Il giorno che Hitler si disse: ho esagerato

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L'unico ordine scritto di Hitler
riguardo l'Aktion T4: Al capo della 
Cancelleria del Reich Bouhler e al dottor 
Brandt viene affidata la responsabilità 
di espandere l'autorità dei medici, che 
devono essere designati per nome, perché 
ai pazienti considerati incurabili secondo 
il miglior giudizio umano disponibile 
del loro stato di salute possa essere 
concessa una morte pietosa.
24 agosto 1941 - Adolf Hitler ordina (forse) di interrompere l'Aktion T4, il programma di soppressione delle persone affette da malformazioni e malattie incurabili più o meno genetiche. Si stimano tra le sessanta e le centomila vittime in quattro anni. Ma la cosa più incredibile non è nemmeno questa. 

La cosa incredibile è che si interruppe. Hitler si fermò. Forse. Non ne siamo sicuri. Non esistono ordini scritti, un documento in cui si possa leggere "sospendete l'Aktion fino a nuovo ordine". Peraltro la strage continuò, in cliniche e ambulatori dove la cigolante catena di comando tedesca lasciava evidentemente a medici e funzionari un ampio margini di discrezionalità; alla fine della guerra le vittime erano intorno alle duecentomila unità, e crebbero ancora per un po'. Il fuehrer non amava lasciare tracce troppo evidenti che collegassero il governo a un programma che pure era stato preso per sua diretta iniziativa, e affidato a collaboratori fidati che scavalcarono il ministero della sanità. Non firmò neppure una delle bozze di legge che gli proposero sulla cosiddetta eutanasia di Stato. Eppure era una sua idea; l'aveva messa nera su bianco nel Mein Kampf; non aveva esitato a metterla in pratica appena le circostanze gli erano sembrate favorevoli; ma sapeva di non poterne andare fiero, almeno per una generazione.

La purificazione della razza ariana necessitava di una buona dose di lavoro sporco che si poteva svolgere soltanto durante una guerra: i dettagli più repellenti sarebbero stati occultati dopo la vittoria. Hitler era probabilmente pronto a sterminare milioni di connazionali imperfetti, ma non intendeva passare alla Storia per averlo fatto. Persino la "Soluzione finale della questione ebraica" (stabilita nei dettagli a quanto pare solo a Wannsee, qualche mese dopo l'archiviazione dell'Aktion T4) sarebbe stata, per quanto possibile, occultata agli storici. I tedeschi del futuro di Adolf Hitler avrebbero vissuto in una grande e purificata Germania, e non avrebbero mai saputo quali crimini erano stati necessari per forgiarla. Poi le cose hanno preso una piega diversa, lo stato di guerra totale necessario alla realizzazione di questi e altri progetti si è dimostrato un po' difficile da proseguire nel lungo periodo; Hitler si è sparato e col suo cognome oggi si spacciano le obiezioni più banali nei dibattiti sulla bioetica: ah, tu vorresti che qualcuno avesse il diritto di decidere fino a che punto è ammissibile soffrire; vorresti che nascessero meno persone affette da malattie genetiche? Sai chi la pensava come te? Adolf Hitler. E magari ti piacciono pure le verdure.

C'è naturalmente, in questo tipo di scambi, un equivoco immenso.
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Sacco e Vanzetti: innocenti o...

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23 agosto 1927 - A Boston, Massachusetts, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono giustiziati per aver ammazzato un contabile e una guardia giurata. Esattamente 50 anni dopo (23 agosto 1977) il governatore del Massachusetts, li proclama innocenti. Meglio tardi che mai. Ma c'è ancora chi non si rassegna...


Alle 23,40 (ora americana) i personaggi ufficiali ed i testimoni sono entrati nella parte del carcere riservata ai condannati a morte. Poco dopo, la triplice esecuzione aveva luogo. Alle 0,9 minuti (ora americana) Madeiros, che aveva preso posto per primo sulla sedia elettrica, è stato dichiarato morto. Alle 0,19 Sacco era a sua volta giustiziato; e per ultimo Vanzetti, alle 0,26. La tragedia è compiuta. Dopo sette anni dalla sentenza di condanna a morte, pronunziata senza che la loro colpevolezza, nel delitto a essi ascritto, fosse menomamente provata, Sacco e Vanzetti sono stati elettresecutati. La barbarie della parola s'adegua alla barbarie del tatto. E la nostra coscienza di uomini civili, la nostra coscienza romana e cristiana ed europea, ha avuto un sussulto, ha subito un'offesa non facilmente dimenticabile. ("La Stampa", 23 agosto 1927).


