Come fanno le scuole private a far risparmiare 6 miliardi allo Stato (senza neanche pagare le tasse)?

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Ciao, mi chiamo Leonardo e come forse qualcuno saprà soffro di un disturbo cognitivo. Non riesco a capire come fanno le scuole private a far risparmiare lo Stato. Sul serio, ogni volta che qualcuno prova a spiegarmelo, mi gira la testa. Ci sono dei tizi (= scuole private) che chiedono soldi allo Stato (= bonus scolastici, sgravi fiscali) per far risparmiare lo Stato. Come diavolo è possibile? Eppure pare che sia proprio così. Ogni volta che si va a toccare questo tasto, qualche diretto interessato spara dei numeri. Ogni volta sono numeri diversi. Ogni volta non si capisce come li abbia calcolati.

Questa volta è il monsignor Nunzio Galantino, segretario della Conferenza Episcopale Italiana, che ha saputo della sentenza che obbliga una scuola cattolica di Livorno a pagare l'ICI. Una sentenza che per il monsignore è discriminatoria. Ha detto proprio così: discriminatoria. Sei un privato? Ti fanno pagare le tasse? Ciò per il monsignore è discriminazione. Inoltre c'è il rischio che ci abbia messo il suo zampetto satanico l'Ideologia.

Dati alla mano, il segretario generale della Cei ricorda che "ci sono un milione e 300 mila studenti nelle scuole paritarie. Bisogna anche sapere che a fronte dei 520 milioni che ricevono le scuole paritarie, lo Stato risparmia 6 miliardi e mezzo. Attenzione, dunque, a non farsi mettere il prosciutto sugli occhi dall'ideologia"

Ecco, dati alla mano il segretario ha detto così: 1 milione e 300 mila studenti, 520 milioni di euro ricevuti dalle paritarie. Sono 400 euro a studente. In questo modo lo Stato risparmia 6 miliardi e mezzo: 5000 euro a studente. Ma come fa? Io continuo a non capire come fa. Se davvero lo Stato spende 5000 euro all'anno per ogni studente - e tutto quello che riesce a offrire a quello studente sono strutture mediamente fatiscenti e insegnanti demotivati - come diavolo fanno le scuole paritarie a farti risparmiare così tanto? Perché le rette di solito sono un bel po' inferiori ai 4600 euro. E quindi come fanno queste scuole a trovare insegnanti più motivati? Beh, in effetti non li trovano: gli insegnanti delle private hanno in media stipendi inferiori, e a giudicare dai risultati degli studenti, prestazioni inferiori. Ma basta questo a spiegare il miracolo? No, deve esserci qualche altro trucco da qualche parte, ad esempio gli edifici. Una scuola cattolica che utilizzi gli stabili di una curia, magari può risparmiare parecchio... se poi non ci paga nemmeno le tasse...

Ricapitolando: c'è un tizio che non pagando le tasse risparmia; e risparmiando offre un servizio allo Stato. Però chiede allo Stato un aiuto ulteriore (= bonus scolastico), perché sennò lo Stato non... ce la farebbe a risparmiare. No, scusate, è proprio una cosa che non mi entra in testa. Leggo Lupi e ho il capogiro. Secondo lui la sentenza "invece di fare giustizia discrimina pesantemente queste scuole e genera una pericolosa diseguaglianza. Le scuole paritarie e le scuole statali per legge fanno entrambe parte del sistema pubblico, perchè entrambe svolgono un servizio pubblico. Perchè le paritarie pubbliche devono pagare l'lmu e le statali pubbliche no?

Non fa una grinza: perché i privati devono pagare le tasse allo Stato, e lo Stato no? Non le può pagare lo Stato le tasse, invece di farcele pagare a noi? Chi è che ha deciso che le tasse, invece di pagarle lo Stato, le pagano i privati? Chiunque sia stato, era sicuramente oscurato dalle fette di prosciutto dell'Ideologia.

Faccio un altro esempio. Monsignore possiede un furgoncino. L'ha ereditato, quindi non gli è costato nulla. Non ci paga il bollo né l'assicurazione, perché è roba ideologica, e lui non si fa accecare dall'ideologia. Col furgoncino fa un servizio di minitaxi molto concorrenziale rispetto agli autobus di linea. Però la benzina comunque gli costa un bel po' (anche se non paga le accise. Non le paga. Sono ideologiche). Quindi chiede allo Stato un bonus per i suoi utenti, per aiutarli a salire sul suo furgoncino, invece che sull'autobus di linea. A proposito, il suo conducente non ha nemmeno la patente adatta; è un precario. Gli autobus del comune sono tenuti ad avere conducenti in regola, lui no, non è ideologico. E ci fa risparmiare un sacco, no? Perché insistete a fargli pagare le tasse? Siete proprio ideologici.

Ah, un'altra cosa: il monsignore sul suo furgoncino fa salire chi gli pare. Se ci sono troppi stranieri ne lascia fuori un po'. E i gay, beh, non ha nulla contro i conducenti gay. Purché non lo dicano a nessuno.
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Vendesi pianeta abitabile (forse)

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Non è per gelare gli entusiasmi, ma come ha fatto notare almeno il buon Amedeo Balbi, un pianeta gemello della Terra, con le stesse dimensioni e in un'orbita molto simile, l'abbiamo già scoperto. Da molti, molti anni.

