Troppo tardi per amare Arturo
29-08-2012, 01:10copywrong, la musica è finita, musicaPermalinkLa prima metà degli anni Zero fu quella in cui una cospicua parte di noi scoprì improvvisamente una pulsione fino a quel momento poco conosciuta e persino poco intuibile: l'enciclopedismo. Volevamo sapere tutto (e fu wikipedia), condividere tutto, vedere tutto, ascoltare tutto. Eppure avevamo sempre meno tempo. Proprio per questo, forse, avevamo fretta di accumulare esperienze e file. Gli steccati della proprietà intellettuale si potevano rialzare da un momento all'altro. Ma nel frattempo, per esempio, io potevo diventare un esperto dei Kinks.
Mi erano sempre piaciuti i Kinks. Tutti i pezzi che conoscevo dei Kinks erano forti. Nella fonoteca di Poitiers mi ero acquattato il loro disco migliore ed era bellissimo. Reggeva il confronto con Sgt Pepper, con il grosso vantaggio che non li ascoltava più nessuno (questo era prima che Picture Book diventasse un jingle pubblicitario, che Wes Anderson facesse quei film, eccetera). Per anni era stato impossibile, oppure semplicemente molto costoso. Nel giro di pochi mesi bastava pensare "voglio", digitare una stringa, aspettare che in un paio d'ore una colonnina diventasse verde, e la discografia dei Kinks diventava di tua proprietà. Ma.
Ma come diceva quel professore: non fotocopiate i libri che dovete studiare davvero. Lasciate perdere i diritti d'autore e tutto l'annoso dibattito. La questione è molto più semplice. Fotocopiandoli voi avete l'impressione di studiarli. Ma non li avete studiati. Li avete soltanto sfogliati a rovescio, schiacciandone un po' la costa. A un certo punto successe la stessa cosa con i download. La fine improvvisa di Napster ci aveva lasciato un impulso all'accaparramento. Benché ostentassimo sicumera, da qualche parte sapevamo che quello che facevamo era realmente eversivo, che realmente avrebbe messo in discussione tutto un mercato musicale, il che magari era buono, ma non poteva continuare così per sempre. Prima o poi le acque del Mar Rosso si sarebbero richiuse, bisognava sgaggiarsi e scaricare tutto quello che ci veniva in mente. Io certe volte davvero non riuscivo più a immaginare niente, niente che desideravo ascoltare. Soddisfai tutte le mie voglie proibite e imbarazzanti, mi misi a setacciare allmusic alla ricerca di qualche residua lacuna, immagazzinai tutto quello che valeva la pena e molto di più, perché la pacchia p2p non poteva durare per sempre. I discorsi teorici, gli ideologemi sulla libertà e la condivisione li lasciavo agli altri: io saccheggiavo giorno e notte, e a un certo punto non ebbi più desideri.
E nel frattempo non avevo nemmeno ascoltato tutti quei dischi dei Kinks. Ero troppo impegnato a scaricare.
O meglio: li avevo ascoltati. Ma in sottofondo, facendo altro, pensando altro, perché chi aveva il tempo per ascoltare seriamente un disco, ormai, per girarlo lato a e lato b fino alla noia, fino a oltrepassare la noia, fino a quel momento in cui ti accorgi che lo sai a memoria, che il tuo bambino interiore lo sta cantando al mattino mentre ancora dormi? Era troppo tardi per innamorarsi di Arthur. Mi sarebbe piaciuto. Tornando indietro, tra Sgt Pepper e Arthur non avrei probabilmente avuto dubbi. Ma la cassettina di Sgt Pepper me l'ero procurata a 14 anni: m'era costata 14.000 lire, mille a canzone, e per 14 giorni non avevo più ascoltato nient'altro. 14 giorni per Arthur, nel 2005, non li avevo più. Non era più un problema di soldi, ma lo era mai stato davvero? Era un problema di tempo.
E poi in fondo Arthur non mi piaceva così tanto. Era bellissimo, ma dopo averlo atteso dieci anni, non potevo che restare deluso. Dei Kinks avevo già i greatest hits: senz'altro fino a quel momento mi ero perso qualche perla, ma non così tante. Riempire le lacune significava molto più spesso ascoltare dischi minori, canzoni minori, pezzi riempitivi, perdite di tempo. E il tempo era sempre più prezioso.
Mi erano sempre piaciuti i Kinks. Tutti i pezzi che conoscevo dei Kinks erano forti. Nella fonoteca di Poitiers mi ero acquattato il loro disco migliore ed era bellissimo. Reggeva il confronto con Sgt Pepper, con il grosso vantaggio che non li ascoltava più nessuno (questo era prima che Picture Book diventasse un jingle pubblicitario, che Wes Anderson facesse quei film, eccetera). Per anni era stato impossibile, oppure semplicemente molto costoso. Nel giro di pochi mesi bastava pensare "voglio", digitare una stringa, aspettare che in un paio d'ore una colonnina diventasse verde, e la discografia dei Kinks diventava di tua proprietà. Ma.
Ma come diceva quel professore: non fotocopiate i libri che dovete studiare davvero. Lasciate perdere i diritti d'autore e tutto l'annoso dibattito. La questione è molto più semplice. Fotocopiandoli voi avete l'impressione di studiarli. Ma non li avete studiati. Li avete soltanto sfogliati a rovescio, schiacciandone un po' la costa. A un certo punto successe la stessa cosa con i download. La fine improvvisa di Napster ci aveva lasciato un impulso all'accaparramento. Benché ostentassimo sicumera, da qualche parte sapevamo che quello che facevamo era realmente eversivo, che realmente avrebbe messo in discussione tutto un mercato musicale, il che magari era buono, ma non poteva continuare così per sempre. Prima o poi le acque del Mar Rosso si sarebbero richiuse, bisognava sgaggiarsi e scaricare tutto quello che ci veniva in mente. Io certe volte davvero non riuscivo più a immaginare niente, niente che desideravo ascoltare. Soddisfai tutte le mie voglie proibite e imbarazzanti, mi misi a setacciare allmusic alla ricerca di qualche residua lacuna, immagazzinai tutto quello che valeva la pena e molto di più, perché la pacchia p2p non poteva durare per sempre. I discorsi teorici, gli ideologemi sulla libertà e la condivisione li lasciavo agli altri: io saccheggiavo giorno e notte, e a un certo punto non ebbi più desideri.
E nel frattempo non avevo nemmeno ascoltato tutti quei dischi dei Kinks. Ero troppo impegnato a scaricare.
O meglio: li avevo ascoltati. Ma in sottofondo, facendo altro, pensando altro, perché chi aveva il tempo per ascoltare seriamente un disco, ormai, per girarlo lato a e lato b fino alla noia, fino a oltrepassare la noia, fino a quel momento in cui ti accorgi che lo sai a memoria, che il tuo bambino interiore lo sta cantando al mattino mentre ancora dormi? Era troppo tardi per innamorarsi di Arthur. Mi sarebbe piaciuto. Tornando indietro, tra Sgt Pepper e Arthur non avrei probabilmente avuto dubbi. Ma la cassettina di Sgt Pepper me l'ero procurata a 14 anni: m'era costata 14.000 lire, mille a canzone, e per 14 giorni non avevo più ascoltato nient'altro. 14 giorni per Arthur, nel 2005, non li avevo più. Non era più un problema di soldi, ma lo era mai stato davvero? Era un problema di tempo.
E poi in fondo Arthur non mi piaceva così tanto. Era bellissimo, ma dopo averlo atteso dieci anni, non potevo che restare deluso. Dei Kinks avevo già i greatest hits: senz'altro fino a quel momento mi ero perso qualche perla, ma non così tante. Riempire le lacune significava molto più spesso ascoltare dischi minori, canzoni minori, pezzi riempitivi, perdite di tempo. E il tempo era sempre più prezioso.
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Le pere del male
28-08-2012, 03:31cristianesimo, filosofia, religioni, santi, StoriaPermalinkSant'Agostino di Ippona (354-430), ladro di pere e dottore della Chiesa.
