Su Fahrenheit alle 16.30
04-03-2015, 13:34scuola, segnalazioniPermalinkSalve a tutti, a Fahrenheit (Radio 3) ci hanno preso gusto e alle 16:30 mi chiederanno un parere sulla riforma della scuola vista dalla scuola media, che secondo Gianna Fregonara e Orsola Riva del Corriere è "la grande dimenticata".
(Poi se un giorno arriva il podcast lo metterò).
(Poi se un giorno arriva il podcast lo metterò).
Comments (2)
Non voglio pagare per la scuola privata di tuo figlio, grazie.
04-03-2015, 10:35repliche, scuolaPermalinkCari cattolici riformisti, liberali, o chiunque voi siate: io vorrei che fosse chiaro che, contrariamente a quanto sembrate sostenere, nessuno in Italia vi costringe a far studiare i vostri figli in una scuola pubblica. Voi potete, e da sempre, iscrivere vostro figlio a qualsiasi scuola vi pare e piace. E a me sta bene.
Però ve la pagate.
Perché in questo momento le cose stanno in questo modo: io, in quanto contribuente, sono costretto a pagare, oltre per il servizio pubblico (come è giusto che sia), anche per i vostri buoni scuola. Ed ecco, questa idea che voi siate liberi di fare quello che volete, ma a spese mie, è la cosa che sopporto di meno in assoluto.
Sarà una coincidenza che l'unica volta in cui compare, nella nostra Carta Costituzionale, questa brusca espressione, "senza oneri per lo Stato", sia proprio in quel famoso art. 33? "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Possiamo pagare per molte cose, ma per la scuola dei vostri figli, grazie, no. Fatevene una migliore coi soldi vostri, se siete così bravi.
Nudo, vogliamo Don Giussani nudo!
(È un vecchio pezzo, scritto su un blog abbandonato come tanti. Lo rimetto qui perché a quanto pare ha ancora senso).
Però ve la pagate.
Perché in questo momento le cose stanno in questo modo: io, in quanto contribuente, sono costretto a pagare, oltre per il servizio pubblico (come è giusto che sia), anche per i vostri buoni scuola. Ed ecco, questa idea che voi siate liberi di fare quello che volete, ma a spese mie, è la cosa che sopporto di meno in assoluto.
Sarà una coincidenza che l'unica volta in cui compare, nella nostra Carta Costituzionale, questa brusca espressione, "senza oneri per lo Stato", sia proprio in quel famoso art. 33? "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Possiamo pagare per molte cose, ma per la scuola dei vostri figli, grazie, no. Fatevene una migliore coi soldi vostri, se siete così bravi.
Nudo, vogliamo Don Giussani nudo!
(È un vecchio pezzo, scritto su un blog abbandonato come tanti. Lo rimetto qui perché a quanto pare ha ancora senso).
Comments (26)
I robot del tramonto
03-03-2015, 03:04cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, futurismiPermalinkAutomata (Gabe Ibáñez, 2014)
Un giorno abbiamo smesso di credere nei robot. Non ci avrebbero salvato. Non ci avrebbero nemmeno soppresso, come amavamo raccontarci, per darci importanza. Cos'è in fondo l'uomo, perché un'intelligenza artificiale se ne debba curare? Insomma è andata a finire nel modo incruento e banale in cui finisce la maggior parte delle storie: abbiamo smesso di frequentarci e un bel giorno non c'erano più. Non li sogniamo neanche spesso.
In parte è stata colpa del cinema. Man mano che il nostro immaginario diventava sempre più cinematografico, i robot perdevano quote di immaginario, a favore di altre creature fantastiche molto meno difficili da mettere in scena: mostri assortiti e zombie, soprattutto. Colgo l'occasione per informarvi che crescere a pane e Asimov negli anni Ottanta fu durissimo, i robot erano i miei migliori amici ma anche una cosa definitivamente vecchia. Non era un problema di intelligenza artificiale: una cosa molto più banale, di giunture metalliche, insomma non c'era ancora verso di farli camminare in modo realistico. I robot di Guerre Stellari erano ancora tecnicamente affini a quelli dei film anni Cinquanta: manichini o bidoni aspiratutto col nano dentro. Figure da avanspettacolo, buoni per gli intermezzi comici. Quando servivano robot più inquietanti, si potevano aggirare i limiti tecnici con androidi o cyborg: però bisognava trovare gli attori adatti, quelli dalla fisionomia metallica - Yul Brynner, Rutger Hauer e, sì, mettiamoci anche Schwarzenegger. L'androide però è per definizione un impostore: se si finge simile all'uomo non può che esserne invidioso o nemico.
Il robot classico, asimoviano, aveva un sapore nettamente diverso. Nasceva schiavo, minatore o maggiordomo - ma il suo destino lo avrebbe portato prima o poi ad affrancarsi dall'umanità - e a decidere se disfarsene o aiutarla. Nel frattempo però nelle nostre case stavano entrando i primi computer, e sembravano fatti apposta per rassicurarci: erano oggetti irrimediabilmente stupidi, ben lontani dai cervelloni dei romanzi di fantascienza. A loro modo erano affascinanti, e sembravano condurci in un futuro fin lì inaspettato. Per un po' la fantascienza ha smesso di preoccuparsi del Mondo Là Fuori, e si è concentrata sulle realtà virtuali. Niente più robot, ma software ostili, come gli Agenti di Matrix. Nel frattempo i rari automi al cinema oscillavano tra il ridicolo e il vintage (il Robin Williams bicentenario). Tutta la computergrafica del mondo non riusciva a renderli credibili (qualcuno ha mai avuto voglia di rivedere I, robot per verificare?)
Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando, su vari fronti. Al cinema la fantascienza sta passando un buon momento, per vari motivi. Persino la fantascienza classica, distopica o inquietante, regge meglio di altri generi la concorrenza della fiction tv, grazie alla sua natura autoconclusiva. Questo ritorno al Mondo Là Fuori, che snobba internet e gli altri cyberspazi, in realtà asseconda una tendenza più profonda: è la stessa internet a essere uscita dai suoi classici terminali a forma di schermo-e-tastiera, e a impossessarsi di altri oggetti del nostro quotidiano: l'Internet Delle Cose. Contemporaneamente, l'Intelligenza Artificiale ha smesso di essere un vecchio concetto tra la filosofia e la fantascienza, ed è diventato un motivo di inquietudine per scienziati seri. Ma ce ne siamo accorti tutti, che i computer non sono più stupidi come una volta. Prendi Google: ha sempre la risposta giusta, sa cosa ci piace, sa dove abitiamo... e ha acquisito di recente la Boston Dynamics, che produce i droni più belli e inquietanti del mondo. Ora l'idea che i robot possano ribellarsi e venirci a prendere casa per casa non è più così assurda come solo dieci anni fa. E persino un film come Automata può sperare di trovare un pubblico più largo di quello degli appassionati del genere (continua su +eventi...)
Automata è un film spagnolo (girato in Bulgaria) che parte benissimo e poi comincia a mostrare i suoi difetti strutturali, come i robot che dopo un po’ iniziano a zoppicare e a non sentire bene gli ordini. L’approccio al genere è simile a quello degli spaghetti western di quarant’anni fa: si prende una storia classica, senza grosse preoccupazioni riguardo all’originalità; si accenna per sommi capi allo sfondo ma poi per questioni di budget ci si concentra sui dettagli (in questo film l’esercito dei robot ribelli consta di quattro esemplari), rallentando l’azione fino a ottenere effetti grotteschi, quasi metafisici. Il guaio è che la fantascienza non è il western: non può essere prevedibile, per definizione. Automata invece non si vergogna di essere una variazione sull’eterno tema asimoviano che avrebbe potuto essere stata scritta cinquant’anni fa: come in Pacific Rim, i robot che si presentano in scena sono già vecchi rottami. Sono tra i più belli e verosimili mai visti al cinema, ma in un qualche modo sembrano venire più dal passato che dal futuro: il più importante, una robot-escort, ha il volto di un manichino e un ridicolo sedere di plastica – del resto siamo in un futuro antico dove un disastro planetario qualunque (una tempesta solare) ha riportato in auge tecnologie obsolete e non rimpiante come le stampanti ad aghi e i cercapersone.
