Wolverine sanguina! (finalmente)

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Logan (James Mangold, 2017)

Frank Miller, 1983.
Logan è il migliore in quello che fa. Ma quello che fa non si può mostrare in un cinecomic per bambini. È il solito problema. Spiderman può appiccicare i cattivi alle pareti con una colla speciale che non lascia alla polizia nemmeno la fatica di ripulire; Iron Man può stordirli con qualche tipo di raggio che non lascia segni; Superman o Batman trovano sempre il modo di stendere a cazzotti dei nemici che non riportano mai commozioni cerebrali gravi. Persino il Terribile Hulk al massimo i suoi nemici li scaglia a km di distanza, a suo modo è pulito: niente sangue. Ma Logan è... Wolverine, e Wolverine ha questi artigli affilati d'adamantio con i quali non è che possa dare un buffetto agli avversari.

È sempre stato così, anche sui fumetti: gli altri eroi in costume possono anche fingere di non essere assassini, Logan questa ipocrisia non se la può permettere. Quante volte ha accostato un pugno al torace o al volto del suo nemico, quante volte abbiamo letto "SNIKT" nella vignetta successiva, senza che il disegnatore si mettesse nei guai mostrandoci i dettagli della macelleria? Ma se Wolverine è sempre stato così difficile da gestire, a chi è venuto in mente di farne un eroe in carta e pellicola? Ai lettori.

Logan non era nato per fare l'eroe. All'inizio era una comparsa in una storia di Hulk, uno di quegli antieroi esotici dai nomi buffi e dai poteri bizzarri che devono prenderle dal titolare della serie. A metà degli anni Settanta si trova inquadrato quasi suo malgrado in una banda di personaggi di secondo livello riciclati nel tentativo abbastanza disperato di salvare una testata. La testata è X-Men e nel decennio successivo diventerà anche grazie a Wolverine la più fortunata dell'universo Marvel, eppure già nei primi numeri Logan rischia il licenziamento: viene salvato da uno dei disegnatori, Byrne, per una questione di mero campanilismo (è l'unico eroe canadese). Ma all'inizio davvero non si sa come gestirlo: c'è anche qualche tentativo di utilizzarlo come una spalla comica, il tappo incazzoso che si arrabbia per primo e le prende più di tutti. Paperino. Poi piano piano il personaggio rivela delle potenzialità.

I lettori scoprono che è più vecchio degli altri; che sotto la maschera ha due basette d'altri tempi; che gli artigli non sono un gadget, ma parte del suo scheletro, per quanto questo sia anatomicamente impossibile; che le sue origini sono molto più intricate di quelle di qualsiasi altro eroe, e forse per sempre occultate da multipli lavaggi del cervello; che tutte le persone a cui vuol bene finiscono male; che guarisce da qualsiasi ferita con una velocità che varia a seconda delle esigenze di sceneggiatura, da pochi minuti a qualche giorno: quanto basta per renderlo protagonista di una serie di storie in cui prima viene massacrato da qualche nemico prepotente, poi risorge cristologicamente per vendicarsi con operazioni di chirurgia sommaria senza anestesia. Erano ancora i primi anni Ottanta e i lettori della Marvel non avevano mai letto o visto cose del genere. Wolverine, a una certa distanza è più facile capirlo, è il primo eroe americano post-Vietnam: è un reduce, è un mostro, si vergogna ma è pur sempre il migliore in quello che fa. Più vicino a Rambo che a Capitan America, Wolverine era l'eroe perfetto per far annusare un po' di sangue ai lettori preadolescenti che non potevano più riconoscersi in un Superman perfettino o uno Spiderman Bello di Nonna. Dopo di lui i fumetti si sarebbero riempiti di cloni, cyborg e ninja, tutti un po' troppo sbilanciati rispetto all'originale: con Wolverine la Marvel aveva azzeccato per puro caso il mix migliore tra umanità e ferinità.

Questo tipo di cose.
Wolverine è anche uno dei primi eroi Marvel ad arrivare al cinema, nel film che anticipa la moda dei cinecomics, il primo X-Men. Era il 2000 e nel ruolo di Logan c'era già Hugh Jackman. Nei successivi 17 anni ha interpretato lo stesso personaggio in otto o nove film, credo che sia un record. Per me - se solo me l'avessero chiesto - era fuori parte sin dall'inizio: Logan è un animale che lotta per diventare umano e restare tale, Jackman è un attore di Broadway, canta e balla e in smoking sta una favola (non ho nemmeno idea di quante volte l'ho scritta, questa cosa). Bisogna però ammettere che ce l'ha sempre messa tutta. Scegliere un damerino per interpretare una macchina da uccidere la diceva lunga, già nel 2000, sull'approccio che la Fox aveva deciso di dare al personaggio e in generale a tutti gli X-Men: proprio mentre i fumetti si diversificavano e cercavano di crescere coi loro lettori, i cinecomics mantenevano la barra sul grande pubblico e cercavano di non allontanare i minori di 13 anni, il che almeno negli USA significa niente nudità e (quasi) niente sangue. E gli artigli? Eh. Col contagocce, o con nemici deumanizzati (ad esempio un cyberg-samurai gigante). Non aveva neanche molto senso lamentarsi, i supereroi al cinema si facevano così. Mentre il Wolverine cartaceo diventava uno zombie, un vampiro, un vendicatore, un preside, moriva, veniva sostituito da un clone con le tette (e gli artigli anche nei piedi), risuscitava ma più vecchio, quello sullo schermo sembrava condannato a roteare gli artigli in rassicuranti numeri di danza, finché...

Si chiama Dafne Keen: non è un amore?
Finché l'anno scorso un tizio improbabile in costumino rosso e fattore rigenerante, Deadpool - un supereroe di seconda fascia che senza Wolverine non sarebbe esistito nemmeno nella fantasia di un aspirante sceneggiatore di otto anni - non ha sbancato i botteghini con il primo vero cinecomic vietato ai minori di 14: un bel paradosso, per un film che non aveva molto da dire ai maggiori di 16. Ma insomma, in un panorama ormai inflazionato si è scoperto che i film di supereroi con sangue e nudità non solo si possono fare, ma funzionano meglio degli altri. E quindi? Avanti con le nudità, direte voi. Seh, magari.

Il passo successivo della Fox è stato convincere Jackman a rimettersi per un'ultima volta quei maledetti artigli, ma stavolta per usarli davvero (Continua su +eventi!)

Logan è il primo film in cui Wolverine può mostrare quello in cui è il migliore: mutilare, decapitare, infilarti tre artigli nelle parti più molli del cranio e strappartelo via in scioltezza. Il fatto che sia stato annunciato come l'ultimo cinecomic di Jackman non dovrebbe lasciare molti dubbi su come andrà a finire: al suo fianco una bambina che sembra già pronta a prendere il testimone, e un memorabile Patrick Stewart: anche per lui non è solo il film d'addio a un personaggio impersonato per due decenni (il professor X), ma anche l'occasione per farci piangere più di rimpianto che di nostalgia: che grande attore, che eroe fantastico avrebbe potuto essere, se dal 2000 in poi la Fox ci avesse creduto un po' di più, se avesse messo in scena storie appena un po' più potenti. James Mangold dirige una cupa storia di riscatto e macelleria con lo stesso presagio di fine incombente: quando gli ricapita di avere un Wolverine con gli artigli in fuori? La sua idea migliore è aver stravolto completamente la storia a fumetti a cui il film in teoria si doveva ispirare. Qua è là c'è finalmente qualche idea originale che non rende Logan un capolavoro, ma probabilmente il cinecomic più interessante che vedremo quest'anno, e forse l'unico caso in cui la pellicola funziona meglio del fumetto. Se negli altri film la violenza veniva censurata, qui è talmente esibita che dopo un po' viene a noia - il che è perfettamente in linea col personaggio, un vecchio felino che non ne può più di ammazzare ma non riesce a starne fuori: e comunque è sempre il migliore. Logan è al Cityplex di Alba (19:00, 22:00, 21:00); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45); all'Impero di Bra (20:00, 22:30);  ai Portici di Fossano (18:30, 21:15) all'Italia di Saluzzo (21:30); al Cinecittà di Savigliano (21:30)

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Nessuno sbaglia come Dylan

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The Cutting Edge 1965–1966 (The Bootleg Series Vol. 12, 2015).

(L'album precedente: Highway 61 Revisited
L'album successivo: Blonde On Blonde).

Siede nella tua camera (la tua tomba) con un pugno pieno di puntine, tutto preso dai suoi propositi di vendetta. Maledice i morti che non possono rispondergli: lo sai che non ha nessuna intenzione di guardare dalla tua parte, se non per dirti che ha bisogno di te per testare una sua qualche invenzione... Per favore, perché non te ne sgusci dalla finestra? Con le tue braccia e le tue gambe, non ti farai male. Come fai a dire che ti mancherà? Potrai tornare da lui quando ti pare.  

Qual è il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso? No, non quello che vi piace di più. Non Like a Rolling Stone - è una canzone importante, nessuno nega che abbia cambiato la storia della musica, ma dopo un po' è normale che uno non abbia tutta questa voglia di riascoltare Like a Rolling Stone. Il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso non è nemmeno il titolo che sparate quando vi chiedono il brano preferito, cercando di non sembrare né troppo scontati (Blowin' in the Wind) né troppo hipster (Blind Willie McTell): e niente Hurricane, per carità bellissima Hurricane, ma quante volte in macchina l'avete riascoltata davvero, l'avete riascoltata tutta? 15 anni fa Nick Hornby scelse la sincerità: la canzone di Bob Dylan che resisteva meglio sulla sua autoradio era Can You Please Crawl At Your Window. Sul serio? Io ci credo.

