Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2014)
22-02-2015, 02:45cinemaPermalink
Saving Mr Banks, regia di John Lee Hancock, nomination per la migliore colonna sonora.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
Philomena, regia di Sthephen Frears, nomination per il miglior film, migliore attrice protagonista (Julie Dench doveva vincere!), migliore sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora.
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
La vera suor Hildegard incontra il figlio di Philomena (e non le rivela la sua identità). |
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
Comments (5)
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2013)
19-02-2015, 23:17cinemaPermalink"Biopic" è una parola che abbiamo preso in prestito dall'inglese non molto tempo fa. In realtà i film biografici e/o storici esistono da sempre, e con loro tutto il repertorio di errori, inesattezze, licenze drammatiche. Non abbiamo mai chiesto a un film di raccontarci tutta la verità e nient'altro che la verità, ma negli ultimi tempi la messa in scena delle frottole comincia a risultare un po' inquietante. I film probabilmente non hanno aumentato la loro dose di bugie, ma sono diventati più verosimili - e quindi anche un po' più ambigui. Questo per dire che se avete visto un biopic negli ultimi due anni, probabilmente vi siete convinti di cose non vere. Vediamo qualche esempio, tra i film candidati nelle ultime edizioni degli Oscar.
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Oscar per il migliore attore protagonista (Daniel Day-Lewis) e per le scenografie.
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Ultimamente la somiglianza dei protagonisti è inversamente proporzionale alla qualità del prodotto. |
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
Comments (4)
La Grande Proletaria è confusa
19-02-2015, 00:35giornalisti, guerraPermalink
Ci sono due ipotesi.
La prima è che ci sia da qualche parte in Italia (ma più facilmente altrove) un Potere forte, un gruppo di pressione che ci vuole tra breve in Libia a difendere qualcosa, l'occidente o la cristianità o un oleodotto. Al fine di convincere l'italiano medio, notoriamente refrattario all'idea di combattere (cioè la guerra al cinema non gli dispiace, e i soldati in parata li ammira volentieri: ma morire per questioni territoriali è proprio una cosa che storicamente non gli va giù), al fine di convincerlo, dicevamo, questo Potere forte sta disseminando notizie allarmiste nei media italiane (l'ultima di ieri erano gli "scafisti kamikaze"), calcando la mano su semplici concetti geografici del tipo "la Libia è a sud di Roma" e offrendo finalmente un po' di ribalta agli orrori di quella guerra.
La seconda ipotesi è che non ci sia nessun Potere forte - o meglio, di Poteri forti ce ne sono senz'altro, ma nessuno è particolarmente interessato a un intervento italiano in Libia, o all'Italia in generale. E allora perché si leggono titoli come "l'IS a Roma", e il Giornale ieri titolava "SIAMO NEL MIRINO Arriva la bomba umana"? Ecco, la seconda ipotesi è che i media stiano facendo tutto da soli, seguendo i loro automatismi. C'è una notizia? Fa paura? C'è un modo di scriverla perché ne faccia ancora di più? Sennò la gente non compra / non legge / non clicca / ecc.
La seconda ipotesi è più semplice, non coinvolge nessun Nuovo Ordine Mondiale, ed è quindi preferibile. Controprova: quando qualche anno fa un gruppo di pressione del genere esisteva davvero, e la partecipazione dell'Italia alla Guerra al Terrore di Bush era ancora in discussione, le cose si facevano più seriamente. Bufale ce n'erano anche allora (alla fine le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non è che fossero meno farlocche dei gommoni esplosivi), ma le trovavi negli editoriali del Foglio o della Stampa, non sotto la testata del Giornale. Il Corriere dava risalto ai deliri senili di Oriana Fallaci, sul Foglio Ferrara si rivendeva come consulente Cia, eccetera. Pagliacciate se ne facevano anche allora, ma con più metodo, e soprattutto con una grande costanza: chi c'era se lo ricorderà, di Iraq discutemmo per due anni prima di intervenire davvero. Un sacco di gente aprì blog apposta per farci sapere che intervenire in Iraq era necessario.
Invece stavolta che è successo? Ci siamo scordati della Libia per tre anni, e poi all'improvviso una banda ha conquistato un'emittente radio e ci ha informato di questa curiosa particolarità geografica per cui in effetti sì, la Libia è a sud di Roma. A quel punto dovremmo sentire già suonare pifferi e grancasse; e invece sulla Stampa il titolo dice "Soluzione politica per la Libia", il Corriere sembra più preoccupato da Tsipras, la Fallaci è tornata in tv con una fiction che però era programmata da mesi. Insomma la Libia sembra esserci cascata addosso mentre eravamo in tutt'altro affaccendati, il classico surplus di disgrazie che non vengono mai da sole. E dire che era assolutamente prevedibile, sin dal momento in cui Sarkozy decise di appoggiare dal cielo gli oppositori di Gheddafi. Eliminare un tiranno è sempre la cosa giusta da fare, ma forse bisognava anche avere un piano per il dopo. Non lo avevamo. Dietro la fobia dei complotti c'è l'orrore del vuoto: il Mediterraneo brucia e nessuno sa o vuole dirci cosa fare.
La prima è che ci sia da qualche parte in Italia (ma più facilmente altrove) un Potere forte, un gruppo di pressione che ci vuole tra breve in Libia a difendere qualcosa, l'occidente o la cristianità o un oleodotto. Al fine di convincere l'italiano medio, notoriamente refrattario all'idea di combattere (cioè la guerra al cinema non gli dispiace, e i soldati in parata li ammira volentieri: ma morire per questioni territoriali è proprio una cosa che storicamente non gli va giù), al fine di convincerlo, dicevamo, questo Potere forte sta disseminando notizie allarmiste nei media italiane (l'ultima di ieri erano gli "scafisti kamikaze"), calcando la mano su semplici concetti geografici del tipo "la Libia è a sud di Roma" e offrendo finalmente un po' di ribalta agli orrori di quella guerra.
