Sei sicuro che vuoi fare come gli americani, Matteo Renzi?

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Riportando tutto a casa, sarà interessante capire cosa succede ai renziani ora che Obama se ne va, e con lui forse si dissolve quel campo di distorsione che li ha portati a immaginare per l'Italia un assetto simil-presidenziale. Ovviamente c'è già in giro chi trae dalla vittoria di Trump auspici per la vittoria del Sì o del No al referendum: ognuno cerca di inquadrarla con le cornici che si trova in casa - due in particolare non le reggo in più, la cornicetta che si chiama "cambiamento" e quella che si chiama "anti-establishment". Non vogliono più dire nulla: quale cambiamento? Quale estabishment?

Io non ho la minima idea di chi vincerà il quattro dicembre, ma penso che la riforma sia brutta, e che fosse ancora più brutta nelle prime stesure, quando ancora il Senato delle Regioni era concepito come l'assurdo Senato Americano: quello in cui tutti gli Stati eleggono lo stesso numero di senatori, compreso il Vermont dove sono bastati 190.000 voti; in California ce ne sono voluti 4.800.000, venticinque volte tanto. Si tratta evidentemente di un sistema iniquo e arcaico, ma è difficile rinunciarvi dopo due secoli di successi; più difficile è capire perché in Italia qualcuno lo volesse introdurre, offrendo a trecentomila molisani la stessa rappresentanza di dieci milioni di lombardi - dopo vent'anni di leghismo! Ci scrissi qualcosa sul sito dell'Unità - pazzesco quel che pubblicava una volta il sito dell'Unità.

Poi magari la Boschi si accorse che qualcosa non andava e cambiò di nuovo la bozza; ma il solo fatto che l'abbiano proposta e divulgata lascia sgomenti - è come l'inglese di Renzi, anzi, molto peggio: da una parte sei contento che Renzi stia migliorando la sua pronunzia e che la Boschi abbia scoperto che in Italia la densità di popolazione varia sensibilmente di regione in regione; dall'altra è un po' imbarazzante veder crescere in diretta questi aspiranti riformatori e statisti: cioè per carità bravini, la stoffa c'è, ma non siamo a un talent show, bisognava arrivare già preparati.

È dal dopoguerra che gli italiani guardano con ammirazione agli USA - i democristiani più di altri. Fino a un certo punto qualsiasi ipotesi di modificare la costituzione in senso americano rimane comunque circoscritta alle fantasie di un Pannella o un Almirante. Quand'è che la passione per le cose di Washington si trasforma in una vera e propria tensione riformatrice che contagia persone altrimenti ragionevoli? Il 2008 mi sembra un ottimo termine a quo. A primavera, la sconfitta del Pd di Veltroni - non fu per la verità una sorpresa, quella volta forse persino i sondaggi ci azzeccarono: ma ci si aspettava senz'altro qualche punto percentuale di più e soprattutto nessuno immaginava la completa sparizione della sinistra. Delusi da un bipartitismo ancora molto imperfetto, diversi elettori italiani del PD si appassionano alla più emozionante campagna elettorale statunitense, quella con Obama prima contro la Cinton e poi in finale contro McCain (con la Palin spalla comica). C'è una vignetta dell'allora sconosciuto Makkox che esprime il lato patetico di quell'entusiasmo. L'ipotesi veltroniana, qui ho cercato di spiegarlo, proponeva una interiorizzazione dell'antiberlusconismo: visto che sconfiggere il Berlusconi reale sembrava per il momento impossibile, occorreva eliminare il berlusconismo dentro di noi. Smettere di nominarlo, smettere di pensarci, purificarsi. Guardare all'estero era l'unica possibilità, e all'estero quella di Obama era l'unica favola a lieto fine. Alcuni non hanno distolto lo sguardo per otto anni, e sì che molti dettagli non tornavano; le tensioni razziali, le stragi a mano armata a cui il POTUS ha assistito indignato e impotente, l'approccio un po' dilettantesco alla crisi in Medio Oriente, lo scandalo della NSA e il trattamento riservato ai whistleblower. Tutto questo non ha impedito a Obama di essere straordinariamente cool fino all'ultimo, e tanto bastava. Veniva bene in tutte le foto, faceva battute divertenti, è stato un presidente fantastico.

Negli stessi anni prende piede in Italia un timido tentativo di riformare l'Italia in senso semipresidenziale - senza avvertire i cittadini, il che è un problema a parte: cioè se almeno lo avessero detto chiaramente, si sarebbe potuta apprezzare la franchezza. Non è a dire il vero il primo e forse nemmeno il più sostanziale: già l'introduzione dell'uninominale del 1993 - e soprattutto l'abitudine di Berlusconi di mettere il suo cognome bene in evidenza sul simbolo - avevano preparato il terreno. Tuttora, chi si lamenta che Renzi non sia stato "eletto dal popolo", ha probabilmente in mente il modo in cui Berlusconi e Prodi sono usciti vincitori dalle elezioni tra '94 e '08: molti elettori avevano la sensazione di votare per l'inquilino di Palazzo Chigi oltre che per il parlamento (avevano torto?) La riforma Renzi e Boschi non fa che proseguire la tendenza: l'idea che la sera delle elezioni si debba conoscere il vincitore è una suggestione quasi hollywoodiana - se socchiudi gli occhi ti sembra di vedere i coriandoli rossi e blu. Renzi si allena a fare i discorsi, tutti lodano il suo Concession Speech alle primarie del 2012, sembra di stare in uno di quei videoclip di Vasco Rossi o Ligabue che giravano negli USA per darsi un tono - non importa dove, bastava un incrocio qualsiasi, il primo parcheggio con un concessionario appena fuori dall'aeroporto.

