scusate, ora devo scappare. A domani".
[Mi piace lasciarli a fiato sospeso. Non so quanto sia pedagogico o didattico, ma mi piace.
Lo scrittore dovevo fare, mica il prof.]
Caro Leonardo,
giornate difficili. Taddei è depresso. Io soffro l'afa e un'ondata di polline micidiale, che mi ha spinto in piazza a cercare antistamina di contrabbando. E devo anche fare lezione.
E a lezione, come temevo, non c'è più lei.
"I PENSIERI DI RAYFORD STEELE vagavano di continuo su una donna che non aveva mai neanche toccato. Il suo 747, a pieno carico e con il pilota automatico innestato, faceva rotta sopra l'Atlantico; ora prevista dell'atterraggio a Heathrow: le sei del mattino. Rayford aveva rimosso deliberatam ogni pensiero riguardo ai familiari".
"Qsto è l'incipit del romanzo che ha maggiorm segnato la cultura usastra nel ventunesimo secolo – benché sia uscito nel 1995. Ora, voi sapete che noi insegnanti amiamo fissarci sulle frasi iniziali dei romanzi, che sono spesso rivelatrici".
[In realtà noi insegnanti a volte arriviamo in Facoltà intorpiditi da dosi illegali di cortisone, abbiamo amnesie e crisi d'ispirazione, e ci fissiamo sulle prime righe di un libro in attesa che il buio passi o regni del tutto].
Ma in qsto caso, a dire il vero, l'incipit è depistante. Il lettore iper-occasionale, quello per intenderci che scorresse qste righe nel chiosco di un'edicola, s'immaginasse… che cosa? Voi cosa vi immaginate? Fingete di non aver letto le prime cento pagine per oggi.
[Fingono fin troppo bene, vedo].
"Prof…"
"No prof, ma dimmi".
"Sembra… un testo immorale".
"In che senso immorale?"
"L'apologia di un adulterio".
"Come il sessanta per cento di tutta la letteratura occidentale, esatto. Il caro vecchio adulterio. Ma il libro, come sapete, non ci racconterà nulla di tutto ciò. Rayford Steele non 'toccherà' mai la donna a cui sta pensando così intensam. Il lettore iper-occasionale non lo sa ancora, ma in ballo qui c'è molto di più di un banale adulterio con l'assistente di volo: in gioco c'è addirittura l'anima di Steele. Proprio all'inizio del libro, nel momento in cui in tutto il mondo i Prescelti sono assunti in cielo in anima e corpo, il pilota è sorpreso nel mezzo di un peccato di pensiero. La sua immaginazione corre liberam, come l'aereo in pilota automatico: Steele non pensa ai familiari che ha lasciato sulla terra, e qsti stanno volando in cielo. Passerà il resto del libro a pensare a loro. Altre considerazioni?"
"Mi stavo chiedendo… perché un aereo? Considerato che il libro poteva iniziare in qualsiasi punto del mondo, perché proprio un aereo?"
Tenera manina che spunti dalle ultime file, allora ci sei! Il cuore mi dà un colpo un po' più forte, un fiotto di sangue spazza via il cortisone soporifero e mi riporta in vita.
"Ecco una buona domanda. L'aereo risolve in maniera economica alcuni problemi narrativi. Come sapete, il libro è il primo di un ciclo di testi che si pone il problema dei problemi: come descrivere la fine dei tempi in modo verisimile? Come calare le profezie del Vecchio e Nuovo Testamento nella contemporaneità, e in particolare nella vita quotidiana di un lettore del midwest usastro? Per fare un esempio: nella Bibbia si parla di Rapture, di salita al cielo degli eletti del Signore. Un evento miracoloso che non è facile da immaginare. I pittori di tutte le epoche lo hanno raffigurato in modi diversi. Nel 1995 tocca a Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Noto qui che è erroneo chiamarli profeti, loro non hanno mai preteso di avere qsto dono. In realtà le profezie esistevano già. Qllo che LaHaye e Jenkins hanno fatto con i testi Left behind è un'opera di illustrazione: hanno illustrato l'Apocalisse, il Libro di Daniele, le Epistole di San Paolo eccetera… in sintonia con i canoni estetici del Midwest, l'area di principale diffusione della fede born again. Niente aure new age, dunque – ma neanche fanfare cattoliche, niente angeli sulle nuvolette che l'usastro Mark Twain aveva deriso un secolo prima. La genialità degli autori sta nella semplicità delle loro scelte. L'ascesa dei puri è una sparizione. Un momento prima c'erano, il momento dopo non ci sono più. Spariscono dai loro letti, dagli stadi, dalle ecografie. Abbandonano le macchine in strada, i carrelli nei supermercati, il bagaglio a mano nell'aereo. Segno della loro scomparsa, i vestiti abbandonati: proprio come il sudario di Gesù dopo la Resurrezione. Ecco un'illustrazione dell'ascesa al cielo abbastanza verosimile.
La verosimiglianza è ottenuta anche con riferimenti alle tecnologie più avanzate. Avrete notato che durante gran parte del libro i personaggi non fanno che chiamarsi in segreteria. Qsto può snervare il lettore contemporaneo, ma nel 1995 era il modo più moderno di comunicare. Il più 'sportivo' dei personaggi, Buck, riesce a connettersi a Internet sull'aereo; e pensate che il WWW era appena nato. E pensate all'aereo. Un non–luogo che li comprende tutti. La signorina si è in pratica risposta da sola. Proprio perché il libro deve cominciare in "tutto il mondo" (le sparizioni accadono nei cinque continenti), non può che iniziare su un aereo. Non c'è nulla come un Boeing per farti sentire che il mondo è piccolo rotondo. E Lahaye e Jenkins sono due scrittori apocalittici per un mondo piccolo e rotondo, così come San Giovanni era l'apocalittico di un mondo immenso e piatto.