La seconda ipotesi è che non ci sia nessun Potere forte - o meglio, di Poteri forti ce ne sono senz'altro, ma nessuno è particolarmente interessato a un intervento italiano in Libia, o all'Italia in generale. E allora perché si leggono titoli come "l'IS a Roma", e il Giornale ieri titolava "SIAMO NEL MIRINO Arriva la bomba umana"? Ecco, la seconda ipotesi è che i media stiano facendo tutto da soli, seguendo i loro automatismi. C'è una notizia? Fa paura? C'è un modo di scriverla perché ne faccia ancora di più? Sennò la gente non compra / non legge / non clicca / ecc.
Andiamo avanti così, continuiamo a togliere ore di geografia a scuola, ché tanto non serve a niente. |
Invece stavolta che è successo? Ci siamo scordati della Libia per tre anni, e poi all'improvviso una banda ha conquistato un'emittente radio e ci ha informato di questa curiosa particolarità geografica per cui in effetti sì, la Libia è a sud di Roma. A quel punto dovremmo sentire già suonare pifferi e grancasse; e invece sulla Stampa il titolo dice "Soluzione politica per la Libia", il Corriere sembra più preoccupato da Tsipras, la Fallaci è tornata in tv con una fiction che però era programmata da mesi. Insomma la Libia sembra esserci cascata addosso mentre eravamo in tutt'altro affaccendati, il classico surplus di disgrazie che non vengono mai da sole. E dire che era assolutamente prevedibile, sin dal momento in cui Sarkozy decise di appoggiare dal cielo gli oppositori di Gheddafi. Eliminare un tiranno è sempre la cosa giusta da fare, ma forse bisognava anche avere un piano per il dopo. Non lo avevamo. Dietro la fobia dei complotti c'è l'orrore del vuoto: il Mediterraneo brucia e nessuno sa o vuole dirci cosa fare.
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Il giorno della pecora
18-02-2015, 02:02animazione, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020, tvPermalinkShaun - Vita da pecora: Il film! (Richard Starzak, Mark Burton, 2015)
Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...
Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.
I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli? Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini.
Quando eravamo cuccioli ci innamoravamo di tutto, la felicità era a portata di zampa come un osso o un ciuffo d'erba. Quando eravamo cuccioli tutto era perfetto e indistruttibile come in un cartone animato di plastilina. Ma poi il cartone animato è andato avanti, le puntate sono diventate stagioni, le stagioni sono volate, e adesso ci costa così fatica anche soltanto recitare la sigla. Come ogni mattino il gallo canterà, il Fattore ti schiaccerà il naso con la porta, e insieme verrete a scortarci verso un altro giorno inutile. Se solo esistesse un altrove dove poter scappare. Il primo colpo di genio bussa a film appena iniziato: la sigla del cartone televisivo (che ogni habitué di Rai Yoyo non può non conoscere a memoria) destrutturata e interpretata dai suoi protagonisti con sempre minor convinzione. La tv come recinto da evadere, il cinema come spazio di fuga. Ma attente, pecorelle: oltre il recinto potrebbe attendervi una gabbia anche peggiore...
Me and the farmer like brothers, like sisters |
Comparsa per la prima volta in un episodio di Wallace e Gromit, la pecora Shaun è ormai il personaggio di maggior successo della Aardman Animations: ma se il vostro amore per gli studios di Bristol e per la loro stopmotion fuori dal tempo si è sviluppato al cinema, grazie a Galline in fuga o la Maledizione del Coniglio Mannaro, è possibilissimo che la pecora fin qui vi sia sfuggita. Chi invece per motivi famigliari si ritrova spesso il telecomando bloccato sul 43, guarda a Shaun con reverenza e gratitudine: è senz'altro il personaggio meno infantile di tutto il palinsesto. In effetti non è ben chiaro che ci faccia tra Peppa Pig e i Teletubbies. Shaun non è soltanto pensato per un pubblico più grandicello: è proprio la sua comicità a non entrare negli stampini con cui si produce oggi l'intrattenimento per le fasce protette.
I cartoni di oggi sono in sostanza tutti sit-com in miniatura: i personaggi, spesso animali antropomorfi, sono inseriti in un contesto sociale modellato sulla famiglia contemporanea, hanno amici con cui litigano e fanno la pace e nel giro di tre-quattro minuti commettono qualche marachella e imparano la lezione. I migliori - quasi sempre inglesi, come Peppa - aggiungono al modello uno humour che li rende più tollerabili ai genitori, ma si guardano bene dal sovvertire la formula. Shaun guarda semplicemente altrove, al surrealismo comico dei Looney Tunes e ancora più indietro. Shaun non parla; vive nel mondo muto e pieno di rumori delle comiche in bianco e nero. Non è un bambino, è una pecora geniale in un mondo di adulti carichi di difetti e frustrazioni. In una delle mie puntate preferite, le pecore si travestono per salvare la festa in maschera organizzata dal Fattore. In qualche modo la cosa funziona, il Fattore balla e beve, e dopo un po’ comincia a provarci con la pecora più grossa. Esatto, lo fanno vedere su Rai Yoyo più o meno verso l’ora di cena. Pensate sia il caso di avvertirli? Il film porta le pecore nella Grande Città – una meravigliosa metropoli di plastilina, tentacolare e familiare a un tempo – e offre anche al Fattore una mezza giornata per riscattarsi dalla mediocrità. Il tema dell’evasione si conferma essere uno dei più congeniali per gli animatori della Aardman: i pochi minuti che Shaun e il cane Blitzer trascorrono nella cella dell’accalappia-animali comunicano un senso di angoscia che non è comune trovare in un prodotto per bambini.
