Il M5S non ha tutta questa voglia di uscire dall'Euro

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La novità delle ultime ore è che finalmente Luigi Di Maio, leader elettorale del Movimento Cinque Stelle, ha voluto dirci se lui uscirebbe dall’Euro o no. Messo alle strette da Myrta Merlino all’Aria che tira (La7), ha ammesso che: nel caso in cui si arrivasse a un referendum; come extrema ratio; dopo averle provate tutte; se proprio l’Europa non ci volesse ascoltare… Di Maio voterebbe per uscire. Anche se le cose non stanno più come nel 2013, ha spiegato, l’Europa sta cambiando, ci sono molte opportunità… e a questo punto la Merlino, impaziente, ha cambiato argomento.
Insomma, è stata tutto tranne che una risposta categorica. Di Maio ha preferito dilungarsi in premesse, in distinguo, in quella cautela così tipica dei leader politici pre-Berlusconi. Se Di Maio è sempre sembrato tra i grillini il più morbido, diplomatico – insomma il più democristiano – Matteo Renzi tra i post-democristiani è sempre parso il più irruente: e anche in questo caso non ha perso tempo a replicare, via tweet“Stavolta Di Maio ha fatto chiarezza, bisogna ammetterlo: lui voterebbe per l’uscita dall’Euro. Io dico invece che sarebbe una follia per l’economia italiana”.
Dunque, i giochi sono fatti: il M5S vuole uscire, Renzi vuole restare, votate di conseguenza. Nessuna sfumatura, nessuna cautela, Renzi è così. C’è un bivio – c’è sempre un bivio per lui – e lui sa sempre da che parte stare. Il M5S promette referendum, Renzi li fa. Poi al massimo li perde. Ma se Renzi sposa la causa europeista e perde, quanto margine avranno i vincitori per fingere che gli italiani non abbiano un parere preciso sull’uscita dall’Euro? Da cui la domanda: di chi deve aver più paura, oggi, un europeista? Di un leader del M5S che glissa, prende tempo, mette le mani avanti, o di un leader del PD che abbraccia convinto la causa dell’Euro, salvo che rischia di perdere le elezioni, tornare nell’ombra e trascinare con sé anche questa causa?
Beh, in fondo perché scegliere? Possiamo avere paura di entrambi... (continua su TheVision)
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Insieme attraverso i brutti dischi

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Together through Life (2009)
(Il disco precedente: Tell Tale Sign.
Il disco successivo: Christmas in the Heart).

Immagino che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare a un momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa. Io perlomeno credo che potrei arrivarci, per dire ultimamente a volte penso a un autogrill. Non provo nostalgia di una ragazza che andavo a trovare - cioè la provavo, ma ormai è una nostalgia che ha perso il suo sapore, come un bubblegum molto rimasticato - non provo più nostalgia per la città in cui abitava. Anche quel tratto di autostrada ormai per me è un tratto qualsiasi. Ma a volte mi fermavo in autogrill e quello ancora un po' mi manca. L'hanno buttato giù per farne uno più grande che invece non mi ricorda nessuno. Stavamo dicendo?

"Che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare in quel momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa".

Ah già. Bob Dylan per esempio, a un certo punto ha smesso di avere nostalgia per The Freewheelin'. Ma anche per Blonde on Blonde Blood on the Tracks. Dylan a un certo punto deve aver cominciato ad aver nostalgia per quando registrava certi suoi dischi inutili, bruttini, senza capo né coda. È la famosa legge dei vent'anni: negli anni Quaranta era tornato di moda lo swing degli anni Venti (ma Mussolini aveva piuttosto nostalgia di quando i fascisti marciavano sulle capitali). Negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Negli anni Settanta improvvisamente si ricordano di quanto era smagliante e cromato il rock'n'roll. Negli anni Ottanta avevano tutti nostalgia di quando negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Nel 2008, Dylan è maturo per provare nostalgia per i dischi più deprimenti che ha fatto; roba come Knocked Out Loaded, o Down in the Groove, roba che mette tristezza solo a pensarci - ma se la lasci decantare per vent'anni, quella tristezza a un certo punto deve assumere un sapore interessante. Ve lo ricordavate di com'era difficile essere dylaniti negli anni Ottanta, quando il nostro registrava quaranta tracce con quaranta musicisti diversi in cinque studi in sei mesi e un attimo prima di buttar via tutto pubblicava i cocci? E noi glieli compravamo, e glieli ascoltavamo, e glieli stroncavamo... Che nostalgia.