Allo stesso tempo, il Boeing è anche un pezzo di Midwest semovente, che trascina con sé i suoi personaggi 100% usastri nel primo passo verso la fine dei tempi… toh, è già finita l'ora. Ci vediamo domani. Sì? Che altro c'è?"
"Prof, ma è successo davvero?"
"Sì, più o meno vent'anni dopo l'uscita del libro è successo qlcosa del genere. Molti usastri sono spariti dall'oggi al domani. Quelli che sono rimasti hanno rifondato la loro nazione su basi puritane e isolazioniste, come sapete".
"Allora l'apocalisse è già successa?"
"Tecnicam, è una cosa che è cominciata e che sta succedendo tuttora".
"E quando finisce?"
"Scusate, ora devo scappare. A domani".
[Mi piace lasciarli a fiato sospeso. Non so quanto sia pedagogico o didattico, ma mi piace.
Lo scrittore dovevo fare, mica il prof.]
Comments (3)
- 2025
26-05-2005, 04:042025, ascesa e caduta di S. Cofferati, Bologna, ucronie, universiadePermalinkIl Sindaco Malvagio
Ah, ho ricominciato il corso in Facoltà. È il Trimestre caldo. Qllo che odio di più.
Una volta qndo faceva caldo non si lavorava. Noi italiani eravamo fatti così. Poi l'Italia è colata a picco (un bel pezzo), e ora si studia d'estate, in collina, quando non c'è altro da fare. D'inverno il livello del mare s'abbassa e gli studenti vanno in palude ad anguille. O nelle risaie. Beata gioventù.
Il problema è che San Petronio non è collina. In teoria non avrebbe dovuto salvarsi. È tutto merito di un Sindaco malvagio di cui s'è perso il nome (damnatio memoriae). Qsto Sindaco, ai tempi dei disastri, si sentì dire da una commissione che l'unico modo per salvarsi dall'alta marea era scavare dei polder, come in Olanda: ma a Castelbolognese. Ma si trattava di scavare buchi di melma nella melma, un lavoro schifoso, e non c'era più quella bella manodopera di una volta: arabi e albanesi ai primi diluvi se l'erano squagliata in Germania, ingrati.
"Nessun problema", disse allora il Sindaco malvagio, "ho io la soluzione".
Qualche giorno dopo iniziarono le retate dei pancabbestia, ordinate per i più futili motivi, tipo che non facevano l'antirabbica al cane, non si lavavano, non facevano un cazzo, stavano sempre a rompere i coglioni, disturbavano coi bonghi le lezioni della più antica facoltà del mondo, rubacchiavano, e spacciavano, anzi no, non erano neanche bravi a rubare senza dar nell'occhio e a spacciare seriamente per cui creavano solo indotto per gli spaccini stranieri, eccetera. Tutte qste frescacce da Sindaco stronzo. Ma lui era più che stronzo. Era proprio malvagio.
Invece di metterli dentro, li assunse tutti ai lavori forzati comunali. A tempo indeterminato. A Castelbolognese c'è un monumento che ricorda i pionieri della melma, gli uomini valorosi che hanno salvato qsta città dove ora, a fine maggio, fa un caldo bestiale, e la sera i cani ululano alla luna per i loro padroni pulciosi che non torneranno mai.
(I cani, quando sono stati abbandonati dai pancabbestia, si sono organizzati e adesso gestiscono il loro quartiere. Si vede che erano traviati dalle cattive compagnie).
L'altro motivo per cui odio qsto trimestre è il corso istituzionale. Mi hanno promesso che in inverno mi sarei sbizzarrito con film e quant'altro, purché in estate presentassi il Sacro Testo degli usastri. Era sul contratto.
"Dai, dai, che vuoi che sia".
"Ma a me quel libro fa sch…"
"Piano a dirlo, l'hai letto almeno?"
"Sì!"
"Ah, complimenti. Beh, come sai, gli usastri ora sono nostri amici. Così in consiglio abbiamo pensato che fosse giusto introdurre gli studenti allo stile di vita usastro, spiegare i libri che leggono, le cose che mangiano, ecc.. Sa, non è mica come ai nostri tempi, che c'era la tv e s'imparava di tutto… Adesso gli usastri sembrano dei marziani".
"Un po' lo sono".
"Va bene, se ci siamo tutti possiamo cominciare.
Come abbiamo già osservato, la narrativa Ucronica è un genere molto particolare, assai indicato per veicolare proposizioni ideologiche in modo convincente. Tanto che diversi libri sacri sono, in effetti, opere di narrativa ucronica. L'esempio più celebre è l'Apocalisse di San Giovanni.
Il testo che leggeremo in qsto trimestre è l'opera più importante della letteratura usastra del secolo scorso, che pure al tempo della sua pubblicazione fu snobbato da tutti i critici. È il destino dei, ehm, dei grandi libri.
Ma più per il suo valore letterario, l'opera in questione è importante per l'influsso che ha esercitato sulle comunità religiose di qsto grande Paese e, di riflesso, sul mondo intero. Tanto che possiamo dire che qsto libro ha effettivam fatto la Storia.