Venere. Bello è bello, ma non ci vivrei.
Non è lontano migliaia di anni luce - pensate, è visibile ad occhio nudo di notte e anche al mattino. Si chiama Venere e, se lo osservassero da Keplero, direbbero che ha tutti i requisiti per ospitare forme di vita a base di carbonio. Invece Venere è circondata da nubi di zolfo che oscurano il sole sulla superficie; l'atmosfera è un pesantissimo concentrato di gas serra che spappolerebbe qualsiasi astronauta molto prima di toccare il suolo, e se mai ci fossero stati oceani, li ha già fatti evaporare da un pezzo; insomma il nostro vero pianeta gemello, che da lontano sembrerebbe avere tutti i requisiti per ospitare forme di vita con le quali comunicare e far la guerra, visto da vicino si è rivelato un luogo tossico e impenetrabile. Kepler potrebbe essere altrettanto tossico.

Il fatto che sia dello stesso ordine di grandezza della Terra e di Venere (in realtà è il 60% più grosso), e più o meno alla stessa distanza dal suo Sole che hanno la Terra e Venere, ci fa pensare che possa essere un luogo simile alla Terra. Ma non c'è motivo per cui non pensare che sia invece più simile a Venere. E questo alla Nasa ovviamente lo sanno.

E allora perché tanta enfasi su una scoperta appena un po' più interessante di altre che passano sotto silenzio? L'anno scorso sono stati scoperti un migliaio di esoplaneti (pianeti che girano intorno ad altre stelle). A questo punto la notizia è che tra i più di 4000 che conosciamo non si fosse trovato ancora un pianeta vagamente simile alla Terra per raggio e distanza dal suo sole. Anche Kepler non è poi così simile, ma fin qui è il meglio che abbiamo trovato. A 1400 anni luce di distanza. La gente poi guarda i tg, legge Focus, vede le rappresentazioni artistiche con isole e oceani e si convince che noi possiamo sul serio dare un'occhiata a com'è fatto - noi che siamo appena riusciti a fare una foto a Plutone, con una sonda partita nove anni fa. C'è questa idea popolare per cui gli scienziati possono scoprire tutto, se si impegnano.

E invece le tecnologie necessarie per assicurarsi che Keplero sia non dico abitato, ma un po' più simile alla Terra che Venere potrebbero essere fuori della nostra portata. Quello che abbiamo scoperto di Keplero potrebbe essere tutto quello sapremo mai su Keplero. E allora perché la Nasa ha voluto creare un evento (riuscendoci benissimo)?

Perché ci conosce.
Molto più di quanto conoscerà mai Keplero.

I non più giovani forse ricorderanno quando 19 anni fa il presidente Bill Clinton annunciò al mondo che la NASA aveva trovato tracce di vita antichissima su Marte. Su un roccione di origine marziana, scagliato nello spazio da una collisione di un meteorite e poi intercettato dalla gravità terrestre e precipitato in Antartide. Quel roccione al microscopio aveva rivelato strani segni rettilinei che potrebbero essere stati lasciati da nanobatteri marziani. Potrebbero. E potrebbero esistere per tantissimi altri motivi. Ma un ricercatore NASA pubblicò un articolo in cui suggeriva che fossero nanobatteri, e Bill Clinton si scomodò per avvertirci che forse erano nanobatteri. Dopo qualche tempo (non so esattamente quanto) il Congresso rifinanziò i progetti NASA per l'esplorazione di Marte.

Io sono convinto che la NASA sia una delle cose più incredibili mai esistite sul pianeta Terra, un orgoglio per gli americani e per l'umanità. Ma è pur sempre una cosa umana, che va avanti grazie alla sua capacità di convincere altri umani a interessarsi di lei e finanziarla. I generali fanno quel che possono per convincerci che siamo minacciati da forze esterne e interne; gli astronauti ci mostrano immagini artistiche di pianeti che sembrano foto e ci fanno venir voglia di saperne di più. È marketing, nessuno ne è immune (su questo sistema solare, almeno).

Chi nei mesi scorsi ha avuto la sensazione che Samantha Cristoforetti stesse diventando qualcosa di più di una simpatica astronauta - una specie di testimonial dell'Agenzia Spaziale Europea, un cartonato da affiggere sulle pareti delle scuole - ha perfettamente ragione. La Cristoforetti era assolutamente preparata per la sua missione, ma era anche perfetta da un punto di vista mediatico. Doveva farci venir voglia di pensare un po' più allo spazio, e anche da questo punto di vista ha svolto la sua missione egregiamente. Astronauti e astrofisici mi stanno immensamente più simpatici di generali e venditori di armi, ma questo non mi impedisce di capire quando fanno marketing.

A settembre molti studenti (e studentesse!) mi domanderanno quando sarà possibile trasferirsi su Keplero; se i nativi saranno simpatici e il clima un po' più fresco. Pazientemente dovrò spiegare che il Keplero percepito dagli strumenti della Nasa è appena un punticino, una variazioncina minima nelle misurazioni della sua stella, che un immenso cannocchiale ha percepito 1400 anni dopo che la stella le ha emesse. Ammesso che non sia un pianeta tossico come Venere; che abbia qualche forma di vita simile alla nostra (con muscoli più robusti, vista la gravità maggiore), se volessimo comunicare qualcosa di molto semplice (PUNTO-PUNTO-PUNTO-PUNTO), la risposta ci arriverebbe tra 2800 anni (LA-VOLETE-PIANTARE-DI-ACCENDERE-E-SPEGNERE-LA-LUCE? È-FASTIDIOSO). Riuscire a conservare una civiltà organizzata per tutto questo tempo è un'altra impresa forse al di sopra delle nostre forze - benché sia necessario tentare.
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L'Unità di Renzi (è più gramsciana di voi)

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Un anno fa oggi scrivevo un pezzo per l'Unita.it; non sapevo che sarebbe stato l'ultimo. Un mese fa l'Unità è tornata nelle edicole e on line, anche se adesso si chiama Unita.tv. A questo punto credo di poterne parlare come di qualcosa che esiste davvero, e con la quale non ho nessun collegamento sentimentale.