Eravamo in seconda elementare, quando in mezzo a noi comparve questa bambina nuova, inspiegabile. Perché prima non c'era e adesso sì? Era stata bocciata? Non risultava bocciata. Però a scuola andava male. Da dove veniva, era straniera? Non era straniera, anche se aveva un nome diverso dagli altri. La sua famiglia non la conosceva nessuno, e lei raccontava storie incoerenti, di parenti ricchissimi o poverissimi, a seconda della piega che prendeva la trama di Candy Candy in quella settimana. Io non la sopportavo, per nessun motivo al mondo. Non mi aveva fatto nulla di male, ma per esempio respirava. Durante le lezioni la sentivo respirare con un certo affanno e m'innervosiva, mi distraeva, le dicevo Smettila. Notavo sulle sue guance dei capillari blu, non mi sembravano normali. Un giorno stavamo tutti al nostro posto, aspettando la maestra che aveva avuto un contrattempo. Eravamo una classe tranquilla: per ingannare l'attesa giocavamo a passaparola. Un messaggio passava da orecchio a bocca a orecchio, facendo il giro dell'aula, finché non arrivava a me, che ero il penultimo. Dopo di me c'era la bambina nuova, a cui io avrei dovuto passare il messaggio che mi arrivava. Ma non lo facevo. Ricevevo il messaggio e lo riconsegnavo a un'altra compagna, dall'altra parte dell'aula, e così il giro ricominciava, ignorando la bambina nuova. Nessuno mi aveva detto di fare così, era una mia iniziativa. Nessuno mi aveva corrotto o minacciato, e la bambina non mi aveva mai fatto nulla, salvo respirare. Il male che stavo facendo non aveva nessuna origine al di fuori di me: nasceva in me, e avrebbe causato probabilmente rabbia, dolore, e altro male. Ma a monte di tutto il dolore e la frustrazione c'ero io, un bambino di otto anni a cui nessuno aveva fatto niente.
Scrivere di Sant'Agostino non è come raccontare di un qualsiasi santo tardoantico di cui ci rimane il nome di battesimo e tre dettagli pittoreschi. Non è una leggenda, Agostino: è una delle persone del mondo antico che conosciamo meglio. Forse troppo per affezionarci. Ci si affeziona ai personaggi letterari, che hanno vite avventurose ma comunque ordinate secondo una traiettoria. Che Agostino sia un uomo vero, e non il personaggio di un romanzo, lo si capisce dal racconto della sua conversione, lungo, estenuante, proprio come sono lunghe e tortuose e un po' insensate le traiettorie delle nostre vere vite, tanto più complesse dei romanzi quanto meno belle da raccontare. Agostino non cade di cavallo, non vede roveti ardenti o segni in cielo, Agostino arriva al cristianesimo (o meglio vi ritorna, visto che aveva lo aveva succhiato col latte materno) al termine di un lungo assedio intellettuale; quando si direbbe che ceda per stanchezza.
E dire che il momento è storico: Agostino è stato uno dei più grandi acquisti della Chiesa. Se fosse rimasto alla concorrenza, se il guru manicheo Fausto di Mileve si fosse impegnato un po' di più con lui, oggi forse invece che cristiani non potremmo non dirci manichei, o più probabilmente il nostro cristianesimo avrebbe una forte componente manichea. Ma i manichei avevano il difetto tipico di molte dottrine new age, l'ansia di voler riempire i buchi della conoscenza, di spiegare tutto con teorie, magari per pochi iniziati, ma onnicomprensive. Agostino era un intellettuale, competente di Platone e di Aristotele; non poteva mandare giù l'astronomia for dummies degli opuscoli manichei, un cumulo di favolette che non reggevano il confronto con lo sferragliante ma efficace sistema tolomaico. Cominciò a farsi domande, a porle ai correligionari, e l'unica cosa che gli sapevano rispondere è: aspetta Fausto, lui sa tutto. Ti risponderà su tutto. Fausto però era sempre in tournée, Agostino lo attese nove anni, al termine dei quali si rese conto che aveva aspettato un conferenziere amabile ma abbastanza ignorante, che di astronomia nulla sapeva e lo ammetteva con candore. La fede di Agostino si dissolse in quell'esatto momento, di fronte all'inadeguatezza dell'ennesimo maestro. Se mi permettete la psicologia da strapazzo, anche stavolta Agostino non era riuscito a trovarsi un padre all'altezza. Dev'essere dura rendersi conto di essere il tizio più colto e intelligente in circolazione, proprio mentre ti rendi conto che alla fine non sai quasi nulla, e non c'è nessuno in giro in grado di rispondere alle tue domande. L'Impero Romano stava per rovinare, c'era da ripensare tutta la filosofia della Storia, trovare un nuovo modello, un nuovo senso a tutto quello che sarebbe successo di lì in poi, e Agostino non aveva nessuno che gli mostrasse una strada. Solo la madre (Santa Monica) in un angolo a sgranare paternostri (continua sul Post...)
Eravamo in seconda elementare, quando in mezzo a noi comparve questa bambina nuova, inspiegabile. Perché prima non c'era e adesso sì? Era stata bocciata? Non risultava bocciata. Però a scuola andava male. Da dove veniva, era straniera? Non era straniera, anche se aveva un nome diverso dagli altri. La sua famiglia non la conosceva nessuno, e lei raccontava storie incoerenti, di parenti ricchissimi o poverissimi, a seconda della piega che prendeva la trama di Candy Candy in quella settimana. Io non la sopportavo, per nessun motivo al mondo. Non mi aveva fatto nulla di male, ma per esempio respirava. Durante le lezioni la sentivo respirare con un certo affanno e m'innervosiva, mi distraeva, le dicevo Smettila. Notavo sulle sue guance dei capillari blu, non mi sembravano normali. Un giorno stavamo tutti al nostro posto, aspettando la maestra che aveva avuto un contrattempo. Eravamo una classe tranquilla: per ingannare l'attesa giocavamo a passaparola. Un messaggio passava da orecchio a bocca a orecchio, facendo il giro dell'aula, finché non arrivava a me, che ero il penultimo. Dopo di me c'era la bambina nuova, a cui io avrei dovuto passare il messaggio che mi arrivava. Ma non lo facevo. Ricevevo il messaggio e lo riconsegnavo a un'altra compagna, dall'altra parte dell'aula, e così il giro ricominciava, ignorando la bambina nuova. Nessuno mi aveva detto di fare così, era una mia iniziativa. Nessuno mi aveva corrotto o minacciato, e la bambina non mi aveva mai fatto nulla, salvo respirare. Il male che stavo facendo non aveva nessuna origine al di fuori di me: nasceva in me, e avrebbe causato probabilmente rabbia, dolore, e altro male. Ma a monte di tutto il dolore e la frustrazione c'ero io, un bambino di otto anni a cui nessuno aveva fatto niente.
Scrivere di Sant'Agostino non è come raccontare di un qualsiasi santo tardoantico di cui ci rimane il nome di battesimo e tre dettagli pittoreschi. Non è una leggenda, Agostino: è una delle persone del mondo antico che conosciamo meglio. Forse troppo per affezionarci. Ci si affeziona ai personaggi letterari, che hanno vite avventurose ma comunque ordinate secondo una traiettoria. Che Agostino sia un uomo vero, e non il personaggio di un romanzo, lo si capisce dal racconto della sua conversione, lungo, estenuante, proprio come sono lunghe e tortuose e un po' insensate le traiettorie delle nostre vere vite, tanto più complesse dei romanzi quanto meno belle da raccontare. Agostino non cade di cavallo, non vede roveti ardenti o segni in cielo, Agostino arriva al cristianesimo (o meglio vi ritorna, visto che aveva lo aveva succhiato col latte materno) al termine di un lungo assedio intellettuale; quando si direbbe che ceda per stanchezza.
E dire che il momento è storico: Agostino è stato uno dei più grandi acquisti della Chiesa. Se fosse rimasto alla concorrenza, se il guru manicheo Fausto di Mileve si fosse impegnato un po' di più con lui, oggi forse invece che cristiani non potremmo non dirci manichei, o più probabilmente il nostro cristianesimo avrebbe una forte componente manichea. Ma i manichei avevano il difetto tipico di molte dottrine new age, l'ansia di voler riempire i buchi della conoscenza, di spiegare tutto con teorie, magari per pochi iniziati, ma onnicomprensive. Agostino era un intellettuale, competente di Platone e di Aristotele; non poteva mandare giù l'astronomia for dummies degli opuscoli manichei, un cumulo di favolette che non reggevano il confronto con lo sferragliante ma efficace sistema tolomaico. Cominciò a farsi domande, a porle ai correligionari, e l'unica cosa che gli sapevano rispondere è: aspetta Fausto, lui sa tutto. Ti risponderà su tutto. Fausto però era sempre in tournée, Agostino lo attese nove anni, al termine dei quali si rese conto che aveva aspettato un conferenziere amabile ma abbastanza ignorante, che di astronomia nulla sapeva e lo ammetteva con candore. La fede di Agostino si dissolse in quell'esatto momento, di fronte all'inadeguatezza dell'ennesimo maestro. Se mi permettete la psicologia da strapazzo, anche stavolta Agostino non era riuscito a trovarsi un padre all'altezza. Dev'essere dura rendersi conto di essere il tizio più colto e intelligente in circolazione, proprio mentre ti rendi conto che alla fine non sai quasi nulla, e non c'è nessuno in giro in grado di rispondere alle tue domande. L'Impero Romano stava per rovinare, c'era da ripensare tutta la filosofia della Storia, trovare un nuovo modello, un nuovo senso a tutto quello che sarebbe successo di lì in poi, e Agostino non aveva nessuno che gli mostrasse una strada. Solo la madre (Santa Monica) in un angolo a sgranare paternostri (continua sul Post...)