Quelle belle giacche di una volta
non torneranno più
Ehi Bob, ma lo sapresti fare ancora un disco triste e buttato lì come Down in the Groove? Nah, io dico di no. Ormai sei diventato una macchina, non te ne accorgi? Hai una band che non sgarra una battuta, hai musicisti che sanno quel che vuoi suonare un attimo prima che tu voglia suonarlo. Ogni tre-quattro anni fai uscire il tuo cd da un'ora, metà blues e metà altro, e non c'è un solo critico che osi criticarti davvero, ormai sei un'istituzione. E dire che una volta erano la specialità della casa, i dischi venuti male. Erano anche un po' la garanzia della genuinità del prodotto: se volevi la ciambella di Dylan, sapevi di non poterti aspettare il buco. Ma quei tempi sono finiti ormai, ormai le ciambelle di Dylan sono fatte con lo stampino, non riusciresti a sbagliare un buco nemmeno se ti ci impegnassi, scommettiamo?

MOTIVI PER CUI TOGETHER THROUGH LIFE, USCITO NEL 2008, FU IL SUO DISCO PIÙ BRUTTO IN 20 ANNI.

1. Ve ne viene in mente un altro? Come passa il tempo, sono già 20 anni che è uscito Oh Mercy. In seguito abbiamo avuto Under the Red Sky (che secondo me è piuttosto bruttino, ma vedo in giro che piace), i due acustici, Time Out of Mind“Love and Theft” Modern Times. Appena sette dischi in vent'anni! In compenso la qualità ha smesso di oscillare sull'ottovolante come le succedeva negli orribili anni Ottanta e nei complicati Settanta. Together non è un disco brutto come Self Portrait Knocked Out, ma rispetto ai tre dischi precedenti ha qualcosa di dissonante, di irrisolto, di affrettato - qualcosa che in fondo ci mancava. Ben tornato, cattivo Bob, cos'hai combinato stavolta? Hai licenziato i tuoi fedeli musicisti? Non risulta, eppure si capisce da subito che c'è qualcosa che non va. Appena parte Beyond There Lies Nothing, con quella tromba un po' stonata (chi la sta suonando?) e poi... la fisarmonica?



2. La fisarmonica. Ogni tanto succede che uno strumento insolito dia un colore particolare a un disco di Dylan - l'organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino di Scarlet Rivera in Desire, il sax di Street-Legal, e quella fantastica batteria elettrica in Empire Burlesque, ve la ricordate? che nostalgia. Ecco. Together Through Life è il disco di Dylan con la fisarmonica in tutti i brani. La suona David Hidalgo, chitarrista-pluristrumentista dei Los Lobos. Non la suona male. Ma la suona in tutti pezzi, ed è una maledetta fisarmonica. Se voglio sentire le fisarmoniche ascolto Raul Casadei. Ok, forse è un problema mio. Probabilmente uno choc infantile. Odio le fisarmoniche.

3. Il mandolinoNon così onnipresente - si sdilinquisce all'inizio di Life is Hard, ma di solito è molto più discreto, però allora dillo che lo fai apposta. Fisarmonica e mandolino, come ai tempi di Joey: non dirmi che rimpiangi anche quelli. This Dream of You, 35 anni dopo Joey, è il secondo tentativo di scrivere una ballata all'italiana, con quell'idea tutta particolare di italianità che possono farsi a Manhattan quando vanno a mangiare le fettuccine Alfredo. Certo che ce ne vuole di nostalgia del disastro, per tornare sulle orme di un delitto come Joey. Di quali altri delitti senti la mancanza, Bob? Qual è la cosa peggiore che rifaresti? Non so, un altro tour coi Grateful Dead? Troppo tardi, Garcia non c'è più. In compenso puoi sempre rimetterti a collaborare con...

4. Robert Hunter"Hunter è un vecchio amico, potremmo probabilmente scrivere un centinaio di canzoni assieme se pensassimo che ne valesse la pena"... è un'affermazione che suona vagamente minacciosa. Hunter era un membro atipico dei Dead: benché scrivesse per loro, non li seguiva dal vivo. Il suo rapporto con Dylan ha qualcosa di inspiegabile. Robert Hunter è l'autore di una delle canzoni che Dylan ha cantato più dal vivo, Silvio. La leggenda ci dice che aveva trovato la pagina col testo nello studio dei Dead. Cosa ci abbia trovato proprio in quella paginetta nessuno lo sa. È un rock senza infamia e senza lode: Hunter ne ha scritti a dozzine, Dylan ne ha scritti centinaia. Nel 2008 si ritrovano insieme e decidono di scriverne un altro po', casomai ce ne fosse venuta la mancanza (non c'era venuta). Hunter è un grande autore? Ha scritto tantissima roba, ma niente che abbia mai veramente superato il suo ambito di competenza (per dire: mi sapreste dire un grande successo dei Grateful Dead?) Io i Dead non li ho mai capiti e non saprei neanche esattamente dire cos'hanno di diverso i testi di Together - forse sono più brevi del solito, ecco, magari Dylan portava la penna e Hunter le forbici. In questo caso bravo Hunter, perché uno dei pregi di Together è che dura un quarto d'ora meno del solito (ma mezz'ora più del necessario).