Uomo bianco incontra quadrato rosso
Purtroppo, come ho avuto modo di sperimentare in 5 anni, è abbastanza impossibile discutere dell'Unità escludendo i sentimenti: non è tanto una situazione "O si ama o si odia", forse piuttosto "Giù le mani dal nonno!", che a volte è Berlinguer se non direttamente Antonio Gramsci. La gente poi ha sempre idee molto vaghe sui propri nonni, se li ricorda virati seppia e ignora che anche loro andavano in osteria, dicevano le parolacce, e che l'Unità dei tempi di Gramsci non era necessariamente più leggibile o interessante di quella di Concita De Gregorio. Di solito chi parla della nuova Unità (per criticarla) dà per scontata una specie di lesa maestà - scrivono cazzate sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci! - oh, beh, sì, l'ho fatto anch'io. Credo l'abbia fatto pure Antonio Gramsci. Era un quotidiano, mica i quaderni dal carcere. Ma era il quotidiano comunista! - sì, ma questa fase direi che dovremmo averla superata con Veltroni, Pizzaballa, ecc. Per carità, mi rendo conto anch'io che stavolta la discontinuità è un po' più grossa che in passato: come se ci fosse un filo rosso da Gramsci a Occhetto che con un po' di sforzo allungavamo fino a Bersani, ma che con tutta la fantasia di questo mondo non riusciamo a prolungare fino a Renzi. Il quale Renzi - birichino! - decide di impossessarsi niente meno che del rosso (quello a cui l'Unità dei DS aveva rinunciato, in una delle fasi più tristi della sua storia). L'abbiamo sempre detto che l'Unità era soprattutto un brand, però ripreso da Renzi sembra una di quelle etichette finto antiche che si appiccicano adesso alle gassose e ai chinotti, con il lettering vintage che dovrebbe giustificare il fatto che costi il doppio della lattina sanpellegrino (sì, le trovi anche a Eataly, non c'era bisogno di dirlo).

Oh, è proprio il nostro.
Mica come quello altrui.
Sotto l'etichetta fuori del tempo, la nuova Unità ha un aspetto molto moderno - mi riferisco soprattutto alla versione on line, perché l'ho guardata con più attenzione, e poi ho la sensazione che il cartaceo ormai stia passando in secondo piano. Credo che sia il primo quotidiano on line in Italia che si pone il problema della scomparsa dell'home page: il fatto noto e dimostrabile per cui ormai sulle pagine principali dei quotidiani non ci andiamo più - e quindi sta diventando sempre meno importante cercare di attirare l'attenzione con espedienti attira-clic e con quintali di materiale. Persino un prodotto tradizionalmente 'leggero' come il Foglio.it insiste a cacciare in home qualsiasi cosa. L'Unita.tv sembra un passo avanti: in home in questo momento ci sono sei notizie (quattro testuali e due video), quattro opinioni, un tweet formato gigante, la vignetta di Bobo. Less is more. Non so quanto mi piace, ma è qualcosa di diverso. Fresco. Si ricollega alla moda dei blog coi caratteri grandissimi, che trovo preoccupante se non altro perché suggerisce una correlazione tra il possesso di un tablet e la presbiopia. Io qui continuo a scrivere in piccolo, avvisatemi quando non riuscite più a vederci niente.

Che altro dire? Ah già, i contenuti. Beh, qui c'è un paradosso meraviglioso. Chi in questo mese ha criticato l'appiattimento sulla linea di Renzi dovrebbe ammettere che proprio in questo l'Unità renziana si dimostra molto più gramsciana dell'Unità della De Gregorio, di Padellaro, Furio Colombo, perfino quella di Veltroni. Finalmente abbiamo un organo di partito che fa l'organo di partito. Delle sei notizie in cima, una riguarda sempre il caro leader. Non è un quotidiano che comprerei, e non consiglierei a nessuno di leggere soltanto l'Unità (ma c'è qualcuno oggi che legge le notizie di un solo giornale?), però credo che sia giusto che Renzi ne abbia uno. È il segretario del primo partito italiano; trovo sano che possa esprimere le sue idee e dare le sue versioni dei fatti attraverso un quotidiano, invece che coi messaggini "Renzi ai suoi". Farà propaganda? Ha tutti i diritti di farla, ed è appunto uno dei motivi per cui quell'Antonio Gramsci fondò un quotidiano - i saggi sul materialismo storico li pubblicava altrove. La cosa che mi lascia perplesso, a questo punto, è... sempre la solita.

I soldi.

(Chiedo scusa, sono proprio un materialista).