Il giuoco delle perle di musica
27-08-2012, 02:31la musica è finita, musicaPermalinkQuindi il formato non è un semplice accessorio della musica, ma è la musica stessa? Credo che tra alcuni anni, non molti, quello che scrivo suonerà ancora più assurdo. A quel tempo nessuno parlerà più di formato. Già oggi i formati sono dettagli immateriali che i file manager hanno pudore a mostrarci: le specifiche .mp3, .wav, si leggono sempre di meno. In sostanza spingiamo un bottone e otteniamo musica. Domani forse non dovremo neanche spingere un bottone - ma perché, poi, spingere un bottone è comodo, è da due secoli che spingiamo bottoni e non si vede perché con dieci dita a disposizione non dovremmo continuare.
Invece ieri infilavamo cd nei lettori; l'altro ieri cassette nelle piastre; un po' prima, vinile sui piatti. I formati erano fisici, erano oggetti e gesti. Fino a che punto influivano sul nostro ascolto? Tantissimo. L'idea di musica come flusso continuo, ininterrotto, nasce ascoltando compulsivamente 33 giri, ma si perfeziona quando a inizio anni Settanta si diffondono i nastri. Nello stesso periodo gli album smettono di essere collane di canzoncine e diventano flussi continui in cui ogni dettaglio è organico al tutto, compresi i secondi di silenzio tra un brano e l'altro. E su cassetta era oggettivamente difficile sovvertire le scalette imposte dagli artisti: saltare i brani, mandare avanti e indietro il nastro, erano azioni faticose, sconsigliate. Sarà una coincidenza l'affermarsi del progressive, e in generale l'alta coscienza di sé che avevano gli artisti in quel periodo?
Quando arriva il CD, quella fase è già abbondantemente finita, ma la concezione della musica come flusso resiste. Il CD però è un oggetto radicalmente diverso: non è più un ciclo continuo, ha un inizio e una fine. Ed è fatto di "tracce", numerate automaticamente. L'entusiasmo iniziale era tutto qui: finalmente per sentire la canzone preferita bastava premere un tasto. Si potevano fare cose anche più oltraggiose, come impostare scalette alternative o addirittura randomizzare la programmazione, ma erano giochini di cui ci si stancava alla svelta. Con tutta la loro smagliante comodità, i CD non ammazzarono il flusso. Il flusso resisteva nelle lunghe veglie radiofoniche, nelle cassette che facevamo per noi e per le nostre amiche. Il flusso resistette finché non resistette l'ultima autoradio a cassette. L'espressione di panico che s'impadronì della mia fisionomia mentre mi regalavano un autoradio mp3 reader si spiega forse così. Era un bel regalo, e lo desideravo - ma non così presto. Era comodo, archiviava più musica di quanta ne potessi desiderare, ma era la fine del flusso.
Gli mp3 sono piccole compresse di musica, perline che si possono comporre in infinite collanine diverse, ma non si fondono tra loro. Ognuno resta compresso in sé. Anche tra un movimento e l'altro di una sinfonia, certi insospettabili lettori mp3 non possono esimersi dall'emettere un mezzo secondo di silenzio: il passaggio da un file all'altro, da una perlina all'altra. Sui siti specializzati intanto si parlava di crisi dell'album, di ritorno alla forma canzone. Io era da anni che strappavo canzoni agli album per ricombinarle assieme: la novità è che in formato mp3 le canzoni non si ricombinavano più, ognuna rimaneva perfettamente a sé stante. Fu come se la musica da fluida si fosse raggrumata. Non mi piaceva, anche se aveva i suoi vantaggi. Per esempio, queste perline te le regalavano. E si sa come va in questi casi, no? Una perlina tira l'altra. Magari ce n'è una che non ti piace, ma alla fine la prendi per completare la serie, tanto è gratis. E più ne hai, più ti accorgi che te ne mancano. Finché a un certo punto ti rendi conto che le vorresti tutte. E puoi averle tutte. Diventammo tutti enciclopedisti. L'educazione musicale che ci eravamo procurati fin lì ci aveva dato a disposizione certe determinate - saper distinguere un genere da un altro, un periodo da un altro - ma anche fornito la consapevolezza di lacune sterminate nei nostri ascolti. Se la Musica fosse un immenso schermo bianco in cui ogni pixel è una canzone, e le canzoni da noi conosciute fossero i pixel rossi, fino a dieci anni fa la nostra competenza musicale avrebbe avuto la forma di un sottilissimo arabesco, a tratti neanche percepibile, in mezzo a tutto il bianco dello schermo vergine. Ora potevamo riempire le lacune con larghe colate rosse tra un arabesco e l'altro. Il tutto gratis: per un napster che chiudeva c'erano dieci p2p che aprivano, e gli archivi cominciavano a essere grossi, e allmusicguide e google sempre più esaurienti. Potevamo ascoltare tutto. Diventare esperti di tutto.
Potevamo?
Invece ieri infilavamo cd nei lettori; l'altro ieri cassette nelle piastre; un po' prima, vinile sui piatti. I formati erano fisici, erano oggetti e gesti. Fino a che punto influivano sul nostro ascolto? Tantissimo. L'idea di musica come flusso continuo, ininterrotto, nasce ascoltando compulsivamente 33 giri, ma si perfeziona quando a inizio anni Settanta si diffondono i nastri. Nello stesso periodo gli album smettono di essere collane di canzoncine e diventano flussi continui in cui ogni dettaglio è organico al tutto, compresi i secondi di silenzio tra un brano e l'altro. E su cassetta era oggettivamente difficile sovvertire le scalette imposte dagli artisti: saltare i brani, mandare avanti e indietro il nastro, erano azioni faticose, sconsigliate. Sarà una coincidenza l'affermarsi del progressive, e in generale l'alta coscienza di sé che avevano gli artisti in quel periodo?
Quando arriva il CD, quella fase è già abbondantemente finita, ma la concezione della musica come flusso resiste. Il CD però è un oggetto radicalmente diverso: non è più un ciclo continuo, ha un inizio e una fine. Ed è fatto di "tracce", numerate automaticamente. L'entusiasmo iniziale era tutto qui: finalmente per sentire la canzone preferita bastava premere un tasto. Si potevano fare cose anche più oltraggiose, come impostare scalette alternative o addirittura randomizzare la programmazione, ma erano giochini di cui ci si stancava alla svelta. Con tutta la loro smagliante comodità, i CD non ammazzarono il flusso. Il flusso resisteva nelle lunghe veglie radiofoniche, nelle cassette che facevamo per noi e per le nostre amiche. Il flusso resistette finché non resistette l'ultima autoradio a cassette. L'espressione di panico che s'impadronì della mia fisionomia mentre mi regalavano un autoradio mp3 reader si spiega forse così. Era un bel regalo, e lo desideravo - ma non così presto. Era comodo, archiviava più musica di quanta ne potessi desiderare, ma era la fine del flusso.