Quando nella seconda parte l’azione abbandona il grigiore metropolitano per avventurarsi nel deserto, il pur bravo Banderas si ritrova spesso senza niente di intelligente da dire e Gabe Ibáñez sembra più concentrato sulla fotografia che sull’intreccio. Il risultato è un film che gli appassionati non possono perdersi, e chiunque altro difficilmente apprezzerà. È un prodotto che testimonia la vitalità della fantascienza al cinema: se persino in Spagna un progetto del genere riesce a trovare finanziatori e distributori c’è solo da festeggiare, e lo farei volentieri se solo non venissi da un Paese poco lontano dove la sola idea di scrivere e produrre un film così sembra più fantascientifica del film stesso. Eppure una volta i film di genere li sapevamo fare meglio di tutti: oggi invece facciamo Il ragazzo invisibile. Un film di robot in Italia, oggi, cosa diventerebbe? Probabilmente l’androide farebbe il maggiordomo e finirebbe coinvolto in qualche triangolo coi padroni di casa – no, aspetta, abbiamo già fatto anche questo. Vabbe’, meglio guardarsi Automata al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:45) o all’Italia di Saluzzo (22:15)
Io e te non abbiamo più niente da dirci |
Un giorno abbiamo smesso di credere nei robot. Non ci avrebbero salvato. Non ci avrebbero nemmeno soppresso, come amavamo raccontarci, per darci importanza. Cos'è in fondo l'uomo, perché un'intelligenza artificiale se ne debba curare? Insomma è andata a finire nel modo incruento e banale in cui finisce la maggior parte delle storie: abbiamo smesso di frequentarci e un bel giorno non c'erano più. Non li sogniamo neanche spesso.
In parte è stata colpa del cinema. Man mano che il nostro immaginario diventava sempre più cinematografico, i robot perdevano quote di immaginario, a favore di altre creature fantastiche molto meno difficili da mettere in scena: mostri assortiti e zombie, soprattutto. Colgo l'occasione per informarvi che crescere a pane e Asimov negli anni Ottanta fu durissimo, i robot erano i miei migliori amici ma anche una cosa definitivamente vecchia. Non era un problema di intelligenza artificiale: una cosa molto più banale, di giunture metalliche, insomma non c'era ancora verso di farli camminare in modo realistico. I robot di Guerre Stellari erano ancora tecnicamente affini a quelli dei film anni Cinquanta: manichini o bidoni aspiratutto col nano dentro. Figure da avanspettacolo, buoni per gli intermezzi comici. Quando servivano robot più inquietanti, si potevano aggirare i limiti tecnici con androidi o cyborg: però bisognava trovare gli attori adatti, quelli dalla fisionomia metallica - Yul Brynner, Rutger Hauer e, sì, mettiamoci anche Schwarzenegger. L'androide però è per definizione un impostore: se si finge simile all'uomo non può che esserne invidioso o nemico.
Il robot classico, asimoviano, aveva un sapore nettamente diverso. Nasceva schiavo, minatore o maggiordomo - ma il suo destino lo avrebbe portato prima o poi ad affrancarsi dall'umanità - e a decidere se disfarsene o aiutarla. Nel frattempo però nelle nostre case stavano entrando i primi computer, e sembravano fatti apposta per rassicurarci: erano oggetti irrimediabilmente stupidi, ben lontani dai cervelloni dei romanzi di fantascienza. A loro modo erano affascinanti, e sembravano condurci in un futuro fin lì inaspettato. Per un po' la fantascienza ha smesso di preoccuparsi del Mondo Là Fuori, e si è concentrata sulle realtà virtuali. Niente più robot, ma software ostili, come gli Agenti di Matrix. Nel frattempo i rari automi al cinema oscillavano tra il ridicolo e il vintage (il Robin Williams bicentenario). Tutta la computergrafica del mondo non riusciva a renderli credibili (qualcuno ha mai avuto voglia di rivedere I, robot per verificare?)
Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando, su vari fronti. Al cinema la fantascienza sta passando un buon momento, per vari motivi. Persino la fantascienza classica, distopica o inquietante, regge meglio di altri generi la concorrenza della fiction tv, grazie alla sua natura autoconclusiva. Questo ritorno al Mondo Là Fuori, che snobba internet e gli altri cyberspazi, in realtà asseconda una tendenza più profonda: è la stessa internet a essere uscita dai suoi classici terminali a forma di schermo-e-tastiera, e a impossessarsi di altri oggetti del nostro quotidiano: l'Internet Delle Cose. Contemporaneamente, l'Intelligenza Artificiale ha smesso di essere un vecchio concetto tra la filosofia e la fantascienza, ed è diventato un motivo di inquietudine per scienziati seri. Ma ce ne siamo accorti tutti, che i computer non sono più stupidi come una volta. Prendi Google: ha sempre la risposta giusta, sa cosa ci piace, sa dove abitiamo... e ha acquisito di recente la Boston Dynamics, che produce i droni più belli e inquietanti del mondo. Ora l'idea che i robot possano ribellarsi e venirci a prendere casa per casa non è più così assurda come solo dieci anni fa. E persino un film come Automata può sperare di trovare un pubblico più largo di quello degli appassionati del genere (continua su +eventi...)
Copertina Urania anni Settanta, esatto. |
Quando nella seconda parte l’azione abbandona il grigiore metropolitano per avventurarsi nel deserto, il pur bravo Banderas si ritrova spesso senza niente di intelligente da dire e Gabe Ibáñez sembra più concentrato sulla fotografia che sull’intreccio. Il risultato è un film che gli appassionati non possono perdersi, e chiunque altro difficilmente apprezzerà. È un prodotto che testimonia la vitalità della fantascienza al cinema: se persino in Spagna un progetto del genere riesce a trovare finanziatori e distributori c’è solo da festeggiare, e lo farei volentieri se solo non venissi da un Paese poco lontano dove la sola idea di scrivere e produrre un film così sembra più fantascientifica del film stesso. Eppure una volta i film di genere li sapevamo fare meglio di tutti: oggi invece facciamo Il ragazzo invisibile. Un film di robot in Italia, oggi, cosa diventerebbe? Probabilmente l’androide farebbe il maggiordomo e finirebbe coinvolto in qualche triangolo coi padroni di casa – no, aspetta, abbiamo già fatto anche questo. Vabbe’, meglio guardarsi Automata al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:45) o all’Italia di Saluzzo (22:15)
O con Matteo, o con Matteo
27-02-2015, 15:20come diventare leghisti, Euro, RenziPermalink
E così, insomma, io che considero il referendum abrogativo di Landini un'opzione suicida, non ho niente di meglio da suggerire che attendere un altro referendum (quello confermativo sulle riforme costituzionali) e in quel momento ammucchiarmi con Berlusconi, Grillo e chiunque altro nell'occasione darà una mano ad affondare la nave di Renzi. A medio termine, cosa avrò ottenuto?
Andrà del tutto sprecato il tempo trascorso a discutere e votare le riforme (d'altro canto non sono davvero un granché, queste riforme: per evitare pasticci ci sarebbe bisogno di correggerle subito con ulteriori riforme, tanto vale ripartire da capo). Avrò umiliato Renzi, senza che sia ancora comparsa all'orizzonte un'alternativa credibile. Probabilmente la legislatura finirà subito dopo, e Renzi sarà ancora il candidato del PD. Tutto quello che spero di ottenere è lo spostamento del baricentro del PD più a sinistra. Non è un po' poco? Ma soprattutto:
Non è la stessa cosa che propongo da dieci, vent'anni?