Antonio Gramsci, quanti crimini sotto il tuo nome.
L'Unità, che fino all'anno scorso era il quotidiano che riceveva i maggiori finanziamenti dallo Stato, ha deciso di non chiederne più. Come scrisse il direttore nel primo numero: "Si fa sul serio. Addio rimborsopoli [,,,] L'Unità naviga nel mare aperto e abbastanza tempestoso del mercato editoriale. Una svolta naturalmente che farà arricciare il naso a qualcuno..." Può anche darsi che qualcuno abbia arricciato il naso mentre scuoteva la testa: più che "abbastanza tempestoso", il mercato editoriale è in una bonaccia mortale. Ma anche qui, non nascondiamoci dietro la crisi: anche quando i quotidiani si leggevano e compravano, per un prodotto come l'Unità non c'è mai stato un vero e proprio mercato. E giustamente, perché era un organo di partito: la gente non spende soldi per comprare la tua propaganda. Gliela devi portare a casa col volontariato (ma non lo fai più). Oppure ci devi allegare qualche gadget interessante, vhs o figurine (funzionò un po' e poi fece un buco). Oppure puoi cercare di fare un giornale più interessante e vario di un house organ: ma non lo stai facendo. Stai facendo un quotidiano di partito, e però non vuoi finanziamenti dal partito. Neanche dallo Stato - e sì che ne avresti diritto. Dici che navigherai nel mare del mercato editoriale, ma sai benissimo che gli altri naviganti sono più o meno tutti sponsorizzati da gruppi industriali - oppure stanno colando mestamente a picco. È un'ambiguità che a me non piace, ma forse è un problema mio. Per molti l'importante è che l'Unità non partecipi più a una cosa che si chiamava "rimborsopoli" - finisce con -poli, quindi dev'essere stato uno scandalo. L'importante è che non paghiamo noi, se poi a qualche editore va di pagare per tenere la voce di Renzi in edicola, buon per lui.

Non è che andasse a ruba nelle edicole, no.
E qui invece c'è un problema secondo me. E non ha nulla a che vedere col fatto che l'Unità da gramsciana sia diventata renziana, o che io non ci scriva più. C'entra più, pensate, con Babbo Natale. Voi ci credete in Babbo Natale? Io, confesso, ho perso la fede da un pezzo. Non credo che qualcuno scenda dal camino per farmi i regali. Non credo che nessuno regali niente a nessun altro. E non credo che qualcuno regali un quotidiano a Renzi così, senza chiedere davvero nulla in cambio. Mi dispiace, il materialismo è proprio una brutta malattia.
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Abbiamo tutti un mostro in cantina

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Babadook (Jennifer Kent, 2014)

Se un tipo sveglio sei, e ben vedere sai,
un amico speciale troverai,
un amico tuo e mio.
Un suono tonante e tre colpi secchi: babada dook! dook! dook!
che lui è lì così saprai, e lo vedrai se guarderai...

Abbiamo tutti un mostro nello scantinato, un libro sulla mensola più alta che nessuno deve aprire. Un calendario senza un giorno che per gli altri è un giorno qualsiasi. Un incubo che ci fa sentire in colpa se da un po' non lo sogniamo. E un debito di sonno che ci fa vedere i mostri dove dormono i nostri bambini. Girato e ambientato in un suburbio australiano simile a tutti i suburbi del mondo, Babadook è la storia di Amelia, che ha perso il marito e partorito nello stesso giorno. Ora il bambino ha sei anni e non è come gli altri bambini. Amelia un tempo scriveva; ora il figlio e il lavoro si contendono il suo tempo lasciando le briciole al sonno. Insomma il mostro potrebbe entrare da qualsiasi fessura: approfitterà di un misterioso libro per bambini.

 
Quando dico "insopportabile" so quel che dico.
Babadook è un film che pesca dal torbido della condizione umana quanto basta a giustificare un'ora e mezza di spaventi e disagio. Chi non è avvezzo al genere avrà qualche diritto di dichiararsi esasperato da un film che indulge senza pudore a tutti i vecchi trucchi (porte che cigolano e sbattono, voci inquietanti al telefono, bambini insopportabili); chi viceversa di horror ne guarda parecchi potrà restare deluso dagli effetti speciali volutamente rétro e da un intreccio che non è niente di così originale (continua su +eventi!)
Si capisce che ho in mente Kubrick? Si capisce? Eh?
Il grosso rischio del film era proprio la sua natura compromissoria: si capisce che la regista, al suo primo lungometraggio, aveva in mente qualcosa di più ambizioso di un horror; che gli stilemi del cinema di genere le servivano per tentare un discorso più serio sulla maternità. E allo stesso tempo non c'è dubbio che avesse anche voglia di spaventarci, e tutto sommato c'è riuscita. Le si perdona anche un certo citazionismo da prima della classe (vedi i classici in bianco e nero che la tv somministra all'insonne Amelia - tra un Mélies e un vecchio Dracula c'è posto anche per Mario Bava), perché con tutti i suoi difetti Babadook è un film che non prende in giro lo spettatore, e dopo avergli inflitto qualche serio brivido, gli dà anche il motivo di spremere una lacrima e lanciare un paio di grida al proprio mostro personale. È un film catartico - parola da usare con parsimonia, ma stavolta è proprio il caso di tirarla fuori. E ora scusate, vado a dire due paroline al fantasma qua sotto che ieri notte non m'ha fatto dormire - no, il caldo non c'entra niente. Babadook è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (17:40, 20:30, 22:40) e all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15). Astenersi minori di 14 anni e cardiopatici.
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Va' in ferie Giannelli

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Oggi nei luoghi che bazzico io sono tutti scandalizzati per questa vignetta; io non ci riesco. Ci ho provato, eh, non è che voglia fare l'antisnob a tutti i costi. Credo che a emarginarmi dall'indignazione collettiva siano due argomenti.