"Molto bene. Per la prossima volta leggetevi le prime 50 pagine. Anzi. Le prime 100, così vi fate davvero una cultura usastra, su. Ne riparleremo lunedì".
Ah, ho ricominciato il corso in Facoltà. È il Trimestre caldo. Qllo che odio di più.
Una volta qndo faceva caldo non si lavorava. Noi italiani eravamo fatti così. Poi l'Italia è colata a picco (un bel pezzo), e ora si studia d'estate, in collina, quando non c'è altro da fare. D'inverno il livello del mare s'abbassa e gli studenti vanno in palude ad anguille. O nelle risaie. Beata gioventù.
Il problema è che San Petronio non è collina. In teoria non avrebbe dovuto salvarsi. È tutto merito di un Sindaco malvagio di cui s'è perso il nome (damnatio memoriae). Qsto Sindaco, ai tempi dei disastri, si sentì dire da una commissione che l'unico modo per salvarsi dall'alta marea era scavare dei polder, come in Olanda: ma a Castelbolognese. Ma si trattava di scavare buchi di melma nella melma, un lavoro schifoso, e non c'era più quella bella manodopera di una volta: arabi e albanesi ai primi diluvi se l'erano squagliata in Germania, ingrati.
"Nessun problema", disse allora il Sindaco malvagio, "ho io la soluzione".
Qualche giorno dopo iniziarono le retate dei pancabbestia, ordinate per i più futili motivi, tipo che non facevano l'antirabbica al cane, non si lavavano, non facevano un cazzo, stavano sempre a rompere i coglioni, disturbavano coi bonghi le lezioni della più antica facoltà del mondo, rubacchiavano, e spacciavano, anzi no, non erano neanche bravi a rubare senza dar nell'occhio e a spacciare seriamente per cui creavano solo indotto per gli spaccini stranieri, eccetera. Tutte qste frescacce da Sindaco stronzo. Ma lui era più che stronzo. Era proprio malvagio.
Invece di metterli dentro, li assunse tutti ai lavori forzati comunali. A tempo indeterminato. A Castelbolognese c'è un monumento che ricorda i pionieri della melma, gli uomini valorosi che hanno salvato qsta città dove ora, a fine maggio, fa un caldo bestiale, e la sera i cani ululano alla luna per i loro padroni pulciosi che non torneranno mai.
(I cani, quando sono stati abbandonati dai pancabbestia, si sono organizzati e adesso gestiscono il loro quartiere. Si vede che erano traviati dalle cattive compagnie).
L'altro motivo per cui odio qsto trimestre è il corso istituzionale. Mi hanno promesso che in inverno mi sarei sbizzarrito con film e quant'altro, purché in estate presentassi il Sacro Testo degli usastri. Era sul contratto.
"Dai, dai, che vuoi che sia".
"Ma a me quel libro fa sch…"
"Piano a dirlo, l'hai letto almeno?"
"Sì!"
"Ah, complimenti. Beh, come sai, gli usastri ora sono nostri amici. Così in consiglio abbiamo pensato che fosse giusto introdurre gli studenti allo stile di vita usastro, spiegare i libri che leggono, le cose che mangiano, ecc.. Sa, non è mica come ai nostri tempi, che c'era la tv e s'imparava di tutto… Adesso gli usastri sembrano dei marziani".
"Un po' lo sono".
"Va bene, se ci siamo tutti possiamo cominciare.
Come abbiamo già osservato, la narrativa Ucronica è un genere molto particolare, assai indicato per veicolare proposizioni ideologiche in modo convincente. Tanto che diversi libri sacri sono, in effetti, opere di narrativa ucronica. L'esempio più celebre è l'Apocalisse di San Giovanni.
Il testo che leggeremo in qsto trimestre è l'opera più importante della letteratura usastra del secolo scorso, che pure al tempo della sua pubblicazione fu snobbato da tutti i critici. È il destino dei, ehm, dei grandi libri.
Ma più per il suo valore letterario, l'opera in questione è importante per l'influsso che ha esercitato sulle comunità religiose di qsto grande Paese e, di riflesso, sul mondo intero. Tanto che possiamo dire che qsto libro ha effettivam fatto la Storia.
"Molto bene. Per la prossima volta leggetevi le prime 50 pagine. Anzi. Le prime 100, così vi fate davvero una cultura usastra, su. Ne riparleremo lunedì".
25-03-2004, 01:56blog, Bologna, commenti, universiadePermalink
A questo punto qualcuno si sarà anche chiesto:
Ma perché Leonardo non ha i commenti?
# 30: I sanitari dell’Alma Mater
(PARENTAL ADVISORY, explicit lyrics)
Io, se ci ripenso, ho fatto l’università in un contesto alquanto sudicio.
Le sale studio in particolare. I cessi delle sale studio per la precisione. Scritte zozze, fango, peli, acqua marrone, si stava come suini sul camion. A volte non c’era il bidet: qualcuno per protesta usava il lavabo.
Tuttora, quando il bisogno impellente mi porta in autogrill di seconda categoria, o nell’orinatoio di una stazione o di un centro sociale, sento che qualcosa nel mio profondo si smuove, come letame appena rivoltato (una scatologica madeleine), e mi trovo a esclamare, senza vergogna: “oh, che è, l’Università degli studi di Bologna?”
Ai miei tempi il laureando in lettere occupava un piano molto basso della piramide sociale. Non così basso che non ci fosse qualcuno messo peggio: i laureandi in Filosofia. Più già ancora quelli del Dams. Poi i pancabbestia. Poi i cani dei pancabbestia, quelli che in realtà se la passano meglio di tutti. Tutte queste categorie dividevano la stessa isola pedonale, studiavano, mangiavano, spacciavano fumo e biciclette negli stessi ambienti. E pisciavano negli stessi servizi.