A un certo punto tutti si mettono a parlare di Accountability, che viene molto imprecisamente tradotto "votami per cinque anni e se faccio un disastro ne discuteremo poi". L'obiezione che l'Italia non è una repubblica presidenziale, che è il parlamento a nominare il capo del governo, a concedergli la fiducia e a potergliela ritirare in qualsiasi momento, viene liquidata con fastidio: roba da vecchi! Vecchi! Guarda invece Obama quanto è cool. Nel frattempo Obama aveva perso da un pezzo la maggioranza del Congresso, e dopo aver faticato a varare una riforma sanitaria, non ha più potuto far nulla per limitare la vendità delle armi da fuoco - solo dei discorsi accoratissimi all'indomani di ogni strage. Fantastici discorsi. Renzi & co. avranno senz'altro preso appunti.

Ieri un'elezione ha regalato a Trump la presidenza (malgrado la Clinton abbia avuto più voti) e un'ampia maggioranza al congresso e al senato. Per molti è stata una doccia freddissima; magari salutare. L'uomo più cool del mondo sta lasciando la Casa Bianca: forse è l'occasione per maturare un minimo distacco critico. Obama non ha rottamato la vecchia America; non ha mai avuto i numeri per farlo; per gran parte del suo doppio mandato è stato poco più che un'anatra zoppa. Adesso la palla passa a Trump, che avrà almeno all'inizio molto più margine d'azione. Certo, dopo quattro anni gli americani giudicheranno. Sono comunque notevoli i disastri che un capo del governo, attorniato da un parlamento plaudente, può fare in quattro anni. L'Italia è una cosa molto diversa, ma appunto: siamo sicuri di voler fare come loro o addirittura peggio di loro? Il fatto che presto o tardi qualche populista pericoloso possa aggiudicarsi il 41% dei suffragi è un buon motivo per regalargli un premio alla Camera, eliminargli il contrappeso del Senato, e aspettare cinque anni per vedere come va? Ammesso che gli americani si possano permettere questo tipo di accountability, noi possiamo?

Questo mi sembra un terzo buon motivo per votare No al referendum.

Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
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Hanno vinto i Muri - e se avessero ragione?

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Certo, la vittoria di Trump sulla Clinton la possiamo benissimo considerare una vittoria della Paura sulla Speranza, della Rabbia sulla Ragione, dell'America incolta e rurale sulle élites (anche se salta fuori che più laureati bianchi hanno votato Trump di quanto ci si aspettasse). E siccome ci consideriamo tra noi intelligenti, potremo continuare a darci ragione a vicenda e a infierire sulla stupidità di chi vota il candidato visibilmente meno capace.

Il confine USA/Messico, adesso.
Ma se fossimo intelligenti davvero, a questo punto un dubbio ce lo potremmo far venire. Anche dalla capacità di rimettere in discussione le proprie ipotesi si dovrebbe misurare, l'intelligenza; e non dal costruire modelli che confortano le nostre credenze, come a quanto pare hanno fatto tutti fin qui, compresi i sondaggisti convinti di maneggiare numeri e numeri soltanto: e invece ci stavano soltanto raccontando, ancora una volta, la storia che ci piaceva ascoltare.

Dunque a un certo punto forse ci siamo convinti che la Storia non potesse andare che in un senso: che frontiere e dogane fossero cose ottocentesche, superabili; che l'immigrazione - non importa quante tensioni avrebbe creato - fosse un meccanismo irreversibile e tutto sommato arricchente; che dalla delocalizzazione dell'industria verso i Paesi in via di sviluppo avremmo tratto tutti più benefici che danno e in un certo senso è così (lo sto scrivendo su una tastiera molto economica, prodotta in qualche Paese lontano che non conosco). Tutto questo avrebbe certo generato qualche malcontento, ma ehi! Sono cose che si risolvono, basta trovare politici convincenti che sappiano fare discorsi commoventi.

Qualche resistenza alla globalizzazione negli ultimi trent'anni c'è stata, ed è capitato anche a me di prendervi parte. Avevamo idee vaghe (non che qualcuno in seguito abbia dimostrato di averne di più precise), denunciavamo speculazione finanziaria e paventavamo il riscaldamento globale. Non avevamo tutti i torti, non avevamo tutte le ragioni. Ci mancava però un modello, un'alternativa strutturata (quello che nel 1814 era il liberalismo e nel 1917 era il marxismo) e quindi siamo andati alla deriva: alcuni si sono fatti l'orto bio, altri lottano per il diritto di Renzi a governare senza la maggioranza, alcuni entrambe le cose. Nello stesso periodo, a volte persino nelle stesse piazze, c'era chi la tagliava molto più semplice: se il futuro è la globalizzazione, abbasso il futuro, torniamo indietro. Alziamo gli steccati, rimettiamo le frontiere, Schengen è un errore, l'euro è un errore. È banale constatare che stiano vincendo loro: da questo punto di vista l'elezione di Trump non è così sorprendente. Prima c'è stata la Brexit, e a questo punto è lecito immaginare che seguirà la Francia con la Le Pen. Persone diverse, programmi diversi, un'idea comune: il Muro. La globalizzazione vista come un'invasione di persone e una fuga di risorse. Un'idea che ovviamente un vasto schieramento progressista, di cui cui faccio parte, ha ritenuto per tutto questo tempo sbagliata e perdente. Non si ritorna indietro.

Ma se invece ci stessimo sbagliando?

