Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

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Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.

Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.

Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?




A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.



Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)

Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.

Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.

Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.

E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».

Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.

Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.

È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.

C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
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I 1001 pianeti di Valérian

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Valerian e la città dei mille pianeti (Valérian et la Cité des mille planètes, Luc Besson, 2017).


Da qualche parte al centro di questa città quadrimensionale, vivono i superstiti di un antico e nobile popolo che abbiamo sterminato un giorno senza volere - cose che càpitano quando si esplora la galassia. Non vivono in armonia con la natura: la natura non c'è più. Hanno la loro tecnologia, sviluppata un po' in autonomia un po' rubacchiando quello che passava ai piani superiori. Non è incomprensibile, ma ha le sue stranezze - comunicano col Minitel, hanno le tastiere con la A al posto della Q. Un giorno spiccheranno il volo, verso un nuovo pianeta dove vivere in pace e stagionare altri ottocento formaggi diversi. E ci mancheranno. Sì, proprio i francesi. Lo so, sembra impossibile.

Ma tingerle i capelli proprio non si poteva? Anche in CGI...
Un giorno ci mancherà Luc Besson - per quanto sia così difficile volergli bene. È un tamarro senza scrupoli e senza redenzione. La sua idea di cinefumetto fantascientifico è esattamente quella che aveva Lucas negli anni Ottanta: navi spaziali in fiamme e pupazzoni. In più Besson ci mette tutta la computergrafica che si può permettere con 197 milioni di euro, e non gli resta nemmeno un eurocent per pagare lo sceneggiatore. Questa è la cosa che fa più rabbia, perché sul serio: quanto si può risparmiare se invece di farti scrivere buoni dialoghi, te li fai scrivere scadenti? Il costo di un mostro digitale? Di un attore europeo in ribasso? Tra un'ospitata di Rihanna e una buona storia, tu cosa avresti scelto? È praticamente impossibile voler bene a Luc Besson quando prende uno, anzi due storici personaggi del fumetto fantascientifico francese, e invece di farli battibeccare per tutto il film come due colleghi che flirtano tra una battaglia e l'altra, decide che proprio in quelle due ore devono confessare la reciproca attrazione e fidanzarsi - che cosa imbarazzante, in un cinefumetto del 2017, vedere lui che fa una proposta di matrimonio e lei che fa la difficile perché non vuole essere "una della tua playlist". Se almeno fosse una gag e invece no, man mano che il film perde l'energia iniziale, l'idea banalotta del matrimonio procede per inerzia fino ad assorbirlo tutto. È come se Besson, che in teoria sogna questo film da una vita (e ci ha investito parecchio), fosse persuaso di non avere seconde possibilità: Valérian e Laureline hanno solo un film a disposizione, tanto vale buttarci dentro tutto, immergerli in centinaia di ambienti diversi in due ore (il che andrebbe anche bene) e poi farli sposare come succede nelle fiabe (il che invece no). Il film poi non è andato nemmeno così malaccio come sembrava, per ora siamo a 225 milioni di euro di incasso. Quindi per il sequel che ci dobbiamo aspettare, Valérien e Laureline oltre i limiti della galassia in luna di miele? Valérien e Laureline che litigano su chi deve cambiare il cyberpannolino? Ci sarà un motivo se gli eroi dei fumetti non si sposano mai? E impossibile voler bene a Luc Besson quando cade su queste sciocchezze. Eppure è necessario (continua su +eventi!)

L'idea - molto europea - che la convivenza sia un caos, però un caos che tutto sommato funziona.

Si potesse fare a meno di lui, ne sarei contento. Ci fosse in circolazione qualche altro visionario regista francese in grado di attingere a quell'immaginario autoctono che negli anni Sessanta dava i punti agli americani - ma non c'è. Quel momento in cui il pianeta Francia e il suo satellite Belgio erano gli astri più fiammanti del firmamento, e Mézières e Moebius plasmavano il nostro immaginario, con situazioni più problematiche di quelle che arrivavano da oltre oceano, ma immagini altrettanto suggestive - alzi la mano chi ha trovato l'astronave di Valérian un po' troppo simile al Millenium Falcon, beh, è ovviamente il contrario. Besson non sarà il miglior difensore del patrimonio culturale che rappresenta, ma al momento è l'unico, e quindi viva Luc Besson e i suoi pupazzoni digitali (che comunque reggono il confronto di Avatar). Per quanto sia difficile volergli bene, una volta su dieci ne vale la pena. A volte gli riescono cose impossibili, ad esempio rendere simpatica Cara Delevigne. Mentre Dane DeHaan ha esattamente la faccia da schiaffi che serve a un avventuriero dello spazio. Valerian e la città dei mille pianeti resiste indomito al Monviso di Cuneo, almeno fino a stasera 24 ottobre alle ore 21.
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Una serie di sogni (rari e irrealizzati)

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The Bootleg Series Vol. 1-3 (Rare and Unreleased) (pubblicato nel 1991)


(L'album precedente: Traveling Wilburys Vol. 3
L'album successivo: Good As I Been to You).


Disco Uno

1. Hard Times in New York Town. Registrato il 22 dicembre del 1961 da Tommy Glover, Hard Times descrive con qualche guizzo in meno la stessa situazione di Talkin' New York, e non è dunque la registrazione più antica di Rare and Unreleased. Ma anche stavolta è il punto esatto da cui Dylan vuole cominciare la sua storia: un vagabondo senza un soldo che prende forma sui marciapiedi di New York, in un inverno in cui chi non si adatta muore. There’s a-mighty many people all millin’ all around / They’ll kick you when you’re up and knock you when you’re down.

2. Il brano più antico invece è He Was a Friend of Mine. Non solo perché è stato registrato un mese prima, durante le sessioni del primo album, ma perché la canzone a quel punto circolava già da decenni: era stata registrata per la prima volta nel 1939. È il più generico lamento per un amico caduto (i Byrds lo useranno per piangere J. F. Kennedy). Quando lo incide (1961), Dylan non ne aveva ancora perso uno. Quando lo pubblica, trent'anni dopo, la lista dei compagni caduti lungo la strada è impressionante. Chi non si adatta muore, appunto: Dylan sa adattarsi. Nel '91 cominciamo a renderci conto che è questo che lo rende unico: il più grande superstite della storia della musica popolare.

