La bomba, o al limite un camion

Permalink
Ma hai sentito quei bastardi cos'hanno fatto.
È una vergogna.
E noi glielo lasciamo fare.
Quanta altra gente dovrà morire.
Le donne, i bambini.
È una vergogna.
E noi ancora qui a discutere, cosa c'è da discutere.
La bomba atomica, altroché.
Averne una.
Dove la tireresti.
E che ne so.
Tanto i potenti hanno sempre i rifugi, non li becchi mai.
La tiri nel mucchio.
Come avvertimento.
Voi ci ammazzate? Noi bomba atomica.
Ma non l'abbiamo.
Allora una bomba normale.
E dove la compri?
Ci sono quelle bombe che si fanno in casa.
Tu la sapresti fare?
E allora che si fa?
Restiamo qui a dirci "bastardi è una vergogna" finché non toccherà anche a noi?
Basta chiacchiere.
Facciamo qualcosa stavolta.
Una bomba non l'abbiamo.
Fucili?
Qualche cosa si trova, poca roba.
Poi ti ammazzano subito.
Ci ammazzino, che mi frega.
Avessimo un blindato.
Basta coi sogni, su.
Blindati non se ne trovano.
Non è un film.
Un camion?
Un camion si trova.
Comments (4)

La cena delle notifiche

Permalink
Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016)

Il dramma della Comunicabilità, la tragedia di una generazione che può permettersi l'Iphone ma non ha imparato a silenziare le notifiche. Li senti poi sui treni che chiacchierano con la suocera, pur di farci vedere che hanno relazioni umane: li vedi sui balconi mentre guardano nel vuoto e parlano con l'ex, o con la next; mentre attraversano gli incroci una volta, due volte, con l'auricolare; mentre sextano in coda al bagno pubblico e poi entrano per scaricare la fotina. Vogliono essere scoperti, questa è la verità. Come i serial killer. Vogliono essere osservati - che gusto c'è ad avere segreti se nessuno se ne accorge?

"Tante volte può essere il T9".
Nell'anno in cui il cinema italiano sembrava aver riscoperto il Genere, l'anno in cui il Racconto dei Racconti e Jeeg Robot si litigavano la maggior parte dei David di Donatello, alla fine il premio al miglior film l'ha portato a casa Perfetti sconosciuti, una specie di rivincita del Tinello, del cinema intimista coi borghesi che chiacchierano. E però a suo modo è un genere anche questo: le cene-che-degenerano tra l'altro stanno avendo un revival internazionale. C'è stato Carnage, c'è stato Le prénom che ha avuto anche una sua versione italiana. Ma mentre Il nome del figlio dell'Archibugi è la classica variante d'autore, in cui lo sforzo delle maestranze era rivolto soprattutto a calare il canovaccio in una situazione italiana (anzi romana), Perfetti sconosciuti è quel tipo di piccola idea geniale ed esportabile, che è ambientata a Roma per comodità, ma potrebbe svolgersi ovunque (continua su +eventi!)

"Son stato frocio due ore e m'è bastato".

Il nome del figlio riprendeva dall'originale francese l'idea di una borghesia ormai spaccata in due, così pronta alla guerra civile che la scintilla potrebbe scoccare in qualsiasi momento, anche a una cena tra amici. Di queste tensioni in Perfetti sconosciuti non rimane traccia: non c'è più toponomastica sociale, borgatari portatori di una sana vitalità o professori di sinistra isterici, grazie al cielo. Non c'è una guerra segreta tra post-berlusconiani e post-anti: c'è un liquido gruppo di amici, di cui sappiamo appena il mestiere, che credono di conoscersi finché una sera hanno l'imperdonabile idea di fare il Gioco della Verità 2.0: tenere i cellulari aperti, sul tavolo, per tutta la cena. C'è bisogno di dire che quel venerdì sera chiameranno tutti? Ma proprio tutti, non solo la figlia e l'amante incinta: anche l'ospizio, il gioielliere, fin oltre il dessert continueranno a sputtanare gli incauti commensali. Per quanto irrealistica, l'idea è originale, ma se funziona è merito degli attori, tutti in forma, e di una sceneggiatura che non lascia né a loro né allo spettatore il tempo di prender fiato e riflettere sull'assurdo della situazione. Buon cinema, ottimo teatro.

Non è un ingranaggio perfetto - verso la fine c'è uno svelamento che forse in una prima stesura funzionava da colpo di scena, ma a quel punto ormai siamo tutti esausti e non ci stupiremmo più di niente - però riuscire a trovare il ritmo giusto e non perderlo per quasi un'ora e mezza non è da tutti. E far sembrare fresca una commedia degli equivoci, nel 2016, strappa l'applauso. Poi c'è il finale, che fa qualcosa di molto raro nel cinema italiano: nel momento in cui ci aspetteremmo la risoluzione della crisi, un po' di quiete dopo la tempesta (persino Polanski chiudeva Carnage coi bambini che giocano assieme), Genovese fa un passo indietro, restituendo a tutti i loro segreti. E quando nell'ultima scena Battiston scende dalla macchina, ti accorgi che stai trattenendo il fiato.

Perfetti sconosciuti giovedì 14 è programmato in ben due rassegne di cinema all'aperto: il Cinedehors di Fossano (dalle 21:30) e il Cinema all'Arena di Alba (dalle 21:45).
Comments

Come l'Invalsi (non) ti cambia la didattica

Permalink
Riassunto della puntata precedente - Grazie alle sue rilevazioni l'Invalsi ha dimostrato ciò che era abbastanza prevedibile, ovvero che i risultati mediamente peggiori provengono dalle regioni meno ricche; nelle stesse regioni sembrano essere più frequenti gli episodi di "teacher cheating", insomma di docenti che imbrogliano. Secondo la presidente dell'Invalsi è un problema di didattica: gli insegnanti delle regioni più povere non hanno adeguato la loro didattica all'Invalsi. Ma di che didattica stiamo parlando?