L’idea che l’umanista sia un parassita della società di solito è un retropensiero, una cosa che si ha pudore a manifestare. Ma Bologna, sotto questo punto di vista, non aveva pietà. Vuoi fare l’umanista? Impara a vivere come una piattola. L’alternativa è la progressiva nazificazione: transitare in via Zamboni a testa bassa, portarsi l’acqua minerale da casa, imprecare sottovoce ai bonghisti delle tre del pomeriggio.
(Una cosa che mi fa sentire vecchio è il sottotitolo di Inkiostro, “uno studente bolognese”. Si sente che è passato del tempo. Io ai miei tempi non mi sarei mai definito uno studente bolognese. Non dico che ci fosse nulla da vergognarsi, ma era qualcosa da esibire il meno possibile, come una panda bianca arrugginita, un cesso sporco, il lavello quando non sciacqui i piatti da tre giorni. Questa era Bologna).
Dopo aver studiato laggiù, il resto del mondo sembrava un posto più pulito, diciamo pure più fighetto: lavoro non te ne danno, ma le pareti sono marmorizzate o color pastello, e i sanitari odorano di timo e di lavanda. E un po’ ti manca, la città delle piattole. Quegli odori, quei colori (il giallino, soprattutto).
Poi un bel giorno torni sotto quel portico e ti rendi conto dell’amara verità: non era la città a essere sudicia, era la tua generazione. Là dove c’era l’assemblea permanente dei bonghisti adesso ci sono tre, quattro camionette della polizia. Qualcuno ha strappato i manifesti e ritinteggiato tutti i muri. Il vecchio bar dello studente, un postaccio dove il caffè costava 600 lire e i camerieri ti chiedevano di buttare le cicche per terra, ora è un mediacenter strafighetto. E tu non puoi più pisciare, all’Università. Ovunque vai, c’è bisogno di un’esclusiva tessera magnetica, e tu non ce l’hai, sei escluso. Questo sì che è uno choc.
In questi casi tocca fare così: ci si appoggia al muro di fianco, col fare noncialante di un Joe Falchetto, e si aspetta che qualcuno munito di tessera arrivi, sospinto dal medesimo bisogno che vi ha portato lì. Quel che rende piccante la cosa è che all’Università i bagni tendono a essere bisex (perché?).
Quando alla fine arriva la ragazza – statisticamente è sempre una ragazza – ed estrae la preziosa tessera, occorre farle notare, con un’occhiata gentile, che si avrebbe tanta voglia di entrare con lei, tanto là dentro c’è posto per tutti.
La società del controllo è anche questo: doversi munire di una carta magnetica per pisciare.
“Ma almeno adesso l’ambiente si è ripulito, no?”
Sì e no. Prendi le scritte sui muri. I piccoli annunci di prestazioni sessuali. Finché l’Università era aperta al popolo, uno poteva anche ipotizzare una genìa di maniaci che venissero lì apposta. Ma ora non ci possono essere dubbi: sono i laureandi in lettere a offrire i loro corpi ad altri laureandi. Magari è quello stangone biondo al tavolo di fronte, che sta compulsando Cino da Pistoia: tra un po’ si alzerà, andrà in bagno, estrarrà una bic dai pantaloni e scriverà: offro pompini con ingoio, chiamate xxxxxxyyyx. Beh, fatti suoi, dopotutto.
Questo tipo di interfaccia grafica non vi ricorda niente? Molto prima dell’introduzione delle finestre di commento nei blog, molto prima della nascita dei blog, molto prima della stessa invenzione del World Wide Web, gli esseri umani usavano una tecnica simile per comunicare informalmente nei cessi pubblici.
Ma perché qualcuno sente la necessità di comunicare nei cessi pubblici? Perché non vuole essere visto, (a) e perché vuole comunicare con gente che non conosce (b); e che forse non ha nessuna intenzione di conoscere. Una ben strana modalità di comunicazione. Ma perché no? Dopotutto che c’è di male?
C’è che dopo un po’ le scritte stancano. Sono brutte. Sono volgari. Per una cosa divertente, ci sono dieci stronzate che ti fanno pensare al tramonto dell’occidente. Sembra che al riparo di quattro muretti piastrellati, ognuno di noi riesca a dare soltanto il peggio di sé.
E non si può trovare un modo per ripulire i quattro muretti, trasformarli in un elegante tazebao, limitare gli accessi soltanto a gente distinta, o agli addetti ai lavori? No. L’esperienza dei cessi dell’Università di Bologna ci mostra che è inutile.
Una volta potevamo dare la colpa ai pancabbestia, brutti, sporchi e cattivi. Ma oggi le tessere magnetiche ci inchiodano alle nostre responsabilità. Il troll che perde tempo a sporcare i muri con le sue stronzate, è uno di noi. Se non è proprio dentro di noi. È inutile che diamo la colpa agli altri. Siamo noi umanisti a scrivere quelle cose, nell’intimità dei nostri cessi pubblici. Ci piace. Del resto, siamo umani (forse troppo).
Ma umani o no, ve ne andate da un’altra parte a pisciare. Non a casa mia.
(Il biondone che compulsa Cino da Pistoia è un parto della mia immaginazione, che è malata).
Ma perché Leonardo non ha i commenti?