Sempre con questo baricentro da spostare, possibile che non mi venga mai in mente altro? La cosa angustia anche me, anche se qualcuno la chiamerebbe coerenza e magari ne andrebbe fiero: probabilmente sono un riformista, uno che ha come obiettivo la realizzazione di un grande partito socialdemocratico all'europea che punti all'egemonia nel Paese, e dunque da quando c'è il PD (ma anche prima) non faccio altro che spingere il PD come una formichina spinge un pachiderma. Nel frattempo i grandi partiti socialdemocratici europei non se la stanno passando un granché bene: forse siamo alla fine di una certa dialettica novecentesca tra socialdemocrazia e conservatorismo liberale, ma io continuo a spingere imperterrito. Le altre opzioni le trovo ancora meno ragionevoli.
O meglio: le altre opzioni secondo me si riducono a una sola. Siamo a un bivio, come sempre. Non si tratta di scegliere tra sinistra e destra, né tra Renzi e anti-Renzi. Credo che alla prossima consultazione la scelta sarà tra Euro e non Euro: e che tutto il resto, Renzi incluso, sarà subordinato a questo: vogliamo l'Euro? Dovremo tenerci Renzi, ancora per un po'. Non vogliamo più l'Euro? È una prospettiva meno folle di quanto non fosse uno o due anni fa.
Due anni fa la vittoria di Hollande ci aveva fatto sperare nell'inizio di una nuova fase. La Francia socialista avrebbe potuto coalizzarsi con gli Stati indebitati del sud e rimettere in discussione la politica tedesca e nordica del rigore. Avrebbe potuto andare così, ma non è successo.
Persino Renzi prometteva che ne avrebbe discusso con la Merkel. È andata com'è andata. A chi avesse ancora dei dubbi, l'esito della trattativa Tsipras-UE dovrebbe esaurirli. Il rigore non si discute. A questo punto l'uscita dall'Euro diventa un'opzione. Dolorosa quanto si vuole, autolesionistica indubbiamente: ma è l'autolesionismo della disperazione. L'ultimo spazio a disposizione del condannato per negare agli altri il diritto di disporre di lui. Oggi, alla luce di quel che è successo negli ultimi anni, è giusto ricordare che l'uscita dall'euro sarebbe un'opzione catastrofica, ma non necessariamente la più catastrofica. È lecito discuterne, non solo tra i fulminati dei blog di pseudoeconomia: vogliamo andarcene o restare?
Io ovviamente voglio restare, però gli antieuristi li capisco molto più oggi che in passato. Soprattutto non credo che nei tempi brevi la situazione politica ci concederà il lusso di una terza posizione: o saremo con l'euro (e con Renzi) o saremo contro. E con Salvini.
Mi dispiace metterla giù così brutale, ma in coscienza non credo che sia molto più complicata. Se si vuole perseguire una politica economica davvero alternativa a quella imposta da Berlino e Francoforte, occorre uscire. Purtroppo non esistono uscite a sinistra e uscite a destra: ce n'è una sola. Ritenete di meritare un partito più a sinistra del PD, un partito non compromesso col renzismo? Pensate che l'unità monetaria, così com'è stata realizzata, sia stata una cessione imperdonabile di sovranità? Salvini e Grillo saranno i vostri alleati naturali. Ma anche la Meloni, e molti berlusconiani tra i quali magari Berlusconi stesso.
Un'alleanza trasversale anti-euro al momento è l'unica che può mettere Renzi in difficoltà. È uno dei motivi per cui il ballottaggio è pericoloso: mentre è al momento impensabile una coalizione Grillo-Berlusconi-Salvini (anche se la pensano allo stesso modo quasi su tutto), al secondo turno sarebbero gli elettori dei rispettivi partiti a superare le diffidenze dei vertici e concentrarsi sull'unico candidato anti-euro rimasto in lizza. Grillo non voterebbe mai per Salvini, ma l'elettore di Grillo non avrà le stesse pregiudiziali. E anche l'elettore di sinistra anti-euro non dovrebbe averne. A nessun eventuale partito di sinistra - ammesso che si riesca a riorganizzarne uno - sarà concessa l'ambiguità con cui Syriza vinse le elezioni: dentro l'euro ma contro l'austerità. Dentro l'euro ma forse fuori. Tsipras bluffava anche per noi: Bruxelles ha visto le carte, fine dei giochi. Ora siete liberi di pensare che l'Italia possa risolvere i suoi problemi rimettendosi a coniare moneta. Ma non siete più liberi di cercarvi un candidato: quel posto se l'è preso il ragazzone arrogante con le felpe.
Mi dispiace, forse non doveva finire così, ma qui le nostre strade si separano. Ci vediamo dall'altra parte.
Andrà del tutto sprecato il tempo trascorso a discutere e votare le riforme (d'altro canto non sono davvero un granché, queste riforme: per evitare pasticci ci sarebbe bisogno di correggerle subito con ulteriori riforme, tanto vale ripartire da capo). Avrò umiliato Renzi, senza che sia ancora comparsa all'orizzonte un'alternativa credibile. Probabilmente la legislatura finirà subito dopo, e Renzi sarà ancora il candidato del PD. Tutto quello che spero di ottenere è lo spostamento del baricentro del PD più a sinistra. Non è un po' poco? Ma soprattutto:
Non è la stessa cosa che propongo da dieci, vent'anni?
Sempre con questo baricentro da spostare, possibile che non mi venga mai in mente altro? La cosa angustia anche me, anche se qualcuno la chiamerebbe coerenza e magari ne andrebbe fiero: probabilmente sono un riformista, uno che ha come obiettivo la realizzazione di un grande partito socialdemocratico all'europea che punti all'egemonia nel Paese, e dunque da quando c'è il PD (ma anche prima) non faccio altro che spingere il PD come una formichina spinge un pachiderma. Nel frattempo i grandi partiti socialdemocratici europei non se la stanno passando un granché bene: forse siamo alla fine di una certa dialettica novecentesca tra socialdemocrazia e conservatorismo liberale, ma io continuo a spingere imperterrito. Le altre opzioni le trovo ancora meno ragionevoli.
O meglio: le altre opzioni secondo me si riducono a una sola. Siamo a un bivio, come sempre. Non si tratta di scegliere tra sinistra e destra, né tra Renzi e anti-Renzi. Credo che alla prossima consultazione la scelta sarà tra Euro e non Euro: e che tutto il resto, Renzi incluso, sarà subordinato a questo: vogliamo l'Euro? Dovremo tenerci Renzi, ancora per un po'. Non vogliamo più l'Euro? È una prospettiva meno folle di quanto non fosse uno o due anni fa.
Due anni fa la vittoria di Hollande ci aveva fatto sperare nell'inizio di una nuova fase. La Francia socialista avrebbe potuto coalizzarsi con gli Stati indebitati del sud e rimettere in discussione la politica tedesca e nordica del rigore. Avrebbe potuto andare così, ma non è successo.
Persino Renzi prometteva che ne avrebbe discusso con la Merkel. È andata com'è andata. A chi avesse ancora dei dubbi, l'esito della trattativa Tsipras-UE dovrebbe esaurirli. Il rigore non si discute. A questo punto l'uscita dall'Euro diventa un'opzione. Dolorosa quanto si vuole, autolesionistica indubbiamente: ma è l'autolesionismo della disperazione. L'ultimo spazio a disposizione del condannato per negare agli altri il diritto di disporre di lui. Oggi, alla luce di quel che è successo negli ultimi anni, è giusto ricordare che l'uscita dall'euro sarebbe un'opzione catastrofica, ma non necessariamente la più catastrofica. È lecito discuterne, non solo tra i fulminati dei blog di pseudoeconomia: vogliamo andarcene o restare?
Io ovviamente voglio restare, però gli antieuristi li capisco molto più oggi che in passato. Soprattutto non credo che nei tempi brevi la situazione politica ci concederà il lusso di una terza posizione: o saremo con l'euro (e con Renzi) o saremo contro. E con Salvini.
Mi dispiace metterla giù così brutale, ma in coscienza non credo che sia molto più complicata. Se si vuole perseguire una politica economica davvero alternativa a quella imposta da Berlino e Francoforte, occorre uscire. Purtroppo non esistono uscite a sinistra e uscite a destra: ce n'è una sola. Ritenete di meritare un partito più a sinistra del PD, un partito non compromesso col renzismo? Pensate che l'unità monetaria, così com'è stata realizzata, sia stata una cessione imperdonabile di sovranità? Salvini e Grillo saranno i vostri alleati naturali. Ma anche la Meloni, e molti berlusconiani tra i quali magari Berlusconi stesso.