Gli mp3 sono piccole compresse di musica, perline che si possono comporre in infinite collanine diverse, ma non si fondono tra loro. Ognuno resta compresso in sé. Anche tra un movimento e l'altro di una sinfonia, certi insospettabili lettori mp3 non possono esimersi dall'emettere un mezzo secondo di silenzio: il passaggio da un file all'altro, da una perlina all'altra. Sui siti specializzati intanto si parlava di crisi dell'album, di ritorno alla forma canzone. Io era da anni che strappavo canzoni agli album per ricombinarle assieme: la novità è che in formato mp3 le canzoni non si ricombinavano più, ognuna rimaneva perfettamente a sé stante. Fu come se la musica da fluida si fosse raggrumata. Non mi piaceva, anche se aveva i suoi vantaggi. Per esempio, queste perline te le regalavano. E si sa come va in questi casi, no? Una perlina tira l'altra. Magari ce n'è una che non ti piace, ma alla fine la prendi per completare la serie, tanto è gratis. E più ne hai, più ti accorgi che te ne mancano. Finché a un certo punto ti rendi conto che le vorresti tutte. E puoi averle tutte. Diventammo tutti enciclopedisti. L'educazione musicale che ci eravamo procurati fin lì ci aveva dato a disposizione certe determinate - saper distinguere un genere da un altro, un periodo da un altro - ma anche fornito la consapevolezza di lacune sterminate nei nostri ascolti. Se la Musica fosse un immenso schermo bianco in cui ogni pixel è una canzone, e le canzoni da noi conosciute fossero i pixel rossi, fino a dieci anni fa la nostra competenza musicale avrebbe avuto la forma di un sottilissimo arabesco, a tratti neanche percepibile, in mezzo a tutto il bianco dello schermo vergine. Ora potevamo riempire le lacune con larghe colate rosse tra un arabesco e l'altro. Il tutto gratis: per un napster che chiudeva c'erano dieci p2p che aprivano, e gli archivi cominciavano a essere grossi, e allmusicguide e google sempre più esaurienti. Potevamo ascoltare tutto. Diventare esperti di tutto.
Potevamo?
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tan-tan-tan-tan
26-08-2012, 00:07internet, la musica è finita, musicaPermalink(Ricordo che oggi, domenica 26, alla festa democratica di Modena, presentiamo la Scossa, il libro di cui forse avete sentito parlare).
...Nel frattempo, siccome non si vive di sole madeleine, si tentava anche di restare aggiornati. Parliamo dei primi anni zero, la svolta prog dei Radiohead, quella fase lì. Proprio in quel momento - ma c'è voluto del tempo e della distanza per accorgersene, e forse anch'io sto semplificando troppo - accadde una cosa interessante alla confezione commerciale della canzone standard, che più o meno era rimasta stabile per tutti gli anni Novanta: un involucro di solito abbastanza ricercato, una specie di tappeto sonoro con tutti gli effetti necessari, tutti i bip e i bump al posto giusto. Ecco, secondo me a un certo punto questa tendenza a iperprodurre si invertì, e si invertì in quel momento, mentre Napster andava forte e tutti cominciavano a scaricare come disperati perché il processo stava per finire e chi lo sapeva, poteva anche essere la fine del free downloading. Proprio in quel momento arrivarono gli Strokes, per esempio, che erano sensibilmente una cosa nuova, proprio perché suonavano come una cosa vecchia. Mettevano assieme pezzi di passato in modo non più nostalgico (si capiva che era un passato non loro), ma archeologico direi; ma non è neanche questo il punto. Ricordo che il batterista veniva accusato di suonare come una drum machine, ecco, fuochino.
Potrei dire che erano grezzi, ma non sarebbe una gran novità, stiamo parlando di rock. Quel che posso dire - e qui escono fuori i miei limiti di non-critico musicale - è che gli Strokes in cuffia davano una sensazione di 16bit, di suonare 16 dei 256bit disponibili. Prendi uno stilema qualunque: la voce effettata. È come saturare i colori per far sembrare le tue foto più artistiche, è il rinunciare a una complessità per privilegiare l'insieme, l'effetto in superficie. Per farla breve, gli Strokes suonavano già compressi: la band ideale per gli mp3. Non mi spingo al punto da spiegare così il loro successo, in realtà in quel momento avevano anche le canzoni più belle nei paraggi, però è curioso. In seguito ci hanno spiegato che l'mp3 non suona affatto bene, che toglie alle tracce un sacco di spessore, di complessità. Simili discorsi non è che impressionavano molto gente come noi, che ascoltava musica nel traffico: noi alla qualità avevamo sempre preferito altre cose, e non potevamo non preferire anche l'mp3. Ma in realtà probabilmente lo avevamo capito al primo ascolto, che l'mp3 era un supporto scadente, e istintivamente ci eravamo messi a cercare musica che si potesse ascoltare senza grosse perdite anche su un supporto così. Meno effetti, pochi strumenti: e i White Stripes fecero il botto. I White Stripes: sostanzialmente, un tizio che canta e strimpella. Lo avremmo immaginato appena due anni prima? La butto lì: senza la diffusione degli mp3 non sarebbe stato neanche lontanamente concepibile. Ma in generale, non fu semplicemente l'arrivo dell'ennesima ondata di nuovi artisti grezzi che dovevano sovvertire l'ondata precedente. Fu una tendenza alla semplificazione che interessò più generi. La compressione dinamica, in generale una certa semplificazione degli arrangiamenti, il ritorno delle chitarre, che è un fenomeno ricorrente e già ricorso tante volte, ma stavolta per esempio erano chitarre senza assoli. Molti blip e bump e zzap scomparvero, ed era anche ora.
Invece, se devo trovare uno stilema degli anni zero, credo sia il tan-tan-tan-tan martellante di tante canzoni degli Strokes, i quattro accordi uguali svelti in battere che troppo spesso il chitarrista ritiene inevitabili, subito ripresi da centinaia di altre band, indie o meno. Per quattro o cinque anni mi è sembrato che tutti suonassero tan-tan-tan-tan, sembrava di essere tornati a lezione di chitarra. Forse anche il punk era stato così, i primi mesi, ma si era immediatamente evoluto in qualcos'altro, perché appena inizi a suonare una chitarra vuoi subito strafare, e ti vergogni subito dei tuoi tan-tan-tan. Invece gli Strokes o gli Interpol o i Franz Ferdinand facevano tan-tan-tan consapevolmente, magari avevano avuto un'educazione classica ma ora avevano deciso di usare la chitarra come un giocattolo, tanto qualunque altro suono più complesso in un mp3 non si sarebbe apprezzato più di un bel tan-tan-tan-tan.
...Nel frattempo, siccome non si vive di sole madeleine, si tentava anche di restare aggiornati. Parliamo dei primi anni zero, la svolta prog dei Radiohead, quella fase lì. Proprio in quel momento - ma c'è voluto del tempo e della distanza per accorgersene, e forse anch'io sto semplificando troppo - accadde una cosa interessante alla confezione commerciale della canzone standard, che più o meno era rimasta stabile per tutti gli anni Novanta: un involucro di solito abbastanza ricercato, una specie di tappeto sonoro con tutti gli effetti necessari, tutti i bip e i bump al posto giusto. Ecco, secondo me a un certo punto questa tendenza a iperprodurre si invertì, e si invertì in quel momento, mentre Napster andava forte e tutti cominciavano a scaricare come disperati perché il processo stava per finire e chi lo sapeva, poteva anche essere la fine del free downloading. Proprio in quel momento arrivarono gli Strokes, per esempio, che erano sensibilmente una cosa nuova, proprio perché suonavano come una cosa vecchia. Mettevano assieme pezzi di passato in modo non più nostalgico (si capiva che era un passato non loro), ma archeologico direi; ma non è neanche questo il punto. Ricordo che il batterista veniva accusato di suonare come una drum machine, ecco, fuochino.
Potrei dire che erano grezzi, ma non sarebbe una gran novità, stiamo parlando di rock. Quel che posso dire - e qui escono fuori i miei limiti di non-critico musicale - è che gli Strokes in cuffia davano una sensazione di 16bit, di suonare 16 dei 256bit disponibili. Prendi uno stilema qualunque: la voce effettata. È come saturare i colori per far sembrare le tue foto più artistiche, è il rinunciare a una complessità per privilegiare l'insieme, l'effetto in superficie. Per farla breve, gli Strokes suonavano già compressi: la band ideale per gli mp3. Non mi spingo al punto da spiegare così il loro successo, in realtà in quel momento avevano anche le canzoni più belle nei paraggi, però è curioso. In seguito ci hanno spiegato che l'mp3 non suona affatto bene, che toglie alle tracce un sacco di spessore, di complessità. Simili discorsi non è che impressionavano molto gente come noi, che ascoltava musica nel traffico: noi alla qualità avevamo sempre preferito altre cose, e non potevamo non preferire anche l'mp3. Ma in realtà probabilmente lo avevamo capito al primo ascolto, che l'mp3 era un supporto scadente, e istintivamente ci eravamo messi a cercare musica che si potesse ascoltare senza grosse perdite anche su un supporto così. Meno effetti, pochi strumenti: e i White Stripes fecero il botto. I White Stripes: sostanzialmente, un tizio che canta e strimpella. Lo avremmo immaginato appena due anni prima? La butto lì: senza la diffusione degli mp3 non sarebbe stato neanche lontanamente concepibile. Ma in generale, non fu semplicemente l'arrivo dell'ennesima ondata di nuovi artisti grezzi che dovevano sovvertire l'ondata precedente. Fu una tendenza alla semplificazione che interessò più generi. La compressione dinamica, in generale una certa semplificazione degli arrangiamenti, il ritorno delle chitarre, che è un fenomeno ricorrente e già ricorso tante volte, ma stavolta per esempio erano chitarre senza assoli. Molti blip e bump e zzap scomparvero, ed era anche ora.