L’equivoco è sempre lo stesso: Shaun non è esattamente un prodotto per bambini, ma probabilmente se alla Rai se ne fossero accorti in Italia nessuno lo conoscerebbe, e oggi non sarebbe nemmeno nelle sale. In realtà un po’ di comicità vecchio stile ai bambini non può che far bene – certo, rinunciare ai dialoghi significa privarsi dello humour di altre produzioni Aardman, ma la pecora è comunque divertentissima e gli ottanta minuti volano. Verso la fine accade il solito misfatto: smettiamo di ammirare ogni fotogramma per quello che è, un capolavoro di tecnica artigianale, e ci concentriamo sull’azione, dando per scontato che quelle forme di plastilina siano vive e dotate di passioni e sentimenti. Poi le luci si accendono, parte la sigla: la grande fuga è finita.
Shaun è al Multisala Impero di Bra (20:20), all’Italia di Saluzzo (17:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20). Beeeeeeeh!
Questo pezzo non fa ridere (perché voi invece)
16-02-2015, 22:23guerra, Sanremo, tvPermalink
Ma certo, anch'io sono stato giovane e ho pensato che dei comici non avevo bisogno. Gente che ti fa ridere mentre il mondo brucia? Spacciatori d'oppio dei popoli, giullari del regime, boooooooh. Oggi la penso in un modo diverso, perché sono vecchio.
Ma anche perché il mondo là fuori è un vero casino - cioè lo è sempre stato, ma da qualche anno a questa parte veramente esagera. C'è bisogno di spiegarvelo? Come ormai non potete più far finta di non sapere, la Libia è nel caos.
Ovviamente è anche colpa nostra, per via di quello che abbiamo fatto e soprattutto lasciato fare qualche anno fa, quando ci fu una cosa che allora chiamavamo primavera araba. Il prezzo dei cereali era impennato, fiorivano rivolte qua e là per il Mediterraneo, e in certi casi se ne approfittò per mandare in pensione alcuni dittatori decisamente impresentabili. L'unico posto in cui la cosa ha funzionato senza troppi disastri fu la Tunisia - meglio che niente.
In Egitto l'esercito scaricò Mubarak, lasciò soffriggere i fratelli Musulmani e poi tornò al potere senza Mubarak (meglio che niente?) In Siria è successo quel che sta succedendo: in sostanza chi pensava di levare di mezzo il dittatore Assad ha scoperchiato un nido di tagliagola, col bel risultato che ora i tagliagola scorrazzano liberi tra Iraq e Kurdistan, girano snuff e li mostrano ai nostri figli su youtube, e a noi tocca pure appoggiare il dittatore e gasatore Assad.
In Libia dopo Gheddafi è proseguita in sostanza la guerra tribale, che nessuno si è filato finché un gruppetto tra tanti non ha issato la bandiera nera dei tagliagola e ci ha ricordato la distanza in miglia nautiche da Roma. Anche qui, come in Siria, la sensazione è che i tagliagola stiano facendo tutto quello che possono per attirare l'attenzione di chi può bombardarli dal cielo e poi asfaltarli a terra, e soffrano molto il fatto che dopo quindici anni di guerra al terrore noi non ci crediamo più così tanto, nella favola dei bombardamenti mirati e nel peacekeeping.
Soprattutto non ci crediamo noi italiani, che per motivi storici dovremmo essere gli ultimi a partecipare a una missione del genere, ma per motivi geografici ci troveremo comunque in prima linea, come ai tempi della Bosnia e del Kossovo (avete voluto una nazione a forma di portaerei?) A quel punto le possibilità di attentati di matrice islamista, come in Francia e in Danimarca, aumentano esponenzialmente. Borghezio e Salvini secondo me non vedono l'ora. Questo è il mondo in cui ultimamente vivo, e immagino anche voi.
Quindi se ogni tanto c'è qualcosa di leggero in tv, chessò, Sanremo, e un comico prova a tirarmi su il morale con qualche battuta disimpegnata, io non ho obiezioni: voi ne avete? Io no, la vita è così dura. Per favore, comico, dammi del tuo meglio.
Il bambino grasso! ma certo! fa ridere perché, invece di essere magro, come tutti i bambini in tv, lui è grasso! Quindi è divertente, perché... boh, perché probabilmente soffre della sua grassezza. Gli altri stanno comodi nella poltrona e lui no, ah ah ah, soffre! E io non soffro come lui! Io mi diverto! Grazie comico! Ora non sto più pensando ai tagliagola dell'Isis, ora sto pensando al fatto che ci sono bambini obesi e hanno una speranza di vita inferiore alla mia! Ah ah ah aah ah.
Bah.
Proprio quando ci vorrebbe davvero qualcuno che non ti facesse pensare troppo a quel che succede, che ne so, in Ucraina - ma a chi la voglio raccontare?
L'Ucraina è lontana e nemmeno le badanti la rimpiangono troppo; quel che davvero mi pesa è l'embargo. Dovete sapere che dalle mie parti, in questi anni difficili, c'è stato qualcosa a cui ci siamo aggrappati come a un solido albero maestro in un naufragio, e questo qualcosa era il Ricco Russo Cafone. Sapete quando dicevano che il Lusso teneva, che il Lusso ci avrebbe salvato: vi sarete domandati anche voi chi era previsto si comprasse tutto questo Lusso neanche troppo ben confezionato. Il RRS (PPC) era la risposta. Non c'era vestito ultravalutato che non avrebbe comprato per sé o per qualche sua accompagnatice; non c'era ristorante esagerato in cui non avrebbe ordinato ostriche champagne e cocacola, perché egli era Ricco, Russo e Cafone, e sopra ogni considerazione geopolitica sarebbe sempre prevalso l'atavico amore per Toto Cutugno.