3. "Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città". A differenza che nei Witmark Demos, stavolta Dylan si ricorda tutte le parole. Man on the Street è uno schizzo hillybilly che non avrebbe affatto sfigurato in Bob Dylan - ma appunto a quei tempi non voleva sembrare troppo hillybilly ("we want folksingers here!" I tre brani scartati dal disco d'esordio parlano di morte - Bob Dylan avrebbe potuto essere un disco perfino più lugubre di quanto non sia.

4. No More Auction Block. (Registrato nell'ottobre 1962 al Gaslight cafe). Quando uscì, nel 1991, il primo triplo volume della Bootleg Series, Dylan era convinto che non avrebbe mai più inciso un disco inedito. Non avrebbe più pubblicato una canzone. Ne aveva scritte fin troppe. Avrebbe continuato a suonare concerti in giro per il mondo, ma la sua carriera di compositore era conclusa. Adesso poteva finalmente ammettere che era nata da un equivoco, una mezza truffa: la sua canzone più fortunata, quella che aveva attirato i riflettori su di lui al momento giusto, non era farina del suo sacco. Dylan aveva preso la melodia di Blowin' in the Wind da un vecchio canto di schiavi (l'"auction block" era il masso su cui venivano esposti gli schiavi durante le vendite). Riproposta trent'anni dopo, sembra una vendetta postuma nei confronti di quel giovane folksinger che sembrava non sbagliare un colpo: credete che sia così migliore di me, chiede il vecchio zio? Guardate che non era quel genio che sembrava, anzi, copiava senza ritegno. Rubava melodie agli schiavi.

5. House Carpenter. Un uomo misterioso torna da un lungo viaggio per proporsi a una ragazza che nel frattempo ha sposato un carpentiere ("house carpenter"). L'Uomo insiste, la donna lascia i tre figli e salpa con lui, ma la nave è diretta all'inferno, l'Uomo è il demonio. The Demon Lover è una ballata scozzese che risale almeno al Seicento - forse in principio il Demone era l'ex primo marito, marinaio. Ho letto che in tedesco "house carpenter" suona "Zimmerman". Nel 1991 Dylan era appena tornato sull'argomento, con The Man in the Long Black Coat. Nel 1993 inciderà un intero disco di antiche ballate. Ci stava prendendo gusto.

6. Talkin' Bear Mountain Picnic Massacre Blues. Registrata il 25/4/1962 durante le sessioni di The Freewhelin'. Dylan le preferì un altro talkin' blues, Third World War. Questo è il primo talkin' che ha composto, ed è già sardonico al punto giusto. Da quanto tempo non ascoltavamo un talkin'? O in generale, una canzone di Dylan che facesse un po' ridere? C'è stato un momento terribile in cui Dylan ha smesso del tutto di fare il buffone - tra Blonde On Blonde e l'incidente, direi. In seguito, anche quando ci ha provato (con Self Portrait?), mancava sempre qualcosa; come se avesse perso i tempi comici.

7. Let Me Die in My Footsteps è una delle prime canzoni composte da Dylan, scartata da The Freewheelin' quando il disco era già in stampa: forse per renderlo un po' meno politico dopo che gli avvocati avevano chiesto la rimozione di John Birch. Secondo me è una delle canzoni più importanti del primo Dylan, all'intersezione dei suoi due grandi argomenti sociali: la bomba atomica e i contadini del Midwest. Qui appunto c'è un contadino del Midwest che non vuole entrare in un rifugio antiatomico - un eroe di poche parole che vuole morire sui suoi piedi. I don’t know if I’m smart but I think I can see / When someone is pullin’ the wool over me. And if this war comes and death’s all around... let me die on this land ’fore I die underground (mi fa piangere). (Se nei 40 anni successivi il Midwest avesse avuto un Bob Dylan in più e un telepredicatore in meno, oggi Trump sarebbe un palazzinaro qualsiasi).

8. Rambling, Gambling Willie è un altro dei pezzi scartati all'ultimo momento da The Freewheelin' (si sente anche nei Witmark Demos). Ma mentre Let Me Die nel 1991 sembrava la preistoria di Dylan, Rambling Gambling offre uno sguardo sul suo futuro: un tizio che gira il mondo a bluffare, suscitando incredulità e ammirazione, macinando soldi per i bambini e le ex che a casa hanno smesso di aspettarlo. Un giorno qualcuno lo farà secco al tavolo, ma nel frattempo dimmi se non è una bella vita. And it’s ride, Willie, ride, roll, Willie, roll; wherever you are a-gamblin’ now, nobody really knows.

9. Talkin' Hava Negeilah Blues. Risale forse al periodo pre-Oswald in cui aveva amici che andavano a Cuba di nascosto e la cosa gli sembrava ancora divertente. L'invocazione blasfema "Havana" si trasforma nell'inno ebraico Hava Nagila, orrendamente storpiato da un hipster che dice di averlo "imparato in Utah". Forse sta prendendo in giro i sionisti, forse gli hipster, forse è ubriaco, forse tutte e tre le cose, ma nel frattempo su wiki ho imparato che Hava Negila è stato composto su un'antica melodia ucraina. Anche la famiglia Zimmerman, non veniva da quelle parti? Dylan ha cancellato la vecchia melodia e l'ha rimpiazzata col talkin' blues. Incredibile che si possa raccontare la storia della propria vita anche quando si canticchiano sillabe a caso.

10. Quit Your Low Down Ways. Già sentita nei Witmark Demos. Roba forte, delta blues senza vergogna. Dylan scende all'inferno e s'informa sul prezzo dell'anima di Robert Johnson. Troppo cara.

11. Worried Blues. Brano tradizionale (non è un vero blues) inciso durante le sessioni di The Freewheelin' (9/7/1962). The Bootleg Series 1-3 è la prima antologia di Dylan a rispettare l'ordine cronologico - così bellamente ignorato in Biograph. Quando uscì, sembrava davvero la conclusione di un percorso. Fine della storia, inizio dell'archeologia.

12. Kingsport Town. Un altro brano di riscaldamento dalle sessioni di The Freewheelin', le pene d'amore di un cowboy braccato dalla legge. Sono canzoni semplici, suonate con cura e attenzione: non ci posso fare niente, le trovo più ascoltabili di qualsiasi cosa Dylan abbia tentato negli anni Ottanta. Anche lui forse riascoltandosi potrebbe essere giunto alla medesima conclusione: ma se mi rimettessi a registrare canzoni altrui con chitarra e armonica?

13. Walkin' Down the Line. Demo per i trascrittori della Witmark - mi piacerebbe poterli vedere, mentre cercano di trascrivere "My money comes and goes and rolls and flows and rolls and flows through the holes in the pockets in my clothes".