Può sembrare una scelta snob - di tutti i singoli del '65, si tratta di quello che non è mai stato ripubblicato in nessun Greatest Hits, il che equivale a una specie di sconfessione: Dylan l'ha suonata in un solo concerto e poi l'ha dimenticata, o ha voluto che ce la dimenticassimo. Ci siamo quasi riusciti: Can You Please è un pezzo che è stato rimosso dalla memoria del pubblico. È un fenomeno abbastanza curioso; per esempio, in alcune biografie si accenna al fatto che nell'entourage di Andy Warhol Like a Rolling Stone venisse considerata una specie di caricatura del Maestro. Ma Like a Rolling Stone parla di una ragazza ricca che si ritrova a vivere per strada, non sembra c'entrare molto con la factory di Warhol: ed è anche abbastanza improbabile che in quel momento Dylan conoscesse già l'ereditiera Edie Sedgwick, modella e attrice nei film di Warhol, e si immaginasse un futuro così disastroso per lei. Can You Please invece è stata scritta qualche mese dopo; somiglia a Like a Rolling Stone al punto di sembrare un ripensamento, una parodia; il ritornello ha la stessa progressione, anche se accelerata (I-IV-V) e ancor più simile alla Bamba o a Twist and Shout; persino l'arrangiamento è un ritorno senza vergogna alle soluzioni già sperimentate di Rolling Stone, con l'organo di Kooper sempre più scatenato: e soprattutto è una canzone che invita una ragazza a sgusciare dalla finestra, ad abbandonare uno strano tizio pieno di sé che ha bisogno di lei soltanto per "testare le sue invenzioni". Magari non è Warhol, ma non è così strano che a Warhol fischiassero le orecchie: e a quest'altezza la Sedgwick era già il grado di separazione tra le due celebrità. Ma poi che succede? Can You Please non viene più ripubblicata, non viene più suonata, sparisce negli scatoloni dove i dj e i dylaniti ammucchiano i 45 giri, e dieci o vent'anni dopo i reduci si confondono: tutto quello che si ricordano è che Warhol si sentiva preso in causa da un singolo di Dylan nel '65, e nel '65 Dylan ha pubblicato Like a Rolling Stone; così Like a Rolling Stone si sostituisce a Can You Please nella memoria collettiva.

Sembra così sincero, è così che si sente, mentre cerca di pelare la luna ed esporla. Con la sua rabbia da uomo d'affari e i suoi levrieri accucciati... se ha bisogno di un terzo occhio, se lo fa crescere. Ha bisogno di te soltanto per parlare, o perché gli allunghi il gessetto, o glielo raccogli quando lo butta via... ma perché non sgusci via dalla tua finestra? 

Forse sarebbe stata dimenticata ancora di più se gli stessi biografi non l'avessero legata a un aneddoto drammatico; è la canzone che fece litigare Dylan con Phil Ochs, nel più cinematografico dei modi. Erano in limousine - magari era semplicemente un taxi, ma sapete come funziona coi ricordi - Dylan gliela fece ascoltare in anteprima, Ochs non fu abbastanza svelto a salutare l'ennesimo capolavoro del genio, Dylan in crisi d'astinenza di autostima lo fece smontare dal mezzo apostrofandolo col peggiore degli insulti: non sei un songwriter, sei un giornalista. Ochs ci restò molto male e dieci anni e cinque dischi dopo si suicidò - c'è chi ha veramente scritto questa cosa, che il suicidio di Ochs comincia quella sera. Pensateci bene perché magari pure a voi è capitato di avere uno screzio con un tizio che dieci anni dopo si è tolto la vita: pensate come la prendereste se ogni tanto qualche giornalista buttasse lì che lo avete ammazzato voi. Con questo tipo di stronzate Dylan convive da quando è maggiorenne, insomma la sua diffidenza per i cronisti è parzialmente giustificabile.

Can You Please forse non era una canzone su Warhol; di sicuro non era una canzone su Ochs anche se col tempo è diventato impossibile non pensarci - e forse è il motivo per cui Dylan preferiva lasciarla in fondo al cassetto. È certamente uno di quei brani a cui si riferisce quando racconta di essersi accorto solo dopo l'incidente che molti "He" o "They" delle sue canzoni in realtà erano riferiti a sé stesso. Il tizio pieno di sé e di trucchi da cialtrone, che "se ha bisogno di un terzo occhio se lo fa crescere", magari non nasce come caricatura del Dylan superstar del 1965, ma funziona benissimo anche in questo senso. È anche complementare a un altro brano interessante e accantonato nello stesso periodo, She's Your Lover Now; è il primo vero triangolo affettivo che incontriamo in una sua canzone, il che anticipa una situazione canonica di Blonde On Blonde. È insomma un brano che col tempo è stato eclissato da altri simili che funzionavano meglio. In fondo alla fine del '65 Dylan compone soltanto due tipi di canzoni: i cari rassicuranti blues e le progressioni ascendenti-discendenti sulla falsariga di LikePositively è Rolling Stone 2 la vendettaCan You Please è Rolling Stone col sorriso e il 50% di Bamba in più, hai visto mai che alle radio piacesse (non piacque).

Perché lui sembra sempre nel giusto, mentre tu cambi faccia? Ti fa paura la scatola in cui ti tiene? Mentre i suoi matti da genocidio e gli amici risistemano il loro Culto delle Dieci Piccole Donne che darà loro autorevolezza, ma la tua faccia mostra le contusioni... coraggio, il buio sta arrivando, per favore, puoi sgusciare dalla tua finestra?

Però proprio il fatto che non sia piaciuta molto né al pubblico né allo stesso Dylan, ha fatto sì che un quarto di secolo dopo Hornby la potesse incontrare quasi per caso e trovare fresca: l'unico brano del 1965 che per vent'anni non si era ascoltato quasi nessuno, che nessuna radio classic rock aveva ritenuto necessario programmare, l'unica su cui non si era depositata la polvere. Nello stesso periodo, Dylan si decide ad aprire i suoi archivi e fa una scoperta forse per lui un po' deprimente: il primo volume di The Bootleg Collection vende meglio dei dischi che sta facendo in quel periodo. Dunque non è vero che la gente non ha più voglia di ascoltare pezzi nuovi da Dylan; il problema è che vuole pezzi nuovi del giovane Dylan, non del Dylan cinquantenne che pure nel frattempo è riuscito a riconquistare l'attenzione dei critici. Non è nemmeno un problema insormontabile, dopotutto nei cassetti ha ancora un sacco di roba di quegli anni che, se proprio la gente insiste, si può ripubblicare.


Dopo una vita che guardi la foto sfuocata
sulla copertina di Blonde On Blonde, ti sembra
assurdo che quel mattino le persone potessero
essere a fuoco
The Cutting Edge, uscito solo nel 2015, non è l'ennesimo ripescaggio nel cassetto del 1965-1966: è il cassetto intero. Nella sua versione più estesa (18 cd) contiene tutto quello che Dylan ha registrato in studio in quei due benedetti anni, comprese le finte partenze. Io non ho nessuna intenzione di ascoltarla: la vita è breve già così. Neanche la versione deluxe in appena sei cd. Forse, dico forse ho ascoltato quella ristretta in due cd; su Spotify c'è una scelta di appena settanta minuti. Come Hornby, ci tengo a prendere le distanze dai dylaniti di stretta osservanza, quelli che si ascoltano venti take diverse di Rolling Stone anche se alla fine Dylan ha pubblicato la settima - e quindi per favore, non dite che vi serve a capire come ha fatto ad arrivare alla versione perfetta: non c'è nessuna versione perfetta, e la migliore è arrivata quasi subito, le altre erano una perdita di tempo anche per lui, figuratevi per voi che le riascoltate.

Ho un'altra cosa in comune con Hornby, ovvero: anche a me Can You Please Crawl Out piace un sacco. Probabilmente è il pezzo di Dylan che riascolto più spesso, e se fossi stato su quella limo con Ochs gli avrei detto, amico, sei matto? Questa spacca, questa è persino meglio di Like a Rolling Stone, ha più tiro, più passaggi dal maggiore al minore, è un po' meno stronza e un po' più piaciona, questa è la svolta ragazzi! E almeno io sulla limo ci sarei rimasto, ma in breve tempo Dylan avrebbe cominciato a fidarsi meno di me che di Ochs.

Non è che posso lottare con la storia: se Can You Please è piaciuta di meno, evidentemente c'è un motivo: e però continuo a riascoltarla più volentieri. La progressione delle strofe non assomiglia a nient'altro, se non anticipa certe soluzioni indie-rock di trent'anni; è più beffarda e meno cattiva di Like; se la interpreti come un'autoparodia, è la dimostrazione importante di come Dylan sapesse osservarsi da fuori e prendere le misure dello stronzo che era. La rabbia di Positively 4th Street è passata, ha lasciato il posto a una smorfia beffarda: quando nel finale auto-cita l'attacco di Positively ("You've got a lot of nerve to say you are my friend, if you don't crawl at your window"), capisci che non ce l'ha più con nessuno, non è il motivo per cui vuole che quella ragazza lo raggiunga in strada. Forse sto continuando a difendere questa mia idea di un Dylan allegro, uno che nei versi mortiferi di Highway 61 non ci crede davvero, uno che si diverte a far ritmare la sua Twist and Shout col campanaccio (il cowbell!) Can You è particolarmente fracassona, la testimonianza gioiosa di quelle session di fine '65 con gli Hawks che avrebbero dovuto produrre un album nuovo e invece convinsero Dylan a spostarsi a Nashville, dove avrebbe registrato Blonde on Blonde, per farla breve il suo disco più grande. Anche qui abbiamo pianoforte e organo che vanno per i fatti loro, è una gara a chi fa più casino e il risultato è che si annullano a vicenda (spunta molto più la chitarra di Robertson).