Been cat stealing, once, when I was 5. 
Dovete sapere che in questi anni, in cui da una parte ci divevano che ci avrebbero valutati, e magari licenziati, oppure rinchiusi negli istituti a luglio, insomma ce ne dicevano un po' di tutti i colori... in questi stessi anni ci davano da correggere la prova Invalsi e ci spiegavano che era sbagliato allenare i ragazzi a superare la prova Invalsi. Giuro. Ci chiedevano di non fare teaching to the test. Guai a farlo.

Io non so se tutta questa commedia dell'assurdo si sia verificata anche in società non cattoliche, ma giudicate voi. Ci dicono che non siamo bravi. Ci danno una Prova. Ma ci dicono che non la useranno per valutarci. Solo per valutare i ragazzi nel loro insieme. Anche se a dire il vero, all'esame di licenza la Prova fa media. Però non dobbiamo preparare i ragazzi a superarla. Quindi cosa succede?

Caro insegnante, io sotto sotto credo che tu sia un incompetente, un mangiapane a tradimento. Lo si vedrà meglio dai risultati complessivi di questa Prova, che però non serve a valutarti, e che tu correggerai - mi raccomando, non barare. A proposito: la prova fa media. E magari non è facilissima. Ma non devi allenare i ragazzi a superarla. Ecco.

Vediamo i risultati... ops! Cosa succede qui? Sembra proprio che tu abbia barato. Lo vedi che lo sapevo? Sei un incompetente. Avresti dovuto cambiare didattica.

Quindi l'Invalsi serve a imporre un certo tipo di didattica? E perché non ce l'avete detto prima?
Forse dovevamo arrivarci da soli.

Per fare un piccolo esempio: a volte mi chiedo che senso ha studiare tutti i complementi, alle medie. Il complemento oggetto, per esempio, è molto importante. Il complemento di vantaggio non lo è altrettanto. Vale la pena dedicargli una lezione? Visto che dappertutto mi spiegano che la didattica va rinnovata, e insomma le competenze linguistiche si possono costruire in tanti modi, non per forza imparando a memoria tutti i nomi dei complementi. Così a volte il dubbio mi viene.

A questo dubbio, le prove Invalsi rispondono. Certi quesiti grammaticali compaiono quasi ossessivamente (il troncamento di "uno"), altri più saltuariamente. Ma insomma, quest'anno è uscita una domanda sul complemento predicativo del soggetto e dell'oggetto. Non pretendevo che molti alunni l'azzeccassero. Allo stesso modo, mi sarebbe dispiaciuto che arrivassero alla prova senza aver mai sentito parlare del complemento predicativo. Magari l'Invalsi non mi valuta, ma non vorrei che mi facesse fare una brutta figura. Continuerò a insegnare il complemento predicativo, e alla didattica innovativa ci penserò quando mi avanzerà del tempo (non mi avanza mai).

Insomma se la domanda è: cos'è un insegnamento di qualità? mi sembra che l'Invalsi mi risponda così: un insegnamento di qualità prevede, tra l'altro, che gli studenti conoscano i complementi, anche i meno noti (e a mio parere meno utili per costruire una reale competenza linguistica), come i complementi predicativi. E allora io mi adeguo. Ai miei studenti dell'anno prossimo, che sbufferanno durante le ore di grammatica, ricorderò che anche il complemento meno interessante all'Invalsi può uscire. "Pensate che l'anno scorso è uscito il predicativo del soggetto. Storia vera".

Naturalmente nessuno mi ha mai detto che l'Invalsi vuole imporre agli insegnanti una didattica, o dei contenuti. Tranne la settimana scorsa, quando la presidente Ajello ha suggerito che i prof delle regioni meno ricche truccassero i risultati delle prove perché... ancora non si sono adeguati alla didattica dell'Invalsi. Dunque c'è una didattica dell'Invalsi? E ci dobbiamo adeguare?

Perché a volte basta dirsele, le cose.

Vado a riaprire i fascicoli di italiano degli anni scorsi. Tre quarti della prova consistono in comprensioni del testo (poi c'è la parte grammaticale, cui ho accennato sopra). Se era un messaggio, è arrivato forte e chiaro: quel che più importa all'Invalsi è che gli studenti siano in grado di comprendere un testo scritto. A me sta bene, credo anch'io sia la competenza più importante. Ma non solo a me. Direi che sta bene un po' a tutti. Date un'occhiata a qualsiasi antologia della scuola media: per tre quarti è composta da testi e da domande sui testi. Era così anche quando eravate giovani. È così ancora oggi. Dunque qual è l'aspetto innovativo della prova Invalsi d'italiano? Qualcuno pensa che siano le crocette. Sono diventate un po' un simbolo dell'Invalsi, le crocette. E tuttavia:

1) Anche in qualsiasi antologia ci sono esercizi a crocette (e a freccette, a vero o falso, ecc. ecc.). E non sono particolarmente innovativi: li facevamo anche noi da bambini.
2) Non tutti gli esercizi del fascicolo sono a crocette (il che rende la correzione più brigosa, ma anche più cittabile truccabile).
3) Le crocette sono uno strumento, non un fine: non vogliamo studenti solo in grado di mettere le crocette, ma se dobbiamo processare i dati di tutte le scuole italiane, non c'è un'alternativa ai test a crocette.