14. Walls of Red Wing. La descrizione iperbolica di un riformatorio giovanile, su una melodia clonata dal folklore scozzese. Registrata nell'aprile del 1963, scartata da The Freewheelin', rispuntò fuori durante le session di The Times They Are A-Changin'. Ma a quel punto Dylan non aveva più bisogno di esagerare.

15. Paths of Victory. Le note dicono che è già una prova per The Times..., ma è accompagnata col pianoforte (e l'armonica), sembra più materiale da Witmark. In questo caso stava cercando un inno che si potesse cantare durante una lunga marcia - senza trovarlo, forse.

16. "Questa si chiama Talkin' John Birch Blues. E non c'è niente che non va in questa canzone". È la versione del concerto di ottobre al Carnegie Hall - la più divertente, quella in cui se la prende col postino.

17. Who Killed Davey Moore? Tratta dallo stesso concerto al Carnegie Hall (l'abbiamo ascoltata in una versione più tarda, al Philharmonic Hall). Continua a sembrarmi un pezzo straordinario, che mostra quanto fosse lucido il Dylan impegnato del 1963, prima di decidere di cambiare completamente strada. Pezzi come Hattie Carroll e Davey Moore sono dispositivi impeccabili - Dylan aveva capito come fare retorica senza mostrarne troppa.

18. Only a Hobo. Un altro barbone che non canterà più. Scartato anche dalla scaletta di  The Times They Are A-Changin'.

20. Moonshiner. Una delle cose più oscure e toccanti del Dylan acustico, la confessione spietata di un alcolista ("Moonshine" è il liquore fatto in casa). Il brano - non originale - lo avevamo già ascoltato tra i nastri del Gaslight. A quanto pare era ancora in lizza per entrare nel terzo disco, dove sarebbe sembrata  troppo pessimistica.

20. When the Ship Comes In. La non fondamentale versione al pianoforte, registrata per la Witmark. È il brano che Dylan ha suonato alla marcia su Washington e, più di vent'anni dopo, al Live Aid. In entrambi i casi non si capisce bene cos'avesse in mente. Forse è una di quelle profezie che capisci solo quando si avverano.

21. The Times They Are A-Changin'. Versione al pianoforte per i trascrittori della Witmark (in effetti tirare giù gli accordi di chitarra di Dylan doveva essere uno sbattimento).

22. Last Thoughts on Woody Guthrie. Quando si gioca a "chi ha inventato il rap", qualcuno tira mai fuori questa cosa? Sette minuti di versi a mitraglia, senza interruzioni - non si capisce onestamente come faccia a respirare. Il testo di un inno a Woody Guthrie che Dylan non sarebbe riuscito a cantare (né a imparare a memoria), letto al pubblico del New York City's Town Hall il 12 aprile 1963. La dimostrazione di un talento che sembrava incontenibile: servivano nuovi strumenti, nuovi modi per cantare che sarebbero arrivati molti anni più tardi. Dylan cercò di inserirlo nel disco live che la Columbia voleva pubblicare - poi non ne fece niente e i Last Thoughts diventarono una curiosità per collezionisti. E il rap lo inventò qualcun altro (Continua sul Post...)
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Cesare Battisti (odiarlo è così facile)

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Ancora una settimana di tregua, e poi torneremo a odiare Cesare Battisti. Il 24 ottobre la Corte Suprema brasiliana esaminerà la sua situazione, e a quel punto forse capiremo se ci sono i margini per un’estradizione in Italia di quello che ormai è diventato – suo malgrado – il più famoso terrorista italiano. Al punto che il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, di recente l’ha tirato in ballo mentre chiedeva giustizia per “gli anni dello stragismo”. Ci sarebbe quel piccolo particolare che Battisti non è uno stragista, ma l’errore è comprensibile. A Di Maio serviva un esempio famoso, un tizio di cui negli ultimi anni si è sentito parlare, una faccia vista in tv: e negli ultimi dieci anni l'onere di interpretare il ruolo d irriducibile degli anni di piombo è toccato a lui.

Ha anche la faccia giusta, diciamolo, perfetta per i titoli di un tg: troppo spesso ai fotografi ha mostrato quel tipico di ghigno da criminale impunito. Mentre i volti di tanti altri reduci dello stesso periodo sbiadiscono negli archivi cartacei, lui continua a trovarsi davanti ai flash delle macchine digitali, e a volte la cosa sembra piacergli: dopo l’ultima scarcerazione, all’aeroporto saluta i giornalisti alzando il boccale di birra che ha in mano – ovviamente scriveranno che stava brindando. Nel frattempo in giro per il mondo c’è almeno una trentina di terroristi latitanti, ma Battisti è l’unico che fora il video. Alessio Casimirri, uno dei brigatisti rossi che falciarono la scorta di Aldo Moro, ha sei ergastoli da scontare: gestisce un ristorante a Managua. Un po’ più vicino si è fermato un suo complice, Alvaro Lojacono, che ha acquisito la cittadinanza svizzera. Casimirri e Lojacono rientrano nella definizione tecnica di stragisti, ma è possibile che Di Maio non ne abbia mai sentito parlare: non hanno più bisogno di scappare e non fanno più parlare di sé.

(Ho scritto un pezzo per TheVision, sul solito caso Battisti).
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I replicanti sognano Blade Runner analogici?

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Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017)


Il passato non esiste. I tuoi ricordi sono solo un innesto. Non è sempre stato così, ma un giorno c'è stato un black out e tutti i ricordi che avevi - le foto da bambino, i tuoi film preferiti - puf, è sparito, come lacrime nella pioggia. Non ci credi. Vuoi che facciamo un test?

Ho appena citato un film famoso. Ti ricordi quale?

Bene.

Ti ricordi quando l'hai visto per la prima volta?

Vedi?