Se fosse un agosto qualsiasi - se non ci fosse una guerra in Europa e un'altra guerra in Medio Oriente che parla fin troppo europeo - e il cambiamento climatico - e la mancata ripresa - se insomma fosse uno di quegli agosti in cui il problema dei redattori è come riempire una dozzina di pagine senza annoiar troppo il lettore sotto l'ombrellone - potremmo facilmente scommettere sulla riapertura del caso Sacco-Vanzetti da parte di qualche testata di centrodestra.

I dettagli sono sempre gli stessi: malgrado lo Stato del Massachusetts abbia formalmente e solennemente scagionato i due italiani (cinquant'anni dopo averli inceneriti), qualche indizio di colpevolezza continua a trascinarsi. La confidenza raccolta da Carlo Tresca, uno dei promotori delle manifestazioni pro-Sacco-e-Vanzetti, che riteneva in cuor suo che il primo fosse colpevole e il secondo complice. E la perizia balistica del 1961, che afferma che fu la colt di Sacco a sparare il colpo che uccise il custode Alessandro Berardelli. Storie arcinote che possono vivacizzare una discussione da spiaggia ma non sarebbero sufficienti a riaprire un processo: la versione di Tresca è solo una delle tante che fornì, quando aveva preso le distanze dalla frazione anarchica in cui avevano militato i due martiri; la stessa "colt di Sacco" potrebbe anche non essere davvero quella di Sacco (la polizia ebbe molto tempo a disposizione per sostituirla).
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Altre gioconde più gioconde dell'originale

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5. Sapeck (Eugène Bataille): La Joconde fumant la pipe (AKA Le rire)

Il montaggio del vignettista Sapeck potrebbe passare per la solita provocazione dada-surrealista - non fosse stata composta addirittura nel 1883! Sapeck la produsse per l'esposizione degli Incoherents, un movimento artistico che anticipa il dadaismo di trent'anni - che a cavallo tra Otto e Novecento sono l'equivalente di un'era geologica. Li capeggiava un tale Jules Lévy che non disdegnava di sfilare con le ballerine del Folié Bergères - decisamente molto avanti. Forse troppo. Il capolavoro di Lévy è un quadro completamente nero intitolato Combattimento di negri in un tunnel. Sapeck si contenta di firmarsi mentre fa quella cosa che tuttora fanno il trenta per cento degli studenti medi sui libri di testo di Storia dell'Arte: riempire compulsivamente la bocca dei soggetti ritratti con oggetti che nel Novecento chiameremo fallici. Ciò è molto liberatorio. I più sofisticati invece disegnano barbe e baffi - ci penserà Duchamp una generazione più tardi.


6. Marcel Duchamp, L. H. O. O. Q.


Tra Sapeck e Duchamp c'è più che una semplice generazione. "Elle hache o o qu" (La signora ha caldo al culo) appare nel 1919, quarto centenario della morte di Leonardo. Peruggia è libero da poco, la sua Gioconda è appena diventata l'immagine pittorica più famosa del mondo. Anche il paesaggio - ignorato nel proto-ready-made di Sapeck - ormai è quello canonico che ci aspettiamo in ogni Gioconda che si rispetti. Nella versione di  Duchamp non c'è soltanto l'irrisione, l'iconoclastia futurista svoltata in burletta, il ready made; c'è anche una proposta: e se fosse un uomo? Non sarebbe poi così male. C'è persino chi sostiene che anche Duchamp coi baffi e il pizzetto stesse in realtà tracciando un suo autoritratto: come Salì, come Dalì, come lo stesso Leonardo... insomma non c'è niente da fare, qualsiasi sgorbio tu faccia prima o poi qualcuno dirà che ti somiglia. Anche due baffi su una cartolina. Ma a questo punto forse bisognerebbe rivedere con più attenzione Fontana, il pisciatoio esposto da Duchamp due anni prima...