Insomma, l'Invalsi d'italiano è fatto così: comprensione del testo e quesiti grammaticali. L'innovazione quale sarebbe? Di tutte le idee strane fiorite intorno alla prova Invalsi, quella che la considera la portabandiera dell'innovazione didattica mi sembra la più curiosa. Tutte le volte che incontro qualche collega col pallino dell'innovazione, mi accorgo che (a) non ne può più dell'antologia delle medie "con tutte quelle domande noiose"; (b) non ne può più della grammatica prescrittiva, del complemento di svantaggio e della proposizione esclusiva. Bene, l'Invalsi vuole entrambe le cose. Le classi del prof innovativo rischiano di andare male all'Invalsi più di quelle di un qualsiasi prof che non cambia didattica dal 1970.

Per contro, un insegnante che volesse innovare un po', quando apre il fascicolo e scopre che si parla di complementi predicativi del soggetto, potrebbe anche essere tentato di barare. Provate di nuovo a mettervi in lui. Ha passato tre anni a far cose innovative, e adesso i suoi ragazzi si trovano davanti a una domanda noiosa, inutile, che inciderà sul loro esame. È colpa loro se hanno avuto in sorte un prof innovativo che non insegnava i complementi predicativi? Dannazione no, siete voi che avete voluto sperimentare cose che all'Invalsi non interessano. Perché dovrebbero pagare i vostri studenti per la vostra frenesia di cambiare didattica? Magari hanno lasciato le caselle vuote. Prendete la penna e inserite le crocette. Nessuno vi controlla.

Magari tra qualche settimana, applicando correttamente un algoritmo, un dipendente a tempo determinato dell'Invalsi scoprirà che avete fatto cheating. Ma nel frattempo i verbali dell'esame saranno già stati ratificati e imbustati, e i vostri ragazzi avranno già visto il loro voto sul tabellone. Saranno contenti. Anche i genitori. E il complemento predicativo del soggetto si fa sempre in tempo a imparare.

Se proprio l'Invalsi ci tiene.

(Magari continua).
Comments (1)

Perché i prof cittano barano all'Invalsi

Permalink
In questi giorni sono uscite le rilevazioni delle prove Invalsi, che come al solito dicono cose interessanti ma non molto sorprendenti: così abbiamo scoperto, anche quest'anno, che gli studenti delle regioni più ricche hanno risultati mediamente migliori degli studenti delle regioni più povere, e che man mano che i ragazzi crescono la forbice si allarga. Insomma le rilevazioni che dovrebbero servire per valutare la qualità dell'insegnamento continuano a suggerire allo spettatore disincantato che la qualità dell'insegnamento sia una variabile meno influente del contesto sociale e del reddito delle famiglie degli studenti: un buon insegnante in una regione povera non otterrà risultati migliori, o se li otterrà non saranno necessariamente avvertiti dalle rilevazioni Invalsi. Storia vecchia. E poi c'è la questione del cheating.

Sono nel tuo piano didattico,
ti rubo il companattico.
"Cheating" significa naturalmente barare, ma l'Invalsi condivide coi miei studenti la passione per l'anglismo: i miei "cittano" quando giocano alla play, l'Invalsi comunica di aver affinato le procedure che le consentono di individuare e correggere i fenomeni di cheating. Queste procedure (spiegate alle pagine 7 e 8 del rapporto) sono molto complesse; io le prendo per buone, anche se a volte mi domando se l'effetto di un insegnante ideale sui suoi studenti non produrrebbe la stessa anomalia nei dati che viene di solito considerata un sintomo di cheating: se dove tutti si aspettano che ci sia un Quattro c'è un Sei, o addirittura un Otto, probabilmente qualcuno sta truccando i dati: ma truccare deve per forza essere mettere la crocetta giusta e cancellare quella sbagliata? non è una forma di cheating anche prendere qualcuno che per ceto ed estrazione geografica dovrebbe prendere Quattro, e renderlo in grado di prendere, con le sue capacità, un Sei o un Otto?

È solo una suggestione: tutto sommato credo che all'Invalsi sappiano il fatto loro (anche se la presidente si lamenta che parecchi siano assunti ancora a tempo determinato) e che possano distinguere il cheating vero e proprio da quella forma estesa di cheating che è l'insegnamento: però mi diverte molto pensare che il mio mestiere sia creare anomalie, truccare le carte distribuite dalla società. In ogni caso il cheating sembra concentrato nella regione coi risultati peggiori, e in questa intervista la presidente dell'Invalsi si domanda perché. È un momento abbastanza buffo: diciamo che è come chiedersi perché i furti di lardo avvengano soprattutto nei quartieri in cui si soffre più la fame. No. È anche più buffo di così. Facciamo un passo indietro.

Le prove Invalsi esistono ormai da parecchi anni, durante i quali sono stati oggetto di una serie di discorsi abbastanza ambigui. I governi che le sostenevano erano gli stessi che avevano come slogan "valutiamo gli insegnanti", quando non "licenziamo gli insegnanti incapaci": e benché le prove Invalsi non servissero propriamente a compiere questo tipo di valutazione, sono sempre state vendute così. Non era senz'altro il modo migliore per motivare gli insegnanti che avrebbero dovuto correggerle, e che sin dall'inizio sono stati molto diffidenti (all'inizio poi le prove erano anche abbastanza brutte: col tempo sono migliorate). Però, insomma, mettetevi negli insegnanti. Da una parte vi dicono: "adesso vi valuteremo (e cacceremo gli incapaci)": dall'altra vi mettono i fascicoli dei vostri studenti in mano e vi chiedono di correggerli: sì, anche se l'insegnante non è presente all'atto della somministrazione, è prassi diffusa che corregga i fascicoli dei propri studenti. Mi chiedo se la presidente Ajello lo sappia, nel momento in cui si domanda perché i prof cittano, pardon, barano. Voi mettereste il gatto di guardia al lardo? In particolare, il gatto più magro? In particolare, il gatto che avete minacciato di buttar di casa se non ingrassa un po'? Poi torni a casa, manca il lardo e ti domandi il perché. E ti rispondi:

La risposta che mi sto dando è che questo comportamento sia dovuto al mancato adeguamento della didattica da parte di questi docenti all’obiettivo di fornire agli studenti che le prove Invalsi vogliono verificare. 