Il primo a rompere l'omertà è stato Zerocalcare. Nei giorni successivi, qualcun altro ha trovato il coraggio di ammetterlo: uno dei problemi di Blade Runner 2049 è che è il seguito di un film che siamo tutti convinti di conoscere, ma non ci ricordiamo di aver visto. C'è senz'altro una spiegazione razionale al fenomeno. Quando uscì al cinema eravamo troppo giovani - e comunque floppò. Era stato messo insieme da Ridley Scott con tanta ambizione e pochi soldi. La storia faceva acqua, alcuni dialoghi non avevano senso, l'atmosfera era azzeccatissima ed ebbe un effetto dirompente sul nostro immaginario - uno stacco netto dai futuri postatomici degli anni precedenti - per cui negli anni Novanta anche se non guardavi Blade Runner te lo ritrovavi replicato in tutto il cyberpunk, persino nei fumetti della Bonelli: dappertutto pioggia, inquinamento, grattacieli, androidi tristi. Nel frattempo uscirono varie riedizioni, una director's cut che non piacque al director, cui seguì la director's cut della director's cut - a quel punto forse noi vedemmo per la prima volta Blade Runner, ma eravamo già in quell'età in cui ci vergognavamo a dire di non averlo già visto, e così programmammo noi stessi per dire: "l'altra sera ho rivisto Blade Runner". E si sa come va con l'autoprogrammazione, no? Convinci più te stesso che gli altri. Ormai era il 2000 e la gente si era messa a scrivere su forum e blog, e ogni tre righe citava "Ho visto cose che voi mortali". Tutti sembravano conoscerlo a memoria, Blade Runner. Ma più che la storia tutti citavano quel monologo senza senso improvvisato dal grande Rutger Hauer che sembra arrivato all'ultimo momento da qualche altro set di fantascienza ("navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione"?), e poi l'atmosfera, eh, l'atmosfera. La pioggia, le pubblicità luminose, il sushi. Ok. È un innesto.

Non è successo. Non hai mai visto veramente Blade Runner. E forse è meglio così. Ora sei libero di guardarti un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve, e di amarlo od odiarlo per quello che è. Un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve. Meglio di quello di Scott? E che ne so?

(Spoiler: in una delle scene più apparentemente gratuite, il grande demiurgo (che è Jared Leto, ma anche un po' Villeneuve) gioca a resuscitare il passato. È un gioco che ultimamente abbiamo già visto in tutti i film di fantascienza ad alto budget, quindi l'effetto sorpresa ormai è andato. Salvo che stavolta il demiurgo resuscita il passato, lo trova insoddisfacente e lo uccide. Ed ecco che una scena che sembrava poco interessante diventa il senso del film).


C'è stato un blackout, davvero. Tutto quello che ci ricordiamo è andato perso, perché anche se non siamo replicanti (e chi dice che non lo siamo?) la nostra memoria funziona come quella dei computer - la nostra memoria è quella dei computer: o è condivisa, o scompare. Nel 2049 di Villeneuve, il Blade Runner originale non esiste più. Solo qualche frammento audio. Per quanto tu possa cercare di riprodurre fedelmente qualche dettaglio, commetterai sempre un errore fondamentale: sbaglierai il tono di voce, o il colore degli occhi. Tanto vale buttare via anche i frammenti e ricominciare da zero. Restano i sogni - brandelli di ricordi incontrollabili - ma anche di quelli come ti puoi fidare? Lascia perdere. Il passato non esiste, guarda avanti. Una volta forse il mondo era molto migliore, ma è stato tanti anni fa e non ti riguarda.

Villeneuve ha una padronanza dei mezzi che ti fa dubitare della sua umanità... (continua su +eventi!) Il suo futuro è ammuffito e arrugginito come dovrebbe essere. Anche gli ologrammi smaglianti a volte vanno in crash. Il casting è perfetto - se Ryan Gosling era nato per interpretare un replicante, strappa l'applauso il modo in cui Leto, Ana de Armas o Dave Bautista vengono adoperati sempre al meglio delle loro capacità (quando l'ex wrestler Bautista inforca quegli occhialini, ti sembra il più umano di tutti).



A Villeneuve non interessa se il tal personaggio è replicante o no - siamo tutti replicanti a modo nostro. Ci crediamo speciali perché abbiamo dei ricordi che lui sa fabbricare in serie. Villeneuve non si preoccupa troppo di mantenere l'atmosfera del primo film ed è forse questo il motivo per cui in alcune sequenza, con naturalezza, ci riesce. A Villeneuve interessava fare un film di fantascienza cupo, nebbioso, imbastito su un'idea di futuro coerente, e c'è riuscito. A Villeneuve interessava un certo ritmo lento, e la cosa infastidisce soltanto nell'ultimo terzo, quando lo sforzo di reintrodurre sul set Harrison Ford allunga i tempi a dismisura. Si poteva fare diversamente? Secondo me no. A questo punto sono portato a fidarmi di Villeneuve come di un'intelligenza artificiale: se il film è troppo lungo, si vede che non c'era modo di accorciarlo senza ottenere un prodotto inferiore. Sta floppando? È un Blade Runner, che ti aspettavi? Gente che fa la fila per vedere un futuro prossimo dove mangeremo millepiedi e flirteremo coi sistemi operativi? (Eppure dopo una settimana l'ho visto in una sala ancora piena, ero il primo sorpreso a vedere che la gente non uscisse a metà).

Anche ammesso che Villeneuve sia un umano, ormai è certo che non è americano. Il suo Blade Runner è la storia di una creatura che non si crede speciale; che lentamente cede alla tentazione auto-indotta di credersi speciale; ma non lo è: ed è qui che Villeneuve fallisce clamorosamente il suo test di americanità. Il che non significa che non possa ancora rendersi utile, e provare riconoscenza per chi lo creato e ha creato i suoi ricordi. Saranno anche innesti, ma restano le cose più belle che abbiamo. Forse non abbiamo mai visto Blade Runner, ma è lo stesso dentro di noi. Oggi più che vent'anni fa. Blade Runner 2049 è al Cityplex di Alba (15:30, 18:30, 21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo) (14:45, 17:10, 20:30, 21:30), al Vittoria multisala di Bra (17:30, 21:00), al Fiamma di Cuneo) (14:50, 18:05, 21:15), al Multilanghe di Dogliani (17:40, 20:45), ai Portici di Fossano (15:30, 18:30, 21:30), al Baretti di Mondovì, (21:00), al Cinemà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
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Dylan sfruttatore di sé stesso

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Under the Red Sky (1990)
(Il disco precedente: Oh Mercy
Il disco successivo: Traveling Wilburys Vol. 3)

Sguscia sguscia, come una regina zingara
sguscia sguscia, tutta vestita di verde,
sguscia sguscia, finché la luna è azzurra
sguscia finché la luna ti vede

Lo senti quel battito, tutti gli strumenti all'unisono? È tornato il vecchio-zio-Dylan, dalla sua strana vacanza in Louisiana. È tornato in California e si è già rimesso la giacca di pelle di Down in the Groove. Temeva che Lanois ci stesse addormentando ed è tornato a farci ballare coi suoi rock and roll fuori tempo, fuori senso, fuori tutto. Porta in regalo una valigia di filastrocche meno ispirate di quelle che aveva quand'è partito. Ha una voce più gracchiante e chioccia del solito - vecchio zio Dylan, ci sei mancato. Temevamo quasi che fossero finiti gli anni Ottanta. Temevamo quasi che ti fossi rimesso a fare dei bei dischi - giusto per la tigna di fregare un'altra volta i critici che ti davano spacciato nel 1980, nel 1970, nel 1966. E invece eccoti qui, stonato e scazzato al punto giusto. Caro vecchio zio Dylan, se non ci fossi tu.