(Resta on line se non sei sazio di nuove originalissime gioconde).
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Il più grande furto d'arte di tutti i tempi, forse

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I ladri fotografati mente si portano
via l'Urlo in pieno sole.
22 agosto 2004 - falsi pompieri rubano una versione dell'Urlo di Munch da un museo di Oslo. Non è neanche la prima volta. Sarà ritrovato due anni più tardi.

Definito da Arthur Lubow "la Gioconda dei nostri tempi", l'Urlo di Munch ha in comune anche la complicata questione dell'originalità: non esiste 'un' Urlo, ma almeno quattro versioni d'autore, tutte considerate originali. Persino il furto dell'Urlo, dieci anni fa, non è originale: nel '94 un'altra copia era sparita dieci anni prima, sostituita da un biglietto in cui si ringraziava la galleria nazionale di Oslo per la scarsa sorveglianza. Due anni fa una versione a pastello è stata battuta da Sotheby's per 119 milioni di dollari; solo un Francis Bacon è stato venduto a un prezzo più alto. Attualmente quell'Urlo è la decima opera d'arte al mondo per quotazione, in una classifica guidata dai giocatori di carte di Cézanne, dove la Gioconda neanche compare (non c'è più nessun maestro del Rinascimento: tutti spodestati a partire dagli anni '80). A proposito, quanto costa la Gioconda?

Difficile dirlo. L'ultima volta fu assicurata per cento milioni di dollari (durante il tour americano del 1962, in cui incontrò anche Kennedy - i Beatles due anni dopo non fecero in tempo). Tenuto conto dell'inflazione, oggi sarebbero 780 milioni, più del doppio del quadro di Cézanne. Ma è una cifra senza senso: l'assicurazione non è stata rinnovata. Il Louvre ha ritenuto preferibile investire in sicurezza. Peraltro, a questo punto l'oggetto è diventato talmente iconico che persino un mitomane, un terrorista o qualsiasi Etostrato non potrebbe che distruggerne l'involucro esteriore, quella fragile tavola di legno che è destinata a deteriorarsi comunque nel giro di qualche secolo. L'immaginario collettivo non ci perderebbe nulla: l'immagine ormai è fissata in miliardi di terabyte che saranno nella nuvola finché ci sarà un'umanità interessata a questo tipo di cose. Anzi, una fine tragica renderebbe l'icona ancora più indelebile nelle nostre coscienze. Anche il Louvre in realtà non avrebbe che da perdere un quadro molto complicato da gestire e custodire: la fila che oggi si forma davanti al capolavoro si sbrigherebbe a trovare qualche altra opera-feticcio; non è che la gente abbia smesso di andare a NY perché non ci sono le due torri (tutto il contrario, direi). Insomma Monna Lisa a levarsi di mezzo ci farebbe quasi un piacere.

E poi magari a quel punto salterebbe fuori l'originale.
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10 gioconde più originali dell'originale

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Berlusconi, ci scommetto,
mi preferisce.
1. Isleworth Mona Lisa

La prima reazione è uno choc. La Gherardini ringiovanita sembra uscire da una copertina di Visto: come se, esasperata da un secolo di speculazioni sul suo stato di salute (alta glicemia, bruxismo, ecc.) avesse optato per una plastica facciale. Salvo che nessuno riesce a farle così bene. La seconda è un tentativo di esorcizzare un'idea che stravolge tutto quello che sai di un'opera che credi di riconoscere: chi è il folle collezionista che a un certo punto ha deciso di commissionare la versione ringiovanita di un capolavoro? E, viste le premesse di dubbio gusto, com'è possibile che il risultato sia così convincente?