(NON-È-UN-MURO)
Perché a volte si ritorna davvero indietro. È già successo. Basta leggere la Storia... ok, la Storia ci insegna che la Storia non ci insegna niente. Tutto quello che ci sta succedendo è eccezionale, non sono mai stati otto miliardi di esseri umani su questa terra, non abbiamo precedenti, non possiamo fare paragoni. Ma allora l'idea che la globalizzazione sia irreversibile è altrettanto irrazionale dell'idea che si possa bloccare o addirittura invertire. Tanti dati che fin qui pensavamo di aver processato razionalmente, potrebbero essere soltanto proiezioni di storie che ci stiamo raccontando, come ieri ci raccontavamo che la Clinton piaceva agli afroamericani o alle donne. Parto da Israele perché fa sempre un certo effetto partire da lì (tremila anni di profeti non possono sbagliare): a un certo punto il processo di pace sembrava irreversibile. La Speranza che vince sulla Rabbia, l'amore sull'odio, ecc.. Poi gli israeliani hanno pensato che tutto sommato invece potevano alzare un muro abbastanza alto e aspettare che passasse il momento adatto per fare la pace. Qualcuno si è lamentato (anch'io). Ma alla fine è andata proprio così. Il muro ha funzionato, il processo di pace si è fermato, la guerra rimane nei limiti fisiologici che aiutano a mantenere lo status quo, lo Stato di Palestina continua a essere una chimera, e adesso i muri li alzano in Austria o Ungheria.

Anche qui, Trump non ha davvero inventato niente, visto che tutto sommato un muro tra USA e Messico c'è già (ha aggiunto solo il tratto guascone del palazzinaro: lo faccio io ma lo pagano i messicani). Tutti questi muri sono senz'altro esecrabili, ma funzionano o no? Perché alla fine la Storia va così. Non ci giudica per la nostra bontà o cattiveria, ma per quello che realizziamo. Forse riderà di Trump, se Trump si dimostrerà un inetto: se le frontiere resteranno un colabrodo, la produzione industriale non tornerà negli USA, e il riscaldamento globale presenterà il conto. A me piace pensare che andrà così, ma come faccio a esserne sicuro? Molte cose che ho letto e a cui ho creduto potrebbero essere solo storie a cui volevo credere.

Siccome tra queste cose c'è qualche materiale un po' pessimista e neomalthusiano, ho il forte sospetto che il futuro sarà molto fosco: che alcune risorse scarseggeranno - stanno già scarseggiando - e che questo porterà a guerre e carestie. Magari molti elettori di Trump pensano la stessa cosa. Alcuni saranno meno scolarizzati di me, ma la loro reazione è poi così poco intelligente? Quando arriva l'uragano, ci si tappa in casa. Non serve avere una laurea. Ha senso perder tempo a far loro la morale? Non mi pare. Perché non sto facendo la stessa cosa? Non lo so.

Cioè alla fine mi è chiarissimo perché molti americani hanno votato Trump: faccio fatica a ricordarmi il perché io non voto analoghi personaggi. Non credo nei Muri - in Italia poi li trovo proprio tecnicamente irrealizzabili. Ma è una credenza, non il risultato di ragionamenti, o calcoli, o esperimenti. È la mia bandiera, e se la Storia riderà di me io comunque non sarò lì per soffrirne.
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Come andranno le elezioni (non mi sbaglio mai)

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Domattina - se vince Hilary Clinton - pubblicherò un pezzo in cui prendo in giro tutti quelli che hanno a un certo punto pensato che Donald Trump potesse farcela; tutti quelli che lo hanno paragonato a un Berlusconi senza prima aspettare che vincesse almeno una consultazione - perché di miliardari cafoni scopaioli e indebitati ce ne sono già stati tanti: la particolarità di Berlusconi è che le elezioni per un pezzo le ha vinte. Tutti quelli che ancora pensano che lo scandalo di Berl fossero le maniere da parvenu, e non la concentrazione economica-mediatica che rappresentava; tutti quelli che a ventennio finito continuano a insistere che no, Berl non vinceva perché aveva le tv; le tv erano un puro accidente di cui per un qualche motivo non riusciva a disfarsi (e sì che glielo chiesero in tanti). E dunque vedete? Scriverò. La vedete la differenza tra un cafone sessuomane e arrogante che controllava emittenti ed editoria e aveva la fiducia degli industriali (=Berlusconi) e quella tra un cafone sessuomane e arrogante che non controlla l'editoria, che in tv viene preso quotidianamente in giro e di cui gli industriali diffidano (=Trump)? E così - se domani vince la Clinton - avrò dimostrato il mio punto.

Domattina - se vince Donald Trump - pubblicherò un pezzo in cui prendo in giro tutti quelli che si sono fidati dei sondaggi - ancora ci cascate, è incredibile! - tutti quelli che pensavano che Trump non potesse vincere perché faceva discorsi divisivi, perché aizzava le paure del suo elettorato, mentre nel mondo post-obamiano a un certo punto qualcuno ha deciso che gli unici messaggi che dovrebbero farti vincere le elezioni sono quelli ottimisti ed entusiasti. Lo vedete che invece la paura vende benissimo? Scriverò. E del resto anche i clintoniani quando se la sono vista brutta non hanno forse cominciato a paragonare la presidenza Trump a un'apocalisse, non hanno tentato di spaventare gli indecisi? E così - anche se domani vincesse Trump - avrò dimostrato il mio punto.