Potete vivere senza un intero CD
 di prove scartate di Like a
Rolling Stone?
Io posso.
Come ormai sappiamo, tra gennaio 1965 e giugno 1966 Dylan inventa un suo stile elettrico, qualcosa che non aveva precedenti e che lui stesso non riuscirà in seguito a replicare in laboratorio. Comincia da una posizione di handicap: a gennaio ancora non è in grado di suonare con una band. Prendete una qualsiasi delle versioni di Subterranean (anche quella incisa in Bringing) e provate a canticchiare la linea del basso, che è semplicissima e dovrebbe tenere insieme la canzone: Bom, Bom, Bom, bombobom Bom Bom Bom bombombom eccetera. Vedete che non c'è proprio verso di tenere il tempo, Dylan sbaglia gli attacchi, è abituato a misurare il tempo con la sua voce e non riesce a cedere il ruolo a una sezione ritmica. Fortuna che alla consolle c'è Tom Wilson che lo rincuora e gira qualche manopola per occultare i problemi peggiori. Rapidamente BD impara quel minimo di disciplina necessaria a non far impazzire i musicisti che lo accompagnano. A maggio sta già usando lo studio per comporre: Like a Rolling Stone all'inizio era un valzer suonato sui tasti neri del pianoforte. Il motivo per cui diventa un pezzo rock - il più importante pezzo rock, secondo la rivista omonima - è che i valzer ancora per un po' non riuscirà a suonarli con un gruppo, il quattro quarti è l'unica cosa che funziona e appena si allontana dalla struttura del blues i rischi si moltiplicano. Posso dire un'eresia? Passando ai quattro quarti, Like a Rolling Stone ha perso qualcosa (continua sul Post).
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Il mondo finisce un'altra volta

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È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)


Ogni volta che muori, il mondo finisce con te: quindi di che cosa ti preoccupi? Di chi ti lasci indietro? Li hai ignorati per tutta la vita, la morte cosa cambia? Vorresti lasciare un buon ricordo? Comprensibile, ma forse è un po' tardi. Vuoi chiedere scusa? Si vede che non sei ancora così morto, ai morti queste cose non interessano. Non si sentono in colpa, non si sentono in dovere, non si preoccupano di noi.

"Tutto bene?"
"Sì che vuoi?"
"Niente. Sei occupato?"
"Devo scrivere la recensione".
"Ottimo. Ti è piaciuto il film?"
"Devo pensarci".
"Allora non ti è piaciuto".
"Ma a te poi che ti frega?"
"Quando ti piacciono te ne accorgi subito".
"Non hai veramente niente di meglio..."
"Quando tergiversi, quando vai a vedere le recensioni, le percentuali di giudizi positivi, i premi... hai paura di fare una brutta figura".
"Io? Si vede che non mi conosci".
"È più giovane di te, vero? Il regista".
"Questo cosa c'entra".
"Mi preoccupo, sai, perché..."
"Ma perché ti devi preoccupare, non ha proprio senso".
"...succederà sempre più spesso, man mano che avrai avanti. Musicisti più giovani, registi più giovani, persino un presidente del consiglio, se non sbaglio".
"Era l'ultimo dei suoi problemi".
"Devi cominciare ad accettarla, questa cosa".
"Che sto invecchiando? La accetto".
"Bravo".
"Non che ci fossero alternative".
"Una c'era. Quanti anni ha il regista?"
"Non lo so... va per i trenta".
"Uh, un ragazzo!"
"Non è questo il problema".
"Sicuro?"
"C'è un tipo di cinema che proprio non mi prende. Colpa mia. Io nasco lettore, è la mia formazione. Se mi prendi un testo teatrale e sostituisci i monologhi con gli sguardi intensi e i primi piani, io non ci casco".
"Quindi è un limite tuo".
"Non dovrei scrivere di cinema. Non di questo tipo di cinema, almeno. Per me il primo piano più intenso non sarà mai significativo come un discorso. Se hai da dire delle cose, dille. Se guardi fisso in camera non mi stai dicendo cose. Non importa quanto sia espressivo il tuo broncetto e ben impaginata l'inquadratura, tu non mi stai dicendo cose".
A lei comunque voglio bene.
"Il cinema è fatto di immagini".
"In movimento, però".
"Perché non sei andato a vedere Lego Batman?"
"Non mancherà l'occasione".
"Insomma non ti è piaciuto".
"Non è il mio tipo di film".
"L'età non c'entra niente?"
"Cosa dovrebbe c'entrare?"
"Dolan non ha trent'anni, che vuoi che ne sappia?"
"È un regista bravissimo e bisogna dargli atto che un'ora e mezza filano dritte come un treno, sembra sempre che stia per succedere qualcosa di orribile che poi..."
"Non come regista. Come persona. Che vuoi che ne sappia di cosa vuol dire morire?"
"Immagino che ci abbia ragionato, come tutti".
"A vent'anni? Lo sai anche tu come sono i ventenni?"
"No non lo so".
"Romantici".
"Sai che non sono d'accordo. Davanti alla morte abbiamo tutti la stessa età".
"E quindi cos'è che ti affligge?"
"Non lo so, è una sensazione, è... hai presente Natural Blues di Moby?"
"Why does my heart feel so bad?"
"Quella?"
"Ti piace?"
"La odio".
"Ecco, mi pareva" (continua su +eventi!)
"È uno di quegli esempi lampanti di Kitsch in musica... Un banale pastone dance impreziosito da un campionamento blues falso come l'ottone. E non ci sarebbe niente di male".
"Non hai niente contro la dance, adesso?"
"È un prodotto come un altro, ma questa idea che Moby la voglia fare di nicchia, la techno d'autore. Sono Moby, sono un genio, ho messo il blues nella house, so che non vedevi l'ora di sentirti profondo mentre ballavi in un club fighetto a fine anni 90".
"Coraggio, dillo".
"Cosa devo dire?"
"Che tu già a fine anni '90 eri... coraggio!"
"Troppo vecchio?"
"...per queste stronzate".
"Ma non è un problema di età. È proprio un pezzo brutto".
"Tutte le generazioni hanno i loro pezzi brutti. Poi la nostalgia, sai com'è".

(Ma alla fine voglio bene anche a loro).

"Non è un problema di nostalgia. La nostalgia la capisco. Sono cresciuto con questa canzone scema, so che è scema ma mi ricorda il primo amore, scusate, ok, ci siamo passati tutti, espediente non nuovo ma tollerabile. È il motivo per cui a un certo punto mette i Punk Bimbominchia, come si chiamano, i Blink-numero-a-caso".
"182".
"Ma Moby lo mette in fondo, Moby se lo tiene proprio come strappamutande finale, te lo immagini proprio questo ventenne che pensa adesso vedete che vi commuovo, adesso accendo le luci in sala e vi metto il pezzo che vi strizza il cuore come una spugna, dopodiché ecco cominciare un brano che per me ha lo stesso spessore emotivo della Lambada".
"È vero che a te piaceva la Lambada".
"C'è molta, molta più poesia nelle silhouette dei ballerini sul molo, contro il tramonto".
"Quindi lo stroncherai perché ha scelto la canzone sbagliata".
"Ma non è uno sbaglio, è proprio che... che il film è precisamente così, crede di essere una bomba emotiva e invece è solo il tranello di un dj disperato che pompa i bassi per far battere il cuore alla gente. E impreziosisce il tutto incastrandoci un testo teatrale raccattato dallo scaffale, ovviamente una cosa triste triste che gira a vuoto, perché mi sento così? Perché? Stai per morire, va bene, si è capito nei primi cinque minuti. Se non sai che altro dire... se non sai dire nemmeno quello..."
"Mi preoccupi, sai".
"Non è vero".
"Non vorrei che ti trasformassi in uno di quegli attempati brontoloni che..."
"Tu non sei in grado di preoccuparti, basta con questa stronzata".
"Non voglio dire che mi deludi, ma credo che potresti fare di meglio, l'ho sempre creduto".
"Piantala - poi questa cosa di urlarsi in faccia le peggio cose, tra famigliari, non so quanto Dolan si renda conto che è proprio un luogo comune del cinema continentale, cioè gira che ti rigira è riuscito a girare un film dove gli attori francesi passano il tempo a mandarsi affanculo o a dirsi "t'es malade", non esattamente il primo che vedo, ecco".
"E non ti fanno più effetto".
"I francesi che si urlano in faccia? Son quasi peggio degli italiani. C'è pure la scena in macchina, così possono litigare senza troppi controcampi. E allora è un genio anche Muccino, rivalutiamo Muccino".
"A te proprio non la si fa".
"Senti, l'ho già detto, è bravo. Però un'ora e mezza di riunione di famiglia di francesi che si urlano cose in faccia non... non..."
"Non è la fine del mondo".
"Non per me".
"Dovevi andare a vedere Lego Movie".
"Ti sto deludendo?"
"Non ti devi preoccupare di questo".
"Sei tu che non ti devi preoccupare".
"Facciamo che non si preoccupa nessuno".
"Tutto qui?"
"Puoi mettere un pezzo se vuoi".
"Chorando se foi quem um dia so me fez chorar..."
"Sei un idiota lo sai".

È solo la fine del mondo è al cinema Lux di Busca, giovedì 9 e venerdì 10 marzo alle 21. Spoiler: il mondo non finisce.
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saluti dalla forca, vostro bob

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Highway 61 Revisited (1965)

(L'album precedente: No Direction Home
L'album successivo: The Cutting Edge 1965-1966).

Vendono cartoline dell'impiccagione.

Esiste un modo migliore di cominciare una canzone, o qualsiasi altra cosa? Funzionerebbe persino su internet: VENDONO CARTOLINE DALL'IMPICCAGIONE. Non clicchereste? Ok, voi magari no, ma fidatevi, sarebbe virale in cinque minuti. Dopo un inizio così puoi scrivere veramente qualsiasi cosa. Dylan ci scrisse Desolation Row, che in effetti è abbastanza vicina al concetto di "qualsiasi cosa". Contiene Caino, Abele e il gobbo di Notre Dame; Casanova ucciso dal Fantasma dell'Opera con un'overdose di autostima; Ezra Pound e T.S.Eliot che fanno a pugni sulla plancia del Titanic, e cose persino più interessanti; ma non filerebbe così bene se non cominciasse con quel colpo di fulmine: da qualche parte hanno impiccato qualcuno, e sono talmente soddisfatti che hanno scattato foto e le spediscono come cartoline. Sembra il far west distopico della Lotteria di Shirley Jackson. Un incubo in un verso. Che genio visionario che è Bob Dylan, pensi.

Anni dopo, oziando su Internet, scopri che fino agli anni Venti negli USA le cartoline dalle impiccagioni esistono davvero: non negli incubi, ma anche nel Minnesota di Bob Dylan, uno Stato del Nord che non era mai stato schiavista. Nel 1920 tre operai neri di un circo appena arrivato a Duluth erano stati fermati con l'accusa di aver stuprato due ragazze. Siccome né la polizia né i medici riuscivano a trovare prove per un processo, ai bravi cittadini radunati fuori dalla prigione fu concesso di estrarre dalla prigione i tre colpevoli e appenderli a un albero. Poi i bravi cittadini si misero in posa per le foto. Dylan è nato a Duluth, vent'anni dopo, quelle foto le ha viste sicuramente. "Il circo è in città", canta, nella stessa strofa. Da Duluth passa l'autostrada 61, quella che attraversa il paese da nord a sud collegando la regione dei Grandi Laghi con la valle del Mississippi fino a New Orleans: quella che incontra la 49 in quel mitico crocicchio in cui si racconta che Robert Johnson vendette l'anima al diavolo in cambio del privilegio di suonare il blues. È solo una leggenda: quel che è vero è che nel '37 in quello stesso tratto morì in un incidente la cantante Bessie Smith. Aspettava soccorsi, ma in un ospedale per bianchi non l'avrebbero presa.