La didattica. Gli insegnanti di una delle regioni meno ricche d'Italia, la regione che molto spesso ha i risultati peggiori, nel momento in cui si trovano a correggere e inserire i dati dei fascicoli invalsi, qualche volta barano: soprattutto nella prova nazionale di terza media, quella che fa parte dell'esame. Perché mai lo faranno? Perché hanno paura che i risultati possano essere usati contro di loro in sede di valutazione? Perché si sentono direttamente responsabili degli scarsi risultati dei loro alunni, che soprattutto in terza media si traducono in brutti voti all'esame? Prendere un Quattro alla prova nazionale non è uno scherzo, se la media delle prove si abbassa sotto il 5,5 sei bocciato. Bocciare qualcuno all'esame, dopo averlo ammesso, significa crearsi problemi con le famiglie e con lo stesso dirigente. Questo tipo di problemi un insegnante li vive peggio nelle situazioni in cui è meno protetto, ovvero nei contesti sociali più difficili, ovvero - torniamo sempre lì - nelle zone meno ricche d'Italia. Quindi, dove i gatti sono più malnutriti, i furti di lardo sono più frequenti. Mi sembra una spiegazione molto semplice, ma forse ho un debole per le spiegazioni semplici.

Secondo la presidente invece c'entra la didattica. Non è adeguata. A cosa? Alla prova Invalsi.
Che cosa?

(Continua)
Comments (3)

Guardare Matteo Renzi come un incidente stradale, al rallentatore

Permalink
Se le riprese degli incidenti stradali in genere hanno un che di ipnotico, le riprese rallentate sconfinano nella pornografia, e questo forse spiega perché non riesco a non guardare Matteo Renzi mentre va lentissimamente a sbattere contro il referendum d'autunno. A questo punto, per quanto sia distorta la sua percezione della realtà, qualche sospetto della possibilità di andare a sbattere deve averlo attraversato. I risultati elettorali vanno così e così, i sondaggi così e così, le raccolte di firme forse era meglio non organizzarle nemmeno, insomma, il rischio c'è e forse nel segreto di Palazzo Chigi ogni tanto si domanda chi glielo ha fatto fare. Era davvero così importante trasformare il Senato in un club per vecchi consiglieri regionali, valeva la pena di giocarsi il posto e il partito per una sciocchezza del genere? E l'italicum, non si poteva calibrare un po' meglio, giusto per evitare che favorisse il principale contendente?

Tutte queste domande magari ogni tanto Matteo Renzi se le fa, concediamogli il beneficio del dubbio, e però la risposta dev'essere sempre la stessa: ci ho messo la faccia, e se deve andare a sbattere, che sia. Sbatteremo anche noi, ma che importa? Nel suo film siamo comparse. Non è neanche più politica, è una specie di scommessa che Matteo Renzi ha fatto con sé stesso - almeno gli inglesi sono andati in malora su una questione di principio e di una certa rilevanza geografica, se la Gran Bretagna sia un'isola o no, se sia Europa o no. Noi il referendum finiremo per farlo sulla faccia di Matteo Renzi, e se il mio voto è scontato da tempi non sospetti, sia messo a verbale che trovo la cosa un po' avvilente. Più che Fonzie sembra uno dei suoi archetipi, il tizio che in Gioventù Bruciata ci lascia le penne piuttosto che saltare per primo dalla macchina in corsa e perdere la faccia con le pollastrelle.

Magari ogni tanto gli capita anche di chiedersi cosa è andato storto, visto che probabilmente a questo punto del piano gli italiani dovevano amarlo e portarlo in palmo di mano; e invece ormai si becca i fischi anche alla partita del figlio, è seccante. Eppure sta andando tutto bene, grazie al Jobs Act l'Italia si sta rapidamente riorganizzando in Danimarca, e anche a scuola tutto va benissimo, ad esempio quest'anno si è appena diplomato uno studente autistico - giuro, in Direzione ha usato questo esempio: di tutti i dati che poteva farsi confezionare dal suo staff di autori, ha scelto il diploma di un ragazzo che se ha 19 anni avrà cominciato il suo iter nelle scuole statali intorno al 2003: uno che si è beccato i tagli e le riforme di Moratti, Fioroni, Gelmini e Profumo, grazie ai quali probabilmente avrà avuto un bel turn-over di insegnanti di sostegno (turn-over che in molti casi non si è affatto arrestato con le ultime assunzioni, anzi); e questo ragazzo malgrado tutto va avanti, quest'anno gli capita di diplomarsi e arriva Matteo Renzi a metterci il cappello, ecco il successo della Buona Scuola. E del resto Matteo Renzi è così, uno che ha il sole in tasca, e l'Italia è il Paese più bello del mondo, se solo riuscisse a liberarsi dai lacci, dai lacciuoli... e il guaio non è il fatto che usi le stesse parole che vent'anni fa usava un leghista o un Berlusconi, ma che non se ne renda conto; e come Berlusconi l'unica cosa che davvero lo offende, lo scandalizza, è che la gente non lo ami. Lui è progettato per farsi amare dalla gente, e quindi se la gente non lo ama il problema è da qualche parte, ma di sicuro non in lui.