Invece, se devo trovare uno stilema degli anni zero, credo sia il tan-tan-tan-tan martellante di tante canzoni degli Strokes, i quattro accordi uguali svelti in battere che troppo spesso il chitarrista ritiene inevitabili, subito ripresi da centinaia di altre band, indie o meno. Per quattro o cinque anni mi è sembrato che tutti suonassero tan-tan-tan-tan, sembrava di essere tornati a lezione di chitarra. Forse anche il punk era stato così, i primi mesi, ma si era immediatamente evoluto in qualcos'altro, perché appena inizi a suonare una chitarra vuoi subito strafare, e ti vergogni subito dei tuoi tan-tan-tan. Invece gli Strokes o gli Interpol o i Franz Ferdinand facevano tan-tan-tan consapevolmente, magari avevano avuto un'educazione classica ma ora avevano deciso di usare la chitarra come un giocattolo, tanto qualunque altro suono più complesso in un mp3 non si sarebbe apprezzato più di un bel tan-tan-tan-tan.
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With dreamland coming on
25-08-2012, 00:44copywrong, internet, la musica è finitaPermalinkIo credo che ai posteri la racconteranno così: prima c'era l'industria musicale, che produceva molta monnezza e qualche cosa buona, e la vendeva a consumatori disciplinati sotto forma di dischi, cassette, cd: poi arrivò l'orribile Napster e tutto crollò. Questo è più o meno il modo in cui di solito i fenomeni si squagliano e si ricoagulano in narrazioni semplificate. È pertanto mio dovere cercare di spiegare che non andò così, non proprio esattamente così. Anche prima di internet, intanto, in mezzo ai consumatori disciplinati che facevano girare l'economia c'erano torme di parassiti come me, che vivevano di musica senza quasi comprarne. E quando arrivò internet non è che ci buttammo a scaricare discografie su discografie, come successe in seguito. Non ce lo consentiva la connessione lenta, la mancanza di un sacco di roba on line, e l'inerzia. All'inizio su Napster ci si andava per altri motivi. Per cercare di recuperare le canzoni che non avresti mai trovato in giro, per esempio. Mica rarità sconvolgenti, ma mettiamo che tu abbia voglia di sentire l'originale di Spirits in the Sky, nel 2000. Dove la trovi? Ti attacchi a una radio finché non la programmano? Non passavi più tutto questo tempo in casa - e poi potavano passare anni. Fai una richiesta, come i ragazzini? Vai in un negozio? Ma non è che vuoi comprarla, la vuoi solo ascoltare una volta, così. Oggi si sa cosa fai: Youtube. La centrale degli ascolti occasionali e disimpegnati. Il posto dove vai sempre di meno perché, da qualche anno in qua, hai sempre meno voglia di ascoltare questo o quel pezzo del passato, sarà che il tempo libero si è ristretto, ma è un appetito che avverti molto meno.
Forse perché ormai è troppo facile. Come faceva Spirits in the Sky? Aspetta che digito... fatto. Soddisfazione immediata. Non c'è neanche più il tempo per desiderare. Io quando riascoltai Australia mi resi conto che me la ricordavo, che il mio bambino interiore da qualche parte aveva continuato a canticchiarla per dieci anni, senza più ascoltarla, in autonomia, come un prigioniero. Queste attese sono finite per sempre. Anni passati a domandarsi chi è che aveva inciso una Dreamland psichedelica senza i bonghi che ci metteva Joni Mitchell, poi arriva google, fai una ricerchina di tre minuti, ecco fatto. Quando dico che è finita la musica, forse alludo a questo. Non alla musica in sé, al silenzio che stava tutto intorno. Un silenzio pieno di misteri: canzoni sconosciute, passate in radio a tarda notte, bellissime e anonime, di cui a volte conservavo solo un ritornello in testa. Arrivò Google, e la prima cosa che feci fu cercarle. Arrivò Napster, e me le scaricai, e fu bellissimo per i primi tre mesi, fu l'infanzia ritrovata, e l'adolescenza, e tutti i suoi sogni, tutti in una volta. All saints, all sinners shining.
Prima o poi saltarono tutti i misteri. Bastava ricordare una sola stringa di testo, e prima o poi la canzone saltava fuori. L'unica che resisteva era quella maledetta canzone che ascoltavo sul Panasonic della prima comunione, perché... perché non ricordavo nulla del testo, ero troppo piccolo per riconoscere una sola parola del testo, ricordavo solo survaivor, ma continuavo a incocciare nella colonna sonora di Rocky, che non c'entrava nulla. E intanto il mio bambino interiore cantava, cantava, sempre più eccitato. La ricerca durò anni.
Forse perché ormai è troppo facile. Come faceva Spirits in the Sky? Aspetta che digito... fatto. Soddisfazione immediata. Non c'è neanche più il tempo per desiderare. Io quando riascoltai Australia mi resi conto che me la ricordavo, che il mio bambino interiore da qualche parte aveva continuato a canticchiarla per dieci anni, senza più ascoltarla, in autonomia, come un prigioniero. Queste attese sono finite per sempre. Anni passati a domandarsi chi è che aveva inciso una Dreamland psichedelica senza i bonghi che ci metteva Joni Mitchell, poi arriva google, fai una ricerchina di tre minuti, ecco fatto. Quando dico che è finita la musica, forse alludo a questo. Non alla musica in sé, al silenzio che stava tutto intorno. Un silenzio pieno di misteri: canzoni sconosciute, passate in radio a tarda notte, bellissime e anonime, di cui a volte conservavo solo un ritornello in testa. Arrivò Google, e la prima cosa che feci fu cercarle. Arrivò Napster, e me le scaricai, e fu bellissimo per i primi tre mesi, fu l'infanzia ritrovata, e l'adolescenza, e tutti i suoi sogni, tutti in una volta. All saints, all sinners shining.
Prima o poi saltarono tutti i misteri. Bastava ricordare una sola stringa di testo, e prima o poi la canzone saltava fuori. L'unica che resisteva era quella maledetta canzone che ascoltavo sul Panasonic della prima comunione, perché... perché non ricordavo nulla del testo, ero troppo piccolo per riconoscere una sola parola del testo, ricordavo solo survaivor, ma continuavo a incocciare nella colonna sonora di Rocky, che non c'entrava nulla. E intanto il mio bambino interiore cantava, cantava, sempre più eccitato. La ricerca durò anni.
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Che è successo sotto il fico?
24-08-2012, 02:52arti figurative, etimologie, santiPermalink24 agosto - San Bartolomeo Apostolo (primo secolo).
Buongiorno! Passata una buona notte di San Bartolomeo? Vi siete ricordati di ferire almeno un protestante o, se non ne avevate a tiro, un miscredente qualsiasi? Neanche una bastonatina, un pestotto di piedi, un buffetto, niente? e vabbe', poi non lamentatevi se si perdono le tradizioni. Comunque ormai il 440esimo anniversario della strage degli ugonotti è andato, concentriamoci sulla figura (piuttosto sanguinolenta, vi avverto) di Bartolomeo Apostolo. Cosa sappiamo di lui?
Quasi niente, come al solito. In sostanza Bartolomeo nei vangeli è una comparsa, un nome. Il nome però è interessante, perché è fatto di una particella aramaica, "Bar", che si usa per costruire il patronimico (vuole dire "figlio di"), e "Tolomeo", che invece è un nome greco con una lunga storia che riassume tutta l'era ellenistica: è il nome del generale macedone che segue Alessandro il Grande in capo al mondo, per ritrovarsi alla fine in Egitto e fondare l'ultima dinastia dei faraoni. In realtà esiste anche il nome "Talmai" in ebraico e in aramaico, però non è da escludere la possibilità che il nome sia diventato popolare nell'area medio-orientale con la diffusione dell'ellenismo, quella forma antica di globalizzazione a cui gli ebrei avevano opposto il loro senso di appartenenza a una tradizione e a un unico Dio. Ai tempi di Gesù comunque ormai la lingua dei colonizzatori, il greco, era penetrata fino ai patronimici, fino a saldarsi con le particelle aramaiche. Quando compaiono nomi come "Bartolomeo", tu capisci che il melting pot ha funzionato. Prendi un accrocchio come "Bart Simpson": all'orecchio mondiale suona perfettamente americano - ed è stato scelto proprio per questo - ma poi cominci a smontarlo e ti accorgi per esempio che in "Simpson" c'è una radice latina, simplex: anche se l'originale inglese era Simme, e non aveva lo stesso significato, il cognome è stato evidentemente scelto per l'assonanza con un termine che allude alla semplicità, diciamo, della famiglia media americana. Poi c'è "son", che in tutta l'area germanica significa "figlio" e come suffisso funziona più o meno come il prefisso "bar" aramaico. Insomma, nelle tre sillabe di Bart Simpson c'è il latino, il germanico, l'aramaico, e in quella "t" resta anche una traccia di greco - ma del nome greco di un macedone diventato faraone d'Egitto. I nomi sono storie, che rimastichiamo tutti i giorni mentre parliamo d'altro (continua sul Post...)