# 30: I sanitari dell’Alma Mater
(PARENTAL ADVISORY, explicit lyrics)
Io, se ci ripenso, ho fatto l’università in un contesto alquanto sudicio.
Le sale studio in particolare. I cessi delle sale studio per la precisione. Scritte zozze, fango, peli, acqua marrone, si stava come suini sul camion. A volte non c’era il bidet: qualcuno per protesta usava il lavabo.
Tuttora, quando il bisogno impellente mi porta in autogrill di seconda categoria, o nell’orinatoio di una stazione o di un centro sociale, sento che qualcosa nel mio profondo si smuove, come letame appena rivoltato (una scatologica madeleine), e mi trovo a esclamare, senza vergogna: “oh, che è, l’Università degli studi di Bologna?”
Ai miei tempi il laureando in lettere occupava un piano molto basso della piramide sociale. Non così basso che non ci fosse qualcuno messo peggio: i laureandi in Filosofia. Più già ancora quelli del Dams. Poi i pancabbestia. Poi i cani dei pancabbestia, quelli che in realtà se la passano meglio di tutti. Tutte queste categorie dividevano la stessa isola pedonale, studiavano, mangiavano, spacciavano fumo e biciclette negli stessi ambienti. E pisciavano negli stessi servizi.
L’idea che l’umanista sia un parassita della società di solito è un retropensiero, una cosa che si ha pudore a manifestare. Ma Bologna, sotto questo punto di vista, non aveva pietà. Vuoi fare l’umanista? Impara a vivere come una piattola. L’alternativa è la progressiva nazificazione: transitare in via Zamboni a testa bassa, portarsi l’acqua minerale da casa, imprecare sottovoce ai bonghisti delle tre del pomeriggio.
(Una cosa che mi fa sentire vecchio è il sottotitolo di Inkiostro, “uno studente bolognese”. Si sente che è passato del tempo. Io ai miei tempi non mi sarei mai definito uno studente bolognese. Non dico che ci fosse nulla da vergognarsi, ma era qualcosa da esibire il meno possibile, come una panda bianca arrugginita, un cesso sporco, il lavello quando non sciacqui i piatti da tre giorni. Questa era Bologna).
Dopo aver studiato laggiù, il resto del mondo sembrava un posto più pulito, diciamo pure più fighetto: lavoro non te ne danno, ma le pareti sono marmorizzate o color pastello, e i sanitari odorano di timo e di lavanda. E un po’ ti manca, la città delle piattole. Quegli odori, quei colori (il giallino, soprattutto).
Poi un bel giorno torni sotto quel portico e ti rendi conto dell’amara verità: non era la città a essere sudicia, era la tua generazione. Là dove c’era l’assemblea permanente dei bonghisti adesso ci sono tre, quattro camionette della polizia. Qualcuno ha strappato i manifesti e ritinteggiato tutti i muri. Il vecchio bar dello studente, un postaccio dove il caffè costava 600 lire e i camerieri ti chiedevano di buttare le cicche per terra, ora è un mediacenter strafighetto. E tu non puoi più pisciare, all’Università. Ovunque vai, c’è bisogno di un’esclusiva tessera magnetica, e tu non ce l’hai, sei escluso. Questo sì che è uno choc.
In questi casi tocca fare così: ci si appoggia al muro di fianco, col fare noncialante di un Joe Falchetto, e si aspetta che qualcuno munito di tessera arrivi, sospinto dal medesimo bisogno che vi ha portato lì. Quel che rende piccante la cosa è che all’Università i bagni tendono a essere bisex (perché?).
Quando alla fine arriva la ragazza – statisticamente è sempre una ragazza – ed estrae la preziosa tessera, occorre farle notare, con un’occhiata gentile, che si avrebbe tanta voglia di entrare con lei, tanto là dentro c’è posto per tutti.
La società del controllo è anche questo: doversi munire di una carta magnetica per pisciare.
“Ma almeno adesso l’ambiente si è ripulito, no?”
Sì e no. Prendi le scritte sui muri. I piccoli annunci di prestazioni sessuali. Finché l’Università era aperta al popolo, uno poteva anche ipotizzare una genìa di maniaci che venissero lì apposta. Ma ora non ci possono essere dubbi: sono i laureandi in lettere a offrire i loro corpi ad altri laureandi. Magari è quello stangone biondo al tavolo di fronte, che sta compulsando Cino da Pistoia: tra un po’ si alzerà, andrà in bagno, estrarrà una bic dai pantaloni e scriverà: offro pompini con ingoio, chiamate xxxxxxyyyx. Beh, fatti suoi, dopotutto.
Ma è possibile che tra le scritte sui cessi dell’Università e su quelle di una qualsiasi stazione non ci siano sostanziali differenze di stile? Nessuno che scrive endecasillabi a rima baciata, parolacce tratte dall’Inferno dantesco, distici elegiaci? No, il solito umorismo da cesso standard. E quel modo di dialogare a finestrelle, per esempio:
W i Korn! |
I
I
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SFIGATO, PASSA A STEVE VAI |
I
I
I
PROBABILMENTE SEI UN FROCIO DI MERDA CHE SI ECCITA ASCOLTANDO I QUEEN CON UN CETRIOLO NEL CULO FOTTITI |
Questo tipo di interfaccia grafica non vi ricorda niente? Molto prima dell’introduzione delle finestre di commento nei blog, molto prima della nascita dei blog, molto prima della stessa invenzione del World Wide Web, gli esseri umani usavano una tecnica simile per comunicare informalmente nei cessi pubblici.