Poi mi chiedono com'è che non mi sbaglio mai. Per la verità è facile. Di solito non ci provo neppure. Non avevo la minima idea su chi avrebbe vinto in UK, su chi vince domani, su chi vincerà il referendum. Dei sondaggi non mi fido e scommesse non ne faccio. C'è gente che si butta sempre sui pronostici, è una specie di malattia. Quelli che Trump doveva vincere in giugno, poi è sceso nei sondaggi e hanno scritto che lo faceva apposta perché era spaventato persino lui, poi è risalito di nuovo e... non so cos'abbiano scritto, li ho persi di vista. Buona notte a tutti (anche se andate a letto presto, domattina ne saprete quanto tutti gli altri).
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Sorridi Brian (e aggrappati all'Ego)

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Love and Mercy (Bill Pohlad, 2014).

Immagina di nascere musicista, con un gusto istintivo per le melodie e le armonie. E ricevere da bambino uno schiaffo paterno che ti lascia per sempre un orecchio sordo: un acufene perpetuo dal quale emergono rumori già sentiti, frammenti di cori sognati, discussioni, voci angeliche, voci che ce l'hanno con te, voci che non ti sopportano. Immagina di avere dischi di platino alle pareti e una diagnosi di paranoia schizoide in un cassetto. Immagina di essere Brian Wilson: e ora sorridi, non è meravigliosa la vita?

Brian Wilson è uno dei geni musicali del secolo scorso; Brian Wilson ha passato due anni in un letto a ingrassare. Brian Wilson coi suoi Beach Boys è stato il principale sfidante americano dei Beatles, sconfitto ma di misura e con onore; Brian Wilson è stato succube per anni di uno psichiatra più matto di lui che lo imbottiva di pillole. Brian Wilson ha scritto la canzone preferita di Paul McCartney. Brian Wilson ha licenziato suo padre che lo picchiava da bambino, ma per divergenze artistiche. Brian Wilson convive con le sue allucinzioni uditive dal 1964. Bruce Wilson non è mai andato in surf ma nella sua villa teneva un pianoforte su una buca di sabbia, e componeva a piedi nudi. Brian Wilson voleva scrivere un disco che avrebbe reso tutto il mondo più felice, lo avrebbe chiamato Smile, ma impazzì durante la lavorazione. Un giorno entrò in un cinema per vedere Operazione diabolica, il film era già cominciato e un attore nel buio stava dicendo "si accomodi signor Wilson". Lo choc gli fece smettere di comporre musica e non entrò più in un cinema per vent'anni. Brian Wilson è un film vivente, ma nessuno è ancora riuscito a girarlo. Troppi aneddoti, troppe storie, forse troppa musica tra un'immagine e l'altra.

Love and Mercy è il tentativo più serio fin qui, se non altro per la passione con cui Bill Pohlad si è dedicato all'impresa, tornando dietro la macchina da presa dopo 25 anni (passati a produrre film come Into the Wild, The Tree of Life, 12 anni schiavo). Pohlad è evidentemente innamorato del Brian Wilson giovane compositore, un genio incontrollato che usa lo studio di registrazione come un giocattolo, unendo professionalità e improvvisazione alla ricerca di qualcosa che gli canta dietro al muro del suono che ha in testa (le scene dedicate alla lavorazione di Pet Sounds sono girate con musicisti veri, come nel tentativo di ricreare un miracolo in laboratorio).

Pohlad non vuole strafare... (continua su +eventi!)

Pohlad non vuole strafare: gli interessa sdoppiare il personaggio, ma opta per una soluzione molto più convenzionale di quella adottata da Todd Haynes nel suo biopic su Dylan I'm Not There (benché uno sceneggiatore sia lo stesso). L'idea che Wilson a vent'anni sia Paul Dano e a quaranta John Cusack è declinata nel modo più convenzionale possibile - e almeno ci risparmia uno di quegli invecchiamenti hollywoodiani al digitale. Pohlad ha senz'altro in mente A Beautiful Mind (anche al matematico John Nash fu diagnosticata una schizofrenia paranoide), ma laddove Ron Howard non esitò a trasformare le allucinazioni uditive in visive, contaminando realtà e sogno, Pohlad fa un passo indietro e si concede soltanto qualche lynchiano passettino nel delirio. E alla fine è troppo succube del proprio amore per accorgersi che lo stanno plagiando: il film adotta placidamente la versione dei fatti raccontata dalla seconda moglie di Wilson, Melinda Ledbetter, senza farsi venire nessun dubbio. Il risultato è che il grande antagonista di Melinda, lo psichiatra-guru Eugene Landy, diventa una macchietta, malgrado le settimane trascorse da Paul Giamatti ad ascoltarne le registrazioni per imitarne meglio i tic verbali: non è affatto escluso che Landy fosse davvero così sgradevole, uno di quegli avvoltoi che prosperavano nella California del grande riflusso, volteggiando sul malessere dei ricchi alienati. Ma è uno di quei casi in cui la verità è un ostacolo alla verisomiglianza. Anche le ottime prove di Cusack e Dano congiurano a definire il ritratto di un Brian Wilson eterno bambino, continuamente in cerca di conferme sulla sua genialità, frustrato da un genitore invidioso, da un cugino scettico, da uno psichiatra arraffone, insomma da tutti tranne Melinda. Non è affatto escluso che le cose siano andate così, ma trattandosi della vita di un paranoico, forse un'altra campana era necessaria.