Un'alleanza trasversale anti-euro al momento è l'unica che può mettere Renzi in difficoltà. È uno dei motivi per cui il ballottaggio è pericoloso: mentre è al momento impensabile una coalizione Grillo-Berlusconi-Salvini (anche se la pensano allo stesso modo quasi su tutto), al secondo turno sarebbero gli elettori dei rispettivi partiti a superare le diffidenze dei vertici e concentrarsi sull'unico candidato anti-euro rimasto in lizza. Grillo non voterebbe mai per Salvini, ma l'elettore di Grillo non avrà le stesse pregiudiziali. E anche l'elettore di sinistra anti-euro non dovrebbe averne. A nessun eventuale partito di sinistra - ammesso che si riesca a riorganizzarne uno - sarà concessa l'ambiguità con cui Syriza vinse le elezioni: dentro l'euro ma contro l'austerità. Dentro l'euro ma forse fuori. Tsipras bluffava anche per noi: Bruxelles ha visto le carte, fine dei giochi. Ora siete liberi di pensare che l'Italia possa risolvere i suoi problemi rimettendosi a coniare moneta. Ma non siete più liberi di cercarvi un candidato: quel posto se l'è preso il ragazzone arrogante con le felpe.
Mi dispiace, forse non doveva finire così, ma qui le nostre strade si separano. Ci vediamo dall'altra parte.
Comments (30)
Il referendum che Renzi può perdere
25-02-2015, 23:20referendum, RenziPermalink
Cosa fare con(tro) Renzi.
Non prenderei nemmeno la parola, se non avessi maturato l'opinione che la politica sia un'arte molto meno raffinata di quel che vorrebbe essere. Viviamo in un complesso labirinto, vero: ma alla fine le scelte che ci arrivano davanti si presentano sempre in forma di bivi o trivi. Tutta la complessità che ci portiamo dentro alla fine la dobbiamo sacrificare di fronte a scelte secche: di qua o di là? Sinistra o destra? Restiamo fermi, proseguiamo, torniamo indietro? Chi tira una monetina può avere più successo di chi si carica sulle spalle vissuti o ideologie. E quindi anch'io dico la mia: prendetela come la monetina lanciata da un deficiente di passaggio.
Come ho scritto sopra, la prospettiva di un referendum abrogativo non mi esalta. Non ho mai creduto molto nel mezzo referendario - il più delle volte è un boomerang - e non mi piace andare alla carica contro l'artiglieria, mi pare che l'eroismo non riscatti la stupidità. Anche a me piacerebbe abrogare il Jobs Act - e la legge elettorale - e le riforme istituzionali - la buona scuola - insomma, anche a me piacerebbe deporre Renzi e i suoi manipoli, ma non disponendo di un numero di coorti sufficiente anche solo a impensierirlo, non mi resta che la ritirata e la guerriglia. Devo assicurarmi la complicità con le altre tribù che controllano il territorio, anche se non mi piacciono per niente. Devo tendere al nemico un'imboscata nel punto più difficile del percorso. Ci penso da parecchio e un punto del genere mi sembra d'averlo trovato.
Ci vorranno ancora mesi e forse più di un anno, ma prima o poi le riforme costituzionali Renzi-Boschi saranno sottoposte al vaglio dei cittadini, mediante un referendum (a meno che Renzi non si stufi e decida di tornare al voto senza la nuova legge elettorale, ma sarebbe una figuraccia). Attenzione però: non un referendum abrogativo. Confermativo. Che differenza c'è?
Tutta la differenza del mondo. Il referendum confermativo non prevede il quorum del 50%+1. Il referendum confermativo non è una giocata del Sì contro il Banco che vince sempre. Nel referendum confermativo, il Sì e il No se la giocano alla pari. Chi porta più elettori alle urne vince. E che ci vuole, direte voi, Renzi ha la maggioranza...
No. I sondaggi (che sbagliano sempre) lo danno sempre sotto il 40%. Parliamo sempre di dieci milioni di elettori, ma non andranno tutti a votare a un referendum in cui non serve nemmeno il quorum. Da questi inoltre vanno sottratti i suffragi di chi ha votato Renzi alle europee, e forse lo rivoterebbe anche a un ballottaggio contro Salvini o Di Battista, ma non ha nessuna intenzione di votare per le sue riforme. Quelli come me, insomma. Quanti siamo? Impossibile dirlo, ma potremmo essere decisivi.
E poi c'è tutto il composito arco costituzionale antirenziano. C'è Grillo, c'è Berlusconi che quelle riforme le ha scritte ma a questo punto non ha molta convenienza a farle passare. C'è anche Salvini, a cui in realtà un superballottaggio farebbe comodo, ma se il referendum confermativo diventa un referendum su Renzi, non potrà tirarsi indietro. C'è la sinistra-sinistra, c'è Sel, ci sono tutti. Tutti tranne lui e chi crede in lui. Sarà un referendum su di lui, e lui non ha dalla sua il 50% degli italiani: non lo ha mai avuto. Non ha neanche quell'appoggio televisivo che crede di avere: perlomeno se crede di poter litigare sia con Berlusconi sia con l'Usigrai, forse avrà la sorpresa di scoprire che certe ospitate domenicali non sono un atto dovuto. Per non parlare dell'enorme serbatoio dell'astensione, che per qualche irrazionale motivo mi pare più facile recuperare al No che al Sì.
Un referendum abrogativo non lo vinceremo mai, ma un referendum confermativo del genere è alla nostra portata. Non si tratta di andare a letto con Salvini o Grillo o Berlusconi, o perlomeno non si tratta di andarci per sempre: solo per qualche mese, e poi ognuno per la propria strada. Umiliare Renzi sulle riforme non significa cassare il Job Act, né i decreti sulla scuola eccetera eccetera. Ma a quel punto Renzi si troverebbe da solo, e senza quella legge elettorale che avrebbe premiato la sua solitudine. Dovrà venire a patti con qualcuno - qualcuno che esiste davvero, non il Ncd. Berlusconi? Difficile immaginarlo. Ma anche se fosse, a quel punto a sinistra si aprirebbe una prateria. Più plausibilmente, Renzi dovrà cercare alleati a sinistra. Non li troverà gratis. Dovrà concedere cose.
Certo, ci vorranno mesi, forse più di un anno, e intanto il Jobs Act cosa farà? Farà strame dei diritti cosiddetti acquisiti dei lavoratori, se quello era il suo obiettivo. E' da vent'anni che Ichino e co. ce ne cantano le magnifiche sorti e progressive: ora finalmente vedremo se è possibile diventare la Danimarca in tempi brevi. Se non succederà, sarà molto più facile smantellarlo. Se invece avrà creato occupazione, beh, dovremmo essere i primi a rallegrarcene: sarà segno che la crisi è finita. Un sacco di giovani troverà lavoro e rapidamente scoprirà che ha bisogno di più diritti, dopotutto: credo che il demansionamento non piacerà anche a loro. Insomma: ci stracciano lo Statuto dei lavoratori? Ne scriveremo un altro. E' chiaro che nel frattempo avremo perso qualcosa. Ma l'abbiamo già persa, non è che possiamo intestardirci sul promontorio del referendum abrogativo. Una buona ritirata strategica è meglio di mille nobili battaglie perse e Bakalave.
Io perlomeno la penso così.
Ma a questo punto sento fischiarmi le orecchie - sto per essere investito dall'onda d'urto di un'enorme obiezione. Lo so, lo so (continua...)
Non prenderei nemmeno la parola, se non avessi maturato l'opinione che la politica sia un'arte molto meno raffinata di quel che vorrebbe essere. Viviamo in un complesso labirinto, vero: ma alla fine le scelte che ci arrivano davanti si presentano sempre in forma di bivi o trivi. Tutta la complessità che ci portiamo dentro alla fine la dobbiamo sacrificare di fronte a scelte secche: di qua o di là? Sinistra o destra? Restiamo fermi, proseguiamo, torniamo indietro? Chi tira una monetina può avere più successo di chi si carica sulle spalle vissuti o ideologie. E quindi anch'io dico la mia: prendetela come la monetina lanciata da un deficiente di passaggio.