Cavallette, piogge di rane, cani e gatti che vivono assieme.
A un certo punto, in un momento di lucidità, lo ammette: a volte guarda la televisione, ci sono canali che sparano a zero contro il governo da mane a sera. Il che a dire il vero non risulta, ma potrebbe essere un punto di partenza: dietro alla pretesa di Berlusconi di essere amato c'erano tre o quattro canali in chiaro, c'era la potenza di fuoco del primo gruppo editoriale italiano, più gli amici industriali, non sempre convinti ma più spesso in linea che in fronda. Dietro Matteo Renzi chi c'è, chi è rimasto? Confindustria fa quel che può, commissiona ricerche, pubblica slide, si fa ridere dietro, è un po' il segno dei tempi. La Mediaset deve pensare al suo core business; io quando cambio canale vedo molto più spesso cronaca nera e invasioni di migranti che dibattiti sull'italicum. Un po' li capisco, li considero sciacalli da così tanto tempo che ormai allo sdegno del moralista è subentrata la curiosità dell'etologo.

Insomma Matteo Renzi sta andando a sbattere e molti, dopo aver anche provato a metterlo in guardia (ma lui non ci sente) ormai stanno prendendo posto, c'è in giro quel profumo di popcorn. Lui stesso lo annusa, lui stesso vagamente intuisce che il pubblico più che per lui tifa per il muro che gli sta arrivando addosso, e si chiede di chi è la colpa. Siccome è escluso che sia di Matteo Renzi, non può che essere del solito nemico, ovvero? La sinistra Pd. Che trama nell'ombra, che è ovunque, sui giornali e soprattutto in tv, e non fa che complottare contro Matteo Renzi. Ecco spiegato il problema, in fondo era facile. L'avrete anche voi Cuperlo intervistato dappertutto, e Bersani a macinare diaboliche metafore a reti unificate. La gente non vuol più bene a Matteo Renzi perché la sinistra del Pd parla male di lui. Questa cosa che invece di sospingerlo con entusiasmo verso il muro stiano già cercando di riorganizzarsi per rivendere i rottami, ecco, è una imperdonabile mancanza di fede .
Comments (7)

Siamo tutti figli di Cuarón

Permalink
I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuarón, 2007).

L'umanità è diventata sterile, l'Inghilterra è invecchiata e isolata. I più giovani - hanno sedici anni ormai - si radicalizzano, mettono bombe a casaccio, non si sa nemmeno cosa vogliano. I vecchi se la prendono coi migranti, nessuno ricorda più il perché. Succederà tra vent'anni - no, aspetta, nove sono già passati.


È vero che ci sono film più recenti in sala, ma se al Castello di Roddi sabato 9 luglio fanno I figli degli uomini, forse vale la pena di ridare un'occhiata per scoprire quanto poco sia invecchiato un film che dieci anni anni fa sembrava già una cosa notevole, se non proprio un capolavoro. Quel che è successo nel frattempo è che non solo le tematiche del film non hanno smesso un attimo di restare attuali - anzi, i rifugiati nei recinti e i campi profughi militarizzati somigliano sempre di più a una profezia - ma che lo stile sfoggiato da Cuarón nell'occasione è diventato tipico del migliore film d'azione. Nel 2007 esistevano già i found footage; Von Trier e Gus Van Sant ci avevano già assuefatto alla nausea da handicam; e però i piani sequenza insistiti (e truccati); la scenografia un po' Bagdad un po' videogioco sparatutto, sono cose che sono diventate moneta corrente dopo i Figli degli uomini, se non grazie ai Figli degli uomini (continua su +eventi!).



Non voglio dire che non avremmo avuto film acclamati il Figlio di Saul, o l'ultimo Mad Max, ma forse li avremmo apprezzati meno se nel 2007 Cuarón non ci avesse iniziato a un nuovo modo di girare l'azione, visionario e più immediato: anche questo film è in sostanza un solo lungo inseguimento; anche Cuarón è deciso a narrare soprattutto attraverso le immagini, riducendo al minimo gli spiegoni. Vedi l'intermezzo dell'"Arca delle Arti", un progetto che viene semplicemente menzionato e mostrato, senza che nessun personaggio o voce narrante si preoccupi di spiegarci cos'è: ce lo devono dire le immagini, e il maiale rosa sulla fabbrica e il David di Michelangelo con una gamba rotta, e ci riescono egregiamente. Del romanzo di P. D. James restano solo le suggestioni: la trama è stravolta anche da un punto di vista politico, senza troppe preoccupazioni per la logica (un'Inghilterra condannata a invecchiare sarebbe costretta a importare i lavoratori stranieri più che a scacciarli, e in effetti la James nel romanzo prevedeva dei campi di lavoro coatto). Cuarón la taglia a fette molto meno sottili: sceglie come nuova Eva (che all'inizio avrebbe dovuto essere Julianne Moore) una ragazzina d'origine africana con un pessimo gusto per i nomi: trova i sobborghi meno caratteristici di Londra e chiede ai suoi scenografi di messicanizzarli. Per lui il confine tra primo e terzo mondo ormai è un fronte mobile. Gli preme mostrarci un'Inghilterra senile e xenofoba, e dieci anni dopo è difficile dar torto alla sua intuizione.

In generale rivedere su un grande schermo I figli degli uomini potrebbe rivelarsi un'esperienza straniante per chi ha la sensazione che tutto stia precipitando all'improvviso: è un film che appartiene assolutamente al decennio scorso, all'era pre-crisi dei bond, ai tempi in cui il nemico numero uno era Bin Laden - la scena della bomba a Londra fu girata poche settimane dopo l'attentato suicida del 2005 - e ci mostra come tutti gli incubi che crediamo avere avuto negli ultimi anni ce li stiamo portando avanti ormai da più di dieci. Non è che i cinema siano già chiusi, ma non mi pare che questa settimana ci sia in giro qualcosa di più interessante e attuale dei Figli degli uomini. . Al Castello di Roddi dopo le 21, sabato 9 luglio.
Comments

Vittorio Feltri e la caccia al bengalese

Permalink
Qualche volta mi è capitato, negli ultimi anni, di assegnare temi sui migranti e di ricevere in cambio temi sui vuccumprà da spiaggia. Una cosa che mi rigetta sempre nel 1984, quando sulla sabbia di Pinarella cercavo di usare il sedere di mio fratello per costruire una pista da biglie e incontravo per la prima volta questi Alieni, questi stranieri, e li incontravo sotto forma di Vuccumprà. Ora invece è il 2016, a scuola abbiamo ragazzi con tutti i cognomi possibili, tutti i colori, tutte le religioni, eppure se chiedo al bimbo biondo medio: disegnami un Migrante! Lui mi abbozza un Vuccumprà. Alcuni secondo me sono convinti che sbarchino direttamente a Pinarella con le catenine e i braccialetti. Poi naturalmente crescono.