1. È una vignetta un po' razzista che cavalca il più puro sentimento xenofobo che circola in Italia, non solo tra le piccole frange dei leghisti o dei fascisti che bruciano le case sfitte piuttosto di offrirle ai profughi. È la xenofobia benpensante dei lettori del Corriere - quelli che 14 anni fa correvano a fotocopiarsi le sbrodolate della Fallaci, quelli: lo scoprite stamattina che vivono con l'incubo di tornare dalle ferie e trovarsi neri e arabi in casa? Per scandalizzarsi serve un effetto sorpresa che non riesco a simulare. Trovo anzi utile che Giannelli faccia vignette xenofobe sul primo quotidiano italiano: penso che serva a tutti noi per capire che razza di gente siamo. Aggiungi che nei prossimi anni l'argomento "profughi" sarà uno di quelli che farà vincere o perdere le elezioni, se non una moneta di scambio che cercheremo di usare a Bruxelles per chiedere meno austerità (banalizzando: se vogliono tenere nell'UE un ponte in mezzo al mediterraneo, lo dovranno puntellare in qualche modo).

2. È una vignetta così crepuscolare che fa tenerezza. Giannelli sembra approdato allo stile che insegue da cinquant'anni, la Settimana Enigmistica. Per favore, escludete un attimo lo schermo piatto nell'angolo in basso, e guardate sull'altro lato la famiglia italiana - tipo secondo il Corriere. Pensate all'ultima volta che avete visto un padre di famiglia calvo che non si rasa sui lati. Il bambino con la maglietta a righe orizzontali. Il nonno scamiciato - rinasco, rinasco! nel Millenovecentosettanta. Non c'era lo spazio per un centrotavola e allora ha messo un vaso, le buone cose di pessimo gusto. Il profugo che prende parola potrebbe benissimo essere un manovale di Molfetta. È un mondo ideale che esiste solo nei sogni di chi lavora, stavo per dire in via Solferino, poi mi sono ricordato che non lavorano nemmeno più là. Non ci può essere violenza nell'immaginario crepuscolare, e infatti non c'è. I profughi di Giannelli avranno pure nasoni e labbroni, ma sembrano tutti abbastanza beneducati - tranne quello che la calura del tinello ha portato a spalmarsi sul pavimento, come fanno i bambini di tutti i colori al centro estivo, e a 37° li invidi soltanto. Bianchi e neri sono ugualmente stereotipati: i neri non sembrano sporchi o minacciosi e i bianchi non sembrano terrorizzati. Nella vignetta successiva si riesce a immaginarli tutti a tavola che mangiano un cuscus - ecco, Giannelli potrebbe salvarsi in corner pubblicando una cosa del genere, domattina.

Oppure potrebbe andare in ferie. Credo che ne abbia bisogno, un po' come tutti. E al ritorno, se trovasse l'ufficio già preso da un collega più giovane, ecco: anche in quel caso non riuscirei a scandalizzarmi più di tanto.
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L'UE è un'enorme Padania

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Che la vicenda greca sia stata una sconfitta per l'Europa può anche essere possibile; trovo più difficile considerarla una sconfitta della democrazia, colpita al cuore da tecnocrati, banchieri, economisti, eccetera. Scusate se da qui sembra proprio l'opposto: c'è fior di tecnocrati ed economisti che parla ormai da anni della necessità di condonare i debiti alla Grecia - del resto chi mastica un po' d'affari sa da sempre che la bancarotta fa parte del gioco del debito e del credito; per tacere della necessità geopolitica di non creare altre turbolenze nel Mediterraneo. Fosse stato per il Fondo Monetario Internazionale, o per i vertici Nato, i greci da questo tunnel sarebbero già fuori da un pezzo. Non è un malvagio ministro delle finanze tedesco a voler la Grecia fuori dall'Euro: è la maggioranza degli elettori tedeschi. E baltici. Se non carpatici. E questo, mi rendo conto, è uno choc.

Lo è almeno per molti della mia generazione, che guardavano all'Europa come all'orizzonte di fuga dal bassissimo livello della politica italiana. Per anni abbiamo invocato un'Europa che ci salvasse dalla grettezza dei parvenus leghisti, e oggi scopriamo che a nord della Padania non c'è necessariamente più welfare e libertà, ma una Padania altrettanto gretta e parvenue, moltiplicata per venti. La retorica contro il sud fannullone e parassita la conosciamo bene; l'ansia dei popoli appena approdati al benessere occidentale, che sospettano di poterlo perdere da un momento all'altro, non dovremmo faticare molto a capirla. A non volere un'Europa unita nella buona e nella cattiva sorte non sono tecnocrati e banchieri - ai quali anzi si può rimproverare di aver fatto un passo più lungo della gamba, mandando avanti una moneta unica nella speranza che creasse le premesse per qualcosa di più solido - ma gli europei. Non tutti, no, ma la maggioranza. Quella che in democrazia decide, ahinoi.
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Giovani non ci si improvvisa

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Passa ai ruoli drammatici, dicevano.
Si suda di meno, dicevano.
Giovani si diventa (While We're Young, Noah Baumbach, 2014)

Hai presente quel dolorino al ginocchio che non riesci nemmeno a ricordare quando è cominciato - quel dolore trascurabile che se ne sarebbe andato presto, e invece a un certo punto non sei più riuscito a salire in bicicletta, e il medico ti ha prescritto una medicina per l'artrite? L'artrite? C'è in giro una nuova generazione di artrite che colpisce i giovani? Ok, tu non sei tecnicamente più un giovane, ma l'artrite, suvvia, tuo padre soffriva di artrite. A quarant'anni... Perché, tu invece quanti anni hai?