 
(La spiccata allergia per i fotografi, in quel periodo, è forse il motivo per cui la copertina di un disco del 1990 è una foto del viaggio in Israele (1983).



Insomma avevo fatto quel disco con Lanois nel 1988. A quel punto stavo già facendo un centinaio di show all'annoAvevo deciso di rimettermi a fare concerti, una cosa che non avevo più pensato davvero di fare dal 1966. Alcuni artisti fanno un sacco di sacrifici per registrare un disco - bruciano una gran quantità di tempo ed energia. Io lo avevo fatto con Lanois, e aveva funzionato abbastanza bene. Ma più o meno nello stesso periodo stavo facendo un disco coi Traveling Wilburys, e poi avevo cominciato quest'altro disco con Don Was, Under the Red Sky. Tutto questo stava succedendo nello stesso periodo. A ripensarci adesso sembra inimmaginabile. Mi capitava di mollare i Wilburys e scendere al Sunset Sound a registrare Under the Red Sky, il tutto allo stesso tempo perché il tal giorno avrei dovuto essere a Praga o da qualche altra parte. Ed entrambi i dischi, li lasciavo lì sospesi e poi più tardi sarei tornato a vedere com'erano venuti. 

Elton John. David Crosby. George Harrison. Steve Ray Vaughan. Bruce Hornsby. Slash, quello dei Guns'n'Roses. Se vi dicessi che c'è un album del 1990 in cui hanno tutti collaborato, prodotto dal grande Don Was, cosa mi rispondereste? Scommettiamo che è uno di quegli inutili dischi di zio Bob in cui suonano tutti una particina che qualsiasi turnista rimediato nei sottoscala della Columbia avrebbe inciso senza che si notasse la differenza? Sei davvero così prevedibile, zio Bob, è il motivo per cui ti si vuole bene. Che altro avevi? Problemi con le partner? Un divorzio in arrivo? Problemi con l'alcool? La voce un po' fiacca? Ma non ci dire. Quando Clinton Heylin licenziò le bozze di Jokerman, il disco era così fresco che aveva preferito non parlarne - più che un nuovo album era un ulteriore sintomo di una situazione preoccupante. Non dava più interviste, non faceva soundcheck, si presentava sul palco col volto quasi del tutto coperto. Anche in sala di registrazione si presentò spesso con "quel cappuccio del cazzo e gli occhiali scuri", come disse Slash, che racconta di averne visto solo il naso. Insomma stava un po' peggio del solito. Però doveva fare un disco lo stesso. Ma perché?

Not one more night, not one more kiss
Not this time baby, no more of this
Takes too much skill, takes too much will
It’s revealing

Non è il Tempo e non è l'Amore. Non è la guerra e non è il passato. La Musa più assidua di Dylan, quella cui dobbiamo il maggior numero di dischi e canzoni, la sua più grande ispiratrice, è sempre lei: la Scadenza Contrattuale. Come non pensare a lei mentre ascoltiamo i nonsense di Under the Red Sky, le filastrocche buttate lì in mezz'ora sugli stessi giri blues che suonava già nel 1964, gli sgorbi di canzoni che avrebbe dovuto finire ma l'amica Scadenza urlava: non c'è tempo! e allora vabbe', è andata così anche stavolta, arrivederci alla prossima. Scadenza Contrattuale, quanti crimini in tuo nome. Quanti dischi non per forza brutti, ma poco convinti, tirati via, mandati fuori per disperazione quando sarebbe bastato aspettare qualche mese, qualche anno. Ma chi è poi che ti ha mandato, Scadenza Contrattuale? Perché tanto infierisci sul povero Bob Dylan? Da quale altro grande vecchio del rock si pretendeva ancora un disco all'anno nel 1990? Che senso aveva spremerlo così? Era la Columbia ad averlo messo alla catena, o non era lui a insistere con una tabella di marcia che avrebbe sfibrato una rockstar con metà dei suoi anni? Al Toad's Place di New Haven una sera suonò per cinque ore. A un tizio che gli chiedeva una canzone a un certo punto disse, ehi, me ne hai chieste già cinque e te le ho suonate. Il Grande Bob Dylan. Il Mito Distante e Scostante. Si stava tirando il collo da solo, e per cosa, per chi? I figli, d'accordo (secondo Carolyn Dennis, ne ha "otto o nove"). Un sacco di avvocati, le pedine di una ventennale battaglia col suo vecchio manager Grossman. Tutto questo basta a spiegare perché nel 1990 Dylan, sulla soglia della cinquantina, registrava due dischi mentre stava ancora promuovendo il precedente?



Era il 1990. Un artista di una major, nel 1990 pubblicava in media un disco ogni 18 mesi. Meno di così non avrebbe avuto senso - se il disco funzionava si estraevano tre, quattro singoli, e ognuno doveva godere della giusta esposizione radiofonica e su MTV. I più famosi diradavano ancora di più le uscite. Tra Nothing Like the Sun The Soul Cages Sting fece passare quattro anni. Dopo Tunnel of Love (1987) Springsteen attese un anno in più - e poi ne fece uscire due, ma nel frattempo Dylan ne aveva incisi tre in studio e uno dal vivo. Nello stesso periodo si stava deteriorando il rapporto tra Prince e la sua casa madre, la Warner, che non solo lo aveva svezzato sin da piccolo (come la Columbia con Dylan), ma si era impadronito del suo nome registrandolo come un marchio. Prince continuava a registrare come un matto: avrebbe voluto e potuto uscire con uno o più dischi all'anno, mentre la Warner preferiva rallentare per non inflazionare il mercato.


È un dandy alla mano, circondato da polemiche. Ha fatto il giro del mondo, e rieccolo qua. Qualcosa nel plenilunio ancora lo tormenta - Dandy-Alla-Mano, zucchero e canditi. Se ogni osso del suo corpo fosse rotto, non lo ammetterebbe.