Spero. Voglio dire che la fobia per il Vuccumprà, l'Uomo Nero che viene a turbare i tuoi giochi da spiaggia, è una cosa che forse l'italiano medio si porta nell'inconscio. Ho la sensazione che se si potesse smontare la xenofobia di molti adulti, aprire il baule delle paure, scopriremmo da qualche parte un fantoccio di stracci ed ebano dall'espressione astuta e ineffabile, un genio del deserto, un demone meridiano. Questo naturalmente non scusa il nostro razzismo. In particolare non scusa la banda di "giovanissimi" che, secondo il Corriere Adriatico, avrebbe pestato ieri due ambulanti bengalesi sul lungomare di Porto d'Ascoli. Prima dell'aggressione qualcuno avrebbe chiesto ai due "se conoscevano il Vangelo".

I giovanissimi non leggono i giornali, e quindi sarebbe molto difficile indicare come loro mandante morale Vittorio Feltri. Pure, non è una coincidenza così bizzarra che ieri Libero, il quotidiano di Feltri, puntasse il dito contro la Quinta Colonna della Jihad in Italia, che a quanto pare sarebbero proprio loro, i diabolici venditori di rose.

I COMPLICI DEI TAGLIAGOLE
Con le bancarelle i bengalesi finanziano la jihad
di Andrea Morigi.

"Inoffensivi ma insistenti, ti offrono le rose rosse, l'asticella per scattarsi i selfie o gli ombrellini pieghevoli quando piove, ai semafori e all'uscita deri ristoranti. In alternativa, piazzano sui marciapiedi aeroplanini, bamboline a batteria e orologi oppure fanno decollare qualche aggeggio luminoso a molla. Sono i 100mila venditori ambulanti bengalesi, discreti e silenziosi quanto basta a raccogliere circa 100 milioni di euro l'anno dal commercio abusivo".

Come abbiano fatto a Libero a calcolare 100 milioni di euro non si sa, Andrea Morigi non si premura di spiegarcelo. Azzardo: forse ha preso il numero, già abbastanza vago, di 100mila venditori ambulanti, e l'ha moltiplicato per mille. Perché alla fine vuoi che in un anno un ambulante non riesca a metter da parte almeno mille euro? Certo, una volta detratto il vitto e l'alloggio, e pagato il fornitore degli ombrellini e dei selfie-stick, e soprattutto non dimentichiamo la cresta alla camorra - la cosa è talmente evidente che anche Morigi non riesce a negarla: il racket degli ambulanti non è mica in mano all'Isis, è in mano alla camorra. Però una volta pagati i fornitori, il padrone di casa, il camorrista, vuoi che l'Isis non si prenda la sua briciolina? "Chi acquista incautamente da loro sulle spiagge o per le vie cittadine magari neanche ci pensa, ma ha altissime probabilità di finanziare e importare la guerra santa islamica". A botte di rose e ombrellini.

Il pezzo va avanti per altre tre colonne e non contiene, spoiler, nessuna prova che con le bancarelle i bengalesi finanzino la jihad. Nel frattempo altri organi di informazione ci hanno spiegato che gli stragisti di Dacca provenivano da famiglie benestanti (un dettaglio tutt'altro che nuovo a chi studia il jihadismo contemporaneo), e che quindi insomma questa storia di colpire il venditore ambulante da 1000€ per colpire il terrorista islamico non ha molto senso. D'altro canto.

D'altro canto mettetevi in Vittorio Feltri.

Lui vende emozioni, non informazioni. Se lo facesse, gli sarebbe bastato raccattare un'agenzia Ansa che ci ragguaglia sul volume di affari tra Bangladesh e Italia, intorno ai 498 milioni.

In particolare con Dacca erano in forte crescita gli scambi lombardi: +13,4% l'import e +6,7% l'export nel periodo gennaio-marzo. I dati sono stati presentati oggi dalla Camera di commercio di Monza e Brianza. La Lombardia trainava il Paese con il 17% degli scambi nazionali. Nello studio, la Camera di Commercio rileva che il Bangladesh, considerato tra i primi Paesi più rischiosi, aveva incrementato i suoi rapporti commerciali con l'Italia fino a posizionarsi tra i primi Paesi al mondo in termini di scambi. Nei primi 3 mesi del 2016, scambi per 498 milioni.

Praticamente mezzo miliardo di euro - altro che due rose e un selfie-stick. E da qui quante domande: facciamo bene a commerciare con un Paese così "rischioso"? Forse no: molti di questi scambi sono il risultato della delocalizzazione, che ha fatto chiudere tante fabbrichette in Italia e ha creato tra le altre cose l'humus adatto a leghisti, xenofobi e lettori di Libero. E però nel frattempo abbiamo aiutato il Bangladesh, l'ottavo Paese al mondo per popolazione, ad avviare uno sviluppo e uscire dalla povertà, quindi forse abbiamo fatto bene... e però tra i problemi dei Paesi che escono dalla povertà ultimamente c'è appunto il jihadismo dei figli di buone famiglie, quelle che magari dalla nostra delocalizzazione ci hanno guadagnato. Mentre il poveraccio che vende le rose nei ristoranti, dopo l'attentato di Dacca, se la vede mediamente grigia e forse questa settimana non uscirà e non venderà nulla: la Jihad non è un grande affare per lui. Insomma, è complicato. E Vittorio Feltri non vende complicazioni.