Ma perché qualcuno sente la necessità di comunicare nei cessi pubblici? Perché non vuole essere visto, (a) e perché vuole comunicare con gente che non conosce (b); e che forse non ha nessuna intenzione di conoscere. Una ben strana modalità di comunicazione. Ma perché no? Dopotutto che c’è di male?
C’è che dopo un po’ le scritte stancano. Sono brutte. Sono volgari. Per una cosa divertente, ci sono dieci stronzate che ti fanno pensare al tramonto dell’occidente. Sembra che al riparo di quattro muretti piastrellati, ognuno di noi riesca a dare soltanto il peggio di sé.
E non si può trovare un modo per ripulire i quattro muretti, trasformarli in un elegante tazebao, limitare gli accessi soltanto a gente distinta, o agli addetti ai lavori? No. L’esperienza dei cessi dell’Università di Bologna ci mostra che è inutile.
Una volta potevamo dare la colpa ai pancabbestia, brutti, sporchi e cattivi. Ma oggi le tessere magnetiche ci inchiodano alle nostre responsabilità. Il troll che perde tempo a sporcare i muri con le sue stronzate, è uno di noi. Se non è proprio dentro di noi. È inutile che diamo la colpa agli altri. Siamo noi umanisti a scrivere quelle cose, nell’intimità dei nostri cessi pubblici. Ci piace. Del resto, siamo umani (forse troppo).
Ma umani o no, ve ne andate da un’altra parte a pisciare. Non a casa mia.
(Il biondone che compulsa Cino da Pistoia è un parto della mia immaginazione, che è malata).
13-01-2004, 02:20auto, autoreferenziali, blog, calvario precario, il cattivo supplente, universiadePermalink
Una buona giornata (fin qui)
(Fatti miei, ma più miei del solito)
Diciamo onestamente che oggi:
- Per essermi alzato di scatto alla prima sveglia, ore 6.00, e sì che non avevo dormito parecchio;
- per aver usato correttamente l'antigelo e preso le precauzioni atte a un lungo viaggio in macchina;
- per aver tenuto a bada 25 monelli con un paio di ore diciamo passabili sul feudalesimo (più altre cinque ragazzine di un'altra classe che passavano di lì perché adesso se manca un prof si usa così);
- perché dopo 40 km. di viaggio ho telefonato a un ufficio di Bologna e ho chiesto "Potrebbe per favore dare un'occhiata alla bacheca, che è importante?" e sentendomi rispondere: "no, non posso", e senza batter ciglio ne ho dovuti aggiungere altri 80, ma tranquillamente, rispettando dove possibile il codice della strada e tenendomi aggiornato coi notiziari;
- per aver parlato in maniera breve ed efficace con due docenti spiegando la mia complicata situazione con meno untuosità del solito, e per aver non dico risolto il problema, ma dato l'impressione di affrontarlo da persona adulta, responsabile, eccetera;
- per aver incontrato una vecchia amica di amici e non aver fatto brutta figura, addirittura mi sono ricordato che si era sposata, e questo non è da me;
- per essere arrivato a casa, dopo tutto questo, era solo l'una e mezza del pomeriggio;
- per essermi messo senza troppo indugio a lavorare, e per aver fatto dieci dignitose cartelle nel giro di mezzanotte, senza mancare di rispetto alle persone che vivono con me e che forse qualcosa più del rispetto meriterebbero;
- perché naturalmente mi hai telefonato e io ho trovato argomenti per mantenere la conversazione per 15 minuti, 15 minuti di dolcissima funzione fàtica;
- perché, senza dar troppo nell'occhio, sono riuscito anche a divertirmi un po', e con poco;
ecco, per tutta questa serie di motivi mi sembra di poter concludere che ho avuto una buona giornata, e che se riuscissi ad averne altre, la mia vita sarebbe non dico normale, ma dignitosa.
E allora perché sono qui come un pirla alle 2 e 41 del mattino con 5 finestre accese ( il Manifesto, la discografia dei Beatles, Informazionecorretta, un comunicato Attac su Parmalat, e altre cose che non so perché sono andato a cercare?).
Ah, ma è il blog, naturalmente. Alle tre meno un quarto non so ancora di cosa scrivere.
Domani arriverò al lavoro con un'incudine in testa, e una gran voglia di tirarla a qualcuno.
Beh, fa lo stesso, tanto ho solo un'ora, ne approfitto torno a casa e metto a posto la recensione, poi chiamo Bologna per sapere se la talcosa è compatibile con la talaltra, poi faccio altre dieci cartelle e rivedo quelle di ieri che devono fare schifo, poi mi accascio sul pavimento, poi...