Hai presente quel dolorino? Non se ne andrà mai più.

Giovani si diventa non è Duri si diventa, anche se sono usciti la stessa settimana. In Duri si diventa c'è Will Ferrell che deve imparare a fare il duro perché sa che andrà in prigione. Dirige Etan Cohen che non è Ethan Coen, occhio all'H. In Giovani si diventa c'è Ben Stiller che deve imparare a sembrare giovane perché improvvisamente non lo è più - cose che succedono soltanto nei film, per fortuna. Un attimo prima era un documentarista ribelle di belle speranze, un attimo dopo è un vecchio frustrato col cappello sullo sfondo di feste a cui non lo invitano.

Naomi che balla l'hip-hop però vale tutti i $ che è costata.
Dirige Noah Baumbach e la sensazione è che qualcuno, dopo avergli fatto i complimenti per Frances Ha, gli abbia detto: peccato che manchi la trama. "Il prima e il dopo. Questi vogliono gli americani. Un prima e un dopo". Lo stesso refrain sentirete due volte nel film, all'inizio e verso la fine. Forse Baumbach se l'è presa, al punto di decidere di autosabotarsi: dite davvero che gli americani vogliono più storytelling? E io ve ne darò più che posso: invece di limitarmi a ritrarre un personaggio umanissimo che scopre di invecchiare, gli darò un antagonista, un giovane con tutti i vezzi della fauna di Williamsburg, tranne la barba. Un compagnone supersimpatico, ma chissà se sotto sotto non è il più opportunista di tutti, eh, chissà. Vi darò l'indagine, i tradimenti, i colpi di scena, perfino gli inseguimenti (ma coi pattini. Il destino del Ben Stiller maturo è andare a rotelle). Il lieto fine, vi darò pure quello, con tanto di nota agrodolce. E con tutto questo, riuscirò a incassare meno che con Frances Ha, che era un prodotto artigianale e ha portato a casa 5 milioni di $ netti. While We're Young partiva con un budget di dieci milioni (che oltre a Ben Stiller a rotelle includono Amanda Seyfried e Naomi Watts che balla l'hip hop) e fin qui è riuscito appena a recuperarli. Volevate un prima e un dopo? Toh. Adesso mi farete fare i film come piacciono a me? (Continua su +eventi!)
Baumbach è uno dei registi più interessanti della nuova mia generazione. Il fatto che nemmeno lui riesca a darne un ritratto corrosivo senza cadere nel macchiettismo sfoggiato da Sam Mendes in Away We Go un po' preoccupa. In molte sequenze di While We're Young lo troviamo a sparare ai pesci nel barile: le ossessioni naturiste delle neo-mamme e dei neo-papà che vanno in aspettativa, quelle analogiche degli hipster viziati con una parete intera di 33giri, l'angoscia dei quarantenni che non riescono più a trattenersi dal consultare lo smartphone al ristorante. È un film che poteva graffiare e si limita a mostrare le unghiette. Alcuni riferimenti alla filmografia di Woody Allen, più che voluti inevitabili, non fanno che darci la misura del baratro - e dire che se c'è un regista che avrebbe qualche chance di colmarlo nei prossimi anni, è proprio Baumbach. C'è da sperare che il ritratto del regista terrorizzato dall'ansia di fallire al punto da minare la propria carriera sia il meno autobiografico possibile. Giovani si diventa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:35.
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L'europistola alla parete

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Di economia capisco poco, a differenza di tutti a quanto pare. Quello che sta succedendo purtroppo continua a sembrarmi ragionevole non già da un punto di vista finanziario (ci perderemo tutti) o men che mai strategico (sembra che abbia prevalso l'autolesionismo), ma ahinoi, narrativo. Il Grexit è la famosa pistola appesa alla parete nel primo atto, che nel secondo qualcuno fatalmente impugnerà, sennò che storia sarebbe. Non già i greci, che pure qualche tendenza suicida l'avevano mostrata, ma - colpo di scena - i tedeschi. Dietro di loro, gli europei più giovani e affamati, meno propensi a comprendere la tragedia di una nazione che ha vissuto per decenni al di sopra delle proprie possibilità.

Dire che questa è la fine dell'Europa mi sembra un po' ingiusto: per quanto l'ultimatum alla Grecia (75 anni dopo il nostro) possa risultare disastroso, è una delle scelte maggiormente condivise che i dirigenti europei abbiano preso. Si tratta semplicemente di un'Europa molto diversa da quella che avevamo immaginato: a trazione centrosettentrionale, con a disposizione ancora qualche serbatoio di manodopera sottosviluppata nelle nuove province ad est. Il mediterraneo avrebbe ancora un'importanza strategica, ma vallo a spiegare ai politici (e ai loro elettori). Vista dalle pianure baltiche, la Grecia deve sembrare un pastrocchio piccolo e sacrificabile.