La chiave sta nei dettagli - le colonne, in questo caso. Un falsario non le mette: un allievo di Leonardo sì, perché anche Leonardo in un primo momento ce le aveva messe (Vasari vide colonne e balaustra in una delle versioni più antiche). Le mani sono leggermente più scure del volto, come capita spesso nei suoi ritratti. Anche a non voler dare troppo credito alla perizia di parte che afferma che la tavola è del primo Cinquecento, rimane l'evidenza: la Mona Lisa ritrovata nel primo dopoguerra da un collezionista inglese in una placida villa del Somerset non è un tentativo meccanico di ringiovanire un soggetto adulto. L'ipotesi inversa - che Leonardo abbia cominciato il ritratto molto presto, e lo abbia sottoposto a continue modifiche - combacia viceversa con alcune cose che sappiamo di lui (la sua abitudine a non lasciare mai nulla di finito) e altre che abbiamo cominciato a raccontarci: la Gioconda come ritratto della madre o addirittura autoritratto dell'autore. Forse, più semplicemente, Leonardo sentiva il quadro talmente suo che decise che sarebbero invecchiati assieme. Questo spiegherebbe anche l'evanescenza del velo nella versione del Louvre, dove se non state attenti nemmeno lo notate: nella Gioconda giovane non c'è, ma se decidi di farla crescere devi mettercelo per forza: solo le donne di malaffare posano coi capelli sciolti e scoperti (e senza un anello al dito).

Ce l'ho mica scritto in fronte
2. Gioconda del Prado.

Se ne stava placida da secoli in uno scantinato del museo di Madrid, la classica copia d'autore di fattura pregevole ma di scarso interesse. Finché qualche anno fa qualcuno ha pensato di dare un'occhiata seria sotto lo sfondo nero, che fino ad allora sembrava l'ammissione di inferiorità di un falsario negato coi paesaggi. E' saltato fuori che sotto la mano settecentesca di nero c'era un paesaggio straordinario, non del livello dell'originale, ma meglio conservato: e databile nel primo Cinquecento (le colonne ci sono ancora, benché relegate all'estremità della tela). E' di Leonardo? La pennellata ci dice di no, manca lo sfumato. La riflessografia però ci dice che il pittore, che lavorava su tela, ebbe fino a un certo punto gli stessi ripensamenti che Leonardo nascose nella tavola. La Gioconda del Prado dunque sarebbe stata dipinta in contemporanea con l'originale - qualcuno si è anche ingegnato a calcolare l'angolo tra i due pittori, rispetto al soggetto. Forse l'unico modo di non rinunciare all'originale era lasciare dietro di sé qualche buona copia che testimoniasse una o più tappe del work in progress (e che si poteva anche smerciare facilmente).
Il sorriso della Gioconda del Prado ha una sfumatura ironica che risalta se la accosti all'originale. Sembra dire: io? La Gioconda? Ma figurati.

Clicca qui per altre otto straordinarie Gioconde
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E se la Gioconda non fosse 'quella vera'?

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21 agosto 1911 - Vincenzo Peruggia, se gli vogliamo credere, esce dal Louvre dove ha passato la nottata. Sotto il cappotto porta una tavola di Leonardo da Vinci che non è ancora il dipinto più famoso del mondo, ma grazie a lui lo diventerà. E se non fosse, davvero, l'originale di Leonardo da Vinci?

Due anni dopo l'affare era ormai archiviato. Poliziotti e gendarmi avevano interrogato chiunque, perquisito dappertutto. Era stato sospettato persino il giovane Pablo Picasso; si era fatto una notte in cella anche il povero Apollinaire per quella sua tirata futurista sui musei da sventrare - ma anche per le accuse di un'ex, mitomane e piuttosto vendicativa. Niente, nessuno ne sapeva davvero niente, e la Gioconda non c'era più. Chissà dove se n'era volata. Che dire: cose che capitano - no, in realtà no, c'è una prima volta di qualsiasi cosa, e il furto della Gioconda fu il primo grande colpo in un museo pubblico. Evidentemente la sicurezza era un po' da ripensare. Fino a quel momento si era probabilmente pensato che certe opere si difendessero da sole: chi mai avrebbe pensato di procurarsi illegalmente un Leonardo originale? Erano ancora begli oggetti che meritavano di essere visti anche a costo di lunghi viaggi e costosi - tanto più che le riproduzioni stampate non potevano assolutamente reggere il confronto con l'originale. Proprio per questo motivo, non c'era ancora la necessità di trasformarli in qualcos'altro: in simboli, cifre, capolavori ineffabili.

Non c'era nemmeno bisogno di esorcizzare il senso di delusione che provi quando arrivi lì e scopri che l'opera è esattamente come l'hai vista su un buon libro - e dunque qual è il senso di tutto il tuo viaggio?
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Chi ha ucciso il grande rivoluzionario del Novecento?