Adesso mi piacerebbe scrivere una melodia così semplice che potesse trattenere la vostra signora dalla pazzia; che potesse calmarvi, tranquillizzarvi, farvi passare il dolore della vostra consapevolezza inutile e insensata. La mamma sta in fabbrica, non ha le scarpe. Il babbo è per strada, cerca il fusibile. Io sono in cucina coi miei blues lapidari. 

Abbiamo lasciato BD confuso e amareggiato a Newport, il 25 luglio. Era andato a scandalizzare i finti poveri del folk festival, si era preso i fischi. Quattro giorni dopo è di nuovo in sala di registrazione. Incide un singolo, Positively 4th Street, una ringhiosa recriminazione contro quella scena del Village che ormai lo considera un traditore, e inizia a lavorare ai primi brani del prossimo album. Con lui c'è più o meno lo stesso gruppo di musicisti che gli ha aiutato a partorire Like A Rolling Stone. Compreso Al Kooper, il pianista che si era intrufolato nello studio e poi era riuscito a suonare un riff di organo che a Dylan era piaciuto. Invece non c'è più Tom Wilson, che quel riff avrebbe preferito nasconderlo nel missaggio. Dylan pensa di poter fare a meno di lui e forse non ha tutti i torti. Ma non aveva tutti i torti nemmeno Wilson, quando faceva presente a Dylan che Kooper non era un professionista dello strumento (non l'aveva mai suonato prima di allora). Lo stesso Kooper era convinto di partecipare a un esperimento, non di incidere la versione più famosa del brano rock più celebrato: sta seguendo gli altri strumenti, durante la strofa è sempre una frazione di secondo in ritardo. Per Dylan andava bene così. È l'eterna lotta tra il rock e il professionismo. Per Wilson quell'organo era una barbarie, per Dylan era l'elemento dissonante che faceva la differenza, che rendeva quella canzone diversa da tutte le altre.

Forse l'aveva capito ascoltando i Beatles. Persino nei primissimi dischi, con una strumentazione ridotta all'osso, i Beatles riescono sempre a mettere in ogni pezzo qualcosa che lo rende immediatamente riconoscibile, dopo pochi istanti di ascolto alla radio. Può essere un coretto, un riverbero, un accordo imprevisto: è la sigla dell'intera canzone, la firma che la rende diversa già al primo ascolto. In Bringing It All Back Home Dylan non ha ancora imparato a firmare i suoi pezzi elettrici: ogni strumento fa il suo dovere e il tappeto sonoro è abbastanza uniforme. In Highway 61 ci sono alcuni istanti tra i più inconfondibili di tutta la carriera di Dylan: l'attacco dell'organo di Like a Rolling Stone, il fischietto di Highway (preso in prestito dal nuovo accondiscendente produttore, Bob Johnston), l'introduzione pianistica di Ballad of a Thin Man (subito contrappuntata dall'organo di Kooper, che anche qui ha carta bianca e fa quello che gli pare), e in Desolation Row i fraseggi flamenco di Charles McCoy, il primo dei tanti musicisti di Nashville che suoneranno nei dischi di Dylan. Altre cose un po' meno note ma ugualmente meritevoli: la spinta assurda di Tombstone Blues, con la chitarra acustica e la batteria che ci danno dentro come dannati mentre la chitarra di Bloomfield accompagna il canto calmissima, come un bluesman che si fa i fatti suoi su un vagone merci che sferraglia nella campagna; o la chitarra lievemente scordata di Queen Jane Approximately di cui forse Dylan non si è accorto; o l'ha lasciata perché era stufo di registrare; o perché le chitarre accordate si assomigliano tutte, mentre quella approssimativa di Queen Jane si ascolta solo in Queen Jane.

Quando tua madre ti rispedisce indietro tutti i tuoi inviti, e tuo padre spiega a tua sorella che sei stanca di te stessa e di tutte le creazioni, mi verrai a trovare, Regina Giovanna?

Highway 61 è un collage di tutte le cose che Dylan credeva di aver capito e che adesso non hanno più nessuna importanza: nomi vuoti che diventano filastrocche. C'è tutto un catalogo di persone che non dovrebbero essere lì (come nella copertina di Sgt. Pepper); non si capisce proprio cosa ci facciano: la bandita Belle Starr, Jack lo Squartatore, Giovanni Evangelista (c'è anche nell'ultimo dei Baustelle), Galileo, Dalila, Cecil B. De Mille, Ma Rainey e Beethoven che dividono la stessa tenda. E siamo solo a Tombstone Blues. Dylan ha inventato il namedropping ossessivo, il riciclaggio pop di una cultura alta/media/bassa che spunta fuori dai versi come le foto dai giornali che non si sono del tutto squagliate nel macero della cartapesta.

Ma Rainey, madre del Blues.
Highway 61 Revisited è l'unico disco di Dylan che io abbia comprato in vinile. Per qualche tempo per me la coolness coincideva esattamente con l'accovacciarsi in un angolo, guardando l'interlocutore con un'aria di sfida. Se ti guarda fissa così, evidentemente anche tu ti sei accovacciato. Ti sta ipnotizzando. Quando cominciano i vostri ricordi a colori? I miei genitori ricordavano tutto il loro passato in bianco e nero: colpa di tv e cinema. Io stesso ho sognato in bianco e nero per tutte le elementari. Gli anni della mia infanzia hanno i colori sfalsati dei filtri di instagram; gli anni Sessanta me li immagino in bianco e nero. Il colore comincia con due copertine di 33 giri: Sgt. Pepper Highway 61 (il che significa che gli americani arrivano al colore due anni prima, e tutto sommato ci sta). La storia dell'umanità acquisisce il colore direttamente dalla camicia di Bob. Il mio vicino di casa produceva camicie simili, le compravo a metà prezzo, ho accecato tutti i miei compagni di liceo e ora è un po' troppo tardi per scusarsi, facciamo che è colpa di Bob Dylan.

(Nel centro secco e impolverato di Modena c'è un vicolo che, senza che BD ne abbia alcuna responsabilità, si chiama Squallore. È nel cuore del Ghetto, ma in quegli anni cosa potevo saperne. Lo scovai in una delle mie prime gite in cerca di negozi di dischi, e all'inizio avevo un po' paura ad entrare, anche perché è uno dei pochi vicoli ciechi. Un giorno che aspettavo la corriera presi il coraggio a piene mani e mi addentrai. In fondo al vicolo c'era un tizio che si faceva, senza dubbi, una pera. D'altronde, che potevo mai aspettarmi in fondo a un vicolo cieco nel centro di Modena a metà anni Ottanta? Era una piazza di una certa importanza, i tossici di tutta l'Emilia venivano tutte le mattine col treno a farsi da noi. Però immaginatevi di essere un ragazzino che ascolta Dylan e trova un Vicolo Squallore e dentro c'è gente poco più grande di lui che si fa le pere. Ci scrissi una canzone, che altro potevo fare? Voi avreste fatto lo stesso).

È molto difficile scrostare i miei ricordi da Highway, e rendersi conto che è un disco molto diverso da quello che credevo di ascoltare io. Era un momento della mia vita luccicante, colorato, ogni giorno una promessa diversa e tuttora non riesco a convincermi che Dylan non fosse allegro mentre incideva Highway. Tanto poco facevo caso ai testi. Non avevo l'attenzione o la necessità di accorgermi che è l'allegria di un naufrago, di un condannato al patibolo, di un candidato suicida. Ogni solco parla di morte. "Ho bisogno di una ruspa, baby, per tenerla a bada". È dappertutto, lo insegue sull'autostrada dal Minnesota, lo aspetta a casa - anche la sua ragazza è pronta a stendergli il sudario sulla testa. Sulla cima della collina, nel deboscio per turisti di Juarez, nel vicolo Desolazione, la morte è dappertutto. Persino la title track, l'apocalisse più scherzosa che Dylan abbia mai messo in musica, è più inquietante di quel che può apparire al primo ascolto. Dio disse ad Abramo: uccidimi un figlio. Abe disse a Dio: mi stai prendendo in giro? Potrebbe essere il primo riferimento esplicitamente biblico di Dylan. Ma anche il primo riferimento al padre, che si chiamava Abraham. Dio Disse, ehi Abe. Abe disse: beh? Dio disse: puoi fare come vuoi, ma la prossima volta che mi vedi ti conviene metterti a correre. Abe disse: questo sacrificio, dove lo vuole? Dio disse: sull'Autostrada del Sole. 


Un mese dopo il disco è pronto, ma Dylan è in California. Like a Rolling Stone si è fatta strada in classifica, ma non riesce ad arrivare alla prima posizione. Non ci sarebbero motivi per prendersela, se al primo posto non ci fosse Eve of Destruction, una canzone di protesta, una canzone contro la guerra nucleare! Una di quelle canzoni che Dylan aveva smesso di scrivere perché, tra le altre cose, voleva vendere di più. Una canzone, peraltro, che sembrava scritta da un discepolo del Bob Dylan acustico, uno che aveva preso molti appunti e ci aveva aggiunto poca fantasia. Si chiamava P. F. Sloan e prima di conoscere Dylan scriveva surf music. Portatemelo, dice Dylan. Ormai è abituato a comportarsi da boss. Il timido Sloan viene condotto all'Hollywood Sunset Hotel, al cospetto del Maestro Bob Dylan. Il Maestro in persona gli fa ascoltare Highway 61 Revisited in anteprima assoluta. Sloan è al settimo cielo, e quando ascolta Ballad of a Thin Man si rotola in terra dal ridere. Anche Bob ride. Che buffo questo Mr Jones che non capisce quel che sta succedendo. Alla Columbia credono che sia una canzone da comunisti, dice Bob. Poi esce perché è arrivato David Crosby dei Byrds.