Love and Mercy è al Cinema Lux di Busca giovedì 10 e venerdì 11 novembre alle 21.
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Votate sì al referendum perché dopo cambiamo l'italicum anche se non sappiamo ancora come però dai basta una crocetta e poi ci pensiamo

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E dunque ieri notte - forse era già stamattina - Matteo Orfini ha pubblicato un "Documento del Partito Democratico" in cui si mette per iscritto un impegno a modificare la legge elettorale che fino a qualche mese fa mezza Europa avrebbe dovuto copiarci. Siccome i tempi per discuterne prima del referendum non ci sono, a causa delle opposizioni (perfidissime queste opposizioni che si rifiutano di riaprire un dibattito a 29 giorni da una consultazione popolare), è chiaro che se ne riparlerà dopo - come aveva già promesso Renzi. Siccome la parola di Renzi in effetti è quello che è, il Partito Democratico sentiva la necessità di metterlo nero su bianco. La vera novità è che in calce a quel documento c'è la firma di un personaggio importante come Cuperlo, che a questo punto voterà Sì al riforma.

Il documento pubblicato da Orfini, definito "buono" da Orfini stesso, è promettente ma in realtà piuttosto vago; su un punto cruciale, il ballottaggio, addirittura evasivo. Ci sarà un "superamento" del ballottaggio: in che modo? Non c'è scritto, si vedrà, nel frattempo Cuperlo vota Sì, votatelo pure voi.

Non servivano lauree per notare quanto il ballottaggio dell'italicum fosse cosa maldestrissima, probabilmente incostituzionale, e senza precedenti noti al mondo: di solito i ballottaggi su scala nazionale si fanno per eleggere un presidente (e si parla quindi di repubblica presidenziale o almeno semipresidenziale), non per aggiungere un bonus di scranni in parlamento. Di solito, e questo è cruciale, questi tie-break scattano quando nessuno dei due contendenti ha ottenuto la quota 50%+1, che non è un livello arbitrario: è la definizione di maggioranza assoluta. Quello dell'italicum invece scattava a soglie bizzarre che il legislatore ha un po' esitato a fissare, prima 35 poi 37 poi 40, all'indomani delle elezioni europee che Renzi aveva appunto vinto col 40 - da questi dettagli vedi lo scout, sempre più in alto! Bene. Resta il fatto che il 40% non è la maggioranza assoluta; che vuoi vincere un premio senza essertelo meritato perché sai, la "governabilità".
(Questo pezzo se siete lettori abituali potete saltarlo, è la stessa lagna da quasi tre anni in qua).

Ora dicono che "superano" il ballottaggio: cosa vuole dire? Non si sa, votate sì e poi ce lo spiegano. Voglio sperare che non sia quel famoso "modello greco" che lo stesso Orfini aveva ripescato la scorsa estate, magari durante un'insolazione. Se invece trattasse davvero di quella roba, se ne riparlerà, ma finché non lo mettono per iscritto io non ci posso né voglio credere. Tiriamo ora un pietoso sipario sullo spettacolo di un partito che a un mese dal referendum non sa ancora che legge elettorale vuole, e probabilmente non lo saprà nemmeno dopo il referendum. Riassumiamo la situazione:

1. Per due, quasi tre anni, l'italicum è stato criticato fuori e dentro dal Pd. Renzi reagiva spiegando che era bellissimo e alla fine ci mise la fiducia.
2. Quando i sondaggi - sia elettorali che referendari - hanno cominciato a dirgli male, Renzi ha annunciato che se ne poteva riparlare: però dopo il referendum.
3. Adesso c'è un impegno scritto, che però equivale alla promessa di cui sopra: ci impegnamo a riparlarne, ma non spieghiamo come. "Supereremo" il ballottaggio. Adesso per favore ci votate la riforma?

C'è qualcosa di peggio di non saper scrivere una legge elettorale decente? Renzi e Orfini ci hanno mostrato che qualcosa di peggio c'è: usare la stessa indecente legge elettorale come moneta di scambio durante una campagna referendaria. Abbiamo fatto una legge che fa schifo; ora se per favore votate per noi siamo disponibili a cambiarla. Ma l'italicum non è una merce di scambio, l'italicum puzza e basta.

Non sarà il primo dei motivi per votare no al referendum, ma secondo me è un buon motivo. Tanto l'italicum lo cambierete lo stesso, perché è brutto, anticostituzionale e (soprattutto) non vi garantisce la vittoria. E se non lo cambierete voi, ci penserà il prossimo. I bluff in politica si possono anche apprezzare: quando c'è qualcuno che li sa fare, sono uno spettacolo. Non è il vostro caso.

Ricapitolando i miei motivi per votare no:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
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Il referendum è un martello pneumatico

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Tra un mese si vota per cambiare la Costituzione, e a questo punto credo valga la pena di parlarne sul serio - con l'ambizione di aggiungere qualcosa non dico di originale, ma che non sia già stato ripetuto fino alla noia; e che magari possa risultare interessante anche a chi ha deciso di votare Sì (io voterò No).

Premessa: non sono un costituzionalista, così come non lo siete voi che leggerete. Il fatto che ci venga chiesta un'opinione su questioni così delicate era, fino a qualche tempo fa, piuttosto inusuale. Non c'è bisogno di un referendum confermativo per emendare la Costituzione: bastano i due terzi del parlamento. Renzi non li aveva e questo, a mio parere, avrebbe dovuto ridurlo a più miti consigli: d'altro canto prendersela con lui perché non è prudente è un po' come prendersela con la cicala che frinisce al solleone, non potrebbe fare silenzio? No, è una cicala, è fatta così. Renzi è fatto così, Renzi va veloce, si è ritrovato a capo di una maggioranza risicata di un parlamento eletto con una legge dichiarata anticostituzionale e invece di limitarsi a cambiarla alla svelta e ripassare la palla agli italiani, ha pensato di usare questa risicata maggioranza per riscrivere qualche articolo legge fondamentale dello Stato. Renzi quando se la vede brutta rilancia e alla fine va anche solo contro tutti - magari gli dice bene.