5. I just want to make love to you. Metà dei brani, che ve lo dico a fare? sono blues o derivati. Blues in 8 misure, blues in 12 misure, rockabilly, rock and roll, non è che non conosca certe differenze, ma sapete una cosa? Mi rifiuto, è come quando un birraio pretende di farti degustare delle lager, ma andiamo. E il retrogusto, e i profumi, e neanche fosse cognac, sant'iddio, è birra, servila fredda e non rompere i coglioni. Che Dylan sia uno dei più grandi bluesman della storia è ormai fuori discussione; se ne poteva discutere al massimo nei primi mesi del '64, quando con Subterranean Homesick Dylan aveva stravolto il genere come un calzino, dimostrando che il blues per lui non era antiquariato, ma qualcosa di vivo e pulsante. Ma ormai sono trent'anni che per Dylan suonare il blues è giocare in difesa. Come quando gli chiedono: perché suoni cento concerti all'anno? E lui risponde che B.B. King ne suona trecento, che discorso è? C'è che nessuno se la prende se B.B suona gli stessi blues da una vita, e nessuno dovrebbe prendersela se Dylan fa la stessa cosa. Negli ultimi vent'anni ne ha buttati fuori talmente tanti che potrebbe persino aver messo lo stesso blues in due dischi diversi, con due titoli diversi, e nessuno se ne sarebbe accorto - nessuno. I blues si somigliano tutti; alcuni si somigliano più di altri; in Together a un certo punto Dylan sembra volerci cantare I Just Want to Make Love to You (ma si chiama My Wife's Home Town). Jolene è un vecchio rudere r'n'r che cerca di commuoverti al bancone così gli paghi da bere anche stasera. In Forgetful Heart fa capolino un riff che sembra il tema di Peter Gunn (e il rullante della batteria sembra un po' svitato); Shake Shake Mama è la cosa più divertente del disco, ma è come quando hai voglia di birra e te ne servono una fredda, va bene? Vuoi farmela pagare il doppio perché è artigianale? Non siamo tutti un po' vecchi per queste stronzate? (continua sul Post)
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Addio Cuneo (e grazie dei pistacchi)

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È stata una sera di cinque anni fa esatti. Senza tanto spiegare pubblicai qui una finta recensione di un film. Niente di troppo originale, senonché il pezzo a un certo punto si interrompeva, con un link che invitava a leggere il seguito su un magazine on line della provincia di Cuneo. Non solo non avevo mai visto il film in questione, ma non ero nemmeno mai stato in provincia di Cuneo, così è abbastanza normale che qualcuno l'abbia preso per uno scherzo. Invece era proprio così: avevo iniziato a collaborare con Piùeventi.

"I make garbage, for the money and the pussy".
Ero convinto che sarei durato qualche mese; sono passati cinque anni in cui, salvo qualche rara interruzione, ho visto un film alla settimana e in un qualche modo ho fatto finta di recensirlo. Mi sarebbe piaciuto festeggiare il quinto anniversario andando a vedere il film numero 250 (perché a parte il primo li ho visti tutti - cioè quasi tutti, dai), ma un mese fa Piùeventi ha sospeso pubblicazioni e collaborazioni. A me ovviamente manca già tantissimo.

In questi cinque anni ho visto tanta robaccia e una manciata di film davvero molto belli; due Scorsese, tre Eastwood tre Larraín e quattro Woody Allen che mi sarei probabilmente perso. Un sacco di film di supereroi, veramente troppi. Ho imparato ad amare Luc Besson anche se usa il 10% del suo cervello, a detestare Sorrentino che invece prima mi piaceva, ho cercato di prendere le distanza da Virzì ma non ce l'ho fatta. Ho visto tante cose, Star Wars Episodio IV in anteprima e Frozen, i Lego e Kevin Spacey trasformarsi in un gatto; e voi obietterete che non è la peggior cosa che abbia fatto Kevin Spacey - ma non ne sono così sicuro. Ho visto persino degli horror - tra le fessure delle dita, ma li ho visti, dove non erano riusciti i miei amici delle medie ce l'ha fatta la Provincia di Cuneo. Quando ho iniziato, avevo già scritto qualcosa di cinema, ma non è che ne capissi molto e sapessi come si scrive una recensione. Col tempo avrei imparato, mi dicevo. Cinque anni dopo, devo dire che continuo a non capire un cazzo di cinema e non sono ancora capace di scrivere una recensione - non ho neanche la sensazione di essere migliorato, però quanto mi sono divertito?