Sloan rimane solo. Dalla stessa porta entrano due ragazze in topless (continua sul Post)
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Jackie è nella Casa

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Jackie (Pablo Larraín, 2016)



Signora Kennedy lei non ha / bisogno di scusarsi per il fatto che si trovava fuori sul bagagliaio / negli attimi successivi al momento in cui suo marito era stato colpito. / tutti hanno potuto vedere quel che era successo / in queste fotografie con i propri occhi ... / perché è stata distorta la verità di esseri umani? / a che serve questa immagine eroica? / nessuno è un eroe... / perché sono deliberatamente ingannato con confuse menzogne / a proposito di ciò che vedo con occhi sani / chi sono io per essere insultato così? 

Prima di ricomporsi in pubblico e adottare quella maschera cool che ci si aspettava da lui, Bob Dylan ebbe il tempo per lasciarsi sconvolgere dall'assassinio di Kennedy come qualsiasi altro americano. Scrisse quattro 'poesie' a caldo - in quel periodo definiva 'poesia' tutto quello che gli usciva di getto senza preoccupazioni metriche -  la prima delle quali era dedicata alla vedova Jacqueline. Più che una poesia è una lettera, senza le affettazioni tipiche del Dylan-alla-macchina-da-scrivere-che-si-crede-un-poeta. È un messaggio di scuse, quello che oggi potrebbe scrivere un personaggio pubblico sulla bacheca di facebook di un altro personaggio pubblico. È anche una riflessione su come i media e le fotografie mettono le persone in cornice o sulla gogna. Nei giorni immediatamente successivi all'assassinio politico più famoso del XX secolo, qualcuno era riuscito a biasimare Jackie Kennedy perché invece di difendere in un qualche modo il marito si era alzata, sporgendosi sul bagagliaio. Ufficialmente lo aveva fatto per aiutare una guardia del corpo a salire sulla berlina. Nell'intervista a Theodore White, giornalista di Life, emerge un altro probabile motivo: un pezzo di testa del presidente Kennedy era schizzato sul bagagliaio; Jackie si era alzato per raccoglierlo. Lo aveva rimesso al suo posto. Era evidentemente in stato di choc. Ma era anche Jacqueline Kennedy: avrebbe tollerato che le cose non fossero al loro posto?

Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, a distanza di mezzo secolo, è ancora un personaggio delicato, che impone cautela a chi lo maneggia. Forse addirittura sta diventando più delicata col tempo - ho in mente quella vecchia serie NBC degli anni Ottanta, in cui tutto sommato passava per una signora di buona famiglia ossessionata dagli interni della Casa Bianca - nozione che il regista Larraín o lo sceneggiatore Noah Oppenheim non tentano nemmeno di smentire: si tratta piuttosto di scavarci intorno, di problematizzare la cosa, di spiegare che dietro la cura per soprammobili e passamanerie c'era una riflessione sulla regalità della figura del Presidente, che emergeva ormai dalle brume della prima guerra fredda come l'uomo più potente del mondo. A quel punto era necessario lavorare sui simboli e sulle scenografie: un re deve vivere in una reggia, e sfoggiare una regina consorte. Sennò poi succede come ieri, che ti ritrovi su tutti i giornali una tizia coi piedi sul divano in Sala Ovale, e la cosa potrebbe avere ripercussioni in politica estera.


Un certo tipo di mitologia casabiancana nasce proprio con Jackie, che fu molto criticata in vita per questo (anche dal marito). Oppenheim osa finalmente dichiarare l'evidenza: Jacqueline Kennedy era, nella coppia, la più all'altezza del ruolo. Il marito era un mezzo disastro, un miliardario pasticcione che in tre anni si fece coinvolgere nel flop della Baia dei Porci, nell'escalation del Vietnam, e con la crisi dei missili portò il mondo a un passo dal conflitto atomico. La stampa conservatrice lo trattava più o meno come i liberal ora trattano il nuovo inquilino miliardario. Nel frattempo la moglie trasformava la Casa Bianca in Camelot, che è poi la vera grande eredità del 35mo presidente degli Stati Uniti. Era tempo che Hollywood riconoscesse a Jackie quello che era di Jackie. Senonché ci si è messo in mezzo Pablo Larraín. Una scelta abbastanza bizzarra, ma curiosamente in linea coi tempi, che sono piuttosto confusi.


Ci pensavo l'altro ieri, a Oscar consegnati. Secondo me Hollywood è nel pallone (continua su +eventi!) - non per il caos alla premiazione, quello è un incidente dal quale con un po' di sforzo si può cavare un simbolo, se fossi un mitografo come il giornalista Theodor White - o la stessa Jackie - o Dylan - magari mi ci proverei. Non è neanche Trump il problema (magari lo sarà nei prossimi anni - o magari sarà una soluzione, finalmente c'è un villain all'altezza del ruolo). Secondo me Hollywood non sa più che film premiare. Se la sono tutti presa con La La Land, un film che oscilla continuamente tra il dilettantesco e l'ipercitazionista. Dicevano: 14 nomination sono troppe. Può darsi, ma a chi darle, sennò? Che altri bei film avete visto nel 2016? Siamo onesti: avrebbe dovuto vincere tutto Zootopia. La rosa dei candidati era qualcosa di deprimente. Moonlight è un film che fino a qualche anno fa molti giurati non avrebbero nemmeno visto per intero, un film all'europea, intimista, diciamo pure ombelicale. Ormai il grosso dei budget è concentrato sulle saghe, e le saghe si stanno divorando tra loro: buttano fuori la stessa zuppa sempre più abbondante, sempre più pasticciata, tanto la gente manda giù di tutto.

Non è che non ci siano idee, non è che manchino gli sforzi produttivi coraggiosi. Ma ormai si concentrano sulla tv. Jackie a un certo punto doveva essere una miniserie HBO, e questo spiega in parte lo strano respiro del film - è come se Larraín abbia potuto pescare da una rosa di scene madri, a un certo punto c'è una interminabile mega-sequenza che è un mix di tre finali di tre possibili episodi: Jackie sta parlando al giornalista ma sta anche parlando a un prete, ma sta anche seppellendo Jack, ma sta anche tenendogli in mano il cranio, stretto come un vaso perché ne coli meno sangue possibile. Nel frattempo io mi sto addormentando, ma anche domandando se non è il miglior film che ho visto del 2016; o se non è per caso il peggiore; se Larraín voglia bene a Jackie o se non abbia deciso di prendere in giro gli yanquis in un modo talmente sublime che rischiava di vincerci un Oscar (è abbastanza incredibile che Natalie Portman non l'abbia vinto).




Il film all'inizio doveva farlo Aronofsky con Rachel Weisz, poi si sono lasciati e Aronofsky ha avuto questa pazza idea di proporlo a un regista cileno che a Hollywood non aveva mai lavorato. In un certo senso aveva visto giusto: Jackie era un personaggio perfetto per Larraín. È una pubblicitaria, una mitografa, una persona che vive nel suo stesso racconto. Ma di solito Larraín questi personaggi li racconta da fuori, con un'esibita freddezza, che a Hollywood non si può che stemperare. La Jackie di Larraín è una comunicatrice navigata, ma è anche una donna sconvolta che si aggira per i corridoi della 'sua' casa bianca come Jack Nicholson in quell'albergo. Dice cose molto sottili ma anche cose pazzesche. A un certo punto si lamenta con Bob che l'assassino sia solo un comunista da due soldi: se almeno l'avessero ammazzato per i diritti civili, avrebbe avuto più senso, no? È sotto choc, ma è anche un po' mitomane. Perché il suo autista si ricorda di Lincoln e non degli altri presidenti assassinati? Perché ha abolito la schiavitù? No: perché ci fu un funerale in pompa magna. E quindi ci vogliono più cavalli! Più cannoni! Poi cambia idea. Poi la cambia di nuovo. In una miniserie forse Larraín avrebbe trovato il ritmo. Qui è tutto contratto, mescolato secondo libere associazioni, al punto che sembra un sogno e forse a un certo punto stavo sognando sul serio.

Io la rispetto Signora Kennedy / ma non ho bisogno di fotografie per fornire rispetto... / il mio rispetto nasce da motivi che sono nel mio animo / che non posso toccare / né spiegare... 
Non mi sento meglio sapendo che lei è umana / Lo sapevo da sempre 
Bob Dylan 

Jackie è all'Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:10.
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Dylan sgozza il maiale sul palco del festival vegano di Newport

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No Direction Home: Movie Soundtrack (The Bootleg Series, vol. 7, 2005)

L'album precedente: Bringing It All Back Home
L'album successivo: Highway 61 Revisited

Il proposito originale era ascoltare tutti gli album di Bob Dylan in ordine cronologico, e sopravvivere per raccontarlo. A mettersi in mezzo, oltre al buon senso, gli impegni professionali, gli affetti, la famiglia che preferisce ascoltare Baustelle e/o lo Zecchino d'oro, c'è Dylan stesso che è riuscito a incasinare la propria discografia come nessun altro. Per esempio, un album come No Direction Home va senz'altro ascoltato - contiene materiale inedito di un certo rilievo - ma quando?

Ero tentato di metterlo per primo, perché comincia con due pezzi registrati nel 1959/60 da Robert Zimmerman - o forse si faceva già chiamare "Bobby Dillon" - ai tempi di Hibbing, Minnesota. Sono le registrazioni più antiche che abbiamo della sua voce e sono emozionanti, soprattutto la prima (When I Got Troubles). Dylan quanti anni ha, 18? Maneggia la chitarra in modo rudimentale, ma ha già un'idea molto personale di come cantare il blues. Si intuisce un lungo apprendistato accanto a un giradischi gracchiante a 78 giri. Il ragazzino è già stato iniziato a uno dei misteri della musica nera, quella blue note estromessa dal pentagramma occidentale, né diesis né bequadro, uno spazio impossibile tra un tasto nero e uno bianco del pianoforte. Canta quasi sottovoce, da crooner, lasciando insoluto l'enigma: è vero quel che racconta la sua fidanzata di Hibbing, che prima di una bronchite mal curata nel 1960 la sua voce era diversa, più calda, meno nasale (simile a quella che avrebbe usato ai tempi di Nashville Skyline?) È difficile capire.