Poi gli americani, pardon, la Nato ha deciso di espandersi a est - perché poi? Non c'è un perché, un'alleanza militare o si espande o si ritira, la stasi non esiste - Putin si è sentito minacciato dalla prospettiva di qualche base missilistica o dronica a meno di 300 km da Mosca, ha armato qualche separatista, Obama ci ha imposto l'embargo, tanto a lui che frega? Mica deve vendere accessori griffati ai mafiosi di San Pietroburgo, lui, e così addio Ricco Russo Cafone, dasvidaniya PPC. Ho sentito dire che a Madonna di Campiglio è un mortorio, vi rendete conto? E non torneranno mai più, sapete, non torneranno. Putin vuole potenziare il prodotto interno, farà costruire qualche Madonna di Campiglio sugli Urali. Nella crisi in cui siamo avevamo un solo relitto a cui appoggiarci, e ci hanno tolto anche quello in nome di beghe geopolitiche che comunque a noi non frutteranno un soldo. Non ha neanche senso lamentarsene, è andata così. Si fossero almeno tenuti Toto Cutugno, no, ne faranno una copia autoctona. Se magari ci fosse un modo stasera di riderci su, un comico che riuscisse a strapparci una risata con qualcosa di genuinamente divertente...
Ma anche perché il mondo là fuori è un vero casino - cioè lo è sempre stato, ma da qualche anno a questa parte veramente esagera. C'è bisogno di spiegarvelo? Come ormai non potete più far finta di non sapere, la Libia è nel caos.
Ovviamente è anche colpa nostra, per via di quello che abbiamo fatto e soprattutto lasciato fare qualche anno fa, quando ci fu una cosa che allora chiamavamo primavera araba. Il prezzo dei cereali era impennato, fiorivano rivolte qua e là per il Mediterraneo, e in certi casi se ne approfittò per mandare in pensione alcuni dittatori decisamente impresentabili. L'unico posto in cui la cosa ha funzionato senza troppi disastri fu la Tunisia - meglio che niente.
In Egitto l'esercito scaricò Mubarak, lasciò soffriggere i fratelli Musulmani e poi tornò al potere senza Mubarak (meglio che niente?) In Siria è successo quel che sta succedendo: in sostanza chi pensava di levare di mezzo il dittatore Assad ha scoperchiato un nido di tagliagola, col bel risultato che ora i tagliagola scorrazzano liberi tra Iraq e Kurdistan, girano snuff e li mostrano ai nostri figli su youtube, e a noi tocca pure appoggiare il dittatore e gasatore Assad.
In Libia dopo Gheddafi è proseguita in sostanza la guerra tribale, che nessuno si è filato finché un gruppetto tra tanti non ha issato la bandiera nera dei tagliagola e ci ha ricordato la distanza in miglia nautiche da Roma. Anche qui, come in Siria, la sensazione è che i tagliagola stiano facendo tutto quello che possono per attirare l'attenzione di chi può bombardarli dal cielo e poi asfaltarli a terra, e soffrano molto il fatto che dopo quindici anni di guerra al terrore noi non ci crediamo più così tanto, nella favola dei bombardamenti mirati e nel peacekeeping.
Soprattutto non ci crediamo noi italiani, che per motivi storici dovremmo essere gli ultimi a partecipare a una missione del genere, ma per motivi geografici ci troveremo comunque in prima linea, come ai tempi della Bosnia e del Kossovo (avete voluto una nazione a forma di portaerei?) A quel punto le possibilità di attentati di matrice islamista, come in Francia e in Danimarca, aumentano esponenzialmente. Borghezio e Salvini secondo me non vedono l'ora. Questo è il mondo in cui ultimamente vivo, e immagino anche voi.
Quindi se ogni tanto c'è qualcosa di leggero in tv, chessò, Sanremo, e un comico prova a tirarmi su il morale con qualche battuta disimpegnata, io non ho obiezioni: voi ne avete? Io no, la vita è così dura. Per favore, comico, dammi del tuo meglio.
Il bambino grasso! ma certo! fa ridere perché, invece di essere magro, come tutti i bambini in tv, lui è grasso! Quindi è divertente, perché... boh, perché probabilmente soffre della sua grassezza. Gli altri stanno comodi nella poltrona e lui no, ah ah ah, soffre! E io non soffro come lui! Io mi diverto! Grazie comico! Ora non sto più pensando ai tagliagola dell'Isis, ora sto pensando al fatto che ci sono bambini obesi e hanno una speranza di vita inferiore alla mia! Ah ah ah aah ah.
Bah.
Proprio quando ci vorrebbe davvero qualcuno che non ti facesse pensare troppo a quel che succede, che ne so, in Ucraina - ma a chi la voglio raccontare?
L'Ucraina è lontana e nemmeno le badanti la rimpiangono troppo; quel che davvero mi pesa è l'embargo. Dovete sapere che dalle mie parti, in questi anni difficili, c'è stato qualcosa a cui ci siamo aggrappati come a un solido albero maestro in un naufragio, e questo qualcosa era il Ricco Russo Cafone. Sapete quando dicevano che il Lusso teneva, che il Lusso ci avrebbe salvato: vi sarete domandati anche voi chi era previsto si comprasse tutto questo Lusso neanche troppo ben confezionato. Il RRS (PPC) era la risposta. Non c'era vestito ultravalutato che non avrebbe comprato per sé o per qualche sua accompagnatice; non c'era ristorante esagerato in cui non avrebbe ordinato ostriche champagne e cocacola, perché egli era Ricco, Russo e Cafone, e sopra ogni considerazione geopolitica sarebbe sempre prevalso l'atavico amore per Toto Cutugno.
Poi gli americani, pardon, la Nato ha deciso di espandersi a est - perché poi? Non c'è un perché, un'alleanza militare o si espande o si ritira, la stasi non esiste - Putin si è sentito minacciato dalla prospettiva di qualche base missilistica o dronica a meno di 300 km da Mosca, ha armato qualche separatista, Obama ci ha imposto l'embargo, tanto a lui che frega? Mica deve vendere accessori griffati ai mafiosi di San Pietroburgo, lui, e così addio Ricco Russo Cafone, dasvidaniya PPC. Ho sentito dire che a Madonna di Campiglio è un mortorio, vi rendete conto? E non torneranno mai più, sapete, non torneranno. Putin vuole potenziare il prodotto interno, farà costruire qualche Madonna di Campiglio sugli Urali. Nella crisi in cui siamo avevamo un solo relitto a cui appoggiarci, e ci hanno tolto anche quello in nome di beghe geopolitiche che comunque a noi non frutteranno un soldo. Non ha neanche senso lamentarsene, è andata così. Si fossero almeno tenuti Toto Cutugno, no, ne faranno una copia autoctona. Se magari ci fosse un modo stasera di riderci su, un comico che riuscisse a strapparci una risata con qualcosa di genuinamente divertente...