(Fatti miei, ma più miei del solito)
Diciamo onestamente che oggi:
- Per essermi alzato di scatto alla prima sveglia, ore 6.00, e sì che non avevo dormito parecchio;
- per aver usato correttamente l'antigelo e preso le precauzioni atte a un lungo viaggio in macchina;
- per aver tenuto a bada 25 monelli con un paio di ore diciamo passabili sul feudalesimo (più altre cinque ragazzine di un'altra classe che passavano di lì perché adesso se manca un prof si usa così);
- perché dopo 40 km. di viaggio ho telefonato a un ufficio di Bologna e ho chiesto "Potrebbe per favore dare un'occhiata alla bacheca, che è importante?" e sentendomi rispondere: "no, non posso", e senza batter ciglio ne ho dovuti aggiungere altri 80, ma tranquillamente, rispettando dove possibile il codice della strada e tenendomi aggiornato coi notiziari;
- per aver parlato in maniera breve ed efficace con due docenti spiegando la mia complicata situazione con meno untuosità del solito, e per aver non dico risolto il problema, ma dato l'impressione di affrontarlo da persona adulta, responsabile, eccetera;
- per aver incontrato una vecchia amica di amici e non aver fatto brutta figura, addirittura mi sono ricordato che si era sposata, e questo non è da me;
- per essere arrivato a casa, dopo tutto questo, era solo l'una e mezza del pomeriggio;
- per essermi messo senza troppo indugio a lavorare, e per aver fatto dieci dignitose cartelle nel giro di mezzanotte, senza mancare di rispetto alle persone che vivono con me e che forse qualcosa più del rispetto meriterebbero;
- perché naturalmente mi hai telefonato e io ho trovato argomenti per mantenere la conversazione per 15 minuti, 15 minuti di dolcissima funzione fàtica;
- perché, senza dar troppo nell'occhio, sono riuscito anche a divertirmi un po', e con poco;
ecco, per tutta questa serie di motivi mi sembra di poter concludere che ho avuto una buona giornata, e che se riuscissi ad averne altre, la mia vita sarebbe non dico normale, ma dignitosa.
E allora perché sono qui come un pirla alle 2 e 41 del mattino con 5 finestre accese ( il Manifesto, la discografia dei Beatles, Informazionecorretta, un comunicato Attac su Parmalat, e altre cose che non so perché sono andato a cercare?).
Ah, ma è il blog, naturalmente. Alle tre meno un quarto non so ancora di cosa scrivere.
Domani arriverò al lavoro con un'incudine in testa, e una gran voglia di tirarla a qualcuno.
Beh, fa lo stesso, tanto ho solo un'ora, ne approfitto torno a casa e metto a posto la recensione, poi chiamo Bologna per sapere se la talcosa è compatibile con la talaltra, poi faccio altre dieci cartelle e rivedo quelle di ieri che devono fare schifo, poi mi accascio sul pavimento, poi...
20-03-2001, 09:54Bologna, italianistica, lingue morte, universiadePermalink
Noi non ci meritiamo
Goodbye Paris I'm leaving you nothing they say 'bout you was true
And it drives me crazy
Tre anni fa (Il 20 marzo del 1998) mi sono laureato.
È da tanto tempo che non torno all'università. Non abbiamo niente da dirci. In fondo, non ci siamo mai piaciuti. È stata una delusione a prima vista.
La stanchezza pendolare. Le dormite alle lezioni. Le dormite nelle sale studio. Bologna è un comodo divano dove puoi sonnecchiare in mille posizioni.
Tutta la boheme che ci è toccata è stata il bar degli studenti, dove si ciccava per terra. Ah, ho anche occupato una volta. Sono finito in una commissione anarchica, con una fazione socialdemocratica (che poi era Glauco, ciao Glauco).
Ma poi il riflusso è stato inarrestabile. Ogni volta che passi in Piazza Verdi, tum-tum-tum, diventavo un po' più di destra. In un afoso pomeriggio il prof. Traina, seccato dal tum-tum-tum che saliva nella mansarda di latino, tagliò corto e m'inflisse un ventisette. Tornai sei mesi dopo, ma era afoso uguale. Incrociai le dita, mi buttai sulle georgiche, ma proprio in quel momento attaccò il tum, tum, tum. Avrei detonato una mina sul selciato.
A furia di trenta contumaci i docenti mi impartirono la lezione più importante: lo studente migliore è lo studente non frequentante, che si fa i cazzi suoi e si presenta solo per verbalizzare.
Ma il dialogo fruttificante, il confronto, verticale e orizzontale, gli oziosi pomeriggi a dibattere di filosofia e letteratura a un tavolino, dico, li ha mai visti qualcuno? Mi vergogno anche soltanto al pensiero di aver mai immaginato qualcosa del genere.
Con la tesi, poi, ognuno si chiude definitivamente nel suo guscio monomaniaco. Metti il naso fuori solo per andare a trovare il professore, ma di solito quello notte non hai dormito, perciò sei carne morta che cammina, le ragazze ti guardano male e non si sbottonano con te. Stiamo tutti scrivendo una monografia irripetibile. Senz'altro degna di pubblicazione, anche se si sa come vanno le cose, è tutto uno schifo, tutta una mafia, naturalmente.
Poi la lunga sequela di colloqui e di concorsi. Immagino che vinca chi riesce a conservare uno straccio di motivazione. Io comunque ho perso. Tra l'altro, non sono diventato un esperto di letteratura italiana. Ho quasi smesso di leggere. Messo alle corde, tiro fuori sempre e solo Leopardi e Manzoni, perché per me alla fine la partita s'è chiusa al liceo. Devo aver sbagliato qualcosa di grosso. Forse dovevo andare a letto più presto. O più tardi. Crederci un po' di più. O non crederci affatto. Far la corte ai professori. O lasciarli proprio perdere. Sono rimasto fregato nel mezzo. Tanto peggio. Tanto non mi meriti, università. E io non merito te.
Goodbye Paris I'm leaving you nothing they say 'bout you was true
And it drives me crazy
Tre anni fa (Il 20 marzo del 1998) mi sono laureato.
È da tanto tempo che non torno all'università. Non abbiamo niente da dirci. In fondo, non ci siamo mai piaciuti. È stata una delusione a prima vista.
La stanchezza pendolare. Le dormite alle lezioni. Le dormite nelle sale studio. Bologna è un comodo divano dove puoi sonnecchiare in mille posizioni.