La raccolta poi prosegue con alcune preziose registrazioni del periodo acustico, qualche scarto interessante del biennio 1965-66, e alcune versioni dal vivo (tra cui l'unica versione live acustica di Chimes of Freedom). Allora ho pensato che se avessi ascoltato No Direction Home per primo mi sarei rovinato l'effetto sorpresa. Un'altra possibilità era ascoltarlo verso la fine, tenendo conto dell'anno in cui è stato pubblicato, il 2005. Siamo tra Love and Theft e Modern Times: in un momento in cui Dylan riscrive la sua storia, pubblicando il suo primo (e fin qui unico) volume di memorie, Chronicles, e affidando a Scorsese il materiale del film che voleva realizzare nel 1966 ma non era mai riuscito a montareScorsese utilizzerà qualche spezzone per un documentarioNo Direction Home, di cui questo disco è la colonna sonora. Siamo insomma nella fase in cui il 60enne Dylan rovista nei solai alla ricerca dei ricordi di giovinezza, occultando i più imbarazzanti e incorniciando quelli che si accordano con l'autobiografia che si sta costruendo (e di cui Chronicles I è soltanto una sfaccettatura). In questo senso non sarebbe del tutto sballato ascoltare No Direction Home così tardi: acquisirebbe il sapore di una gita in solaio, appunto. Ma se si tratta di un'operazione revisionista, non rischio di avallarla? Se c'è qualcuno di cui bisogna diffidare quando studi Bob Dylan, è il vecchio Bob Dylan. Se pretende che io unisca i puntini in un certo modo, sicuramente vuole che appaia qualcosa e che non si veda qualcos'altro. Ma io non sono qui per aiutarlo a scolpirsi il monumento.


L'idea sarebbe smontare, decostruire, insomma alla fine ho preferito inserire No Direction Home all'undicesimo posto, in quello spazio strettissimo che sta tra due dischi importanti come Bringing It All Back Home (registrato nel gennaio 1965 ma pubblicato soltanto a fine marzo) e Highway 61 Revisited (nei negozi a fine agosto). Basterebbero questi due termini per rendere il 1965 un anno cruciale. Ma in questi quattro mesi succedono almeno altre due cose fondamentali, di cui si può parlare mentre si ascolta No Direction Home:

1. Like a Rolling Stone. Il brano di Bob Dylan più popolare, più venduto, più ascoltato in streaming, viene composto in maggio, registrato il 16 giugno e pubblicato il 20 luglio. Su No Direction Home c'è una famosissima versione live, quella del concerto di Manchester del 1966, su cui torneremo. Ma intanto abbiamo una scusa per cominciare a parlare di Like a Rolling Stone.

2. Il debutto dal vivo con una band, nel luogo forse meno indicato al mondo: il Newport Folk Festival, il tempio degli hipster 100% acustici. Dylan verrà sonoramente fischiato, ma in un certo senso aveva cominciato lui. Su No Direction Home c'è il primo brano dei tre che riuscì a suonare, Maggie's Farm, ed è una cosa notevole. Per essere la prima canzone che suona dal vivo con chitarra elettrica ed amplificatori, Dylan sembra molto promettente.

E dunque ci siamo. ora Dylan diventa una rockstar. Sembra facile: basta scrivere il pezzo giusto al momento giusto, la cosa che la gente voleva sentire. Peccato che sia completamente il contrario. Like a Rolling Stone non è il pezzo giusto, ed è il contrario di quello che sia i suoi fan sia il pubblico mainstream avrebbero voluto sentire. Al punto che la Columbia stava per buttarlo via: un singolo di sei minuti? Mai visto, ridicolo - e poi il cantante qui esagera, altro che blue note, sembra che stoni proprio: c'è un certo tipo di irruenza a fine strofa a cui oggi siamo abituatissimi, ma nel 1965 no. Poi una sera Shaun Considine, un responsabile delle uscite alla Columbia, racconta di essere entrato da Arthur, un club appena aperto sulla 54esima strada dalla prima moglie di Richard Burton, e di aver chiesto al dj di suonare l'acetato: vediamo come va, vediamo se la gente balla. Il pezzo viene chiesto e richiesto finché l'acetato non si consuma. Ok, quindi forse funziona. Però è veramente troppo lungo: così lungo che in un solo lato di un 45 giri non ci sta, la prima versione promozionale per le radio esce con due strofe sul lato A e due strofe sul lato B. Scelgano i dj quale lato programmare, ma di sicuro nessuno vorrà farla ascoltare per intero, no? I dj saranno costretti a mixare i due lati perché sì, il pubblico la voleva ascoltare intera. Primo paradosso: il più grande successo commerciale di Bob Dylan è una delle mosse meno commerciali che abbia mai fatto (e ne ha fatte tante), un brano che non rientra in nessun genere prestabilito: il sound di Like a Rolling Stone non esisteva prima di Like a Rolling Stone. Nessuno aveva mai suonato l'organo come in quel brano Al Kooper (nemmeno Al Kooper). La canzone che la radio programma di più è la canzone meno radiofonica. Per arrivare al secondo posto della classifica ci metterà qualche settimana: nei primi dieci posti ci resterà per tre mesi. Niente male, per un pezzo di vomito.


Perché all'inizio Like a Rolling Stone era questo: un pezzo di vomito, uno sfogo senza capo né coda rigettato su una decina di fogli di carta al Chelsea Hotel, al ritorno dal tour acustico in Inghilterra. Laggiù era successo qualcosa che nessuno ci ha mai davvero raccontato. Sappiamo che si era comportato male con la Baez: lei ogni sera si aspettava di essere chiamata sul palco, certe notti pensava di essere ospite gradita nella suite e non sapeva che Bob viveva già con un'altra persona, Sara. Sappiamo che BD non era contento di quello che stava facendo, che era stanco del suo repertorio - piuttosto vasto, in realtà, e in costante evoluzione: ma evidentemente gli andava stretto. Non ce la faceva più a presentarsi sul palco con chitarra e armonica, ad atteggiarsi a menestrello e cantante di protesta (e se riascoltiamo i primi brani acustici di No Direction Home e li confrontiamo con l'ultimo live al Philharmonic ce ne accorgiamo, che l'ingenuità di Song to Woody ha ceduto il posto a una certa stanchezza: ormai non arpeggia più, stravolge le melodie, morde il freno, si annoia). Sappiamo che stava meditando un ritiro dalla scena e che in un certo senso Like a Rolling Stone parla di questo. Secondo paradosso: la canzone che permette a Bob Dylan di comprarsi una bella villa in campagna... parla di una persona fallita, decaduta, ridotta a vivere per strada. Forse è lo stesso personaggio dell'ultimo brano del disco precedente, It's All Over Now Baby Blue, quello che ora invidia ai barboni i vestiti che aveva regalato. Dylan ora la chiama "Miss Lonely", quindi è una ragazza: ma forse è solo un modo per sottolinearne la fragilità. Chiunque sia, si è rovinata. Ma chi è? Dylaniti e semplici gossippari sviscereranno ogni verso alla ricerca di un indizio. È la Baez, è la Sedgwick, la Rotolo, è un suo collega che continua a far girare il cappello nelle cantine mentre Dylan gira in limousine, è il suo manager che gli sta facendo firmare contratti capestro? Può essere chiunque, va bene, ma a chi stava pensando Dylan davvero? Perché sembra impossibile scrivere una canzone così diretta e cattiva senza pensare a una persona reale.

Qualche anno più tardi BD taglierà il nodo gordiano delle interpretazioni nel modo più elegante. Mi sono accorto, spiegherà in un'intervista su Playboy, che tutti quei "lui", quei "lei", quei "loro" che usavo nelle canzoni erano camuffamenti: che in realtà erano tanti "io". Forse era l'unico modo per ritirare alcune offese - perché è difficile pensare che il fiume di parole poi condensato in Like a Rolling Stone sia stato eruttato senza l'intenzione di offendere qualcuno (e poi a ben vedere non usa "lui" o "lei", almeno in questo pezzo: usa il "tu"). Si era persino immaginato questo nemico "nuotare nella lava". Vomito, lava, c'è qualcosa di vischioso in Like a Rolling Stone. Ci avrebbe messo anni a capire che quel naufrago era lui, e forse erano gli anni necessari a costruirsi una pietosa bugia. Ma voglio prenderla per buona, perché di tutte le piste possibili è la meno pettegola e la più interessante. Al termine del tour inglese, Dylan è esausto del suo personaggio. È tentato di buttare all'aria la sua carriera, ovvero l'unica cosa a cui si è dedicato dal liceo in poi. La sola prospettiva che lo renderebbe libero è una prospettiva di miseria. E BD conosce la miseria. C'è già passato. I primi mesi a New York potrebbero essere stati più brutti di quanto raccontano i biografi canonici; il "mystery tramp" che propone un affare osceno a Miss Lonely potrebbe essere un ricordo imbarazzante che la rockstar non riesce a liquidare. C'è qualcosa di vero e di vissuto nella materia che prende fuoco in Like a Rolling Stone. È questo la rende un oggetto così vischioso. Dev'essere orribile cadere nella lava, ma chi ti vedesse non riuscirebbe a distogliere lo sguardo.

Terzo paradosso: Dylan conquisterà le classifiche americane con una canzone che racconta il contrario di quello che gli americani vogliono sentire di solito. E sappiamo tutti cosa vogliono sentire: un tizio che viene su dal nulla e grazie al suo talento, alla sua dedizione e alla fede in sé stesso, diventa famoso. Un secolo fa li chiamavano rags-to-riches (dagli stracci alla ricchezza), erano un genere letterario, di libri del genere ne usciva uno alla settimana. Oggi ne escono meno, in compenso in tv ci sono i talent. Per quanto irregolare, la storia raccontata dai brani di No Direction Home è un ottimo rag-to-riches: all'inizio c'è solo un ragazzino di Hibbing con una voce particolare e una chitarra approssimativa, alla fine c'è una delle più grandi rockstar del mondo. In mezzo ci sono solo sei anni (oggi in sei anni, per dire, i Baustelle fanno due dischi). Eppure, in fondo a questa storia perfetta, c'è una canzone che racconta la storia opposta: c'era una volta una ragazza che si vestiva così bene, era generosa coi barboni, non è vero? E adesso guarda come si ridotta, guarda come si è conciata, guarda con chi si accompagna. Riches-to-rags. Dalle stelle alle stalle, diciamo in Italia: notate bene, non diciamo il contrario, non ci viene spontaneo.