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Il diabolico piano di M. Renzi
15-02-2015, 02:11RenziPermalink
A questo punto, se Renzi sta eseguendo un piano, si tratta quantomeno di un congegno molto complesso. L'alternativa, purtroppo più verisimile, è che stia tirando leve a casaccio nella speranza che l'aggeggio si metta in moto oppure esploda - farebbe veramente qualche differenza per lui?
È molto difficile scrivere di Renzi senza intrupparsi tra chi ormai lo detesta o lo appoggia per partito preso. A me piacerebbe conquistare una postazione neutra (sarà dura, coi miei precedenti), e da questa chiedermi: perché Matteo Renzi ha perso così tanto tempo dietro a Berlusconi - un anno! - se dopotutto le riforme non le voleva fare con lui? E se le voleva fare con lui, perché si è giocato un'alleanza portata avanti con tanta fatica, il tutto per mandare al Quirinale un presidente nemmeno così tanto renziano? Sul serio prevedeva di arrivare a questo punto, col parlamento scassato e una riforma costituzionale promossa da una maggioranza alla camera che rappresenta, ricordiamolo, meno di un terzo dell'elettorato? E se non voleva arrivare a questo punto, com'è successo che ci sia arrivato?
La tentazione di buttarla in psicologia è molto forte. Con Berlusconi Renzi sembra avere in comune un narcisismo che lo porta a concepire l'azione politica come un'infinita lotta per l'autoaffermazione. Come Berlusconi, Renzi ci prova a governare, ma quello che gli piace davvero è la campagna elettorale. Non c'è nessun motivo sensato per buttare via il lavoro di un anno e andare alle elezioni, e infatti non è detto che Renzi desideri farlo: ma inconsciamente è lì che ci sta portando. Questa è una prima ipotesi, che probabilmente fa torto all'intelligenza dell'uomo.
Forse vale la pena di mettersi nei suoi panni - il che implica non credere alle storie che più volte ci ha raccontato. Per esempio: non è vero che le riforme si dovevano per forza fare con Berlusconi, almeno tecnicamente, visto che nemmeno Berlusconi portava in dote il numero di parlamentari sufficiente a ottenere la maggioranza qualificata necessaria. Anche prima che Berlusconi chiudesse le porte, sapevamo che queste riforme avrebbero richiesto un referendum confermativo. Fino a un mese fa questo referendum rischiava di diventare una consultazione popolare sul patto del Nazareno: vi piace la coppia Renzi-Berlusconi, sì o no? Ma ora che ha chiuso con Berlusconi, il referendum diventa quello che Renzi ha sempre voluto che fosse: un plebiscito su di lui.
In questa prospettiva tutto diventa un pretesto: la tenuta del parlamento, il senso di un'alleanza portata avanti per un anno, la natura stessa di queste riforme che all'inizio erano molto brutte ma poi sono state emendate a piacere: tutto questo Renzi se lo può giocare in una sera, perché quello che conta è che si vada a votare, e forse è davvero meglio andarci subito, mentre Forza Italia è nel caos e Salvini promette bene ma non è ancora diventato il leader di una piattaforma di centrodestra.
Quindi forse Renzi ce l'ha, un piano. Sta a noi decidere di farcelo piacere o no. Il fatto che si vada alle elezioni invece che a un referendum può fare la differenza. Il referendum ci imporrebbe di scegliere se farci piacere la riforma di Renzi o umiliarlo. Davanti a un bivio del genere io non avrei molti dubbi su che direzione prendere. Ma se invece del referendum si andrà alle elezioni, le opzioni in ballo saranno diverse: grosso modo sarà o Renzi o fuori dall'Europa. Ecco, a quel punto molti come me, che non avrebbero votato per lui al referendum, potrebbero decidere di sostenerlo anche se non lo sopportano. Quindi, tra elezioni anticipate e referendum confermativo, Renzi ha un buon motivo per preferire le prime.
Oppure non ha nessuna idea di quel che sta facendo: sta smontando e rimontando pezzi nella speranza che il congegno si metta in modo oppure esploda. In fondo per lui non deve fare tutta questa differenza.
È molto difficile scrivere di Renzi senza intrupparsi tra chi ormai lo detesta o lo appoggia per partito preso. A me piacerebbe conquistare una postazione neutra (sarà dura, coi miei precedenti), e da questa chiedermi: perché Matteo Renzi ha perso così tanto tempo dietro a Berlusconi - un anno! - se dopotutto le riforme non le voleva fare con lui? E se le voleva fare con lui, perché si è giocato un'alleanza portata avanti con tanta fatica, il tutto per mandare al Quirinale un presidente nemmeno così tanto renziano? Sul serio prevedeva di arrivare a questo punto, col parlamento scassato e una riforma costituzionale promossa da una maggioranza alla camera che rappresenta, ricordiamolo, meno di un terzo dell'elettorato? E se non voleva arrivare a questo punto, com'è successo che ci sia arrivato?
La tentazione di buttarla in psicologia è molto forte. Con Berlusconi Renzi sembra avere in comune un narcisismo che lo porta a concepire l'azione politica come un'infinita lotta per l'autoaffermazione. Come Berlusconi, Renzi ci prova a governare, ma quello che gli piace davvero è la campagna elettorale. Non c'è nessun motivo sensato per buttare via il lavoro di un anno e andare alle elezioni, e infatti non è detto che Renzi desideri farlo: ma inconsciamente è lì che ci sta portando. Questa è una prima ipotesi, che probabilmente fa torto all'intelligenza dell'uomo.