Così addio Piùeventi, posso solo ringraziarti. Di avermi sempre pagato puntuale, ma soprattutto d'avermi dato qualcosa che alla mia età è più prezioso di un bonifico: una scusa per andare al cinema. Quella scusa che più di tutto stasera mi manca - in sala c'è un altro Star Wars ma io ho un'età, ormai, e un sacco di roba da fare (se nei prossimi mesi dovesse crollare il prezzo dei pistacchi, non sorprendetevi troppo).
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L'arte dei mostri è l'unica interessante

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Non è cominciato tutto con Weinstein. Ho vaghi ricordi di discussioni precedenti – per esempio quando Bill Cosby fu processato per violenza sessuale devo aver sentito qualcuno lamentarsi del fatto che non sarebbe più riuscito a guardare un episodio dei Robinson. Lì per lì non devo aver prestato molta attenzione alla cosa (anche perché, insomma, oggi dove li trovi gli episodi dei Robinson?), ma è stata la prima volta che ho fatto caso al fenomeno.

Quando usciva un film di Woody Allen mi imbattevo regolarmente in qualcuno che, tra tanti motivi per non andarli a vedere, tirava fuori quella triste accusa di molestie alla figlia. Pensavo fosse una forma un po’ stravagante di boicottaggio. Ma poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e mi sono reso conto che molte persone intorno a me non sembrano riconoscere la differenza tra contenuto dell’opera e vissuto dell’artista – no, in realtà è più sottile di così. Non è che non la riconoscono: chiunque sa riconoscere la differenza, poniamo, tra Adolf Hitler e uno dei suoi mediocri paesaggi. È che non la vogliono riconoscere. Carino quel paesaggio, di chi è? Di Adolf Hitler? Ah, allora è orribile.



(Ho scritto un pezzo su TheVision che parla di Woody Allen, Dostoevskij, e di quanto Leni Riefenstahl fosse una schiappa a girare i film).

Esagero? Leggo di gente che apprezzava molto l’umorismo di Louis CK, le sue gag sulla masturbazione seriale. Poi scoprono che Louis CK si masturbava davanti a delle sottoposte e all’improvviso le stesse gag non sono più divertenti. Fioriscono sul web mille domande, che all’inizio credevo retoriche, e invece no: possiamo ancora guardare i film con Kevin Spacey? E i film prodotti da Weinstein? Quando Lasseter ha ammesso di aver commesso qualche errore e si è preso una pausa alla Disney, qualcuno ha iniziato a domandarsi se possiamo ancora guardare Toy Story. Ok, sono solo titoli esagerati per attirare l’attenzione. Ma nel frattempo Jonathan Franzen ammette candidamente di avere delle difficoltà ad ammirare i quadri di Caravaggio, perché sai, “ha ucciso un uomo”. La scrittrice Claire Dederer si domanda “cosa fare dell’arte degli uomini mostruosi” – nel suo elenco troviamo Polanski, Cosby, Burroughs, Wagner, Caravaggio… ma il mostro dei mostri è sempre lui, Woody Allen. La Dederer non ha nemmeno bisogno di credere alle accuse di Dylan Farrow: la relazione con Soon-Yi è più che sufficiente a formulare un giudizio di mostruosità. “Era una teenager affidata a lui la prima volta che andarono a letto assieme, e lui il più famoso regista del mondo”! Puoi apprezzare ancora Manhattan, dopo avere scoperto una cosa del genere?

Lei dice di no, ma in questo caso effettivamente i confini tra autore e opera sono più ambigui che altrove: un film in cui un quarantenne trova assolutamente normale scoparsi una liceale, girato da un grande regista che qualche anno dopo si è messo con una 17enne. Siamo di nuovo di fronte al paradosso di Louise CK? Ovvero: un film che parla di desideri e pulsioni diventa discutibile quando scopri che è autobiografico? Gli interlocutori della Dederer (maschi) si oppongono con affermazioni ridicolmente parnassiane: ribadiscono piccati la necessità di giudicare l’opera d’arte soltanto in base ai criteri estetici, e quando affermano di apprezzare in Manhattan “l’equilibrio e l’eleganza”, il lettore ha il sospetto che direbbero la stessa cosa di Olympia di Leni Riefenstahl (l’elegantissimo, ben equilibrato inno ai successi olimpici del Terzo Reich).