Tutta la boheme che ci è toccata è stata il bar degli studenti, dove si ciccava per terra. Ah, ho anche occupato una volta. Sono finito in una commissione anarchica, con una fazione socialdemocratica (che poi era Glauco, ciao Glauco).
Ma poi il riflusso è stato inarrestabile. Ogni volta che passi in Piazza Verdi, tum-tum-tum, diventavo un po' più di destra. In un afoso pomeriggio il prof. Traina, seccato dal tum-tum-tum che saliva nella mansarda di latino, tagliò corto e m'inflisse un ventisette. Tornai sei mesi dopo, ma era afoso uguale. Incrociai le dita, mi buttai sulle georgiche, ma proprio in quel momento attaccò il tum, tum, tum. Avrei detonato una mina sul selciato.
A furia di trenta contumaci i docenti mi impartirono la lezione più importante: lo studente migliore è lo studente non frequentante, che si fa i cazzi suoi e si presenta solo per verbalizzare.
Ma il dialogo fruttificante, il confronto, verticale e orizzontale, gli oziosi pomeriggi a dibattere di filosofia e letteratura a un tavolino, dico, li ha mai visti qualcuno? Mi vergogno anche soltanto al pensiero di aver mai immaginato qualcosa del genere.
Con la tesi, poi, ognuno si chiude definitivamente nel suo guscio monomaniaco. Metti il naso fuori solo per andare a trovare il professore, ma di solito quello notte non hai dormito, perciò sei carne morta che cammina, le ragazze ti guardano male e non si sbottonano con te. Stiamo tutti scrivendo una monografia irripetibile. Senz'altro degna di pubblicazione, anche se si sa come vanno le cose, è tutto uno schifo, tutta una mafia, naturalmente.
Poi la lunga sequela di colloqui e di concorsi. Immagino che vinca chi riesce a conservare uno straccio di motivazione. Io comunque ho perso. Tra l'altro, non sono diventato un esperto di letteratura italiana. Ho quasi smesso di leggere. Messo alle corde, tiro fuori sempre e solo Leopardi e Manzoni, perché per me alla fine la partita s'è chiusa al liceo. Devo aver sbagliato qualcosa di grosso. Forse dovevo andare a letto più presto. O più tardi. Crederci un po' di più. O non crederci affatto. Far la corte ai professori. O lasciarli proprio perdere. Sono rimasto fregato nel mezzo. Tanto peggio. Tanto non mi meriti, università. E io non merito te.
02-02-2001, 12:38burocrazy, calvario precario, il cattivo supplente, scuola, universiadePermalink
Due libri e tre gravidanze
La storia dei miei concorsi è una storia di infinite umiliazioni.
L'università ti vizia, ti ammansisce con basse dosi di burocrazia, e soprattutto, quando non è a numero chiuso, t'illude che la quantità non sia un problema, mai: anzi, più si è, più gli esaminatori vorranno sbrigarsela con noi.
Malgrado avessi avuto a disposizione tutti gli elementi necessari a capirlo per tempo, devo ammettere che il risveglio è stato brusco. Sul mercato del lavoro i laureati in lettere valgono molto poco, perché sono troppi. Se si fa un concorso (posto che ci sia un motivo per farlo, a parte la campagna elettorale), essi parteciperanno a migliaia. Così il concorso durerà più di un anno (12 mesi esatti tra lo scritto e l'orale).
"Abbia pazienza", dicevo ieri per telefono a una signorina della sovrintendenza, "ma quel che ho scritto sulla domanda del '99 proprio non me lo ricordo. Voglio dire, per me un anno, un anno e mezzo è praticamente una vita. Ho scritto anche (petulante) un paio di articoli, e..."
"Sì, lo so, che avete tutti scritto due libri, e tre gravidanze, ma il problema è che siete in troppi, per cui se vuole provare a darmi il suo nome e cognome, io andrò a cercare..."
(Contrito)"La ringrazio, la ringrazio tanto..."
Non so esattamente di quanto, ma direi che una gravidanza valga molto di più di una pubblicazione, in termini di punteggio.
La storia dei miei concorsi è una storia di infinite umiliazioni.
L'università ti vizia, ti ammansisce con basse dosi di burocrazia, e soprattutto, quando non è a numero chiuso, t'illude che la quantità non sia un problema, mai: anzi, più si è, più gli esaminatori vorranno sbrigarsela con noi.
Malgrado avessi avuto a disposizione tutti gli elementi necessari a capirlo per tempo, devo ammettere che il risveglio è stato brusco. Sul mercato del lavoro i laureati in lettere valgono molto poco, perché sono troppi. Se si fa un concorso (posto che ci sia un motivo per farlo, a parte la campagna elettorale), essi parteciperanno a migliaia. Così il concorso durerà più di un anno (12 mesi esatti tra lo scritto e l'orale).
"Abbia pazienza", dicevo ieri per telefono a una signorina della sovrintendenza, "ma quel che ho scritto sulla domanda del '99 proprio non me lo ricordo. Voglio dire, per me un anno, un anno e mezzo è praticamente una vita. Ho scritto anche (petulante) un paio di articoli, e..."
"Sì, lo so, che avete tutti scritto due libri, e tre gravidanze, ma il problema è che siete in troppi, per cui se vuole provare a darmi il suo nome e cognome, io andrò a cercare..."
(Contrito)"La ringrazio, la ringrazio tanto..."
Non so esattamente di quanto, ma direi che una gravidanza valga molto di più di una pubblicazione, in termini di punteggio.
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