Quando Papa Gregorio XIII seppe del massacro, ne fu molto lieto, e commissionò al Vasari questa graziosa scenetta edificante. |
Buongiorno! Passata una buona notte di San Bartolomeo? Vi siete ricordati di ferire almeno un protestante o, se non ne avevate a tiro, un miscredente qualsiasi? Neanche una bastonatina, un pestotto di piedi, un buffetto, niente? e vabbe', poi non lamentatevi se si perdono le tradizioni. Comunque ormai il 440esimo anniversario della strage degli ugonotti è andato, concentriamoci sulla figura (piuttosto sanguinolenta, vi avverto) di Bartolomeo Apostolo. Cosa sappiamo di lui?
Quasi niente, come al solito. In sostanza Bartolomeo nei vangeli è una comparsa, un nome. Il nome però è interessante, perché è fatto di una particella aramaica, "Bar", che si usa per costruire il patronimico (vuole dire "figlio di"), e "Tolomeo", che invece è un nome greco con una lunga storia che riassume tutta l'era ellenistica: è il nome del generale macedone che segue Alessandro il Grande in capo al mondo, per ritrovarsi alla fine in Egitto e fondare l'ultima dinastia dei faraoni. In realtà esiste anche il nome "Talmai" in ebraico e in aramaico, però non è da escludere la possibilità che il nome sia diventato popolare nell'area medio-orientale con la diffusione dell'ellenismo, quella forma antica di globalizzazione a cui gli ebrei avevano opposto il loro senso di appartenenza a una tradizione e a un unico Dio. Ai tempi di Gesù comunque ormai la lingua dei colonizzatori, il greco, era penetrata fino ai patronimici, fino a saldarsi con le particelle aramaiche. Quando compaiono nomi come "Bartolomeo", tu capisci che il melting pot ha funzionato. Prendi un accrocchio come "Bart Simpson": all'orecchio mondiale suona perfettamente americano - ed è stato scelto proprio per questo - ma poi cominci a smontarlo e ti accorgi per esempio che in "Simpson" c'è una radice latina, simplex: anche se l'originale inglese era Simme, e non aveva lo stesso significato, il cognome è stato evidentemente scelto per l'assonanza con un termine che allude alla semplicità, diciamo, della famiglia media americana. Poi c'è "son", che in tutta l'area germanica significa "figlio" e come suffisso funziona più o meno come il prefisso "bar" aramaico. Insomma, nelle tre sillabe di Bart Simpson c'è il latino, il germanico, l'aramaico, e in quella "t" resta anche una traccia di greco - ma del nome greco di un macedone diventato faraone d'Egitto. I nomi sono storie, che rimastichiamo tutti i giorni mentre parliamo d'altro (continua sul Post...)
E vergognarsi un po', ministro?
23-08-2012, 11:59ho una teoria, scuolaPermalinkCosì, dopo un mese di proteste, il Ministero della Pubblica Istruzione ha riconosciuto che molti test di preammissione ai Tirocini Formativi Attivi erano fatti male: che contenevano domande mal poste, a cui corrispondevano talvolta risposte sbagliate. Lo ha ammesso tardi, quando ormai tutti i test erano stati somministrati, valutati, e chi era stato respinto ingiustamente era magari partito per le vacanze. Lo ha ammesso a inizio agosto, ci ha messo altri 15 giorni a "chiudere la procedura di verifica", insomma a far sapere chi è passato e chi no, e a inizio settembre cominciano gli orali: molti candidati che due settimane fa risultavano respinti e ora ammessi non avranno comunque tempo per prepararsi adeguatamente. Per questo pasticcio, che sarebbe scandaloso se non fosse quasi la routine, non è chiaro chi pagherà. Temo nessuno. (Continua sull'Unità.it, H1t#141).
Nessuno indennizzerà le estati rovinate di migliaia di studenti e precari: alcuni di loro abbandoneranno l’insegnamento, non per mancanza di preparazione o vocazione, ma perché un test a crocette era sbagliato. A frittata combinata, il Ministero ha avuto la compiacenza di informarci che i test comunque erano stati messi assieme da ‘esperti’ della passata gestione: la colpa insomma anche stavolta è del governo precedente. Il nuovo dicastero si sarebbe limitato a ereditare le buste sigillate, senza nemmeno porsi il problema di verificare cosa ci fosse dentro? A questo punto la lunga attesa per conoscere finalmente date e luoghi dei test non si capisce a cosa sia servita: forse a tenere alta la suspense.
Un’altra volta magari mi piacerebbe discutere sul perché gli stessi enti così fortemente persuasi della necessità di filtrare tutto attraverso test chiusi e meccanizzati – il MIUR, l’INVALSI – alla prova dei fatti molto spesso non riescono a produrne di decenti: come se anche chi si dice convinto della bontà dello strumento lo sottovaluti, lo consideri alla fine dei conti robaccia da demandare alla bassa manovalanza: coi risultati che si vedono. Un’altra volta ne riparleremo. Stavolta vorrei far passare un messaggio molto più semplice e diretto: ministro Profumo, non potrebbe almeno vergognarsi un po’?
In uno Stato decente, in una situazione ordinaria, per un pasticcio così ci si dimette, ministro; e forse lei potrebbe mostrare una residua decenza, potrebbe almeno provarci. Non renderà il tempo perso a migliaia di persone; probabilmente non ridarà loro fiducia nel sistema educativo pubblico; forse però restituirebbe a chi ha ancora voglia di crederci l’immagine di un governo che si preoccupa della formazione non solo a parole, senza delegarla a un pool di scimmie neanche tanto ammaestrate, Ministro, neanche tanto ammaestrate.http://leonardo.blogspot.com
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Nulla resterà impolverato
23-08-2012, 00:53la musica è finitaPermalink(E ora un attimo di attenzione: domenica 26, alla festa democratica di Modena, presentiamo la Scossa, il libro di cui forse avete sentito parlare).
Che le canzoni avessero una consistenza porosa, che riuscissero a trattenere meglio di qualsiasi altro supporto i residui del tempo passato, era un fenomeno che conoscevo sin da piccolo. Insomma, lo sappiamo tutti, le canzoni ci ricordano noi stessi che le ricordiamo. Sono le nostre madeleines, siamo tutti proust d'allevamento. Mi domando se funzionasse così anche prima dell'introduzione dei supporti magnetici, quando riascoltare la stessa musica eseguita nello stesso modo era un fenomeno molto meno ricorrente. Probabilmente sì, a Sam basta accennare la vecchia canzone per far sospirare Bogart - però in effetti deve essere Sam, deve suonarla come sa farlo lui, bisogna andare fino a Casablanca, in un altro bar magari non funziona. Non lo so. Probabilmente le canzoni hanno sempre avuto una certa natura spugnosa, ma finché viaggiavano sotto forma di partiture le loro potenzialità cronoassorbenti erano meno sfruttate. Mi piace pensare che la musica registrata ci abbia messo di fronte a un'immagine molto più nitida del nostro passato. Come passare dal dagherrotipo alle polaroid. Non solo una qualità migliore, ma il problema della quantità: le istantanee sono sempre troppe e non sai dove metterle, non hai il tempo e lo spazio per tutto questo passato. Devi perderne. Salvarne una su dieci, su cento, e non puoi scegliere tu quale - deve essere il tempo a sancire cosa sì e cosa no, non puoi sapere a vent'anni cosa conserveresti a trenta. Devi dimenticare cose a caso. Passare sopra i nastri registrati. Ma io a un certo punto non ero più così disposto a dimenticare. Ricominciai a comprare nastri vergini, a custodire i vecchi in qualcosa che sembrava sempre di più un archivio.