Come ho scritto sopra, la prospettiva di un referendum abrogativo non mi esalta. Non ho mai creduto molto nel mezzo referendario - il più delle volte è un boomerang - e non mi piace andare alla carica contro l'artiglieria, mi pare che l'eroismo non riscatti la stupidità. Anche a me piacerebbe abrogare il Jobs Act - e la legge elettorale - e le riforme istituzionali - la buona scuola - insomma, anche a me piacerebbe deporre Renzi e i suoi manipoli, ma non disponendo di un numero di coorti sufficiente anche solo a impensierirlo, non mi resta che la ritirata e la guerriglia. Devo assicurarmi la complicità con le altre tribù che controllano il territorio, anche se non mi piacciono per niente. Devo tendere al nemico un'imboscata nel punto più difficile del percorso. Ci penso da parecchio e un punto del genere mi sembra d'averlo trovato.
Ci vorranno ancora mesi e forse più di un anno, ma prima o poi le riforme costituzionali Renzi-Boschi saranno sottoposte al vaglio dei cittadini, mediante un referendum (a meno che Renzi non si stufi e decida di tornare al voto senza la nuova legge elettorale, ma sarebbe una figuraccia). Attenzione però: non un referendum abrogativo. Confermativo. Che differenza c'è?
Tutta la differenza del mondo. Il referendum confermativo non prevede il quorum del 50%+1. Il referendum confermativo non è una giocata del Sì contro il Banco che vince sempre. Nel referendum confermativo, il Sì e il No se la giocano alla pari. Chi porta più elettori alle urne vince. E che ci vuole, direte voi, Renzi ha la maggioranza...
No. I sondaggi (che sbagliano sempre) lo danno sempre sotto il 40%. Parliamo sempre di dieci milioni di elettori, ma non andranno tutti a votare a un referendum in cui non serve nemmeno il quorum. Da questi inoltre vanno sottratti i suffragi di chi ha votato Renzi alle europee, e forse lo rivoterebbe anche a un ballottaggio contro Salvini o Di Battista, ma non ha nessuna intenzione di votare per le sue riforme. Quelli come me, insomma. Quanti siamo? Impossibile dirlo, ma potremmo essere decisivi.
E poi c'è tutto il composito arco costituzionale antirenziano. C'è Grillo, c'è Berlusconi che quelle riforme le ha scritte ma a questo punto non ha molta convenienza a farle passare. C'è anche Salvini, a cui in realtà un superballottaggio farebbe comodo, ma se il referendum confermativo diventa un referendum su Renzi, non potrà tirarsi indietro. C'è la sinistra-sinistra, c'è Sel, ci sono tutti. Tutti tranne lui e chi crede in lui. Sarà un referendum su di lui, e lui non ha dalla sua il 50% degli italiani: non lo ha mai avuto. Non ha neanche quell'appoggio televisivo che crede di avere: perlomeno se crede di poter litigare sia con Berlusconi sia con l'Usigrai, forse avrà la sorpresa di scoprire che certe ospitate domenicali non sono un atto dovuto. Per non parlare dell'enorme serbatoio dell'astensione, che per qualche irrazionale motivo mi pare più facile recuperare al No che al Sì.
Un referendum abrogativo non lo vinceremo mai, ma un referendum confermativo del genere è alla nostra portata. Non si tratta di andare a letto con Salvini o Grillo o Berlusconi, o perlomeno non si tratta di andarci per sempre: solo per qualche mese, e poi ognuno per la propria strada. Umiliare Renzi sulle riforme non significa cassare il Job Act, né i decreti sulla scuola eccetera eccetera. Ma a quel punto Renzi si troverebbe da solo, e senza quella legge elettorale che avrebbe premiato la sua solitudine. Dovrà venire a patti con qualcuno - qualcuno che esiste davvero, non il Ncd. Berlusconi? Difficile immaginarlo. Ma anche se fosse, a quel punto a sinistra si aprirebbe una prateria. Più plausibilmente, Renzi dovrà cercare alleati a sinistra. Non li troverà gratis. Dovrà concedere cose.
Certo, ci vorranno mesi, forse più di un anno, e intanto il Jobs Act cosa farà? Farà strame dei diritti cosiddetti acquisiti dei lavoratori, se quello era il suo obiettivo. E' da vent'anni che Ichino e co. ce ne cantano le magnifiche sorti e progressive: ora finalmente vedremo se è possibile diventare la Danimarca in tempi brevi. Se non succederà, sarà molto più facile smantellarlo. Se invece avrà creato occupazione, beh, dovremmo essere i primi a rallegrarcene: sarà segno che la crisi è finita. Un sacco di giovani troverà lavoro e rapidamente scoprirà che ha bisogno di più diritti, dopotutto: credo che il demansionamento non piacerà anche a loro. Insomma: ci stracciano lo Statuto dei lavoratori? Ne scriveremo un altro. E' chiaro che nel frattempo avremo perso qualcosa. Ma l'abbiamo già persa, non è che possiamo intestardirci sul promontorio del referendum abrogativo. Una buona ritirata strategica è meglio di mille nobili battaglie perse e Bakalave.
Io perlomeno la penso così.
Ma a questo punto sento fischiarmi le orecchie - sto per essere investito dall'onda d'urto di un'enorme obiezione. Lo so, lo so (continua...)
Comments (22)
Il referendum che Landini non può vincere
24-02-2015, 19:37attivismo, referendumPermalink
Scava una buca / organizza un referendum.
Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po' la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader - e ce ne sarà bisogno - non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che - se ho capito bene - passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.
Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell'occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l'obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.
Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?
Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.
Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull'Euro - quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l'obiettivo di Grillo non è uscire dall'Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l'abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po' nello stesso modo.
Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull'Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti "Vabbe', ci abbiamo provato". O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.
Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull'articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c'erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c'erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull'onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent'anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l'articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l'astensione è aumentata del 10%).
D'altro canto Fausto Bertinotti in quell'occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le "norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori". Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l'anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po' più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov'è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l'obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio...
Ehi, aspetta.
Forse c'è qualcosa di meglio. (Continua).
Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po' la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader - e ce ne sarà bisogno - non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che - se ho capito bene - passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.
Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell'occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l'obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.
Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?
Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.
Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull'Euro - quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l'obiettivo di Grillo non è uscire dall'Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l'abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po' nello stesso modo.
Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull'Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti "Vabbe', ci abbiamo provato". O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.
Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull'articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c'erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c'erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull'onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent'anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l'articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l'astensione è aumentata del 10%).
D'altro canto Fausto Bertinotti in quell'occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le "norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori". Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l'anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po' più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov'è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l'obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio...
Ehi, aspetta.
Forse c'è qualcosa di meglio. (Continua).
Comments (19)
Il piccione in realtà sonnecchiava
24-02-2015, 01:59cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivoPermalinkUn piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (Roy Andersson, 2014).
Due commessi viaggiatori disadattati si aggirano per Goteborg cercando di smerciare scherzi di carnevale che non fanno ridere. Un capitano non riesce mai ad arrivare puntuale ad appuntamenti che forse non ha mai preso. Anche questo non fa ridere. In una palestra l'insegnante di tango ci prova con l'unico studente, in un ambulatorio torturano un babbuino (non fa ridere), nella taverna di Lotte la zoppa un bicchierino costa mezza corona o un bacio. Un tizio ha un infarto mentre cerca di stappare una bottiglia. Ogni tanto passa re Carlo XII, deciso a umiliare il Russo: smonta da cavallo, chiede dov'è il bagno, un'acqua minerale per favore, ci prova col barista. Questo effettivamente fa un po' ridere. Tutto rigorosamente in sfumature cinerine, e in camera fissa, perché la vita è assurda. In un cinema del cosiddetto circuito festivaliero, un pubblico insolitamente folto assiste alla proiezione di Un piccione seduto su un ramo eccetera. C'è molta attesa per un regista quasi del tutto sconosciuto a queste latitudini, ma premiato a Venezia con Leone d'oro. Il film è una serie di gag lentissime, quasi ipnotiche. Le poche che funzionano vengono ripetute finché non smettono di essere divertenti. Il pubblico ogni tanto ride. La prima mezz'ora.