Vende emozioni facili: rabbia, paura. E soluzioni pratiche: vuoi fare qualcosa contro la Jihad? Non comprare più rose dai bengalesi. Io non l'ho mai fatto, toh, temevo di passare per uno stronzo senza compassione e invece sono un cittadino modello, in prima linea nella lotta contro la Jihad (e contro la camorra). Feltri non ha idea di chi precisamente finanzi la Jihad in Bangladesh o altrove. Non gli interessa nemmeno, non è il suo core business. Lui lavora nell'ombra del nostro subconscio, manovra i fantocci che ci hanno fatto prendere paura sulla spiaggia, un mezzogiorno di trent'anni fa.
Comments (4)

Tutti ne vogliono

Permalink
Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some, Richard Linklater, 2016).

Nel crepuscolo dell'estate 1980, Jake ha 18 anni, una collezione di dischi in una scatola e una Oldsmobile 442 che lo sta portando dritto al college. Tutto sta per succedere, tutto deve succedere, per la prima volta. L'autoradio pompa i Knack, il sole del Texas splende sugli shorts delle ragazze. Qualcosa prima o poi andrà storto, ma perché dovrebbe succedere proprio in questo film? E se per una volta tutto filasse liscio, senza conflitti? Se Linklater volesse raccontare la storia più americana possibile nel modo meno meno americano possibile?

Per fortuna la sua missione non era mostrare come anche la generazione di Porky's avesse una profondità. Piuttosto rivivere quei magici quattro giorni in cui tutto sembrava possibile, e l'amicizia virile e la carriera sportiva e il sesso e l'amore sembravano frutti maturi sui rami dello stesso magico albero. Quel prezioso momento in cui stavi scegliendo chi diventare, che forma prendere, e in attesa di ricevere qualcosa dentro di te facevi il vuoto. Sempre con quel sorriso mezzo scemo di Blake Jenner, che intuisce come nulla che si possa prendere sul serio o sottogamba. Il nuovo compagno di dormitorio chiacchierino può essere un coglione o dirti la più profonda verità. Ha vent'anni ma potrebbe averne trenta. Sarà un campione di baseball o un fallito psicopatico. Tutto è un gioco, tutto è importante. Un tuo amico è diventato punk per scherzo e quello sarà il suo destino, tu invece passi in una mezz'ora dalla discoteca al locale country, e poi la festa del Dams con gli attori e i ballerini. Quello che diventerai, non è che dipende soprattutto dalla ragazza che ti risponderà al telefono? (continua su +eventi!)


Presentato come il seguito "spirituale" di Dazed and ConfusedTutti vogliono qualcosa funziona altrettanto bene come fratello maggiore di Boyhood: stavolta Linklater concentra tutto in quattro giorni di festa pigra e furiosa. Si beve un po', si sopporta il nonnismo dei compagni più grandi, si gioca a qualsiasi cosa (a baseball, a ping pong, a space invaders, a chi aspira più vapore da un bong). Si balla quel che c'è da ballare, e chi riesce a trovare un letto scopa. C'è anche l'amore ed è la nota più stonata, perché Linklater non ci risparmia il corteggiamento, e non ha pudore di mostrarci quanto possono essere ingenui e suonare falsi due diciottenni che cercano di conoscersi al telefono e trovare un pretesto per passare la notte assieme. Due soli adulti compaiono brevissimamente in tutto il film. Tutto grida privilegio, e mi domando onestamente se Linklater sia consapevole di quanto la sua età dell'oro sia stata un momento irripetibile - il Vietnam dietro le spalle, l'Aids ancora in sordina, nessuna recessione in vista. Tutti vogliono qualcosa è entusiasta e inconsistente al punto di irritare, e il ricordo di essere stati altrettanto entusiasti e inconsistenti non sempre aiuta. Però un bel film, già scomparso dalle sale di Cuneo. Il cinema più vicino ormai è il Greenwich Village di Torino (ore 21).
Comments

Sia lodato Gesù Cristo, ma perché?

Permalink
Ho scoperto che non ci posso fare niente: io sono i film che guardo, o meglio che ho guardato. Per esempio, se mi chiedi cos'è l'eroismo, ebbene, l'eroismo è pilotare un aeroplanino sul Rio delle Amazzoni, in una notte di tempesta, insultando la torre di controllo e rassicurando il passeggero ferito: tranquillo, quando sono sbronzo io sono immortale.



Se invece mi chiedi cos'è la vittoria, ecco, ho già provato a spiegarlo (non che abbia molto senso, comunque): "non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento".



Bud Spencer era un atleta e un clown, eppure ho scoperto che quel che mi prendeva di più dei suoi film non erano le coreografie a base di schiaffoni (ancora imbattibili). Ma il modo in cui ogni tanto gli scappava di fare l'eroe, e gli veniva naturale, come dovrebbe venire a ogni padre per quanto sudato e corpulento. La prossima volta che un ferito grave ci implorerà con lo sguardo di portarlo a Manaus, Bud Spencer non potrà più coprirci. Toccherà a noi, che non siamo immortali, in effetti nessuno lo è. Bisognerà farsene una ragione.
Comments

Non volete che votino gli imbecilli? Non votate.

Permalink
Potrà essere capitato anche a voi di intercettare, nel rumore di fondo di questi giorni, un'ondata montante di rancore verso il suffragio universale e il suo difetto strutturale - la clausola per cui il voto di un imbecille conta quanto quello di una persona istruita, onesta, rispettabile, insomma quel tipo di persona che è convinta di non essere imbecille mentre fa questo ragionamento.