Smisi di violentare la testina, riabilitai il tasto Pause. Introdussi criteri, certa musica meglio in autunno, altra in estate, così via. Presi a bazzicare fonoteche, disossavo i pezzi buoni dai cd e li gettavo nella broda radiofonica. Non era più avanguardia, era retrospezione, cultura del ricordo. Nel senso che lo coltivavo, cercando di averne sempre migliori. Invece di lavorare sui contenuti - la vita - mi concentravo sul supporto che avrebbe dovuto trattenerla meglio - la musica. Sono ingiusto? Ho anche cercato di vivere una vita interessante, nei miei limiti. Sempre però preoccupato di che musica dovesse sentirsi in sottofondo.
A tutt'oggi, alla gente insicura se la tal cosa sia successa nel 1998 o nel 2000 o nel 2002 io do spesso la risposta giusta, e mi credono così buono. Se sapessero che il tale anniversario corrisponde per me a un ritornello dei depeche mode, a Milton Nascimento che fischietta. Non si può ricordare tutto, ma a un certo punto devo averci provato. Non c'era un angolo che volessi lasciare impolverato. Persino la mia imbarazzante infanzia ora mi interessava. Finivo a tarda notte su certe radio indecenti a setacciare vergognosi successi anni ottanta. Una volta entrai in un noleggio equivoco e chiesi il Meglio di Mango, perché erano 15 anni che non ascoltavo Australia, ed ero curioso. Poi, appena premuto play, il solito incantesimo: il tempo ritornato, come se io avessi sempre ascoltato Australia, sempre saputa a memoria.
Ma spesso era più difficile. Di altri brani non ricordavo il titolo, non conoscevo l'artista. Quella canzone, per esempio, quella nella prima cassetta che mi regalarono, che ascoltavo sul panasonic sul sedile posteriore nei lunghi viaggi estivi in autostrada, chi la cantava? Cosa diceva? Qualcosa del tipo survivor, survival, cioè? Non restava che lasciare la radio accesa e attendere, paziente, fino a domani o a mai. Poi -
poi lo sapete tutti cosa successe. Arrivò Napster.
Che le canzoni avessero una consistenza porosa, che riuscissero a trattenere meglio di qualsiasi altro supporto i residui del tempo passato, era un fenomeno che conoscevo sin da piccolo. Insomma, lo sappiamo tutti, le canzoni ci ricordano noi stessi che le ricordiamo. Sono le nostre madeleines, siamo tutti proust d'allevamento. Mi domando se funzionasse così anche prima dell'introduzione dei supporti magnetici, quando riascoltare la stessa musica eseguita nello stesso modo era un fenomeno molto meno ricorrente. Probabilmente sì, a Sam basta accennare la vecchia canzone per far sospirare Bogart - però in effetti deve essere Sam, deve suonarla come sa farlo lui, bisogna andare fino a Casablanca, in un altro bar magari non funziona. Non lo so. Probabilmente le canzoni hanno sempre avuto una certa natura spugnosa, ma finché viaggiavano sotto forma di partiture le loro potenzialità cronoassorbenti erano meno sfruttate. Mi piace pensare che la musica registrata ci abbia messo di fronte a un'immagine molto più nitida del nostro passato. Come passare dal dagherrotipo alle polaroid. Non solo una qualità migliore, ma il problema della quantità: le istantanee sono sempre troppe e non sai dove metterle, non hai il tempo e lo spazio per tutto questo passato. Devi perderne. Salvarne una su dieci, su cento, e non puoi scegliere tu quale - deve essere il tempo a sancire cosa sì e cosa no, non puoi sapere a vent'anni cosa conserveresti a trenta. Devi dimenticare cose a caso. Passare sopra i nastri registrati. Ma io a un certo punto non ero più così disposto a dimenticare. Ricominciai a comprare nastri vergini, a custodire i vecchi in qualcosa che sembrava sempre di più un archivio.
Smisi di violentare la testina, riabilitai il tasto Pause. Introdussi criteri, certa musica meglio in autunno, altra in estate, così via. Presi a bazzicare fonoteche, disossavo i pezzi buoni dai cd e li gettavo nella broda radiofonica. Non era più avanguardia, era retrospezione, cultura del ricordo. Nel senso che lo coltivavo, cercando di averne sempre migliori. Invece di lavorare sui contenuti - la vita - mi concentravo sul supporto che avrebbe dovuto trattenerla meglio - la musica. Sono ingiusto? Ho anche cercato di vivere una vita interessante, nei miei limiti. Sempre però preoccupato di che musica dovesse sentirsi in sottofondo.
A tutt'oggi, alla gente insicura se la tal cosa sia successa nel 1998 o nel 2000 o nel 2002 io do spesso la risposta giusta, e mi credono così buono. Se sapessero che il tale anniversario corrisponde per me a un ritornello dei depeche mode, a Milton Nascimento che fischietta. Non si può ricordare tutto, ma a un certo punto devo averci provato. Non c'era un angolo che volessi lasciare impolverato. Persino la mia imbarazzante infanzia ora mi interessava. Finivo a tarda notte su certe radio indecenti a setacciare vergognosi successi anni ottanta. Una volta entrai in un noleggio equivoco e chiesi il Meglio di Mango, perché erano 15 anni che non ascoltavo Australia, ed ero curioso. Poi, appena premuto play, il solito incantesimo: il tempo ritornato, come se io avessi sempre ascoltato Australia, sempre saputa a memoria.
Ma spesso era più difficile. Di altri brani non ricordavo il titolo, non conoscevo l'artista. Quella canzone, per esempio, quella nella prima cassetta che mi regalarono, che ascoltavo sul panasonic sul sedile posteriore nei lunghi viaggi estivi in autostrada, chi la cantava? Cosa diceva? Qualcosa del tipo survivor, survival, cioè? Non restava che lasciare la radio accesa e attendere, paziente, fino a domani o a mai. Poi -
poi lo sapete tutti cosa successe. Arrivò Napster.
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La vita tra le tracce
21-08-2012, 00:57la musica è finitaPermalinkGli anni intanto passavano - non sarebbe piu' appropriato dire che si intorcigliavano a a spirale come il solco di un LP, ogni giro piu' breve e rapido ma illusoriamente parallelo al precedente, l'estate con l'estate l'inverno con l'inverno? Di giro in giro accadde questa cosa mirabile: che un'abitudine presa per caso e per necessita', quella di metter musica casuale su cassette da viaggio, una pratica senza nemmeno la dignita' di hobby, divenisse a ogni giro piu' importante, fino a prendere le forme della musica stessa.
Non so nemmeno dire quando iniziai, tanto all'inizio la cosa mi risultava poco interessante. So che all'origine non valeva la pena nemmeno di dedicarvi cassette nuove ("vergini", si chiamavano): mettevo in piastra quelle gia' usate e strausate, dimodoche' tra un pezzo e l'altro uno squarcio poteva lasciar riemergere qualsiasi cosa, una lezione in facolta', una strimpellata di chitarra, noi tre che parliamo di Wittgenstein in una sede del PDS, perché? In una vita precedente, anni prima di ascoltare a palla tarzan boy in autostrada, discutevo di Wittgenstein con l'aria di saperne qualcosa? Alcune cassette erano così antiche (le cassette non si buttavano mai) che vi resistevano successi anni 80 incisi davvero negli anni 80: hit that perfect beat incisa col bottone arancione del registratore panasonic appoggiato davanti alla tv durante dj television o peggio. Da qualche parte probabilmente anche la mia prima cassetta in assoluto, una Maxwell donatami con il panasonic per la prima comunione, un nastrone di successi messo assieme nel negozio di dischi di Cavezzo, ultimamente esce sempre fuori Cavezzo. Il negoziante, incurante anche lui del chiodino che conficcava nella bara dell'industria musicale, aveva messo assieme un po' di roba sanremese, qualche cantautore recente e poi, il solito guizzo da dj, un pezzo inglese che al terzo ascolto elessi il mio preferito, con chitarre squillanti ma non moleste e coretti sognanti che a quell'eta' non potevo ancora associare alla west coast, ma senz'altro al secondo segmento dell'estate, il versante nostalgico.
Tutto questo comunque, tempo dieci anni, non era che un ricordo polveroso in qualche cassettone che presto o tardi recuperai per inciderci una lezione o una schitarrata o una scatarrata o i charlatans. Quando sei giovane davvero, della tua infanzia ti frega nulla: ci passi sopra, i disegni dell'asilo son cartacce da bruciare, ti serve spazio.