Poi riaccendono il telefono.
In un angolo, il critico di Cuneo e provincia sgranocchia amaro i suoi pistacchi. Pensa: per questa questa roba mi sono perso il finale di stagione di Gomorra su rai3, coi sottotitoli. E dire che un film lo avevo già visto questa settimana, uno bellissimo, trascinante, un'esperienza per gli occhi, le orecchie e il cuore. Whiplash. Si chiama così, è l'opera autobiografica di un regista esordiente ha sbancato al Sundance e la notte successiva porterà a casa tre meritatissimi Oscar. Whiplash ha un montaggio che non ti lascia tregua, i suoi attori per farlo funzionare si sono presi a schiaffi e hanno suonato fino a perdere sangue dalle mani. È uscito due settimane fa, e avrei voluto recensirlo questa settimana, ma a Cuneo non si è ancora visto. In compenso Un piccione seduto eccetera è già al cinema Fiamma, dove potete recarvi alle 21:15 per scoprire, se ancora avevate dubbi, che la vita è assurda e che anche certe giurie della Mostra di Venezia non scherzano. In concorso, se vi ricordate, c'era Birdman. Secondo i giurati dell'Academy è il miglior film del 2014. La migliore regia del 2014. La migliore sceneggiatura originale. La migliore fotografia. D'altro canto è solo Hollywood, cosa vuoi che ne sappiano. Un film costruito come un unico piano sequenza, mah, troppo artificioso, troppo tecnico. Vuoi mettere con la camera fissa, quella sì che è artistica. Incidentalmente, è anche l'espediente adottato dalle sit-com televisive per semplificarsi la vita e tenere basso il budget, ma che c'entra? Roy Andersson non è mica Camera Cafè, lui fa tutta una ricerca sulla prospettiva, inoltre è molto più... lento, e... fa meno ridere, quindi... è Cinema d'Autore.
Un bar all'aperto. Passa una tizia e si sfila una scarpa. La sbatte contro il bancone e se ne va.
COMMESSO VIAGGIATORE: aveva un sasso nella scarpa.
ALTRO CLIENTE SEDUTO AL TAVOLINO: già.
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello.
ALTRO CLIENTE: cosa c'è di bello in un sasso nella scarpa?
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello quando se l'è tolto.
ALTRO CLIENTE: ...
COMMESSO VIAGGIATORE: mi scusi, non vorrei essere importuno, ma non le interessa per caso acquistare degli scherzi di carnevale? Ho qui dei pezzi molto interessanti che le posso cedere a metà prezzo.
ALTRO CLIENTE: no, grazie.
COMMESSO VIAGGIATORE: grazie a lei, mi scusi.
(L'altro cliente si alza dal tavolino e se ne va).
Un piccione ricorda inevitabilmente il teatro di Beckett, più o meno come un'aranciata a base di colorante può ricordare una spremuta... (continua su +eventi!) Beckett aveva un gran senso del ritmo, Andersson rallenta a piacere. Beckett aveva un raro umor nero, Andersson tira avanti con le stesse tre trovate per un’ora e mezza. Sembra persuaso che un Beckett rallentato e rarefatto funzionerà il doppio, e i giurati di Venezia gli danno pure ragione. Le gag non sono intrinsecamente più sottili o intelligenti di quelle di un film di Neri Parenti: sono solo molto più lente. Si ride (poco) perché la gente è brutta, perché la gente è stupida, perché i vecchi sono sordi, si ride persino di una bambina down che recita una poesia assurda. Ma è la vita a essere assurda, no? Quindi, insomma, vale tutto.
“Ed ecco un altro mercoledì”.
“Come? Non è giovedì?”
“No, è mercoledì”.
“Eppure stamattina mi sentivo che fosse un giovedì”.
“Ma come si possono sentire i giovedì? I giorni non si sentono. I giorni si contano: dopo lunedì c’è il martedì, e poi il mercoledì, e poi il giovedì…”
“Eppure mi sentivo che fosse un giovedì”.
(Altri cinque minuti se ne vanno così).
Sono molto contento di come sono andati gli Oscar. Tifavo per Birdman e Whiplash. Forse non sono capolavori, ma sono film che mi sono piaciuti immensamente mentre li guardavo. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo, volevo capire cosa sarebbe successo, soffrivo per la sorte dei personaggi. In entrambi i film questo coinvolgimento si interrompe bruscamente nel finale, come se stessi ascoltando due sinfonie che si chiudano sulla nota sbagliata. Comincio a domandarmi se dopotutto sono d’accordo con quel che ho visto. Mentre li vedevo ci credevo, ora che ho visto dove sono andati a parare – forse non ci credo più. Credo che sia tutto quello che si può domandare a un film: prima la partecipazione emotiva, poi lo straniamento critico. Birdman e Whiplash ci arrivano con espedienti diversi e forse ci arrivano per sbaglio, ma ci arrivano, e questo è quel che conta.
Un piccione non arriva da nessuna parte. Approfitta dell’ideologia più comoda possibile: il mondo è assurdo, quindi perché darsi la pena di concatenare cause ed effetti per raccontarti una storia? Perché muovere la macchina da presa? Ci sarà sempre qualche critico che vedrà il coraggio dove a volte c’è solo pigrizia, e surrealismo dove invece non c’è nemmeno più molta fantasia. Un piccione è al Fiamma di Cuneo, alle 21: 15.
.
Il babbuino è in computergrafica, credo. |
Poi riaccendono il telefono.
In un angolo, il critico di Cuneo e provincia sgranocchia amaro i suoi pistacchi. Pensa: per questa questa roba mi sono perso il finale di stagione di Gomorra su rai3, coi sottotitoli. E dire che un film lo avevo già visto questa settimana, uno bellissimo, trascinante, un'esperienza per gli occhi, le orecchie e il cuore. Whiplash. Si chiama così, è l'opera autobiografica di un regista esordiente ha sbancato al Sundance e la notte successiva porterà a casa tre meritatissimi Oscar. Whiplash ha un montaggio che non ti lascia tregua, i suoi attori per farlo funzionare si sono presi a schiaffi e hanno suonato fino a perdere sangue dalle mani. È uscito due settimane fa, e avrei voluto recensirlo questa settimana, ma a Cuneo non si è ancora visto. In compenso Un piccione seduto eccetera è già al cinema Fiamma, dove potete recarvi alle 21:15 per scoprire, se ancora avevate dubbi, che la vita è assurda e che anche certe giurie della Mostra di Venezia non scherzano. In concorso, se vi ricordate, c'era Birdman. Secondo i giurati dell'Academy è il miglior film del 2014. La migliore regia del 2014. La migliore sceneggiatura originale. La migliore fotografia. D'altro canto è solo Hollywood, cosa vuoi che ne sappiano. Un film costruito come un unico piano sequenza, mah, troppo artificioso, troppo tecnico. Vuoi mettere con la camera fissa, quella sì che è artistica. Incidentalmente, è anche l'espediente adottato dalle sit-com televisive per semplificarsi la vita e tenere basso il budget, ma che c'entra? Roy Andersson non è mica Camera Cafè, lui fa tutta una ricerca sulla prospettiva, inoltre è molto più... lento, e... fa meno ridere, quindi... è Cinema d'Autore.
Un bar all'aperto. Passa una tizia e si sfila una scarpa. La sbatte contro il bancone e se ne va.
COMMESSO VIAGGIATORE: aveva un sasso nella scarpa.
ALTRO CLIENTE SEDUTO AL TAVOLINO: già.
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello.
ALTRO CLIENTE: cosa c'è di bello in un sasso nella scarpa?
COMMESSO VIAGGIATORE: è stato bello quando se l'è tolto.