Per quanto posso, vorrei rassicurare i più giovani: non è veramente niente di nuovo sotto il sole, il problema della demagogia era già ben avvertito dai Greci classici. I sofisti avevano notato l'incostanza delle folle prima che diventassero masse; Tucidide ci ha scritto qualche versioncina che almeno agli studenti del classico dovrebbe risultare familiare. Qualche tempo più tardi Montesquieu affrontò il problema della corruzione del principio della democrazia con parole che si potrebbero benissimo usare oggi per distruggere il concetto di democrazia diretta alla Beppe Grillo, ma forse varrebbe la pena scrivere tutto questo con le maiuscole: LEGGI COME QUESTO ILLUMINISTA DISTRUGGE BEPPE GRILLO! Nel frattempo in Inghilterra, con tutti i limiti del caso, stavano trovando anche una soluzione al problema, magari imperfetta ma non priva di una sua rude bellezza: la democrazia parlamentare, coi suoi meccanismi di delega, e la conseguente professionalizzazione della politica. E non siamo ancora alla rivoluzione francese. Per dire di quanto siamo ignoranti e autoreferenziali, mentre crediamo di aver inquadrato il problema del giorno, anzi del mese o del secolo: gli ignoranti votano! Sì, a cominciare da noi. Oddio, nessuno ci obbliga.

Però adesso c'è qualcosa di nuovo, dicono. L'insofferenza per i politici di professione, la "casta", l'"establishment". Ancora: la novità sta negli occhi di chi guarda, e di chi magari non ha mai dato un'occhiata ad altri momenti, altri Paesi: Giannini ce l'aveva coi partiti, Poujade ce l'aveva coi partiti, Mussolini ce l'aveva coi partiti. Hanno tutti avuto un po' di successo, chi per un quarto d'ora chi per vent'anni.

E internet? Perché qualcuno suggerisce che sia colpa di internet, che ha abolito i diaframmi - ora possiamo rispondere direttamente al politico sul suo blog, naturale che ci venga spontaneo immaginare di governare al suo posto, da casa, con un clic. Sì. A dire il vero la maggior parte della gente che frequento non usa internet per governare o anche solo fingere di farlo. Lo sport più diffuso nell'ambiente è guardare gli imbecilli. Abbiamo sempre saputo che esistevano, ma da un po' di tempo in qua non facciamo che ammirarli, linkarli, screenshottarli, e poi ammiccare coi compari: pensate che anche questi hanno il diritto di voto! Che roba, che vergogna. Dieci anni fa c'era il Grande Fratello, adesso la bacheca di FB. Non è neanche elitismo ormai, è una specie di bullismo benigno che affligge gente insospettabile. Molto spesso, lo si capisce, è gente che dai bulli le prendeva. Ora li guarda coprirsi di ridicolo sui social e ne gode, fortuna che tra i tasti c'è "Like" e non c'è "leva il diritto di voto a questo imbecille", probabilmente Zuck ci sta lavorando.

Ricapitolando: la demagogia è antica come la democrazia e l'ha già spesso stroncata sul nascere o in seguito; l'imbecillità è una costante della storia dell'uomo, ma prima di internet avevamo meno finestre per osservarla e forse era meglio così, l'imbecillità è ipnotica. La novità - perché secondo me una novità c'è - sta nella crisi. Non quella occasionale o ciclica, ma quella strutturale che sta affliggendo l'Occidente, e che ha tante concause e spiegazioni, ma io resto affezionato alla più banale di tutte: la Cina e l'India hanno tre miliardi di bocche da sfamare e ormai sono Paesi sviluppati. Serviranno ancora generazioni prima che il costo della vita in quei Paesi si alzi ai livelli dell'Occidente - a meno che l'Occidente non si inabissi, e forse questa sarà la soluzione. Nel frattempo la popolazione mondiale continua a crescere e a spostare l'equilibrio, e poi c'è il riscaldamento globale, insomma sarà molto complicato. Di fronte a questo scenario, diversi demagoghi occidentali hanno reagito in modi diversi ma non così dissimili: Trump vuole l'America "great again" e propone di risolvere costruendo un muro col Messico, come se non ci fosse già. Gli inglesi vogliono uscire dall'UE, così come gli scozzesi un anno fa erano tentati di uscire dal Regno Unito. In confronto da noi Bossi era lungimirante: chiedeva i dazi con la Cina quindici anni fa. Almeno aveva le idee chiare: invece i grillini non sanno bene cosa propongono (uscire dall'Euro?), ma sanno perché: bisogna dar fiato all'impresa italiana, crolli il mondo.

Quello che unisce Trump ai fautori del Leave e ai leghisti o ai grillini non è la polemica anti-establishment, che in fondo usano tutti, è come il giro di do a Sanremo (anche Renzi lo ha intonato). Se per un attimo smettiamo di considerarli imbecilli e ascoltiamo quel che vogliono in concreto, scopriremo che è molto chiaro e perfettamente comprensibile, vista la gravità della situazione. Vogliono alzare uno steccato che li protegga dalla competizione del Resto del Mondo. Vogliono un'America di nuovo Grande, una Britannia ancora impero, una Padania di nuovo rigogliosa di fabbrichette che si rimettano a macinare fatturati come se in Cina non sapessero ormai fare tutto quello che sappiamo fare noi a un quinto del prezzo. Siamo ovviamente liberi di considerarlo un rigurgito fascista, una nostalgia di anziani che non ha più senso cercare di convincere, o il riflesso istintivo del bambino che si rintana in un angolo mentre la casa crolla. Ma non è imbecillità. Non c'è nulla di stupido nel rintanarsi in un angolo mentre la casa crolla.
Comments
See Older Posts ...