Passano altri cinque giri, cinque anni, e quel corpus di cassettacce usate, graffiate, staccate, rimesse assieme col bianchetto o l'acetone, cassette anonime, senza custodia, pregne di secoli di polvere incrostata nei cruscotti... erano diventate cose preziose, una collana di pezzi unici, insostituibili. Me ne accorsi soltanto quando fui davvero lontano da casa per un po' di tempo. Quasi tutto quello che mi lasciavo dietro avrei potuto perderlo senza patemi: era già tutto sostituibile, duplicabile, al limite ricomprabile. Ma mio fratello mi aveva spostato le cassettacce e gli feci una scenata: perderne una equivaleva a perdere mesi di vita e di ricordi incrostati tra gli interstizi delle canzoni.
Oggi ho le mie belle cartelle in the cloud, che si riordinano da sole; centinaia di dischi di back up; milioni di canzoni, la maggior parte delle quali non ricordo e non faro' in tempo a riascoltare più. In ogni caso mi bastano pochi minuti per rintracciare qualsiasi artista qualsiasi album qualsiasi brano io abbia in archivio, anche se faccio ancora prima a cercare su youtube. E non c'è più vita tra le tracce, tra i solchi, non ci sono nemmeno più i solchi, la musica non assorbe più i ricordi, forse non c'è più la musica adatta o forse non ci sono più ricordi che valgano la pena.
Non so nemmeno dire quando iniziai, tanto all'inizio la cosa mi risultava poco interessante. So che all'origine non valeva la pena nemmeno di dedicarvi cassette nuove ("vergini", si chiamavano): mettevo in piastra quelle gia' usate e strausate, dimodoche' tra un pezzo e l'altro uno squarcio poteva lasciar riemergere qualsiasi cosa, una lezione in facolta', una strimpellata di chitarra, noi tre che parliamo di Wittgenstein in una sede del PDS, perché? In una vita precedente, anni prima di ascoltare a palla tarzan boy in autostrada, discutevo di Wittgenstein con l'aria di saperne qualcosa? Alcune cassette erano così antiche (le cassette non si buttavano mai) che vi resistevano successi anni 80 incisi davvero negli anni 80: hit that perfect beat incisa col bottone arancione del registratore panasonic appoggiato davanti alla tv durante dj television o peggio. Da qualche parte probabilmente anche la mia prima cassetta in assoluto, una Maxwell donatami con il panasonic per la prima comunione, un nastrone di successi messo assieme nel negozio di dischi di Cavezzo, ultimamente esce sempre fuori Cavezzo. Il negoziante, incurante anche lui del chiodino che conficcava nella bara dell'industria musicale, aveva messo assieme un po' di roba sanremese, qualche cantautore recente e poi, il solito guizzo da dj, un pezzo inglese che al terzo ascolto elessi il mio preferito, con chitarre squillanti ma non moleste e coretti sognanti che a quell'eta' non potevo ancora associare alla west coast, ma senz'altro al secondo segmento dell'estate, il versante nostalgico.
Tutto questo comunque, tempo dieci anni, non era che un ricordo polveroso in qualche cassettone che presto o tardi recuperai per inciderci una lezione o una schitarrata o una scatarrata o i charlatans. Quando sei giovane davvero, della tua infanzia ti frega nulla: ci passi sopra, i disegni dell'asilo son cartacce da bruciare, ti serve spazio.
Passano altri cinque giri, cinque anni, e quel corpus di cassettacce usate, graffiate, staccate, rimesse assieme col bianchetto o l'acetone, cassette anonime, senza custodia, pregne di secoli di polvere incrostata nei cruscotti... erano diventate cose preziose, una collana di pezzi unici, insostituibili. Me ne accorsi soltanto quando fui davvero lontano da casa per un po' di tempo. Quasi tutto quello che mi lasciavo dietro avrei potuto perderlo senza patemi: era già tutto sostituibile, duplicabile, al limite ricomprabile. Ma mio fratello mi aveva spostato le cassettacce e gli feci una scenata: perderne una equivaleva a perdere mesi di vita e di ricordi incrostati tra gli interstizi delle canzoni.
Oggi ho le mie belle cartelle in the cloud, che si riordinano da sole; centinaia di dischi di back up; milioni di canzoni, la maggior parte delle quali non ricordo e non faro' in tempo a riascoltare più. In ogni caso mi bastano pochi minuti per rintracciare qualsiasi artista qualsiasi album qualsiasi brano io abbia in archivio, anche se faccio ancora prima a cercare su youtube. E non c'è più vita tra le tracce, tra i solchi, non ci sono nemmeno più i solchi, la musica non assorbe più i ricordi, forse non c'è più la musica adatta o forse non ci sono più ricordi che valgano la pena.
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Persone autorevoli, credibili
17-08-2012, 01:03cattiva politica, ho una teoria, PdPermalinkSenza avere la pretesa di rappresentare nessuno, sono anch'io uno delle migliaia di elettori del PD che l'altro giorno hanno letto le dichiarazioni di Fioroni e si sono fatti andare di traverso la colazione. A un insieme di persone unite in questi mesi da un terribile mal di pancia di fronte alla prospettiva sempre più credibile di dover votare una coalizione con Casini e forse Fini, Fioroni ha ritenuto giusto aumentare la dose, ventilando la possibilità di allearsi anche con "persone autorevoli e credibili" del fu Pdl.
Oltre a essere poco rappresentativo, sono anche in ferie; leggo poco i giornali e me ne scuso, ma non sono in grado di ricostruire la situazione politico-mediatica in cui Fioroni ha ritenuto di fare un'uscita del genere. Voglio dire che se Fioroni stava parlando alla cognata perché intendesse la suocera, io in questo momento non sono in grado di identificare né suocera né cognata né cugini di primo grado. Tutto quel che ho letto è la sua dichiarazione, e centinaia di commenti inviperiti qui sull'Unità, nei social network, più o meno ovunque se n'è parlato. Tutte reazioni perfettamente prevedibili... (continua sull'Unita.it, H1t#140).
Oltre a essere poco rappresentativo, sono anche in ferie; leggo poco i giornali e me ne scuso, ma non sono in grado di ricostruire la situazione politico-mediatica in cui Fioroni ha ritenuto di fare un'uscita del genere. Voglio dire che se Fioroni stava parlando alla cognata perché intendesse la suocera, io in questo momento non sono in grado di identificare né suocera né cognata né cugini di primo grado. Tutto quel che ho letto è la sua dichiarazione, e centinaia di commenti inviperiti qui sull'Unità, nei social network, più o meno ovunque se n'è parlato. Tutte reazioni perfettamente prevedibili... (continua sull'Unita.it, H1t#140).
Tutte reazioni perfettamente prevedibili, perlomeno da me che non sono certo guru: quindi do per scontato che un politico consumato come Fioroni sapesse benissimo che avrebbe innervosito migliaia, forse milioni di suoi potenziali elettori, perdendone anche parecchi; e che la cosa non lo impensierisca più di tanto. Era più importante rilasciare dichiarazioni a Klaus Davi, o alla suocera, o alla cognata, non lo so. Mi chiedo se negli altri partiti italiani, ma anche negli altri partiti tout court, succedano queste cose: rappresentanti di primo piano che fanno dichiarazioni palesemente indigeste alla loro stessa base, incuranti dei danni che arrecano. Non lo so, m’informerò, a me sembra fuori del mondo, ma magari sono io.
Mi resta la curiosità di sapere di chi stesse parlando Fioroni: chi siano insomma quelle “persone autorevoli e credibili” che adesso sono nel PdL e che tra qualche mese dovrei votare io, basta che riconoscano che il “berlusconismo è finito”. Nel 2012. Io già faccio fatica a digerire la faccia di Casini quando mi dice che lui è stato il primo ad accorgersi che Berlusconi non era liberista, lui, tipo nel 2008; dopo 14 anni di alleanza elettorale. Dove i casi sono due: o io sono veramente un guru, e guru come me tutti quelli lo sapevano benissimo sin dal 1994, che il liberismo di Berlusconi consisteva nel difendere le sue aziende e allungarsi i processi; oppure anche Casini sottovaluta di molto la nostra tenuta gastroenterica, la nostra capacità di sopravvivere ai mal di pancia che ci procurate. È senz’altro è vero che abbiamo sopravvissuto fin qui a prove notevoli: persino Rutelli abbiamo votato, persino Dini o la Binetti. Questo però non vi autorizza a passeggiare tranquillamente sui nostri stomaci a ferragosto: o sì? http://leonardo.blogspot.com