Forse vale la pena di mettersi nei suoi panni - il che implica non credere alle storie che più volte ci ha raccontato. Per esempio: non è vero che le riforme si dovevano per forza fare con Berlusconi, almeno tecnicamente, visto che nemmeno Berlusconi portava in dote il numero di parlamentari sufficiente a ottenere la maggioranza qualificata necessaria. Anche prima che Berlusconi chiudesse le porte, sapevamo che queste riforme avrebbero richiesto un referendum confermativo. Fino a un mese fa questo referendum rischiava di diventare una consultazione popolare sul patto del Nazareno: vi piace la coppia Renzi-Berlusconi, sì o no? Ma ora che ha chiuso con Berlusconi, il referendum diventa quello che Renzi ha sempre voluto che fosse: un plebiscito su di lui.
In questa prospettiva tutto diventa un pretesto: la tenuta del parlamento, il senso di un'alleanza portata avanti per un anno, la natura stessa di queste riforme che all'inizio erano molto brutte ma poi sono state emendate a piacere: tutto questo Renzi se lo può giocare in una sera, perché quello che conta è che si vada a votare, e forse è davvero meglio andarci subito, mentre Forza Italia è nel caos e Salvini promette bene ma non è ancora diventato il leader di una piattaforma di centrodestra.
Quindi forse Renzi ce l'ha, un piano. Sta a noi decidere di farcelo piacere o no. Il fatto che si vada alle elezioni invece che a un referendum può fare la differenza. Il referendum ci imporrebbe di scegliere se farci piacere la riforma di Renzi o umiliarlo. Davanti a un bivio del genere io non avrei molti dubbi su che direzione prendere. Ma se invece del referendum si andrà alle elezioni, le opzioni in ballo saranno diverse: grosso modo sarà o Renzi o fuori dall'Europa. Ecco, a quel punto molti come me, che non avrebbero votato per lui al referendum, potrebbero decidere di sostenerlo anche se non lo sopportano. Quindi, tra elezioni anticipate e referendum confermativo, Renzi ha un buon motivo per preferire le prime.
Oppure non ha nessuna idea di quel che sta facendo: sta smontando e rimontando pezzi nella speranza che il congegno si metta in modo oppure esploda. In fondo per lui non deve fare tutta questa differenza.
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Un giorno da cretini
14-02-2015, 01:53cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, fb2020PermalinkItaliano medio (Maccio Capatonda, 2015)
Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?
Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?
Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.
Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
Essere un cretino, almeno per un giorno. Non dirmi che non ne hai mai avuto voglia. Guardati intorno. In tv c'è Sanremo, e non ti piace una canzone. Al cinema c'è 50 sfumature di grigio, ti annoia già dal titolo. Non dirmi che non ci hai mai pensato: se stasera fossi un cretino allora sì che mi divertirei. Riderei di qualsiasi cosa, mi accoppierei con qualsiasi cosa; guiderei un macchinone in mezzo alla carreggiata perché sì; sarei felice. Magari non tutta la vita, ma se ci fosse una pillola e avesse un effetto di due ore, non la prenderesti?
Italiano medio è il film non troppo deludente di Maccio Capatonda, un comico che negli ultimi anni ha rischiato parecchio tra youtube tv e radio, oscillando tra l'abisso di non essere capito e quello di finire a lavorare allo zoo di 105. Non è poi così strano che dopo tanti rischi, nel momento di portare il suo mondo al cinema, abbia prevalso una certa prudenza: se Italiano medio ha un difetto è proprio di essere esattamente il film di Maccio Capatonda che un po' tutti ci aspettavamo. Non poteva mancare Herbert Ballerina, ovviamente c'è Ivo Avido, e tutta la compagnia di giro che rafforza la sensazione di trovarsi davanti a una puntata speciale di Mario, un po' meno folle di quelle che vanno in rotazione su Mtv. Del resto, avercene. Cioè non è che la situazione del cinema italiano (e non solo di quello) sia tale da farci sputare sopra a una puntata speciale di Mario. Il buon successo di Italiano medio non va solo letto in assoluto, ma anche confrontato con quello delle solite-commedie-italiane che stanno uscendo in questo stesso periodo e che scompaiono dai radar già alla seconda settimana. Maccio è andato molto meglio di Belen, questo forse un mese fa non era prevedibile - in realtà non ho niente contro Belen attrice, ma se in giro c'è un film che mentre ti fa ridere ti piazza qualche riferimento a Franzen o Palahniuk, non è una buona notizia?
Italiano medio è anche un compendio di tutto quello che Maccio ha fatto fin qui. Com'è noto, il film sviluppa le premesse di uno dei finti trailer che lo fecero conoscere negli ultimi anni di Mai dire Goal. Il trailer in questione per la verità è un po' più tardo (2012), ma il film che ne scaturisce potrebbe essere stato scritto anche dieci anni fa (continua su +eventi!) per come inquadra una serie di bersagli che oggi sono già un po' sfumati all'orizzonte: i calciatori scemi e le veline, i tronisti e i privé. Come già in Mario, Maccio qui dà libero sfogo a un antiberlusconismo viscerale come al cinema forse non abbiamo mai visto: l'arrivo della tv commerciale è considerato alla stregua della cacciata dal paradiso terrestre. La doppia identità del suo eroe, Giulio Verme, è un risultato di quello choc primigenio: da una parte un neobarbaro lobotomizzato, dall'altra un moralista sterile incapace di qualsiasi attrito con la realtà. Già questa piccola analisi, buttata lì in un film che non si vergogna nemmeno un istante di far ridere con scoregge e giochi di parole, sta qualche metro sopra alla capacità di autoanalisi delle commedie sofisticate che si fanno giù a Roma, dove essere berlusconiani o anti è semplicemente una questione di status, molto spesso ereditato o ricevuto in dote. Maccio è più viscerale, ma anche più interessato al concetto del "berlusconi in me": si capisce che è alla ricerca di una sintesi, e che è molto scettico sulla possibilità di raggiungerla (in questo senso il finale è sì, sorprendente, e ti riconcilia col senso del film). Forse ha qualche compromesso da rimproverarsi (lavora per uno dei programmi radiofonici più trucidi, gira film con la Medusa). Nel frattempo ti abbozza anche un'idea del grillismo, la solidarietà di un gruppo di freak che nel deserto sociale si ritrova insieme contro tutto senza nemmeno bene ricordarsi il perché. Pacifisti violenti, complottisti creativi, imbecilli che ci fanno sentire intelligenti, ex vip qualunque non rassegnati all'oblio, non manca nessuno. Non so se Italiano medio farà ancora ridere tra vent'anni, ma sicuramente tornerà utile per farci ricordare come ci sentivamo. Circondati da cretini, invidiosi dei loro trionfi, disperatamente disposti a dialogare con loro.