L'urgenza di registrare di Prince, però, era imputabile a un'ispirazione debordante - una necessità di liberarsi della troppa musica che aveva in testa, che aveva nelle mani. Dylan, tutte queste idee, queste canzoni, non le aveva. E però in un qualche modo il suo disco all'anno, fino al '90, doveva farlo uscire. Dopo aver cucinato gli avanzi in Knocked Out Loaded, per Down in the Groove si era ridotto a servire agli invitati pietanze altrui, acquistate in fretta in qualche equivoca rosticceria sotto casa. Per Oh Mercy si era presentato in Louisiana quasi a mani vuote; e se in un qualche modo il duro lavoro con Lanois aveva dato qualche frutto, resta il mistero: perché affannarsi così? Sei un mito vivente, hai ancora gente che ti adora e ti compra i biglietti ovunque tu suoni: perché devi affliggerli con tutti questi dischi inutili? Quando capirai che di tutti i suicidi artistici, il tuo è il più lento e doloroso?

Tutte queste cose succedevano nello stesso periodo di tempo, e fu allora che capii che davvero ne avevo abbastanza. La mia parte razionale non sapeva più cosa farci. Avrei mantenuto il mio proponimento e non avrei più fatto dischi. Non sentivo il bisogno di annunciarlo, ma avevo comunque raggiunto questa conclusione. Non m'interessava più incidere. Preferivo suonare on the road. Registrare era una cosa troppo cerebrale. Inoltre, sentivo che non stavo scrivendo le canzoni che avrei voluto scrivere. Non ricevevo l'aiuto che mi serviva per registrare bene, non mi piaceva il suono dei dischi... non mi ricordo bene. Era solo... una cosa conduce all'altra, capisci? Mi resi conto che non ne potevo più. 

Non deve essere stata per forza la Columbia, a insistere per avere un disco all'anno: ma nemmeno fece niente per evitare che il suo più prestigioso artista si buttasse via così. Sarebbe bastato dirgli, ehi Bob, come va? Abbiamo sentito qualcosa delle tue ultime sessioni con Don Was e... forse è meglio prendersi un po' di riposo, che ne dici? Sì, certo, Don Was ci sarà costato un po'. È un grande professionista. Però... sai, tu ti stai già esponendo parecchio coi Wilburys che vanno fortissimo (anche se incidete per la Warner) e forse per quest'anno è sufficiente. Magari prendiamoci un annetto sabbatico, facciamo cassa con qualche inedito, e gettiamo i semi per un Grande Ritorno vecchio stile, che ne dici? Qualcosa che magari si riesca a piazzare non dico nella Top10, ma nella top30. Under the Red Sky negli USA si fermò a #38. È a oggi uno dei suoi dischi meno venduti. La cosa deve aver sorpreso soltanto Dylan, che da Don Was si aspettava un rilancio commerciale.

La storia la scrivono i vincitori, e così noi oggi consideriamo Under the Red Sky un incidente, un intermezzo dimenticabile tra i dischi della terza maturità di Dylan, i due registrati con Lanois e i due acustici. Ma quando uscì, Under the Sky diceva una sola cosa: che il metodo Lanois aveva fallito. Era Oh Mercy l'eccezione: Dylan era tornato in California e aveva ricominciato a registrare come negli anni Ottanta, alternando session intensive a lunghe pause, a volte rese necessarie da un fitto calendario di concerti. Dietro le manopole aveva di nuovo convocato un grande produttore molto aggiornato sui suoni che andavano in classifica nel momento: nel 1979 era Jerry Wexler, nel 1986 Arthur Baker, nel 1990 ecco Don Was. Quest'ultimo forse era un po' più lungimirante di Baker, un po' meno compromesso con le tendenze più effimere del decennio precedente (quella cazzo di batteria ecc.), forse semplicemente più abituato a infiocchettare qualsiasi merda gli dessero da registrare - fatto sta che Under the Sky risulta un ascolto meno fastidioso di Empire Burlesque, ma se possibile più deprimente. È tutto molto ben suonato e quasi del tutto inutile. Don Was se non altro dimostra di avere un'idea chiara di come dovrebbe suonare un disco di Dylan: un'idea che si è cristallizzata più o meno tra Like a Rolling Stone Blonde On Blonde e prevede che il pianoforte svirgoli in libertà mentre le chitarre squillano accordi in maggiore. In alcuni brani viene per l'occasione riconvocato persino l'artefice di quel vecchio suono, Al Kooper: costretto una volta ancora a riprodurre in laboratorio quello che un tempo era stato un espediente spontaneo. Suonerebbe artificiale anche se Dylan avesse qualcosa da dire, ma non è quasi mai il caso. "One by one, they followed the sun / One by one, until there were none / Two by two, to their lovers they flew / Two by two, into the foggy dew". C'è anche l'ipotesi che fossero le filastrocche che Dylan cantava alla sua bimba di quattro anni, accreditata come "Gabby Goo Goo" nelle note di copertina. Sì, ma ti ricordi quando i bambini gli ispiravano Man Gave Name to all the Animals? Quelli erano tempi.

Il risultato più notevole del combo Dylan/Kooper/Was è Handy Dandy, che nasce in coda a un'improvvisazione di Like a Rolling Stone. Lo racconta lo stesso Was: a un certo punto stava suonando il basso con gli altri due e quelli si mettono a suonare Like a Rolling Stone: che emozione. Finché la progressione del ritornello non si trasforma in qualcosa di più simile a Louie Louie, Dylan si mette a improvvisare versi su un musicista balordo, ed è più o meno buona la prima.

Handy Dandy, ha un mazzo di fiori e un sacco pieno di dolori. Finisce il suo drink, si alza e dice: "Ok, ragazzi, ci si vede domani". 



Forse a un certo punto Dylan aveva pensato semplicemente di fare un disco tranquillo, un po' estemporaneo, tra amici, insomma un disco alla Wilburys. Unbelievable è un rock allegro che inizia con lo stesso fraseggio di chitarra che usava George Harrison in Honey Don't - e magari la sta suonando davvero Harrison, quindi che male c'è? Certi brani alla fine sono talmente nella media che ti domandi se non potrebbero stare in qualsiasi altro disco di Dylan. Cat's in the Well alla fine è Outlaw Blues, rifatta venticinque anni dopo con strumentazioni migliori e un testo più scemo. Però dal vivo l'ha suonata trecento volte, Outlaw Blues una volta sola. Una cosa sconcertante di Under the Red Sky è che contiene alcuni brani a cui non daresti il minimo credito, e che invece sono diventati cavalli di battaglia delle sue successive esecuzioni dal vivo. Il brano omonimo è una canzoncina macabra come potrebbe inventarsela un bambino di sei anni dopo che gli hai raccontato Hansel e Gretel.