In effetti di fronte all’ammissione di Franzen, o ai dubbi della Dederer, è molto facile reagire in modo categorico, magari accatastando un bell’elenco di artisti con la fedina penale complicata (in queste liste Caravaggio non manca mai). Stavo cominciando anch’io, ma mi sono bloccato al primo nome – chissà perché, mi è venuto in mente Dostoevskij. Ma mentre mi fermavo a controllare la grafia esatta, mi sono reso conto che stavo confondendo Dostoevskij coi suoi personaggi: con l’assassino di vecchiette Raskolnikov, con lo stupratore di bambine Stavrogin. Forse perché li ho letti quand’ero troppo giovane e quel famoso esercizio di separare l’autore dall’opera non riusciva neanche a me. Ammesso che mi sia riuscito in seguito. I quegli anni io cercavo nei libri le cose che non avevo la possibilità o il coraggio di vivere in prima persona, ed erano perlopiù cose criminose: leggevo Christiane F perché pur non avendo l’inclinazione per la dipendenza l’eroina mi sarebbe piaciuto vedere com’era da dentro; leggevo Il giovane Holden perché mi sarebbe piaciuto ogni tanto mandare al diavolo scuola e famiglia, ma non ne avevo il coraggio; e Dostoevskij, appunto, mi forniva un prezioso succedaneo ogni volta che mi veniva voglia di ammazzare una vecchietta ricca e improduttiva. Non credo di essere stato l’unico a cercare nella letteratura e nell’arte una forma di turismo nelle perversioni che non avevo i soldi o il fegato di permettermi. Ero un ragazzino.

Se avessi potuto da ragazzino rispondere a Franzen, gli avrei detto qualcosa di insopportabilmente arrogante, del tipo: io se l’artista non è un assassino non mi scomodo neanche a dargli un’occhiata. E alla Dederer: guarda per me Manhattan è molto meglio adesso che so che a Woody Allen piacciono le ragazzine – non che ci fossero molti dubbi prima, eh? – ma non lo trovi anche tu molto più genuino, ora, più sincero? E se ti fa incazzare, ok: non è mica un paesaggio, non è una natura morta, è un film di Woody Allen. Arte moderna, quella che a volte può essere equilibrata ed elegante, ma il più delle volte è disarmonica e dissonante e ci puoi anche litigare. Cioè, non ci vai mai al cinema a litigare col regista, con gli attori, con gli scenografi? È uno dei piaceri della vita e del cinema, io in mancanza di meglio me la prendo anche col direttore della fotografia. Insomma alla domanda cosa facciamo dell’arte degli uomini mostruosi, il me stesso ragazzino risponderebbe: facciamo un gran casino! Li stronchiamo tutti senza pietà, anche se sono bravissimi, chissenefrega (sei una frana con la macchina da presa, Leni). Lo scopo dell’arte è stimolarci; se certa roba ci stimola rabbia e indignazione, prendiamo la nostra rabbia e trasformiamola in una meravigliosa stroncatura che farà incazzare a sua volta qualcun altro eccetera – insomma, ero un coglione, ero arrogante, ero ignorante, ma avevo già chiara internet in testa.

Oggi non la penso più così, ma forse non sono molto più sgamato di quelli che non riescono più a vedere una sit-com con Bill Cosby. Forse anch’io non sono così bravo a separare l’opera dallo scrittore, dopotutto, se continuo a preferire gli artisti e gli scrittori che hanno qualcosa da rimproverarsi. Quel che mi piace di Franzen è il modo in cui fa oscillare i suoi personaggi davanti a un abisso morale prima di dare una spintarella: lo fa con l’aria di chi c’è stato lì sul bordo, di chi sa benissimo cosa si prova. In un angolo della mia testa non ho smesso di pensare che Dostoevskij abbia davvero ammazzato una vecchietta, e anche Franzen secondo me deve aver fatto qualcosa di inconfessabile. Persino Woody Allen, che tante volte ha messo in pellicola lo stesso canovaccio: un uomo di successo è ricattato da qualcuno che minaccia di rivelare qualcosa di torbido sul suo passato, finché non decide di ucciderlo. A quel punto lo spettatore si aspetta una giusta punizione che (spoiler) quasi sempre le sceneggiature di Allen non prevedono: l’assassino salva il suo buon nome e il suo status. Crimini e misfatti è del 1989, Match Point (il più dostoevskjiano dei suoi film) del 2005, Irrational Man del 2015: come se Allen volesse dirci qualcosa.

Un altro film di Woody Allen a cui non saprei rinunciare nemmeno se Allen invadesse la Polonia è Pallottole su Broadway. Racconta la storia di David Shayn, un tizio che si crede un artista, un commediografo, ma a un certo punto si accorge che non lo è. Se ne accorge perché incontra un artista puro, Cheech, un talento naturale che ha la sfortuna di essere cresciuto in una gang criminale. Non solo è più bravo di lui a scrivere dialoghi, ma soprattutto non è disposto ad accettare compromessi: per salvare la sua opera è disposto a uccidere. David no. Il momento in cui si accorge di non essere un vero artista è il momento in cui capisce di non essere un criminale.
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Dylan e il capolavoro involontario

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Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1986-2006 (The Bootleg Series, Vol. 8)

(Il disco precedente: Modern Times.
Il disco successivo: Together through Life).