Sei stata nelle scuole migliori, ok, Miss Solitaria, ma lo sai che ci andavi solo per farti annaffiare? Nessuno ti ha mai insegnato a vivere in strada, ma adesso dovrai farci l'abitudine...

Forse è per questo che Like a Rolling Stone piace così tanto sia ai fan accaniti che a quelli occasionali, e persino a Bob Dylan (una volta lo ha proprio dichiarato: "Like a Rolling Stone piaceva persino a me"). Mentre tutti puntano verso l'alto, è un brano che guarda coraggiosamente verso il basso. Non per indurre a pietà: per contemplare inorriditi l'inferno dal quale si proviene, nel quale si era tentati di ricadere. Con disprezzo puritano, e un'ombra di rimpianto. Perché verso la fine della requisitoria c'è pure lo spazio per un sospetto: forse chi vive sulla strada senza più segreti da difendere è più libero di chi ci torna in limousine e ha paura di riconoscere i vecchi amici.

Quarto paradosso: nel bel mezzo dell'iperbole degli anni Sessanta, proprio quando tutto comincia ad accelerare e le immagini in bianco e nero cedono al colore, proprio quando Pace e Amore sembrano eclissare ogni pensiero negativo, Dylan strappa il fondale fiorito e occupa la scena con un puro atto di rabbia egotica. Altro che Amore, qui c'è gente che dà via il corpo per campare. Altro che Pace, il mondo si divide in leccaculo e in estranei che ti prendono a calci - no, aspetta, sono le stesse persone quando finisci i soldi. Mentre tutti insistono a cercare in Mr Tambourine Man qualche incitazione a drogarsi, nessuno sembra far caso al fatto che Dylan scrive davvero di droga, e non per raccontare di espansione della coscienza, di comunioni mistiche o altre stronzate, ma della paranoia degli spacciatori (Subterranean Homesick Blues) e della miseria disperata dei tossici. Un baratro vischioso che ci ha attirato tutti a un certo punto.

Dopo Like a Rolling Stone, Dylan smette di scrivere poesie, o almeno così racconta in seguito. (C'è anche da dire che Tarantula stava venendo una vera schifezza, ma il contratto con l'editore andava onorato). Smette di pensare a un comunque impossibile ritiro dalle scene. Ha capito cosa vuol essere: vuol essere la persona che scrive e canta pezzi come Like a Rolling Stone. Giudicare ed essere giudicato. E vuole fare un baccano tremendo. A fine estate lo aspettano a Newport, per il solito festival di gente di città a cui piace la musica di campagna. È la terza volta che lo invitano, perché ancora nel 1962 lui non era nessuno: il suo primo disco non gliel'aveva comprato neanche la mamma (del resto lui al tempo diceva ai giornali di essere orfano). Nel 1963 era la giovane mascotte di Joan Baez. Nel 1964 era già il nome più importante in cartellone, ma tra gli organizzatori c'era già chi borbottava: il tizio si sta montando la testa, ora parla solo di sé stesso, non scrive più quei bei brani di protesta come... sei mesi fa. Nel 1965 si può dire che lo aspettassero al varco. Non tutti, ma qualcuno lo avrebbe fischiato a prescindere. Perché insisteva con testi disimpegnati e incomprensibili, perché aveva già pubblicato un mezzo disco non acustico, perché aveva in top10 un brano rock vagamente simile alla robaccia inglese d'importazione, quelle boyband come gli Animals, i Beatles o i Rolling Stones. Perché insomma, si era venduto. Di fronte all'eventualità di essere contestato dai duri e puri, Dylan decide di essere più duro di loro. Farà così tanto baccano che i fischi non si sentiranno. Un attacco preventivo. Guiderà un gruppo rock al festival folk di Newport. Non aveva mai suonato dal vivo con un gruppo, sin dai tempi di Hibbing - solo in sala di registrazione era riuscito a intendersi, e forse si era illuso che il gioco fosse abbastanza facile. Non è un piano lungamente elaborato: come molte decisioni importanti che prenderà, è una questione di pochi minuti. Il festival faceva parte di una manifestazione musicale più grande; c'era anche un padiglione blues, dove suonava la band di Mike Bloomfield, il chitarrista che aveva suonato nella session di Like a Rolling Stone. Grossman, il manager di Dylan, era lì per capire se il gruppo avesse potenzialità commerciali. A presentare c'è Alan Lomax, il musicologo che tanti dischi fondamentali aveva fatto ascoltare a Dylan (la sua segretaria era la sorella di Suze Rotolo). Si fa scappare qualche ironia di troppo al microfono: Grossman se la prende, si mettono le mani addosso. A quel punto Dylan ha un'idea, e la gira a Bloomfield: domani suono al folk festival, ho l'ultimo set. Perché non ci suoniamo con un gruppo? Forse si aspettava che la band di Bloomfield fosse a sua disposizione. Senz'altro pensava che fosse tutto facile, com'era stato facile tutto sommato registrare Bringing. Bloomfield si mise a provinare musicisti a tarda notte. Al Kooper fu arruolato solo perché era già al festival. Kooper era il pianista che si era intrufolato nello studio durante la registrazione di Like a Rolling Stone e si era inventato il riff d'organo (uno strumento che non aveva mai suonato prima d'allora). Il giorno dopo hanno appena il tempo di suonare un paio di strofe per il soundcheck. Non c'è il tempo per regolare i volumi, ma Dylan non se ne preoccupa: è la sua prima volta, magari nemmeno sa come funzioni, un soundcheck. L'importante è suonar forte. Nel film di Haynes, il sipario si apre e il pubblico di hipster tutti pace&amore vengono presi a mitragliate da una rock'n'roll band in giacca di pelle. Come tutte le Storie, anche quella del rock la scrivono i vincitori (continua sul Post)
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Quattro funerali e due divorzi a Manchester (sul mare)

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Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan, 2016).

Hai presente certi ceffi che vedi al bancone, nel tardo pomeriggio o se ripassi all'ora di chiusura, sempre una pinta davanti mezza vuota, hai presente quel tipo di espressione...
"Non fissarlo".
...ma è più una smorfia, di uno che la vita l'ha preso a legnate ma per qualche motivo si è dimenticato di darle il colpo finale, e forse la birra serve a questo, o a lenire il dolore, o a dormire senza sogni, chi può dirlo.
"È meglio se non lo fissi, dammi retta".
È che mi ricorda qualcuno.
"Casey Affleck in quel film?"
Oddio cosa mi hai fatto pensare.
"Con venti chili in meno, magari".
Che è il principale problema di quel film.
"Un problema? Che Casey Affleck è in forma?"
Sono contento per lui e il suo affezionato pubblico, ma interpreta un tizio che, hai presente la trama? Beve una birra all'ora almeno da dieci anni. E ancora ha una linea fantastica...
"Sarà la neve che spala dal suo abbaino".
...ed è il sogno erotico delle inquiline dei palazzi in cui lavora da tuttofare. Allora sì, dico che c'è un problema con i corpi che Hollywood presta al cinema d'autore. Non sono realistici, non mi parlano del mondo in cui abito, non ho niente contro Casey Affleck, gli auguro tutti i premi, ma sembra calato nel Massachusetts da un film di gangster, o di supereroi, è di nuovo lo stesso problema di Captain Fantastic: sono tutti troppo belli perché io me la beva. E bersela è un po' il senso di andare al cinema, no?
"La sospensione dell'incredulità".
Esatto.
"Adesso comincia a fissarti lui, vedi?"
Chissà che gli è successo, poveraccio.
"Non sono fatti nostri".
Perché invece quello che succede a Casey Affleck?
"Eh? Stai scherzando?"
No. Spiegami per quale motivo al mondo dovrei interessarmi all'elaborazione del lutto di Casey Affleck. Un lutto finto, tra l'altro. Come se non avessi già i lutti miei che mi danno da fare.
"Hai bevuto".
Questo in realtà è un altro film, ma è la foto più recente
che ho trovato di Casey Affleck al bancone. 
Un po' sì, ma in malto veritas. Spiegami sul serio: perché devo stare male? Perché mi ha fatto star male, quello stronzo di Lonergan. Mi ha fatto stare in pena per gente che non è mai esistita. Come se non avessi già la mia gente, viva o morta, che reclama attenzione e lacrime, no, devo pure provare pena per questi figurini che patiscono come la gente normale e bevono più della gente normale ma non ingrassano mai.
"Senti. È un film che è piaciuto a tutti. A tutti, capisci?"
E beh certo, chi vuoi che si metta contro dei bambini morti (continua su +eventi!)


"Può sembrarti ricattatorio, ma è un fatto che film di questo tipo funzionino. Forse assolvono a una funzione catartica".
E allora dichiaro che con me non succede.
"Ma sarà un problema tuo, non di Lonergan".
Sono uscito con sette euro in meno e un magone in più. Non dico che mi ci sbronzavo con sette euro, ma poteva essere un buon inizio, no? Ma sul serio ma la gente normale non ce li ha i suoi morti da piangere, che ne deve prendere in prestito di finti al cinema? Non ci ha nessun amico o parente che ti tormenta nei ricordi? Ah ma io vi invidio a voialtri che nel tempo libero giocate all'elaborazione del lutto come se fosse un passatempo.
"Parla piano, adesso ci guardano tutti".
Che io posso capire Nanni Moretti. Perché alla fine ormai è uno che conosco. O almeno ci ha dato questa sensazione. Per cui se Nanni Moretti perdesse un figlio, o una moglie, o una mamma, o il cane, non è escluso che tra dieci anni ci faccia un film su quella volta che ha smarrito il cane, io però comunque ci vado perché, cosa vuoi che ti dica, anche quando non è in forma ormai è un conoscente, Nanni Moretti, e se sta male mi sento in dovere di starci un po' anch'io, funziona così. Non dico che abbia un senso, eh? Però funziona.
"Ma perché tiri fuori Nanni Moretti in birreria, dai..."