There was a little boy and there was a little girl
And they lived in an alley under the red sky...

[E adesso cosa canto? Bah, ripeto i primi due versi un po' più accelerati:]

There was a little boy and there was a little girl, and they lived in an alley under the red skyyyy...

Sembra uno scherzo scemo, il modo di perpetuare due tradizioni: (1) inserire il brano più debole al secondo posto della scaletta; (2) usare il titolo del brano più debole come titolo dell'intero album (come in John Wesley Harding. Alla Columbia si erano lamentati perché Oh Mercy non aveva una title track, beh, eccovi accontentati). Poi uno va a vedere se per caso abbia mai cantato Under the Red Sky dal vivo e misericordia! 148 esecuzioni in poco più di vent'anni. Magari nel frattempo è migliorata, è diventata una canzone interessante. Lo spero per Dylan e per i suoi ascoltatori. TV Talkin' Song non è purtroppo il talkin' blues che sembra promettere dal titolo (per quanto la melodia sia ridotta al minimo), ma è l'unico brano in cui Dylan non si accontenta di dispensare filastrocche o fesserie da anziano al parco. Anzi, sembra il brano in cui Dylan per la prima volta si pone il problema: come posso fare a lamentarmi della modernità senza sembrare un anziano al parco? L'espediente è immaginare che tutte le cose brutte che vorrebbe dire sulla TV, Dylan non le stia affermando in prima persona. Sta solo riferendo quello che ha sentito dire da un predicatore a Hyde Park (pare sia successo davvero, Dave Stewart testimone).

"The news of the day is on all the time
All the latest gossip, all the latest rhyme
Your mind is your temple, keep it beautiful and free
Don’t let an egg get laid in it by something you can’t see”
“Pray for peace!” he said. You could feel it in the crowd
My thoughts began to wander. His voice was ringing loud
"It will destroy your family, your happy home is gone
No one can protect you from it once you turn it on”

Ok, sembrano proprio le fesserie di un anziano al parco. Fate la prova: rileggetele a qualcuno che non conosce il titolo della canzone; chiedetegli di cosa sta parlando. Di Facebook? Internet? La radio? La stampa periodica? Ogni generazione ha il suo satana mediatico. "Un giorno dovrete fare come Elvis e sparare a quella cosa". A questo punto però la folla comincia a premere sullo speaker, c'è baccano, Dylan nota una troupe televisiva e se la batte. Quella sera stessa, rivede la scena in tv. Canzoni che finiscono con Dylan che spegne il televisore: Black Diamond BayTweeter and the Monkey ManTV Talkin' Song (Continua sul Post)
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Finisce la legislatura, svelto! vota una legge elettorale a caso

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Come forse sapete, si sta votando alla Camera l’ennesima legge elettorale – la terza in questa sola legislatura. Per evitare che venga impallinata come la penultima, il governo Gentiloni ha deciso di porre la fiducia, come fece il governo Renzi con l’Italicum tre anni fa. Come forse immaginate, la legge elettorale che verrà approvata è brutta – come del resto era brutto l’Italicum, anche se lì la filosofia era diversa. Quest’ultimo era concepito per regalare il Parlamento al leader che fosse riuscito a conquistare il 40% dei voti. Dopo le europee Renzi era convintissimo di riuscirci; pochi mesi dopo, i suoi uomini stavano già bisbigliando che forse la legge andava cambiata. La nuova legge, invece, scaturisce da un’amara constatazione: al 40% non ci arriverà né Renzi né nessun altro. A questo punto è abbastanza normale, se i partiti sono tre, che almeno due si accordino in Parlamento per rendere più complicata la vita al terzo. Specie se il terzo in questione è il M5S, che potrebbe perfino vincere la conta dei voti, ma che tra tutti è il meno disponibile alle alleanze post-elettorali.


Avremo dunque due partiti (il PD e Berlusconi +Salvini) che lotteranno come leoni fino alla mattina delle elezioni, per accordarsi come agnelli la sera dello spoglio dei voti. Questo meccanismo, che nel lessico degli osservatori politici viene chiamato “inciucio”, è universalmente esecrato, ma al momento appare abbastanza inevitabile. Nel caso i numeri lo permettessero, potrebbero esserci delle scissioni. Ad esempio, un pezzo di centrodestra potrebbe staccarsi (ricordate Alfano, tre anni fa?) e andare al governo col centrosinistra, oppure il contrario: è un fenomeno che sul finire dell’Ottocento fu battezzato “trasformismo” e che ha resistito a cinque o sei sistemi elettorali diversi. Al centro del Parlamento, nel loro dorato isolamento, i grillini continueranno a recitare il ruolo dei duri-ma-puri.


Salvo meteoriti o altre catastrofi, dovrebbe finire così... (ho scritto un altro pezzo per TheVision, si chiama: Sorpresa, la nuova legge elettorale farà schifo come le altre).
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Pietà per Dylan

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Oh Mercy (1989)
(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).

Broken lines, broken strings. Broken threads, broken springs.
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.

Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.

Scusate, sono un po' in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c'è puzza - dovrei telefonare l'amministratrice ma a proposito mi si è rotto il telefono - il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell'auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po' di bronchite. L'elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c'è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall'Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c'è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l'unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev'essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall'Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d'inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l'altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c'è una stanza, io lo so che c'è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare - sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un'autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.

Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin':
Everything is broken


Si è rotto anche il cuore di Tom Petty, troppo presto a mio parere. Forse non sembrerebbe così assurdo se Dylan non fosse ancora in circolazione - pubblica dischi, ritira premi - la vera notizia non è un rocker sessantenne che muore, ma Dylan che continua a sopravvivere. Lista di rockstar vive nate prima del 1942: Bob Dylan, Charlie Watts, Ringo Starr, David Crosby, altri in mente non mi vengono. Dylan ha iniziato a seppellire colleghi quando aveva vent'anni, e non ha mai smesso. Ha debiti infiniti con gente che non verrà più a riscuoterli, e Chronicles a volte dà l'impressione di essere proprio questo: il libro dei debiti morti e coi vivi. Tom Petty era uno dei due artisti più giovani a comparire in bilancio: a metà anni Ottanta i suoi Heartbreakers lo avevano raccolto con il cucchiaino e rimesso in sesto. "Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio". Con gli Heartbreakers ritrovò la voglia di suonare dal vivo, ed è curioso che non esista un disco live che documenti l'evoluzione dei loro concerti tra il 1986 e il 1987 - un'ottantina di date. Per dire, coi Grateful Dead ne suonò soltanto sei, e di quel tour abbiamo il disco (purtroppo). Magari è solo un problema di diritti. In realtà anche Petty, quando incrociò Dylan, era un po' appannato e bisognoso di visibilità. E le cose cominciarono a girare per entrambi soltanto quando presero un po' il largo: anche grazie a Dylan, Petty incontrò Jeff Lynne, mentre Dylan un giorno si ritrovò nello studio di Daniel Lanois.