Io comunque su Pasolini ho una teoria: secondo me, mentre girava il Decameron lui...
"Ma che c'entra Pasolini adesso".
Ma niente, mi viene sempre in mente sotto l'Immacolata, perché sai.
"Ti confondi col ponte dei morti".
Ah già.
"Ma senti è un po' che non passo a leggerti, li hai poi finiti i dischi di Dylan?"
No, effettivamente ne ho ancora un po'.
"Ancora? Ma quando hai cominciato? Sembrano anni".
In effetti è esattamente un anno.
"Ma ne ha fatti così tanti?"
Più di una cinquantina, sì. E parecchi persino belli.
"Beh io a un certo punto ho smesso di leggerli, però..."
Non devi mica scusarti.
"...quando li raccoglierai in volume di sicuro io... perché pensi di raccoglierli in volume, vero?"
Eh, dipendesse da me.
"Ma hai mai scritto a un editore?"
Sì, e mi hanno anche risposto, ma...
"Cioè è chiaro che bisogna lavorarci un po' su, togliere le cose che in un libro non funzionano, però..."
Ma alla fine non resta niente.
"In che senso".
È come coi Santi. Uno dice: sto facendo una rubrica dei Santi che ha un suo seguito, insomma funziona, che ne dite? E loro all'inizio wow, in effetti è interessante, però... bisogna lavorarci.
"Ma ti fa così schifo lavorarci?"
Ma no io ci lavorerei anche, però... senti, non mi sto lamentando, ok? È un problema mio. Si vede che non funziono sulla carta.
"Ma cosa dici".
Di solito va così: mi dicono, metti tutto in un pdf e mandacelo. E io: guardate che è tanta roba.
"Tagliane un po'".
Ma certo che ne taglio.
"E alla fine ti restano..."
Quelle due, trecento cartelle.
"Così tanto?"
In un blog non sembra tanto, ma su carta è come se si gonfiasse. Poi ti dicono: bello eh, ma bisogna togliere tutti gli interventi in prima persona, i siparietti autobiografici... in un libro non hanno senso. E sai una cosa?
"Hanno ragione".
Hanno assolutamente ragione, e allora io li tolgo. E tutte le battute stagionali, le trovate estemporanee, le cose che hanno senso soltanto nel giorno in cui le scrivi, tolgo tutto. E a quel punto...
"Non sono più interessati?"
Non sono più interessante.
"Però su Dylan..."
Ma certo, figurati se fuori non c'è la fila di gente che mi vuole pubblicare quattrocento cartelle su Dylan.
"Ma saranno meno, dai".
Specie dopo aver tolto tutte le digressioni personali, le battutine, le cose da blog, tutto quello che lo renderebbe diverso dall'ennesimo libro su Dylan.
"E allora cosa farai?"
E allora cosa farò? Mi inventerò altre cose da scrivere e andrò avanti così.
"Ma non ci pensi che un giorno qui sparirà tutto?"
"Ci penso sempre, ma alla fine non è quasi mai successo".
"Tra un po' finisce la net neutrality e ciao".
"Troverò un sistema".
"Un server si pianterà e puf, non resterà nulla. Solo tanti link che puntano nel vuoto".
Ogni tanto faccio un backup.

Got nothing for you, I had nothing before
Don't even have anything for myself anymore
Sky full of fire, pain pourin' down
Nothing you can sell me, I'll see you around

Resto convinto che Pasolini, mentre girava il Decameron, se la deve esser vista brutta. Ma veniamo a Dylan, sennò pensate che io voglia cincischiare; che il disco di questa settimana non l'abbia neanche ascoltato, e in effetti parliamo di un disco triplo dal prezzo scandaloso (ma su Spotify ci sono solo i primi due, quelli che venivano venduti a una cifra ragionevole). Invece non solo l'ho ascoltato, ma lo riascolterei volentieri anche adesso, toh. Sono sinceramente convinto che sia uno dei dischi migliori di Bob Dylan - sì, tra i cinquanta e più dischi che ho ascoltato quest'anno, Tell Tale Signs sta nei primi quindici, forse anche tra i primi dieci. Credo addirittura che sia il disco migliore della sua ultima fase, ed è un'affermazione abbastanza forte, visto che Tell Tale Signs è perlopiù una collezione di scarti dalla lavorazione di Oh Mercy (1989), World Gone Wrong (1993), Time Out of Mind (1997), Modern Times (2006): com'è possibile che gli scarti siano migliori del prodotto? Con Dylan è possibile, anzi.