Alla terza settimana, Italiano medio è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (sabato solo alle 22:40; da domenica a venerdì alle 22:40 ma anche alle 20:30).
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Canzoni ascoltabili a Sanremo (3)
13-02-2015, 13:27musica, SanremoPermalink(Prosegue dall'anno scorso)
Il ragazzo della via Gluck (1966, Adriano Celentano)
Questa è la storia di uno di noi. Esempio raro di canzone che a Sanremo non deve proprio niente - qualcuno si ricorda che partecipò? Del resto fu bocciata subito, e non credo che sussistano filmati dell'esibizione. Celentano avrebbe poi partecipato con molti altri suoi classici, e vinto nel 1970 con un pezzo che mi causa sofferenza anche solo a ricordarne il titolo. La via Gluck è un caso a parte, il classico miracolo che poi Celentano tentò più volte di replicare in laboratorio - una ballatona ecologista, che ci vuole? - senza riuscirci mai. In quella strofa lagnosa c'è qualcosa di arcaico, un vago sapore di cantastorie in piazza che poi nel ritornello si camuffa da gospel. Era una melodia strana, a sentirla per la prima volta. Ufficialmente l'autore della musica è proprio A. Celentano, il che avrebbe un senso (c'è qualcosa di insopprimibilmente barbarico in quella cantilena) ma alla Siae è registrato anche il nome di Detto Mariano. E poi c'è il testo (Beretta/Del Prete), che sposa perfettamente l'ambigua ingenuità della musica, chiude bruscamente con fiori e amori e inquadra boom e speculazione edilizia con la spietata lucidità dei disegni dei bambini. Potremmo dire che Celentano, proprio mentre ci offriva un saggio impressionante delle sue qualità vocali, stava inventando qualcosa di molto meno cantato e molto più moderno. Potremmo anche aggiungere che nel call and response finale il giovane divo del rock si sta già allenando al ruolo di re degli ignoranti, trasformando consapevolmente la cronaca desolata del boom in una querula lagna dal barbiere, e signora mia io non so mica dove andremo a finire ("Non lasciano l'erba! Non lasciano l'erba! Eh, no, se andiamo avanti così / chissà / come si farà"). Pochi mesi dopo Gaber scrisse una borghesissima Risposta al Ragazzo della via Gluck molto meno conosciuta, ma a suo modo ugualmente geniale.
4 marzo 1943 (1971, Lucio Dalla, testo micidiale di Paola Pallottino)
Dice ch'era un bell'uomo. Non c'è niente da fare, ogni volta che controllo mi accorgo che non vinse Sanremo, poi me ne dimentico. È una nozione che mi rifiuto di registrare. 4 marzo arrivò terza: non male per una canzone che per strada aveva perso qualche pezzo di testo ("bestemmio", "puttane") e addirittura il titolo ("Gesù Bambino"). Anche 4 marzo riprende molto alla lontana una melodia popolare - lo stornello - barattando il ritornello con un elementare fraseggio di violino che ti si conficca nel cuore. Non c'è niente di più banale del passaggio dal do al la minore, non c'è nulla di più potente. Se poi dal la minore, invece di proseguire per il solito giro, ritorni subito al do, è come se dicessi alle lacrime: statevene pure lì dove siete, questa storia squallida e triste la racconterò come una favola a lieto fine. Quattro marzo è un romanzo in tre minuti, un piccolo congegno micidiale, scritto da una signora che poi nella vita fece tutt'altro. Chi la cantava invece in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani, ma non aveva quasi ancora messo un verso su un foglio. Non stupisce che abbia vinto a Sanremo - ah, non ha vinto? E chi vinse quell'anno? Boh.
Lei verrà (1986, Mango).
Amore che non dà più sogni. Io nel 1986 ormai c'ero, nel senso che non scambiavo più Toto Cutugno per un cantautore impegnato o Vasco per un barbone. Da quel che ho capito la persistenza di personaggi come Albano e Romina sta alimentando una specie di mito del Sanremo anni Ottanta come un oggetto monolitico: non era così, era qualcosa in costante evoluzione. Nell'86 Albano e Romina non venivano da due anni e sembrava che nessuno li rimpiangesse, come se ce li fossimo già lasciati alle spalle. Il presente era Eros Ramazzotti, era Zucchero, ed era persino Mango, che a metà Ottanta si stava ritagliando un'imprevedibile egemonia. In quell'edizione firmava la sigla della Goggi, il pezzo della Bertè (che nella finale si mise un pancione finto), un pezzo per le Nuove proposte e ovviamente Lei verrà, che nell'86 non assomigliava a nulla, o meglio: assomigliava solo a Mango, originale e riconoscibile a un tempo. Credo che tutti i musicisti abbiano diritto a scrivere almeno una progressione Pachelbel nella loro carriera: credo che pochi negli ultimi quarant'anni se la siano cavati con la levità di Pino Mango, sospeso miracolosamente sulla cresta di cose che non ci piacevano più (il falsetto) o che stavano per stancarci definitivamente. Con Lei verrà Mango sembrava entrato a pieni diritto nell'olimpo della musica italiana: non so poi come andò a finire, forse ne uscì poco dopo per qualche scelta sbagliata; forse entrò un sacco di gente e smettemmo di considerarlo un olimpo.
(Lo so, ce ne sono tantissime altre, non mancheranno occasioni).