What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been



Quando ero giovane mi si rompeva tutto perché mi piacevano le cose usate (è un modo elegante di dire che ero taccagno). Il mio primo giradischi, mi ricordo, era amplificato con due vecchie casse per automobili - io vivevo sopra un'auto-officina e avevamo un cortile pieno di quelle cose un po' rotte un po' no. Queste casse a volte vibrando finivano per cascare sul giradischi segnando orribilmente i vinili. A un certo punto mi ruppi e comprai un impianto stereo, col lettore CD. Era già il 1989 e io non avevo davvero l'intenzione di mettermi a comprare CD (costavano il doppio delle cassette, maledette major, gli mp3 ve li siete cercati) ma intendevo copiare tutti quelli dei miei amici. In questo modo comunque cominciarono a entrare nella mia camera molti CD, e cominciai ad ascoltare la musica in un modo diverso. Prima alzavo il volume e amen, sperando che verso l'alto il canale sinistro e quello destro avrebbero trovato un loro equilibrio, e che i bassi non facessero cascare qualche libro da una mensola. Ma verso la fine degli anni Ottanta, magari fu una coincidenza, cominciai ad ascoltarli a un volume molto basso, mentre studiavo o leggevo o pensavo o facevo finta di. Il cd all'inizio aveva qualcosa di magico: potevi abbassare il volume finché non si sentiva nulla: col vinile la puntina continuava a gracchiare qualcosa, col nastro c'era qualche altro rumore (le testine?), il cd invece scompariva del tutto - solo se accostavi l'orecchio udivi qualcosa di simile a un piccolo sputacchio. A quel punto gli eroi del rock, quelli che mi avevano urlato nelle orecchie per gli ultimi cinque anni, potevano improvvisamente esprimersi sottovoce, come amici venuti a trovarmi. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quell'anno due vecchi fracassoni uscirono con dischi confidenziali: Lou Reed pubblicò New York, Bob Dylan Oh Mercy. Non avevano mai cantato così piano. Ma forse prima non avevo la rotellina del volume. Sul serio, fino al 1989 non osavo toccare troppo certe rotelline, mi si rompeva tutto, oh, per carità.

Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time

Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere - il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c'è rimedio. In uno degli scaffali c'è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c'è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni - dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l'ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d'incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh merda.

Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.



È il momento in cui in una leggenda appare un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c'è stima reciproca - forse perché Bono è l'unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l'apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.

Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you


Daniel Lanois è canadese (sua sorella suonava nei Martha and the Muffins), ma da un po' di tempo lavora nelle paludi della Louisiana: il che significa che Dylan, imbeccato da Bono, tornerà a Sud per l'ennesima volta. Dieci anni dopo aver lavorato con Jerry Wexler; venti esatti dopo Nashville Skyline: è come se ogni dieci anni Dylan sentisse il richiamo delle paludi. Ma quello che cerca davvero a sud non sono le atmosfere decadenti o la retorica del sottosviluppo: a Sud di solito Dylan ci va per trovare dei musicisti professionali (ricordiamo anche Leon Russel ai tempi di Watching the River Flow) e dei produttori al passo coi tempi. In effetti il racconto che sto leggendo non è così credibile; nell'88 Lanois non era un nome sconosciuto che Bono ti passa dopo una bevuta: tra gli ultimi dischi a cui aveva lavorato c'era So di Peter Gabriel e The Joshua Tree. Tutt'un'altra idea di anni Ottanta, rispetto per esempio ad Arthur Baker: il ritorno degli strumenti acustici, dei suoni caldi - ma riprodotti con una tecnologia all'avanguardia e quindi insolitamente vicini all'orecchio dell'ascoltatore: cos'ha in comune il Peter Gabriel di Don't Give Up e il Bono di With or Without You? Sembra che siano usciti dallo stereo e stiano cantando direttamente in camera tua. Non sono uno spettacolo lontano e artefatto, sono tuoi compagni di stanza e sono disperati, vogliono strapparti il cuore. È come se in mezzo a tutte le strumentazioni escogitate dagli ingegneri del suono negli anni Ottanta, tutti gli artifici e i bip e i clang, Gabriel e Lanois avessero finalmente trovato il tasto EMOZIONE, e avessero deciso di spingere solo quello (Lanois aveva anche un debole per il tasto TREMOLIO). Oh, pietà.

Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride

Lanois aveva reso la voce di Bono l'assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l'aria dell'ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l'espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l'anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire "Man in the long black coat", "Disease of conceit", "What good am I?" o "Most of the Time". Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di "disease of conceit", che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.

There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit...

All'inizio sei propenso a considerarla un "disagio dell'orgoglio", di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.

There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet - about the disease of conceit. 

Pare che si tratti di una cosa per cui non c'è cura - i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la "politica" di Political World sembra non essere proprio "politica" in senso stretto - a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina "la politica è una cosa sporca", e in effetti un po' già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni '80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. "Io non c'ero",  dice di Political World. Non l'ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L'ha scritta - di getto - perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l'aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po' di pietà?



Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: "Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of WarGirl from the North Country With God on Our Side". Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch'io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.

Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz'altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c'era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un'impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c'è quel miracolo che riscatta tutta la storia - ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse, si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l'ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant'anni, che è persino capace di produrli - lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com'era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev'essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli - quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un'insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro - per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente! (continua sul Post)
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Nel giardino delle attrici castratrici

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L'inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)


Al di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta
A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c'è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott'acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure "la fotografia subacquea è così bella". La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora - che in effetti spesso è frastornante - eppure c'è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall'acqua. E poi c'è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.


Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l'Europa?

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Dopo vent'anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.


Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:

“Hanno fermato gli scafisti, l'immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti "pirati" o "fascisti" ma oggi l'equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”

Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c'è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).
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