L'Italia - si spera - sarà un'altra faccenda: però a questo punto possiamo aspettarci davvero di tutto. I nostri rappresentanti hanno seguito tutta la cosa con la consueta superficialità e mancanza di visione: ma prendersela con loro è già un morsicarsi i codini sulla via verso il mattatoio. Con questi tedeschi (e lettoni, e finlandesi, e slovacchi, ecc.) non ci avrebbe salvato un De Gasperi: Renzi evidentemente non lo è.
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L'egiziano con la balalaika

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Omar Sharif - che era nato Michel Demitri, pensate, Demitri Chalhoub, nel 1932 ad Alessandria d'Egitto in una famiglia melchita (cattolica di rito bizantino), ma poi si convertì all'islam e divenne Omar Sharif per amore dell'attrice Faten Hamama, ma poi si innamorò di Barbara Streisland sul set di Funny Lady proprio all'indomani della Guerra dei Sei Giorni creando una crisi diplomatica, Omar Sharif, dicevo, era una di quelle facce che non sembravano americane, e quindi a quei tempi si potevano usare indifferentemente per qualsiasi altra nazionalità. Come Ernest Borgnine, o soprattutto Anthony Quinn, plausibile sia da greco che da eschimese che da emiro, Sharif approdò a Hollywood per fare uno sceicco e due anni dopo era un prete spagnolo durante la guerra civile. Nel '68 fu arciduca d'Austria, l'anno dopo Che Guevara. Nel '65 era stato Gengis Khan e il dottor Zivago, il personaggio che lo rese una star e che avrebbe dovuto essere interpretato da O'Toole. Lo stesso Sharif non ambiva a tanto: amava il romanzo e si era proposto per la parte di Pasha Antipov (un Gengis Khan in locomotiva).

Il casting del dottor Zivago è una cosa che fa girar la testa. Il laido Komarovski avrebbe potuto essere Marlon Brando (ma sarebbe stato meglio di Rod Steiger? Non ne sono così sicuro). Lara avrebbe potuto essere Sofia Loren - che era poi il motivo per cui Ponti si era preso i diritti del film, ma Lean temeva che non sarebbe stata credibile nei panni iniziali di giovane educanda, un anno dopo essere stata la madre dei tre figli di Filomena Marturano, Audrey Hepburn avrebbe potuto essere Tonya invece che Geraldine Chaplin. Paul Newman avrebbe potuto essere il dottore. Anche Michael Caine fece un provino - o forse aiutò soltanto l'amica Julie Andrews a fare il suo, poi vide quello di Sharif e disse a Lean di scritturarlo. Un grande attore egiziano, nei panni di un medico e poeta russo. Oggi nessun regista oserebbe fare qualcosa del genere in una grande produzione, ed è un peccato. O'Toole sarebbe stato più credibile, ma non so quanto avrei tremato per lui che si specchia assiderato nella dacia. Sharif regalò Zivago a tutto il mondo, è banale dirlo ma è così. Della manciata di Sharif che ho incontrato a scuola, almeno uno so che deve il nome proprio a lui.

Zivago è un film che guardo più o meno una volta all'anno - di solito a scuola. Il comunismo reale è uno degli argomenti più difficili da spiegare a gente che è nata più di dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino. La difficoltà principale sta nell'immaginare un regime economico diverso, una cosa che oggi non esiste da nessuna parte nel mondo a parte isole o penisole esotiche. Dopo alcuni tentativi ho scoperto che i film che funzionano meglio sono Goodbye Lenin e Zivago (sì che Reds mi piaceva tantissimo, ma non regge). C'è nelle tre ore di Zivago almeno una trentina di minuti che sono una lezione di storia di terza media, pura e semplice: la scena dei disertori che diventano rivoluzionari, ovviamente, e quella altrettanto celebre in cui il dottore torna a casa e scopre che è stata collettivizzata (è anche notevole quel che riesce a fare Klaus Kinski con tre minuti a disposizione). Lì, e altrove, ho la sensazione che più di Pasternak sia merito di Robert Bolt, che riesce a dare allo spettatore anche digiuno di Storia tutti i riassunti necessari.

Ma nel film c'è tantissimo altro. Lara è una vittima di molestie, anche psicologiche (il laido Komarovski le fa credere di essere stata consenziente). Magari sugli stessi argomenti ci sono film più recenti e aggiornati, ma a volte mi domando se il melò non colpisca più in profondo, in territori preconsci. È pieno di Komarovski là fuori ed è tempo che le ragazze lo sappiano. I nomi poi sono difficili per cui invece di Komarovski lo chiamiamo Il Vecchio Porco. Ci sono frasi bellissime, che in realtà non so a memoria per cui magari le sbaglio: "non abbiate fretta", "canteranno meglio dopo la rivoluzione",  "chi è felice non parte volontario", "è notato, il tuo atteggiamento è notato", "e comunque avevo ucciso uomini  migliori di me", e ovviamente, "ci sono due tipi di donne" e "ci sono due tipi di uomo". Ora che ci penso, Sharif non ne pronuncia nessuna - e dovrebbe essere il poeta. È un'anima bella sballottolata dalla Storia in un paesaggio enorme. È un buon medico ma questo passa in secondo piano rispetto all'ingenuità con cui affronta tutto quello che gli succede. Mi capita di solito di calarmi nei panni di tutti i personaggi maschili tranne il suo. Siamo stati tutti idealisti come Antipov (per fortuna nessuna rivoluzione ci ha dato un'armata a disposizione), burocrati rassegnati come il fratello di Zivago, e invecchiando metteremo su la pancia e il cinismo del porco Komarovski (per poi rimbecillire come il papà di Tonya); siamo quell'altro tipo di uomo, quello che l'umanità finge di disprezzare ma in realtà produce in serie. Siamo fatti tutti di quella creta. Questo non ci impedisce di voler bene a Zivago, mentre porta a casa tre assi schiodate a uno steccato, e non è nemmeno in grado di mentire. Forse avremmo voluto ugualmente bene a O'Toole, ma... no. Doveva essere Omar Sharif.
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Nel tempo si viaggia da soli