I was thinking of a series of dreams
Where nothing comes up to the top
Everything stays down where it's wounded
And comes to a permanent stop



È quasi inevitabile. Avete sentito che l'ultimo Leonardo Da Vinci disponibile sul mercato è finito in Arabia Saudita? Secondo me era una sòla, però io non me ne intendo e anzi ho in materia idee molto estreme, ad esempio nutro qualche dubbio sulla Gioconda del Louvre: e se non fosse l'autentica? Perché non ha le sopracciglia e mancano due colonne che ci sono in alcune copie molto vecchia - ma è comunque una Gioconda fantastica, se dubito di lei figurati quanto posso fidarmi di un Salvatore col volto ieratico (ma asimmetrico!) con dei ricciolini da Botticelli, ritratto di fronte... cioè hai Da Vinci a disposizione e gli chiedi un ritratto di fronte? È come chiedere alla Ferrari se ti fanno un motorino 50 cc, dai, non esiste... (continua sul Post)
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È facile ridere dei Liberi (e Uguali)

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È facile fare ironia su Liberi e Uguali – la nuova formazione politica tenuta a battesimo domenica scorsa – e molti osservatori infatti non hanno perso tempo. Tanto per cominciare è un raggruppamento di sinistra, e mentre la destra è per definizione inquietante e in crescita, la sinistra è sempre sventurata e in crisi. È una questione di percezione, che nulla ha a che vedere coi fatti o coi numeri (in questo momento i sondaggi danno a LeU qualche punto in più di Fratelli d’Italia, una formazione di destra che ha una storia altrettanto travagliata).
Quando si parla di sinistra non ci si stanca mai di rivangare i dissidi, le scissioni, i partitini che fanno più notizia quando si spaccano di quando si ricompattano. In effetti LeU raccoglie i cocci di tre piccole scissioni del PD: i fuoriusciti di quest’anno che hanno creato il Movimento Democratico Progressista Articolo Uno; i civatiani di Possibile che erano usciti già nel 2015; il gruppo di Fassina, che nello stesso 2015 aveva formato Sinistra Italiana con i vendoliani di Sinistra Ecologia Libertà, partito che a sua volta nasceva da due microscissioni in seno a Rifondazione Comunista e PCdI, e dalla fusione con alcuni ambientalisti – ma a questo punto probabilmente vi siete persi, servirebbe un disegno e su internet ce ne sono di divertentissimi. Il disegno poi si potrebbe prolungare andando indietro nel passato fino al 1989 – ma anche al 1968 – ma anche al 1890, perché il frammentarismo della sinistra ha radici antiche, e al di là delle facilissime ironie è un fenomeno strutturale: se la sinistra è il luogo (mentale) della libertà e del confronto, è abbastanza logico che sia anche il luogo delle divisioni, dei dissidi, degli scazzi – chi preferisce obbedire a un capo può andarsene a destra, dove scissioni e scazzi ci sono comunque, ma fanno meno notizia.
 



(Ho scritto un pezzo per TheVision, si chiama proprio È TROPPO FACILE FARE IRONIA SU LIBERI E UGUALI).

È facile ridere di Liberi e Uguali, magari facendo notare la contraddizione tra l’impostazione progressista e l’età media degli esponenti più importanti: Pietro Grasso, nominato leader per acclamazione, ha 73 anni. Massimo D’Alema, condannato dal suo personaggio a impersonare l’eminenza grigia della situazione, ne ha 68. Pierluigi Bersani 66. La sinistra non la dovrebbero fare i giovani? Sì, e infatti tra i Liberi e Uguali ci sono anche Giuseppe Civati (42) e Roberto Speranza (38). Il fatto che gli anziani siano più spesso inquadrati è in parte un effetto ottico: i giornalisti discutono più facilmente di e con personaggi che sono già stati a lungo sotto i riflettori. Fino a qualche anno fa questa era la prassi in tutti i partiti dell’arco costituzionale: poi sono arrivati i grillini e i rottamatori renziani, e oggi, guardando un notiziario, è più facile imbattersi in un politico quarantenne che in un sessantenne. Berlusconi è ovviamente un’eccezione, e la sinistra è un’altra – ma quest’ultima è un’eccezione tutt’altro che italiana: Jeremy Corbyn, leader dei laburisti inglesi, ha la stessa età di D’Alema; Bernie Sanders, agguerrito candidato di sinistra alle primarie del Partito democratico USA, ne ha tre più di Pietro Grasso. Anche loro sembravano rispettabili “vecchietti”, con entrambi i piedi nella terza età, prima di svelare un carisma d’altri tempi appena la campagna elettorale è entrata nel vivo: a Grasso potrebbe succedere la stessa cosa? Vedremo. Senz’altro sinistra e giovinezza non sono più sinonimi, ammesso che lo siano mai stati. Se non lo sono in Gran Bretagna o negli USA, non c’è motivo che lo siano in Italia, dove gli elettori da (ri)conquistare hanno un’età media ancora maggiore.