Il ragazzo della via Gluck (1966, Adriano Celentano)
Questa è la storia di uno di noi. Esempio raro di canzone che a Sanremo non deve proprio niente - qualcuno si ricorda che partecipò? Del resto fu bocciata subito, e non credo che sussistano filmati dell'esibizione. Celentano avrebbe poi partecipato con molti altri suoi classici, e vinto nel 1970 con un pezzo che mi causa sofferenza anche solo a ricordarne il titolo. La via Gluck è un caso a parte, il classico miracolo che poi Celentano tentò più volte di replicare in laboratorio - una ballatona ecologista, che ci vuole? - senza riuscirci mai. In quella strofa lagnosa c'è qualcosa di arcaico, un vago sapore di cantastorie in piazza che poi nel ritornello si camuffa da gospel. Era una melodia strana, a sentirla per la prima volta. Ufficialmente l'autore della musica è proprio A. Celentano, il che avrebbe un senso (c'è qualcosa di insopprimibilmente barbarico in quella cantilena) ma alla Siae è registrato anche il nome di Detto Mariano. E poi c'è il testo (Beretta/Del Prete), che sposa perfettamente l'ambigua ingenuità della musica, chiude bruscamente con fiori e amori e inquadra boom e speculazione edilizia con la spietata lucidità dei disegni dei bambini. Potremmo dire che Celentano, proprio mentre ci offriva un saggio impressionante delle sue qualità vocali, stava inventando qualcosa di molto meno cantato e molto più moderno. Potremmo anche aggiungere che nel call and response finale il giovane divo del rock si sta già allenando al ruolo di re degli ignoranti, trasformando consapevolmente la cronaca desolata del boom in una querula lagna dal barbiere, e signora mia io non so mica dove andremo a finire ("Non lasciano l'erba! Non lasciano l'erba! Eh, no, se andiamo avanti così / chissà / come si farà"). Pochi mesi dopo Gaber scrisse una borghesissima Risposta al Ragazzo della via Gluck molto meno conosciuta, ma a suo modo ugualmente geniale.
4 marzo 1943 (1971, Lucio Dalla, testo micidiale di Paola Pallottino)
Dice ch'era un bell'uomo. Non c'è niente da fare, ogni volta che controllo mi accorgo che non vinse Sanremo, poi me ne dimentico. È una nozione che mi rifiuto di registrare. 4 marzo arrivò terza: non male per una canzone che per strada aveva perso qualche pezzo di testo ("bestemmio", "puttane") e addirittura il titolo ("Gesù Bambino"). Anche 4 marzo riprende molto alla lontana una melodia popolare - lo stornello - barattando il ritornello con un elementare fraseggio di violino che ti si conficca nel cuore. Non c'è niente di più banale del passaggio dal do al la minore, non c'è nulla di più potente. Se poi dal la minore, invece di proseguire per il solito giro, ritorni subito al do, è come se dicessi alle lacrime: statevene pure lì dove siete, questa storia squallida e triste la racconterò come una favola a lieto fine. Quattro marzo è un romanzo in tre minuti, un piccolo congegno micidiale, scritto da una signora che poi nella vita fece tutt'altro. Chi la cantava invece in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani, ma non aveva quasi ancora messo un verso su un foglio. Non stupisce che abbia vinto a Sanremo - ah, non ha vinto? E chi vinse quell'anno? Boh.
Lei verrà (1986, Mango).
Amore che non dà più sogni. Io nel 1986 ormai c'ero, nel senso che non scambiavo più Toto Cutugno per un cantautore impegnato o Vasco per un barbone. Da quel che ho capito la persistenza di personaggi come Albano e Romina sta alimentando una specie di mito del Sanremo anni Ottanta come un oggetto monolitico: non era così, era qualcosa in costante evoluzione. Nell'86 Albano e Romina non venivano da due anni e sembrava che nessuno li rimpiangesse, come se ce li fossimo già lasciati alle spalle. Il presente era Eros Ramazzotti, era Zucchero, ed era persino Mango, che a metà Ottanta si stava ritagliando un'imprevedibile egemonia. In quell'edizione firmava la sigla della Goggi, il pezzo della Bertè (che nella finale si mise un pancione finto), un pezzo per le Nuove proposte e ovviamente Lei verrà, che nell'86 non assomigliava a nulla, o meglio: assomigliava solo a Mango, originale e riconoscibile a un tempo. Credo che tutti i musicisti abbiano diritto a scrivere almeno una progressione Pachelbel nella loro carriera: credo che pochi negli ultimi quarant'anni se la siano cavati con la levità di Pino Mango, sospeso miracolosamente sulla cresta di cose che non ci piacevano più (il falsetto) o che stavano per stancarci definitivamente. Con Lei verrà Mango sembrava entrato a pieni diritto nell'olimpo della musica italiana: non so poi come andò a finire, forse ne uscì poco dopo per qualche scelta sbagliata; forse entrò un sacco di gente e smettemmo di considerarlo un olimpo.
(Lo so, ce ne sono tantissime altre, non mancheranno occasioni).
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La mia amica Timeline (non me la canta giusta)
11-02-2015, 22:42internet, Sanremo, tv, TwitterPermalink
Senza i tuoi capricci che farei?
Ci sono stati giorni d'odio, ci sono state mezz'ore d'amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un'amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo - e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.
Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po' troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?
A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce - voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po' mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.
Non dirò che le piace, anzi - non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un'altra stanza rispetto a quella dove sto io, com'è sempre stato credo dall'Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.
Lo si capisce dopo un paio d'ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com'erano vestite loro e com'era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l'Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.
Ci sono stati giorni d'odio, ci sono state mezz'ore d'amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un'amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo - e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.
Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po' troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?
A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce - voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po' mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.
Non dirò che le piace, anzi - non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un'altra stanza rispetto a quella dove sto io, com'è sempre stato credo dall'Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.
Lo si capisce dopo un paio d'ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com'erano vestite loro e com'era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l'Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.