ALTRO CLIENTE: ...
COMMESSO VIAGGIATORE: mi scusi, non vorrei essere importuno, ma non le interessa per caso acquistare degli scherzi di carnevale? Ho qui dei pezzi molto interessanti che le posso cedere a metà prezzo.
ALTRO CLIENTE: no, grazie.
COMMESSO VIAGGIATORE: grazie a lei, mi scusi.
(L'altro cliente si alza dal tavolino e se ne va).
Un piccione ricorda inevitabilmente il teatro di Beckett, più o meno come un'aranciata a base di colorante può ricordare una spremuta... (continua su +eventi!) Beckett aveva un gran senso del ritmo, Andersson rallenta a piacere. Beckett aveva un raro umor nero, Andersson tira avanti con le stesse tre trovate per un’ora e mezza. Sembra persuaso che un Beckett rallentato e rarefatto funzionerà il doppio, e i giurati di Venezia gli danno pure ragione. Le gag non sono intrinsecamente più sottili o intelligenti di quelle di un film di Neri Parenti: sono solo molto più lente. Si ride (poco) perché la gente è brutta, perché la gente è stupida, perché i vecchi sono sordi, si ride persino di una bambina down che recita una poesia assurda. Ma è la vita a essere assurda, no? Quindi, insomma, vale tutto.
“Ed ecco un altro mercoledì”.
“Come? Non è giovedì?”
“No, è mercoledì”.
“Eppure stamattina mi sentivo che fosse un giovedì”.
“Ma come si possono sentire i giovedì? I giorni non si sentono. I giorni si contano: dopo lunedì c’è il martedì, e poi il mercoledì, e poi il giovedì…”
“Eppure mi sentivo che fosse un giovedì”.
(Altri cinque minuti se ne vanno così).
Sono molto contento di come sono andati gli Oscar. Tifavo per Birdman e Whiplash. Forse non sono capolavori, ma sono film che mi sono piaciuti immensamente mentre li guardavo. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo, volevo capire cosa sarebbe successo, soffrivo per la sorte dei personaggi. In entrambi i film questo coinvolgimento si interrompe bruscamente nel finale, come se stessi ascoltando due sinfonie che si chiudano sulla nota sbagliata. Comincio a domandarmi se dopotutto sono d’accordo con quel che ho visto. Mentre li vedevo ci credevo, ora che ho visto dove sono andati a parare – forse non ci credo più. Credo che sia tutto quello che si può domandare a un film: prima la partecipazione emotiva, poi lo straniamento critico. Birdman e Whiplash ci arrivano con espedienti diversi e forse ci arrivano per sbaglio, ma ci arrivano, e questo è quel che conta.
Un piccione non arriva da nessuna parte. Approfitta dell’ideologia più comoda possibile: il mondo è assurdo, quindi perché darsi la pena di concatenare cause ed effetti per raccontarti una storia? Perché muovere la macchina da presa? Ci sarà sempre qualche critico che vedrà il coraggio dove a volte c’è solo pigrizia, e surrealismo dove invece non c’è nemmeno più molta fantasia. Un piccione è al Fiamma di Cuneo, alle 21: 15.
.
Comments (1)
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2015)
23-02-2015, 14:1921tw, cinema, fb2020PermalinkThe Imitation Game, regia di Morten Tyldum. Oscar per la migliore sceneggiatura originale.
Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.
La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)
Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.
Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).
Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.
La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)
Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.
Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).
Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
Comments (10)
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2014)
22-02-2015, 02:45cinemaPermalink
Saving Mr Banks, regia di John Lee Hancock, nomination per la migliore colonna sonora.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
Philomena, regia di Sthephen Frears, nomination per il miglior film, migliore attrice protagonista (Julie Dench doveva vincere!), migliore sceneggiatura non originale, miglior colonna sonora.
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
Saving Mr Banks non riscrive soltanto la storia, ma vorrebbe tanto convincerti che riscrivere la storia in certi casi è la cosa migliore da fare. Soprattutto in presenza di genitori discutibili, alcolizzati o maneschi: perché rivangare? Non è molto meglio ricordarseli mentre riparano aquiloni mai esistiti? Lo stesso accade alla protagonista, la spigolosa Pamela L. Travers, di cui si cancella la vita affettiva (trascorsi omoerotici inclusi, ovviamente) e famigliare: la creatrice di Mary Poppins nel film afferma di non amare i bambini e di non volerne. In realtà ne adottò uno, ma è una storia abbastanza triste, che alla Disney decidono di eliminare. Rimane la fiaba a lieto fine di una scrittrice inglese che non vorrebbe vedere la sua opera trasformata in un'americanata, ma poi vede il risultato e si commuove: col cavolo. I testimoni oculari ci dicono che alla prima (alla quale si era imbucata) la Travers piangeva, sì, ma di rabbia. Alla fine delle proiezioni cercò di convincere Mr Disney a cancellare almeno l'animazione grafica, ricevendone un educato ma fermo diniego: "Pamela, la nave è già salpata". Gli altri incontri-scontri con Walt, che occupano una buona parte del film, sono la drammatizzazione di un dialogo che avvenne per lo più in forma epistolare tra le due sponde dell'oceano. All'autrice il risultato finale piacque così poco che non concesse i diritti per i sequel (pensate i milioni che avrebbe potuto farci), e quando glieli chiesero per una riduzione teatrale, mise per iscritto che voleva soltanto musiche britanniche scritte da autori britannici. Niente Poco di zucchero, niente Spazzacamin, niente Supercalifragiliecc.: la Travers non poteva soffrirle. Difficile immaginarla più antipatica di come la interpreta Emma Thompson, vero? E invece tocca rassegnarsi: questa è la versione disneyana.
La vera suor Hildegard incontra il figlio di Philomena (e non le rivela la sua identità). |
Philomena non è Hollywood e si vede. Anche nel senso che l'amalgama tra fiction e realtà non funziona, non convince (e in fondo è meglio così). Per più di un'ora è un film che racconta con molto equilibrio una storia vera e agghiacciante di figli del peccato venduti da conventi irlandesi a facoltose famiglie americane: e tutto sembra filare benissimo senza bisogno di deformare i fatti accaduti. Quando all'improvviso irrompe in scena su una sedia a rotelle una suora zombie di 90 anni che rivendica il suo ruolo di venditrice di neonati e si mette a fare una predica contro le insidie della carne - è come se Stephen Frears avesse appaltato il finale del film agli autori di Don Zauker, e forse non ce n'era bisogno. Va da sé che suor Hildegard in realtà era già morta, e prima di morire aveva collaborato con alcune madri desiderose come Philomena di ritrovare i loro figli. Trasformarla nel simbolo di un cattolicesimo arcigno e in decomposizione è una scelta drammatica un po' facile, e soprattutto apre il fianco a polemiche abbastanza pretestuose - d'altro canto è una mossa così teatrale da denunciarsi da sola. A Hollywood sono più sottili, più professionali.
American Hustle, regia di David O. Russell,
dieci nomination e neanche un premio (film, regia, il quartetto degli attori, sceneggiatura originale, scenografia, montaggio, costumi).
"Some of this actually happened". È la didascalia iniziale, potrebbe essere il manifesto del nuovo cinema biopico. Alcune cose verosimili sono finte, altre inverosimili sono proprio vere, e com'è andata davvero non lo sapremo mai. A David O. Russell premeva raccontare una celebre operazione FBI invertendo l'usuale punto di vista: i suoi imbroglioni hanno un'etica, gli agenti federali sono arrivisti senza scrupoli. Ma l'eterna lotta tra il bene e il male non diventa meno banale se la capovolgi, e Russell fatalmente si ritrova a descrivere un sindaco mafioso proprio come si sarebbe presentato lui: un buon padre di famiglia disposto a tutto per trovare lavoro alla sua gente. Tanto poi alla fine chi si ricorda la trama? Di American Hustle sopravvive il parrucchino di Christian Bale, le scollature di Amy Adams, lo smalto per le unghie di Jennifer Lawrence, il petto villoso di Bradley Cooper. Si ha la sensazione che dentro a una confezione così smagliante - e storicamente accurata - si possa contraffare qualsiasi contenuto. In questo film c'è del buono, del meno buono, del falso, e del vero, ma godetevi il pacchetto.