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20 agosto 1940 - Lo zio di Christian De Sica rompe la testa di Leo Trotsky con una picozza. 

Per quanto tu ti possa abituare all'idea - e hai una vita intera per abituartici - alla fine la morte sa sempre sorprenderti. Il caso di Trotsky ha dell'incredibile. Nella primavera del 1940 era persuaso di non avere più molto tempo davanti a sé. A impensierirlo, ancor più degli agenti di Stalin, era la pressione alta. In febbraio aveva scritto un bel testamento, insolitamente stringato, a cui a marzo volle aggiungere un poscritto meno famoso ma suggestivo:
La natura della mia malattia (una pressione alta e in costante aumento) è tale - per quel che ho capito - che la fine verrà molto probabilmente (ancora una volta, questa è la mia ipotesi personale) attraverso un'emorragia cerebrale. Questa è la fine migliore che mi possa augurare. È possibile, tuttavia, che io sia in errore (non ho alcun desiderio di leggere libri sull'argomento e, naturalmente, gli specialisti non mi direbbero la verità). Se la sclerosi dovesse assumere un carattere prolungato e fossi minacciato da una lunga invalidità (al momento sento, al contrario, un impulso di energia spirituale, a causa della pressione alta, ma questo non durerà a lungo), mi riservo il diritto di stabilire il tempo della mia morte. Il 'suicidio' (se tale termine è appropriato in questo contesto) non sarà in alcun modo l'espressione di uno sfogo di sconforto o disperazione. Natascia e io ci siamo detti più di una volta che si può arrivare ad una condizione fisica tale che sarebbe meglio tagliare corto con la la propria vita o, più correttamente, con un processo di morte troppo lento... Ma qualunque siano le circostanze della mia morte, morirò con la fede incrollabile nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà già ora una forza di resistenza che non può essere data da qualsiasi religione.
Quest'ultima frase stonerebbe in bocca a chiunque non fosse resistito a tre confini, decine di detenzioni, al comando supremo dell'Armata Rossa durante la guerra civile, al fallimento della rivoluzione permanente e alle epurazioni di Stalin. E però con tutta la sua forza di resistenza, Trotsky non poteva impedirsi di constatare il proprio decadimento fisico. Determinare in modo razionale il tempo della propria morte sarebbe stato un altro successo organizzativo - ma sul piano della propaganda si rischiava di lasciare un brutto messaggio, quasi come darla vinta a Stalin. L'esitazione di Trotsky assomiglia alla nostra ogni volta che ci poniamo il problema: è un diritto togliersi la vita? Ogni volta che succede a una persona che ammiravamo siamo tentati di scrivere da qualche parte di sì: certo che è un diritto. Inalienabile. E poi ci viene in mente che rischiamo di incitare indirettamente qualcun altro a prenderselo, quel diritto. E non vorremmo proprio. E allora cambiamo argomento.
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Il grande poeta dimenticato del '900

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19 agosto 1964 - muore Ardengo Soffici, pittore, scrittore, futurista, fascista, e tante altre persone. 

Soffici ci lasciava 50 anni fa, troppo presto sia per far dimenticare il suo fascismo seminale, sia per cogliere i frutti della rivalutazione del futurismo. Come pittore poi si è difeso bene, i suoi papier collés e le sue angurie sono passaggi obbligati in qualsiasi mostra futurista che si rispetti. Molto meno conosciuto resta il Soffici scrittore, ma se in generale abbiamo smesso di leggere non è proprio colpa sua. Lui in effetti ha precorso i tempi anche in questo, scrivendo testi leggerissimi che sembrano pensati per il lettore svagato e distratto del secolo XXI. Figlio di borghesi rovinati, scappato a Parigi a vent'anni, Soffici si ritrova quasi per caso al centro dell'esplosione artistica che inaugura il secolo. Tra i primi italiani a leggere Rimbaud, a scambiare due chiacchiere con Picasso o Apollinaire, Soffici torna nella casa materna di Poggio a Caiano (FI) nel 1907. L'intuizione è buona: in Francia era un illustratore tra tanti, in Italia è in anticipo di una generazione - al punto che nel 1911 si permette di stroncare la prima esposizione futurista: "sciocche e laide smargiassate di poco scrupolosi messeri".