A questo punto però c'è una cosa che i suoi sostenitori dovrebbero concedere, e cioè che è di fatto impossibile separare Matteo Renzi dalla riforma che ha voluto mandare avanti a dispetto dei numeri in parlamento, dell'opportunità politica e, beh, anche un po' del buon senso. Chi ieri gli rimproverava di aver personalizzato la questione, stava appunto lamentandosi del canto della cicala: Renzi personalizza, è il suo stile, se non vuoi la personalizzazione non ti prendi Renzi. Chi oggi addirittura gli propone di dimettersi per dare un segno, a mio modesto parere, manifesta lievi segni di ubriachezza: anche se Renzi domani decidesse di aprire un chiringuito ai Caraibi, la legge che ha voluto rimarrebbe renziana al 100%; vi si trovano ancora dettagli che sono stati messi per iscritto per la prima volta durante qualche vecchia Leopolda che ho la sensazione di ricordare meglio io di molti renziani di recente conversione. Chi accusa gli alfieri del No di "avercela con Renzi" sembra aver perso un passaggio: certo che ce l'abbiamo con Renzi, se non ci piace la sua riforma. Certo, molti suoi fieri oppositori danno la sensazione di guardare più all'Italicum, o al Jobs Act, o alla Buona Scuola, che al testo della riforma. In coscienza non credo sia il mio caso: io voterò No perché questa riforma proprio non mi piace.

Ma è così strano che i cittadini, nel momento in cui si chiede loro un parere con quella cosa gigantesca che è il referendum, non riescano a separare il Renzi riformatore della Costituzione dal Renzi rottamatore dell'articolo 18 o da quello che prima mette la fiducia sull'Italicum perché è la legge elettorale più bella del mondo, e poi cambia idea? Non solo i cittadini non sono tutti algidi costituzionalisti, ma non è previsto che lo siano. Non è previsto che non siano faziosi, non è contemplato che siano tutti ben informati: non sono una corte di saggi, sono un'enorme massa di persone che processa le informazioni nel modo caotico e impreciso che ormai ben sappiamo. E appunto: siccome lo sappiamo da tempo che con le masse va così, e non è obbligatorio consultarle, se proprio decidiamo di farlo, avrà senso lamentarsi del fatto che il dibattito diventi rozzo? Il referendum è uno strumento rozzo per costituzione. Sì, no, bim bum, fine. Vale per il confermativo quello che qualche anno fa annotavo per l'abrogativo: non è un bisturi - non dai a una massa un bisturi, non lo sa maneggiare - al limite è una ruspa, un martello pneumatico.

Il referendum abrogativo è un diabolico arnese. Da una parte entra la volontà popolare. Ma può entrare solo con una pressione fortissima: il 50% degli aventi diritto più uno. È abbastanza chiaro che se scomodi la metà degli italiani, quello che salta fuori dovrebbe essere Legge: una di quelle scolpite nel marmo. 

In realtà però questo getto fortissimo di Volontà Popolare non può scrivere un testo di legge. Può solo esprimersi in due modi: Sì, o No. Ultimamente è anche peggio di così: il getto di Sì o No non viene usato per abbattere una legge intera, ma soltanto qualche frase qua e là; per modificare un tecnicismo, limare una asperità, cambiare senso a un paragrafo. Riparare un testo di legge con un referendum abrogativo è un po' come rimuovere una carie con un martello pneumatico: per funzionare funziona, ma ha qualche controindicazione.

Ecco se vi va il primo motivo per cui voto No: prima ancora di entrare nel merito, non mi va di cambiare la Costituzione col martello pneumatico. Non credo sia la più bella del mondo, ma nemmeno che sia possibile migliorarla in questo modo. Tutt'al più fai qualche sbrago creativo che renderà necessario un successivo e più mirato intervento. Tanto vale saltare il passaggio.
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La stima del terremoto

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Sarebbe poi interessante capire - visto che di terremoti ne avremo sempre, che tocca abituarsi non solo ai rischi, ma anche alle chiacchiere che seguono - sarebbe interessante capire come nasce quest'ossessione per la magnitudo come misurazione assoluta. Il famoso 7.1 che ci fece sobbalzare anche se a casa nostra non ballava nemmeno il lampadario, abbiamo scoperto, fu un errore: se qualche ente internazionale davvero lo divulgò, è riuscito nel frattempo a farlo sparire. La foga con cui i giornalisti lo ripresero è perdonabile: quando un dato è già disponibile in Rete, non ha molto senso pensare di filtrarlo; se non lo pubblichi tu lo farà qualcun altro, e comunque ci sarà tempo per aggiustare. Salvo che il pubblico questa cosa non la capisce.

Il fatto che il terremoto non si presenti immediatamente con un numero preciso - magari anche un decimale che aiuta a dare un tono, salve mi presento sono una scossa del Sei Punto Cinque - è percepito come un disturbo nel normale ordine di cose: un chilo di pane è un chilo di pane, una macchina che va a cento all'ora dopo un'ora ha fatto cento km., perché un terremoto non dovrebbe essere altrettanto preciso e quantificabile? In fondo è solo un evento tellurico che avviene a km di profondità in un sottosuolo inesplorato, sprigionante megatoni di energia. Perché due sismografi a distanze diverse non dovrebbero dare immediatamente la stessa misurazione precisa? Dove si rinota la fiducia del tutto magica che il cittadino ripone nella scienza: non sa come funziona ma pretende che funzioni con precisione immediata, e se non è così si ritiene defraudato. Se gli racconti che in certi casi assomiglia più a Ballando con le stelle, ci sono vari misuratori e poi si fa la media, ci rimane malissimo.