Comments (5)
Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2013)
19-02-2015, 23:17cinemaPermalink"Biopic" è una parola che abbiamo preso in prestito dall'inglese non molto tempo fa. In realtà i film biografici e/o storici esistono da sempre, e con loro tutto il repertorio di errori, inesattezze, licenze drammatiche. Non abbiamo mai chiesto a un film di raccontarci tutta la verità e nient'altro che la verità, ma negli ultimi tempi la messa in scena delle frottole comincia a risultare un po' inquietante. I film probabilmente non hanno aumentato la loro dose di bugie, ma sono diventati più verosimili - e quindi anche un po' più ambigui. Questo per dire che se avete visto un biopic negli ultimi due anni, probabilmente vi siete convinti di cose non vere. Vediamo qualche esempio, tra i film candidati nelle ultime edizioni degli Oscar.
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Oscar per il migliore attore protagonista (Daniel Day-Lewis) e per le scenografie.
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
Argo, di Ben Affleck
Oscar per il miglior film, per la migliore sceneggiatura non originale, per il miglior montaggio.
Per esempio, vi ricordate Argo? Quel bel film "tratto da una storia vera" in cui per riportare a casa dall'Iran di Khomeini un gruppo di cittadini americani, l'agente CIA Ben Affleck si improvvisa produttore di un film di fantascienza? Ecco, le cose non andarono esattamente così. L'invenzione più macroscopica è il ruolo della CIA, che si prende i meriti che nella realtà dovrebbero andare all'intelligence canadese. Più comprensibile l'invenzione di un inseguimento all'aeroporto, che aggiunge un po' di azione al film, laddove nella realtà l'operazione filò molto più liscia. Sotto la pesante patina anni '80, il film contrabbanda un'ossessione per la simultaneità del tutto contemporanea: televisori dappertutto, in cucina, in bagno. Sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice la spia all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c’è. Un refresh nel 1980.
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow
Oscar per il miglior montaggio sonoro. Nomination alla protagonista (Jessica Chastain), al miglior film, alla sceneggiatura originale e al montaggio.
Ancora un agente segreto contro tutti. A un certo punto di Zero Dark Thirty, l'agente Maya sembra l'unica al mondo a cui interessa ancora trovare Bin Laden. Il suo capo è esasperato: lo vuoi capire che ormai Al Qaeda è una rete di individui che si coordina su internet? Perché perdi ancora tempo con la leggenda del vecchio della montagna? Riuscire a raccontare l'operazione di intelligence che portò alla localizzazione ed eliminazione di Bin Laden come il risultato della testardaggine di un'unica donna contro il 'sistema' sembra un piccolo capolavoro di propaganda. Del resto non sapremo mai come andarono davvero le cose. Oggi conosciamo forse il nome di Maya (Alfreda Frances Bikowski), ma non ci è dato sapere quanto le servirono davvero le confessioni strappate sotto tortura dalla Cia prima dell'amministrazione Obama. La Bigelow non prende davvero posizione: non nega le torture ma ci suggerisce che se ne sarebbe potuto fare a meno; in compenso ci mostra un torturatore che sfoga il suo stress abbracciando teneramente una scimmietta. Secondo un consulente del dipartimento di Stato il film esagera l'importanza della tortura e minimizza il ruolo di Obama. Che altro dovrebbe dire un uomo di Obama? Forse tra cinquant'anni qualche faldone verrà desecretato e si potrà fare un film più obiettivo. Nel 2012 era troppo presto, decisamente. Alla fine del film mi rimane soprattutto la sublime metafora involontaria di quell'Hummer pieno di agenti Cia che gira in tondo per le stradine polverose di un quartiere pakistano senza che nessuno sembri farci caso.
The Master, di Paul Thomas Anderson.
Nomination al migliore attore protagonista (Joaquin Phoenix), e ai migliori attore e attrice non protagonisti (P.S.Hoffman e Amy Adams).
Non è un film su Ron Hubbard. Così ha spiegato per mesi il regista, prima ai finanziatori titubanti e poi ai critici. Il personaggio di Hoffman, che come Ron Hubbard aveva iniziato scrivendo romanzi pulp, in effetti si chiama in un modo diverso - Amy Adams no, si chiama proprio Mary Sue, come la terza moglie di Hubbard. La strana famiglia passa molto tempo in mare, probabilmente per sfuggire a certe indagini federali - proprio come Hubbard, che si autonominò commodoro di una piccola flotta al largo del Portogallo. Il marito ha un figlio scettico che considera il padre un imbroglione. Un figlio di Hubbard cambiò il cognome. Le tecniche di auditing assomigliano a quelle di Scientology. I contratti con termine a un miliardo di anni furono a un certo punto somministrati agli adepti di Scientology. Però P.T.Anderson ha ragione: non è un film su Scientology, non solo per questioni legali. La storia si concentra sulle esperienze del marinaio Freddy, che dopo la guerra entra nell'orbita di una setta pseudoscientifica, sviluppando un rapporto complesso col suo fondatore. Freddy è un personaggio di finzione: il suo punto di vista è interessante, ma inventato di sana pianta. La sensazione di assistere dal di dentro alla nascita di una religione contemporanea è forte, ma completamente illusoria.
No, di Pablo Larraín.
Nomination al miglior film straniero.
No non è propriamente cosa di Hollywood, ma è piaciuto anche là, e soprattutto è un caso limite. Girato nel formato 4:3 e nelle tinte pacchiane dei tv color degli anni '80, il film racconta la storia del referendum che pose fine al regime di Pinochet dalla parte di un giovane pubblicitario che crede di poter sloggiare un dittatore con gli stessi mezzi con cui si vendono bibite frizzanti e forni a micro-onde, e forse ha ragione. Ovviamente dal Cile molti ci hanno fatto sapere che le cose non andarono esattamente così, che il quarto d'ora di pubblicità anti-Pinochet concesso dal regime fu importante ma non determinante, e che a sconfiggere il dittatore fu il coraggio dei volontari che convinsero i cittadini a registrarsi per votare eccetera. Larraín ha risposto che non era sua intenzione mostrare la realtà: ma il suo film si amalgama così bene con gli spot d'annata che è letteralmente impossibile capire quali spezzoni siano falsi e quali veri. A un certo punto compare lo stesso Pinochet, e il regista racconta divertito di aver ricevuto dei complimenti per la somiglianza dell'attore. Probabilmente Larraín non voleva falsificare la memoria storica, ma ci ha dimostrato che i mezzi tecnici per farlo sono già a nostra disposizione.
Lincoln, di Steven Spielberg.
Ultimamente la somiglianza dei protagonisti è inversamente proporzionale alla qualità del prodotto. |
È "il tradimento dell'opera dello storico", "un sogno", ha dichiarato a un certo punto Spielberg. Un modo elegante per ammettere che lo sceneggiatore Tony Kushner non era riuscito a rendere abbastanza avvincente o simbolica la battaglia parlamentare sul tredicesimo emendamento senza inventarsi dettagli di sana pianta. La moglie di Lincoln che assiste a una seduta del congresso (accompagnata dalla serva afroamericana)? Soldati che recitano a memoria i discorsi del presidente - come se fossero in grado di leggerli su qualche quotidiano che nemmeno li riportava integralmente? E a proposito dell'ossessione per la simultaneità: il generale Grant sul fronte non ha niente di meglio da fare che seguire una noiosa votazione del Congresso in diretta telegrafica? Il film sposa del tutto una tesi discutibile: c'era un solo momento per abolire la schiavitù su tutto il territorio dell'Unione, e Lincoln doveva coglierla a ogni costo, prolungando la guerra e corrompendo il corrompibile. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Anzi, la politica radicale perseguita dai Repubblicani di Thaddeus Stevens (il memorabile Tommy Lee Jones) fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori. Un secolo dopo in molti stati del Sud vigeva ancora la segregazione. Ma questo è un altro film...
Comments (4)