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Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014)

Bisogna trovare quello che è tornato indietro nel tempo
per impedire che quei cappelli andassero di moda e
fermarlo (lei è bravissima comunque).
Per noi che ci muoviamo liberamente in tre dimensioni - mentre la quarta ci sposta inesorabilmente in una sola direzione - un cerchio è semplicemente l'insieme di punti equidistanti dal suo centro, senza inizio né fine. Immagina ora che esistano creature bidimensionali, in grado di pensare e guardarsi attorno, ma che percepiscano la Larghezza come noi percepiamo il Tempo: qualcosa che si può percorrere soltanto in una direzione. Intorno a loro vedrebbero soltanto filamenti che si avvicinano e allontanano. Non sarebbero in grado di immaginare un cerchio, o forse sì, ma nel suo tornare al punto di partenza vedrebbero qualcosa di mostruoso, di contronatura. La stessa cosa proviamo noi di fronte a un fenomeno che sembra causa o conseguenza di sé stesso - lo rifiutiamo. Siamo abituati a vedere gli eventi allontanarsi e avvicinarsi a noi, e abbiamo imparato a descriverli in termini di causa ed effetto, di prima e di dopo. Qualcuno a volte riesce ad astrarsi abbastanza da immaginare che esista un'ulteriore dimensione, dalla quale anche il Tempo si possa osservare da più punti di vista. Da lì forse scopriremmo che anche le catene filiformi di eventi in cui siamo avvolti, in realtà sono loop circolari: che causa ed effetto non sono che archi degli stessi cerchi; che tutto accade perché tutto accade, nello stesso spazio-momento. È quello che alcuni chiamano predestinazione.

Predestination è un film australiano tratto da un racconto di Robert Heinlein che fareste bene a non aver letto, o ad aver dimenticato. Un agente segreto (Ethan Hawke) viaggia nel tempo per sventare gli attentati di un terrorista che viaggia pure lui nel tempo e che riesce sempre a prevenirlo, e a questo punto o vi siete già distratti, o siete appassionati di paradossi temporali e avete già formulato il sospetto più ovvio.

Questo è il principale problema di Predestination e in generale di tutto il cinema di fantascienza, che pure in questi anni ci sta regalando soddisfazioni non piccole: il fatto di rivolgersi a un pubblico già selezionato ed esigente, che conosce i trucchi meglio di chi li mette in scena - non è come l'horror; in sala non sono tutti adolescenti a bocca aperta incapaci di rendersi conto che Bruce Willis è un fantasma anche se nessuno gli rivolge mai la parola. Anche se non conosci il racconto originale, persino se ignori Heinlein e la sua ossessione per i loop temporali, se ti piace la fantascienza hai l'occhio allenato per queste cose - e dopo dieci minuti di girato hai già capito quello che i gemelli Spierig vorrebbero rivelarti al novantesimo. (Continua su +eventi!)

Il film resta ugualmente godibile, un bell’episodio lungo di Ai Confini della Realtà. Gli Spierig non sono i Wachowski ma hanno mutuato qualcosa della loro follia, nel bene e nel male – una fascinazione per l’androgino e la metamorfosi del corpo che è ancora merce rara, ma che purtroppo anche qui come in Cloud Atlas non riesce a tradursi in forme cinematograficamente plausibili: anche se in questo film non ci sono trucchi altrettanto imbarazzanti, la pur brava Sarah Snook semplicemente non è abbastanza credibile nei panni maschili che si trova addosso per metà film. In compenso la macchina del tempo è la più minimal mai vista al cinema, e forse anche la più elegante e suggestiva. Il film si mantiene per una buona metà estremamente aderente al racconto di Heinlein, senza nemmeno correggerne il sessismo molto anni Cinquanta, a costo di disorientare lo spettatore meno esperto che si ritrova in un passato alternativo con cadetti spaziali che quando fu descritto era semplicemente un futuro prossimo. Poi, cercando di confondere le acque, i gemelli scelgono di raddoppiare l’intreccio già arzigogolato, aggiungendo riferimenti al terrorismo che invece di attualizzare la storia la sospendono ancora di più nello spazio e nel tempo: non è che torni tutto, e se vi ha innervosito la logica circolare di Interstellar forse è meglio che vi teniate alla larga. Se invece qualche volta vi viene di pensare a come dev’essere il Tempo visto da una quinta dimensione, Predestination è il film fatto per voi. O forse eravate voi fatti per lui. Probabilmente vi verrà voglia di vederlo e rivederlo, anche al contrario.

(Quando sono entrato in sala ero solo. Se c’è un film da guardare da soli, è questo. Dopo un po’ è entrato qualcun altro, qualcuno che ho evitato rigorosamente di osservare. Non so se era un uomo o una donna, ma ho avuto la sensazione che mi somigliasse).

Predestination è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:30 e alle 22:45, e poi chissà dove andrà a finire.
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