E poi il ragazzo è uno stronzetto insopportabile, lo vogliamo dire?
Ma questo Lonergan chi è, che cazzo vuole da me, un Oscar? Li danno ogni tot ettolitri di lacrime inutili spremute a sconosciuti? Cioè non è un problema il ricatto. C'è un sacco di registi là fuori che ti ricatta. Prendi Moonlight: vuoi dirmi che è difficile crescere afroamericani e gay? Ok, lo ammetto, non ci avevo mai pensato tanto, adesso che me lo mostri devo riconoscere che crescere gay in un ghetto è veramente dura. Hai il mio rispetto, mi hai fatto stare un po' male ma mi hai anche insegnato qualcosa. Ma Lonergan porcaputtana, che mi dovevi dire? Ricordatevi sempre di spegnere il camino? Ci ho i termosifoni in casa Lonergan, vaffanculo!
"Va bene, adesso usciamo".
No aspetta voglio dire qualcosa a quel tizio che continua a fissarci.
"Ma sei tu che hai cominciato".
Infatti e adesso vado là e gli rompo il naso. Sembra che me lo stia chiedendo.
"Ma perché vuoi fare una cosa del genere, fammi il piacere".
Perché non posso romperlo a Lonergan, né ad Affleck, il quale peraltro me le darebbe indietro. Invece 'sto tizio è proprio appesantito il giusto, ehi scusa, tizio ci conosciamo?
"Manchester By The Sea è il film drammatico di Kenneth Lonergan in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21. È candidato a sei Oscar, è molto triste ed è piaciuto a praticamente tutti"
No? E allora perché mi fissi, eh? Si può sapere?
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Sarebbe molto meglio dirsi addio

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Stavo pensando che al giorno d'oggi la vera qualità di una coppia si vede dai modi in cui divorzia. C'è gente che sa farlo senza perdere la stima di sé e dell'altro. C'è gente che nella vita non sa fare solo due più due, ma anche tre diviso due: e una volta calcolati resti e quoziente ti stringe la mano, ti chiede di restare in contatto e si fa venire anche una lacrima: non serve a niente ma è un bel gesto. E poi c'è gente che continua a urlarsi in faccia davanti ai bambini. Gente che aveva problemi a gestire l'amore e quindi adesso ha problemi a gestire l'odio, per loro la separazione è un prosieguo dell'innamoramento: ci mettono la stessa morbosa energia.

Stavo pensando a quanto preferirei che i miei politici di riferimento convocassero una conferenza stampa, una sola, in cui spiegano che si sono voluti tanto bene ma si è capito che hanno idee diverse, e soprattutto elettori diversi, e che col proporzionale non c'è proprio nessuna convenienza a restare sotto lo stesso tetto. Anche se fosse un tetto nobile (ma non lo è: son tegole di dieci anni fa appoggiate un po' alla bell'e meglio). E quindi, per quanto doloroso possa sembrare e anche un po' egoista, si è capito che è meglio che ognuno vada per la sua strada. Continueremo a rispettarci, a vedere i bambini secondo i turni che stabiliremo, e ad abbracciarci ogni volta che ci incontriamo, perché ok, ci abbiamo provato, ma siamo persone adulte e sappiamo fare due conti: e i motivi per cui ci siamo piaciuti quindici anni fa sono gli stessi per cui non perderemo la stima reciproca.

Invece di questa infinita manfrina, congresso sì, congresso no, hai detto che lo volevi e adesso non lo vuoi più, lo vedi che sei tu lo stronzo? E tu che avevi promesso che lasciavi la segreteria se perdevi al referendum? Ah ma è stata colpa tua, che non mi hai appoggiato al referendum! Ma perché dovevo appoggiarti se si era capito che andavi a sbattere? Sono andato a sbattere anche per colpa tua! Ma io te lo avevo detto da mesi che sbattevi! Il tutto davanti ai bambini, in streaming, o sulle prime pagine dei giornali che per fortuna nessuno legge perché davvero, se siete convinti che lo scontro D'Alema / Renzi attiri l'attenzione del grande pubblico, non vivete in castelli molto meno fatati di quelli gestiti da Casaleggio Jr.

Quando in realtà è tutto così semplice. Matteo Renzi è una persona con le sue qualità, ma dopo una sconfitta così netta (così tenacemente perseguita) non può più rappresentare una larga fetta dell'elettorato di centrosinistra. Tanta gente che se lo faceva piacere perché vabbè, un po' arrogante, ma almeno vince le elezioni, adesso che ha smesso di vincere non lo sosterrà più. Se i tuoi sgherri tirano fango sulla Cgil un giorno sì e l'altro pure, prima o poi i tesserati voteranno qualcun altro, è un calcolo fin banale: per Berlusconi non era un problema, ma se abiti nel centrosinistra magari sì. E non puoi neanche cambiare atteggiamento all'improvviso: primo perché nessuno ci casca, la fiducia si riconquista in anni e non in mesi; secondo perché non ne sei capace. Ma il bello è che tutto questo Matteo Renzi lo sa: e se vuole ugualmente tenersi il marchio PD, è perché desidera che se ne vadano gli altri. E col proporzionale è meglio così, quindi perché litigare? Che senso ha inacidirsi tutti quanti, col rischio che poi non si riesca nemmeno a lavorare assieme nella prossima legislatura? Che senso continuare a dar benzina sui giornali ai polemisti peggiori, quelli che vivono di litigi e di ripicche come le zecche di sangue? Siamo grandi, sappiamo quanti motivi avevamo per stare assieme, e sappiamo perché adesso non ci conviene più. Abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità per quel che è successo, ma non esiste nessuna bilancia per pesarle, nessun giudice che stabilirà chi aveva ragione chi torto. Men che meno i nostri elettori. Andranno con chi credono meglio, e comportarsi da imbecilli davanti a loro non è una buona idea.
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Dylan prende e porta a casa

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Bringing It All Back Home (1965)

(L'album precedente: Concert at Philharmonic Hall
L'album successivo: No Direction Home).

Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po' di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo - Uh Uh Uh Uh 
Aspetta un momento - Ah Ah Ah Ah 
Vabbe', Take Due.

Se per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l'inizio di Bob Dylan's 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l'hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato - è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence - ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po' di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo "vorrei un blues di 16 battute in la", e si comincia. Vada come deve andare.

È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l'età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell'elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è "elettrico" - ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni '90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all'altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan's 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po' di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.

Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin'. Anche Bringing in certi punti riprende l'attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin'. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin', come l'universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell'album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l'abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock'n'roll elettrico se lo portava dietro sin dall'infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?

subterraneanÈ un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos'è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo - nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde - come biasimarlo? - Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l'ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l'impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin'Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un'idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c'è? Miracolosamente quel giorno non c'è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all'altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l'annuncio di una falsa partenza: "Ero a bordo del Mayflower", canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solo. Ah ah ah, vabbe', ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell'idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l'anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.

È un periodo magico. C'è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l'immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l'icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un'idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c'è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l'ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.

Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l'espressione "porta a casa", che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si "riporta a casa" una vittoria, quando ci spetta di diritto - quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock'n'roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un'altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un'impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io - ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.

Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l'ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l'accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all'ovile, salvo che... dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe', facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni '80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.
Bernacca

Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent'anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny's in the basement, mixing up the medicine) - e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I'm on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. ("Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento"). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta' attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c'era sempre l'esercito. Ma soprattutto: "non seguire i leader, guarda i parchimetri". Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C'è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull'attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent'anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.

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Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero "homesick", ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov'è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato - se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper's Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l'ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt'oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).

Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l'amo lo stesso (Outlaw Blues).

Arnolfini
Arnolfini dettaglioNon doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una "brown-skin woman" in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l'attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin': il che significa che da qualche parte c'è ancora l'italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l'unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l'unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.

Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c'è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)

She belongs to me è un'impossibile metà strada tra il blues e la canzone d'amore: chiunque sia la protagonista ("è un'artista, non si guarda indietro"), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un'antichità che cammina)? È Sara? È l'Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l'assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.

Be' mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c'è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C'è una rissa in cucina, c'è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai?  (continua sul Post)
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L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)

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Moonlight (Barry Jenkins, 2016).

Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.

Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?

Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.

Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)


C'è anche Janelle Monàe,
di mestiere è una cantante matta,
ma qui fa una particina quasi normale.
Come il Gus Van Sant del periodo di Elephant Paranoid Park,  Jenkins sembra convinto che il cinema debba sostanzialmente puntare un faretto su dei ragazzi, senza complicazioni sociologiche e psicologiche che ci turberebbero la contemplazione di questi teneri esserini che non sanno mai cosa dire e fanno i broncetti. Sin da quando attira l'attenzione della macchina da presa fuggendo dai suoi compagni nella prima scena, Chiron non sembra vittima di una società o di un pregiudizio, ma del destino: è nato "faggot", non gli resta che scappare o nascondersi o rispondere alla violenza - unica possibilità di sopravvivere. I suoi stessi avversari non hanno motivazioni né storia, sembrano lì dall'eternità per torturare il prossimo: non è il bullismo, è la natura.
Non è che Moonlight non abbia i suoi pregi (una fotografia d'altri tempi, che tratta con rispetto anche lo sfacelo suburbano), ma è curioso che abbia messo d'accordo praticamente tutti. È un film minimale ed è forse una certa sobria economia di mezzi e di campi che ci fa temporaneamente dimenticare che la storia è quella che hai sentito in un migliaio di rap diversi: man, il mio quartiere era il più duro, mia madre si sballava, sono dovuto diventare grande in fretta (man) e adesso guarda che bei pantaloni che ho, invidioso? Non nego che tutta questa roba sia degna d'interesse antropologico, ma è davvero la stessa lagna da vent'anni, man. L'unica cosa un po' insolita, appunto, è l'omoerotismo, ma somministrato con puritana parsimonia - è un film che tratta il pene come una questione irrisolta e abbastanza astratta, irriferibile e invisibile: lo si può tranquillamente programmare in prima serata. Adele non era così - è anche una questione di gusti, mi rendo conto, ma nel 2016 se vuoi fare un film tutto su due persone che vogliono toccarsi, perché non le inquadri mentre si toccano davvero? Di cosa hai paura? Di non vincere un Oscar e tornare a fare il carpentiere? No, man, ti capisco, e poi in fondo non è la mia roba, boh, guarda, rispetto. Moonlight è al cinema Vittoria di Bra (20:00, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (20:00).
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