Il seguito è noto: Marinetti, Carrà, Russolo e Boccioni prendono un treno per Firenze apposta per andare a picchiarlo. Lo trovano alle Giubbe Rosse (se lo fanno indicare dal subdolo Palazzeschi), e restano piacevolmente sorpresi dal fatto che Soffici risponda a pugni e schiaffi roteando il suo bastone da passeggio. Il giorno dopo addirittura si prende con sé Slataper e Prezzolini e li va ad aspettare in stazione. Nuova scazzottata, e poi tutti assieme in commissariato a firmare il verbale e discutere d'arte d'avanguardia. Sta per nascere il primo futurismo fiorentino, l'unico a non dipendere economicamente dalle ampie tasche del mecenate Marinetti. Il vero battesimo sarà Lacerba, la rivista che Soffici avvia all'inizio del 1913 in collaborazione con l'amico e provocatore Giovanni Papini - in sostanza è uno spin-off della Voce, l'amichevole scissione dei due vociani meno allineati al serioso verbo idealista. Mettendosi d'impegno a stroncare Croce, e con Croce tutti i filosofi, e gli scrittori, e i pittori - Papini e Soffici ottengono perfino un certo successo editoriale, conquistato a base di titoli roboanti (Contro la scuola! Amiamo la guerra!) e oltraggi al pudore e un insistito snobismo. Lacerba è la nonna di tutti i fogli di satira italiani. Gramsci nota che lo sfogliano persino gli operai torinesi, con un interesse non ricambiato.
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I due dischi più brutti dei Beatles

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(Continua la pubblicazione delle recensioni di Perceval Reginald Deafon, Esq (qui la prima parte), il prestigioso critico che per i tipi della blasonata Montly British Music Magazine ebbe il privilegio di recensire in anteprima tutti i dischi dei Beatles - stroncandoli uno per uno).

Revolver (Parlophone, 1966)
Ed è giunto il momento di parlare di Beatles. Fosse per me avrei aspettato - avevo anche una scusa perfetta: per un disguido l'etichetta discografica mi ha consegnato una copia del loro nuovo album evidentemente non definitiva, con colpi di tosse, nastri montati al contrario e altri disturbi. Ma il direttore insiste, e d'altro canto è difficile immaginare che la versione definitiva sia molto migliore: magari bastasse togliere due colpi di tosse o un paio di nastri fuori posto per migliorare la situazione. So che qualche lettore non condivide il mio punto di vista, ma è un fatto che i Beatles non siano più rilevanti almeno da un paio d'anni. Ora che finalmente si interrompe il tour infinito che li ha trasformati in un prodotto di esportazione - a spese della genuinità - e si dirada la nebbia caotica della beatlemania, è facile accorgersi che quello che hanno iniziato nel '62, oggi qualcun altro lo sta portando avanti con più coerenza e più ispirazione. Nell'anno in cui i Rolling Stones ci hanno regalato Aftermath, e oltreoceano i Beach Boys di Brian Wilson ci hanno sbalordito con Pet Sounds, che cosa ci offrono i quattro nuovi Membri dell'Eccellentissimo Ordine dell'Impero Britannico? Altre quattordici canzonette in cerca di interpreti più convincenti. La crisi d'ispirazione della premiata ditta Lennon/McCartney è tale che il pezzo d'esordio è del loro sodale, il giovane George Harrison: il quale purtroppo ha difficoltà a inserire più di un accordo nelle sue composizioni, e non sempre gli riesce di trovarne uno non dissonante. Il suo assolo di chitarra - se davvero è quello che ho sentito sulla mia copia del disco - sembra l'esercizio di un bambino con un elastico. A sua discolpa, Harrison sta raccontando l'episodio più traumatico della sua vita: la scoperta che anche i milionari pagano le tasse. Il resto del disco è meno inquietante; ci troviamo un po' tutte le cose che ormai siamo abituati a trovare in un disco dei Beatles: il numero di McCartney coi violini (Eleanor Rigby), il numero di Harrison con il sitar (Love You To), quello di Lennon contro le donne che non lo apprezzano (And Your Bird Can Sing), la canzoncina su due note per il povero Ringo (Yellow Submarine) - sia detto fra noi, un onesto musicista che non meritava questo destino da clown (ma neanche i milioni di sterline che gli auguriamo di mettere da parte). È difficile stabilire se risulti più irritante la svogliatezza di John Lennon, incapace in certi casi persino di mantenere i quattro quarti in un brano di tre minuti, o la pretesa di McCartney di essere un autore poliedrico: ovvero di saper copiare nello stesso disco un po' di Brian Wilson (Here, There and Everywhere), un po' di Vivaldi, un po' la Motown (Got to Get You Into My Life), un po' l'ultimo successo che ha sentito in radio (l'avvocato dei Lovin' Spoonful dovrebbe ascoltare con attenzione almeno Good Day Sunshine). Sospendo il giudizio sull'ultimo brano, che non ho potuto ascoltare: nella versione che mi è stata consegnata c'è solo una sequenza di rumori, alcuni dei quali registrati al contrario, e la voce drogata di John Lennon che mi propone di espandere la mia coscienza. Per quanto ne so la versione definitiva di Tomorrow Never Knows potrebbe anche essere un capolavoro, ma sarebbe l'unico dell'album. L'unico da due anni a questa parte. Non me ne vogliano i lettori se resto scettico.

The Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band (Parlophone, 1967)
Come avrà intuito facilmente il lettore dalla siepe fiorita, i membri del gruppo del club dei cuori solitari del Sergente Pepper altri non sono che i quattro Beatles, reduci dalla loro prima debacle discografica (il singolo Penny Lane - Strawberry Fields Forever non è neanche arrivato primo in classifica), che con questo espediente pubblicano un disco minore, nel quale probabilmente sono i primi a creder poco - certo, l'idea di mascherarsi sarebbe venuta persino al sottoscritto, se avessi dei fans e se li avessi trattati male come hanno fatto i Beatles con le loro ultime uscite. I quattro ne approfittano per improvvisarsi orchestrina di vaudeville, con esiti che oscillano tra il fastidioso (il valzer di Lucy in the Sky), l'irrilevante (With a Little Help of my Friends) e lo stucchevole (When I'm 64). E poi che altro dobbiamo aspettarci? C'è il pezzo coi violini? C'è, più noioso del solito. C'è il numero col sitar? C'è, e non finisce mai. Prosegue nel frattempo la guerra tra John Lennon e i Quattro Quarti - questi ultimi ormai soccombenti in Good Morning. Il pezzo con cui termina l'album è uno strano patchwork di canzoni, cantato per lo più da un Lennon mai così lagnoso, costretto forse per mancanza di tempo a improvvisarsi un testo nonsense su una melodia insolitamente lugubre. Con questo piccolo disco di trovate che qualcuno definirà sperimentali, o come si dice adesso, 'psichedeliche', i Beatles si propongono a un pubblico che quest'anno ha già potuto ascoltare il capolavoro degli Stones (Between the Buttons), l'ottimo lavoro dei Kinks, (Face to Face); un pubblico che se avesse un po' di curiosità potrebbe tuffarsi nell'incredibile Freak Out! dei Mothers of Invention. Un pubblico che invece ha deciso di accontentarsi di qualsiasi cosa gli preparino i Beatles, e che confidiamo riuscirà a mandare giù anche questo polpettone di avanzi. Tanto può il ricordo di quello che sapevano fare fino a qualche anno fa, prima di lasciare le scene e nascondersi dietro a maschere di cartone, o alle proprie statue di cera che Madame Tussaud ha graziosamente concesso per le foto di copertina (continua...)
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SCONVOLGENTE: ecco perché Joni Mitchell non andò a Woodstock

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18 agosto 1969 - Joni Mitchell partecipa a un programma televisivo, il Dick Cavett Show. Per andare in tv aveva rinunciato a partecipare nei tre giorni precedenti a un certo festival di Woodstock che poi, si scoprì, sarebbe diventato il concerto più famoso del secolo. Se ne pentì. Poi si pentì di essersene pentita.


(La sublime ironia di accettare un cachet per cantare For Free)

(Segue vecchio pezzo)
Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.



Ma non ci ha creduto a lungo.
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