Mi domando se non sia una responsabilità della scuola (cioè mi domando se non sia colpa mia). Quando aiutiamo i ragazzi a misurare le cose, quanto insistiamo sul fatto che la misurazione, qualsiasi misurazione, è comunque soggetta a un errore? Che le misure non esistono a priori in una dimensione iperuranica, ma che sono una forma di comunicazione, e quindi sempre in parte una bugia? Che non c'è modo di conoscere davvero la circonferenza partendo da un raggio, che un chilo di pane non è davvero un chilo preciso - e cos'è un chilo poi? Che il prodotto interno lordo si misura in dollari e i dollari ogni giorno valgono una quantità di euro diversa? Che insomma ogni misura è complicata, interessante ma complicata?

O li abituiamo a domande facili, e a dubitare di chi non ha la risposta secca? "Quant'era forte l'ultima scossa?"
"Eh, beh, dipende da tanti fattori: la profondità, la durata, la magnitudo - ce ne sono diverse - la densità degli insediamenti, la robustezza degli edifici..."
"La fai troppo lunga, mi stai senz'altro nascondendo qualcosa".
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C'è qualcuno stupido sull'internet: che fare? (Appunti di ecologia dell'informazione disintermediata)

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Premessa cretina: molto prima che entrasse internet nelle nostre già stupide vite, avevo avuto occasione di notare come l'umanità si potesse dividere in due davanti a una buccia di banana: quelli che ridono se il passante cade e picchia la testa, e quelli che si spaventano perché magari si è fatto male. Non è una questione di intelligenza, di cultura e forse nemmeno di empatia: è una questione di pochi decimi di secondo, c'è chi si mette a ridere e chi no.

Ieri cercavo di spiegare che, se da una parte capisco la necessità di sbugiardare immediatamente chi inquina la rete con notizie false, come la senatrice Blundo, dall'altra credo che un certo tipo di reazione tipica dei social - lo screenshot, la gogna, la proliferazione di parodie - finisce per essere ancora più inquinante. Quindi che fare?

Quando leggo qualcosa di falso o di stupido su internet (ad es. Renzi trucca i sismografi per non rimborsare i terremotati), io per quanto posso non reagisco ricopiando il contenuto o parodiandolo. Ricopiare una bugia o una sciocchezza è pericoloso; quanto alle parodie, rimando alla legge di Poe: non posso escludere che qualcuno ci caschi.

Del resto, cosa voglio davvero ottenere rispondendo a chi mi manda contenuti del genere? Se penso che si tratti di un cretino senza speranza, fargli il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che il tizio in questione possa cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso. E dunque?

Dunque mi limito a reagire pubblicando quella che, in coscienza, credo che sia la verità: sismografi diversi danno risultati diversi, ogni misurazione di un terremoto presenta un inevitabile margine di errore, la stessa magnitudo che alla fine l'INGV assegna a una determinata scossa è un'astrazione, una media ponderata di misurazioni diverse; e non c'è nessuna legge che lega i rimborsi alla magnitudo delle scosse. Se cerco di spiegare tutte queste cose, nel modo più chiaro possibile (citando fonti degne di fede), forse non convincerò nessuno, ma almeno avrò evitato che qualcuno fraintenda quel che scrivo e capisca il contrario. Certo, sembrerò più noioso di chi incolla uno screenshot e lo addita agli amici in cerca di obiettivi per lo sberleffo quotidiano: è quello che ti succede quando diventi adulto e cerchi di vivere in modo responsabile, anche in questo posto particolare, la Rete. O forse non c'entra nemmeno l'età adulta, forse sei sempre stato uno di quelli che non si mette a ridere quando il prossimo tuo scivola sulla buccia di banana.

Scrivere su internet è un'operazione tutta particolare su cui non si è ancora ragionato abbastanza (e dire che ormai è abitudine quotidiana di milioni di persone). Non è come scrivere agli amici, non è come scrivere agli sconosciuti; è un po' l'una e l'altra cosa insieme nello stesso momento. Quando scriviamo pensiamo sempre a un determinato pubblico. Nel caso di un social network è facile che si tratti di amici o conoscenti; un blog ha i suoi lettori abituali. Allo stesso tempo, quando scriviamo speriamo di attirare lettori nuovi, lettori diversi (io, almeno, lo spero sempre). Questo mi impedisce di sviluppare un linguaggio per iniziati; di proseguire una narrazione senza riassumere, sempre, i precedenti; di dare per scontato qualsiasi contesto, qualsiasi premessa; e mi impedisce anche di scrivere parodie o, come si dice adesso, fake. Per quanto possano essere divertenti (ma il più delle volte non lo sono), le parodie sono rischiose. Le meglio riuscite sono proprio quelle che maggiormente rischiano di ingannare il lettore occasionale.

Ma io - questo è il punto - non voglio ingannarlo, non voglio prenderlo in giro, non voglio tenerlo fuori da quel che scrivo. Voglio attirarlo, voglio che si senta a casa sua anche se non è quasi mai d'accordo con gli altri (come in ogni casa che si rispetti). Voglio provare a convincerlo. E persino se fosse un cretino senza speranza, non mi divertirei a prenderlo in giro. Sul serio, non è che faccio finta. Sono proprio così noioso, non mi fanno ridere le barzellette sui disabili e potreste scivolare su una buccia di banana davanti a me, non ci troverei niente di buffo. Quando qualcuno cade vicino a me ho sempre paura che si sia fratturato qualcosa.
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Sei sicuro di essere più intelligente della senatrice complottista?

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Cara persona intelligente, che nel giorno della scossa più forte hai condiviso il tweet della senatrice 5stelle, arrabbiata con Renzi perché ritocca i dati dei sismografi per non rimborsare i terremotati. Lo hai ripostato anche otto ore dopo. Ci hai scherzato coi tuoi contatti. Ci hai scritto un pezzo sopra e lo hai pubblicato su un blog o su un quotidiano.

Dobbiamo parlare.

Perché lo fai? Perché ogni volta che vado su un social, invece di trovare subito cose interessanti, trovo strafalcioni ridicoli e bufale stantie, messe in giro da te o da altre persone come te, ugualmente intelligenti?

Un grafico altrettanto chiaro in italiano
ancora non si trova.
Potresti dirmi che lo fai per denunciare l'ignoranza altrui, tanto più grave quando appartiene a una persona investita di potere e responsabilità, come appunto una senatrice. E ci potrebbe anche stare. Probabilmente è stato anche grazie alla pronta reazione di chi le stava intorno che la senatrice ha modificato il tweet pochi minuti dopo - senza peratro rinunciare all'impianto complottista. Ai tempi del terremoto in Emilia - appena quattro anni fa - la stessa bufala circolò indisturbata per settimane. Adesso appena qualcuno la mette in circolo viene preso in giro universalmente. E però qualcosa non mi torna.

Il tweet originale sul complotto anti-magnitudo sarà resistito per quanto, mezz'ora? Ma dodici ore dopo la mia bacheca era ancora invasa dagli screenshot, dalle immagini prese al volo di quel tweet. Come se la cazzata in questione fosse davvero troppo bella per non essere diffusa, reclamizzata, amplificata. Cara persona intelligente.

Sei sicuro che sia una buona idea? Prendere una cazzata che è durata pochi minuti, clonarla e disseminarla ovunque puoi sui social e sulla rete in generale?

Ci provo con un esempio scolastico, che spero non complichi le cose: se vuoi insegnare a un bambino come si scrive "scuola", sulla lavagna devi scrivere esattamente: "scuola". Se sai che qualcuno scrive "squola", lo correggerai sul suo quaderno: ma non devi mai, mai scrivere sulla lavagna la parola con la q. Perché anche se la barri col gessetto rosso, anche se spieghi ad alta voce che è la grafia sbagliata, anche se passi mezz'ora a sottolineare il concetto, se quella q resta sulla lavagna c'è sempre il rischio che qualche alunno distratto non faccia caso al contesto, e creda che quella sia la grafia corretta. E in quella classe ci sono sicuramente degli alunni distratti.

E sui social la maggior parte degli utenti è distratta. Se tu segnali un tweet stupido ai tuoi amici o ai tuoi follower, sei davvero sicuro che tutti capiranno che è stupido? Stai sopravvalutando la loro attenzione, il loro interesse, forse anche la tua intelligenza. Che è poi il motivo - temo - per cui passi gran parte del tempo sui social a cercare i contenuti più cretini e a condividerli: lo stesso impulso che ci porta a guardare i reality o i talent. Sono pieni di coglioni che fanno errori che noi non faremmo. Ci fanno sentire intelligenti. Ma non è necessariamente così.

Sul serio: tra una senatrice che scrive una scemenza e tu che la twitti a ripetizione, chi dei due ha imparato qualcosa l'altro ieri? Almeno la senatrice lo ha cancellato: magari parte da una situazione di ignoranza più grave della tua, ma dimostra di potersi correggere. Domenica era ancora convinta che ci fosse un sistema di rimborso danni legato alla magnitudo registrata da un sismografo ufficiale, oggi no. Tu invece domenica credevi di essere più intelligente di lei e hai continuato a spammare le sue sciocchezze tutto il giorno: col probabile risultato di averle fatte leggere a qualche distratto che l'altro ieri non ci pensava, e adesso magari è convinto che Renzi vada in giro a truccare i sismografi. Cara persona intelligente.

Ma sei sicuro?
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Toccata e fuga

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Quando ero ancora piuttosto piccolo, dopo le cene dai nonni che ricordo lunghissime, me ne andavo a rovistare tra i vecchi fumetti - Oscar Mondadori ingialliti, con le vignette piccolissime, c'era roba fantastica lì dentro, c'era il primo libro italiano dei Peanuts (Il bambino a una dimensione con prefazione di Eco), c'era BC, c'era Bristow, c'era il Topolino di Gottfredson (La banda dei piombatori! Il mistero delle collane!), c'era la primissima e quasi illeggibilissima versione di Spirit, tanto erano piccola vignette, insomma c'era tutta l'educazione di cui avevo bisogno. E poi c'era, un po' sopra gli altri quasi a tenermelo lontano, un volume di storie strane, che mettevano paura. Erano fumetti tratti da racconti di Ray Bradbury, alcuni (seppi poi) famosissimi, altri introvabili, come questo. Quel volume è l'unico che ho sentito l'insopprimibile necessità di trovare su ebay, qualche anno fa, quando ero in cerca di storie di Halloween che facessero paura sul serio. Pubblico qui una di quelle che mi fecero più impressione - ci penso ogni volta che faccio le pulizie, in realtà non così spesso. Buon Halloween a tutti.













































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