È semplice fare ironia su Liberi e Uguali, non solo insistendo sull’età dei protagonisti, ma anche sui loro trascorsi; con l’importante eccezione di Grasso, che fino a cinque anni fa faceva il magistrato, quello che accomuna D’Alema, Bersani, Civati, Speranza, Fassina e compagnia sono le sconfitte. È gente che ha perso quasi sempre e quasi tutto – a volte con onore, ma a sinistra “con onore” non significa poi molto, contano i risultati. Non parliamo soltanto di sconfitte elettorali (contro Berlusconi in parlamento, contro Renzi nel PD). Parliamo anche di sconfitte strategiche: D’Alema si fece prendere in giro da Berlusconi con la bicamerale del 1997, Bersani si fece prendere in giro dai grillini con il famoso vertice in streaming del 2013; anche Civati deve aver commesso qualche errore se nel 2010 era uno dei leader della Leopolda con Renzi e oggi non è nemmeno più nel PD. E così via. È semplice immaginare Liberi e Uguali come un raduno di rancorosi, ognuno a suo modo animato da un proposito di rivalsa, se non di vendetta. E le cose potrebbero anche essere così: alla fine la politica è fatta dagli uomini, e gli uomini sono fatti anche delle loro debolezze.

Allo stesso tempo, se insistiamo troppo sulle debolezze, rischiamo di perderci molto. Oltre alle mille motivazioni personali che possono spiegare la longevità di alcuni personaggi, alla base della nascita di Liberi e Uguali c’è un ragionamento lineare: a sinistra di Renzi c’è molto spazio da riempire. Quanto? Diamo un’occhiata agli altri Paesi dell’Europa occidentale. In Germania la Linke è quasi al 10% – molti voti li sta erodendo ai Socialdemocratici, che da più di dieci anni scontano l’alleanza elettorale con i Cristiano-Democratici della Merkel. In Francia il partito di sinistra di Mélenchon in Parlamento ha ottenuto appena il 3%: in compenso il suo leader col 19% di voti al primo turno ha mancato di appena due punti percentuali il ballottaggio presidenziale. In Gran Bretagna c’è un sistema elettorale molto diverso, che ha dissuaso la sinistra laburista da qualsiasi tentazione scissionista; il risultato però è che dopo tante sconfitte, oggi la sinistra controlla il partito. In Spagna il successo improvviso di Podemos (che nel 2016 valeva il 20% dell’elettorato) è un caso a parte, forse più affine all’affermazione altrettanto improvvisa del Movimento Cinque Stelle in Italia. In Grecia, anche grazie al super-premio elettorale, Syriza è al governo ormai da tre anni – tre anni di crisi nerissima in cui il primo ministro Alexis Tsipras non si è esattamente potuto permettere una politica antiliberista, ma tant’è. Syriza, per altro, è un bell’acronimo che nasconde all’osservatore distratto una tipica storia di frazionismo di sinistra: la sigla sta per “Coalizione della Sinistra Radicale”, e il suo percorso cominciò nel 2004 con una piattaforma programmatica che mise insieme cinque piccoli partiti marxisti, altermondialisti ed ecologisti.

Insomma, per quanto possano sembrare ridicoli e incerti i primi passi di Liberi e Uguali, bisogna riconoscere che anche le più recenti storie di successo della sinistra europea sono iniziate così: frammenti di esperienze passate che tornano assieme, trovano leader che a volte sono facce nuove (Tsipras, Iglesias) e altre volte decisamente no (Corbyn), e occupano uno spazio esistente. Perché – e questo va sempre ricordato – uno spazio a sinistra esiste ancora, e se non lo occupa Grasso lo occuperà qualcun altro. Anche Di Maio, perché no? Non è un caso che di recente abbia proposto di reintrodurre l’articolo 18. Non sarà l’argomento più trendy, ma c’è una fetta di elettorato che è sensibile esattamente a queste proposte: fanno meno notizia di due o tre bande di esaltati in bomber nero che lanciano fumogeni sotto le redazioni dei giornali o disturbano le assemblee, ma sono pur sempre due, tre, magari quattro milioni di potenziali elettori in più. E non si capisce nemmeno perché dovrebbero diminuire in futuro – soprattutto se il PD di Renzi si dovesse ritrovare costretto dopo le elezioni a un governo di coalizione col centrodestra di Berlusconi: proprio la situazione in cui di solito i voti travasano dal centrosinistra di governo alla sinistra di opposizione. Quanto allo scenario alternativo – un’eventuale alleanza di governo tra il M5S di Di Maio e LeU, fin qui sembra soltanto un bluff pre-tattico: difficilmente l’elettorato grillino potrebbe mandare giù la contiguità con personaggi che Beppegrillo.it addita al pubblico ludibrio da sempre (quando Bersani avverte di essere ancora disponibile allo streaming, rasenta il comico, non si sa quanto involontario). Allo stesso tempo, è bastato annunciare la nascita di un nuovo soggetto a sinistra perché l’articolo 18 tornasse un argomento elettorale anche per i grillini: la politica si fa anche così. Non sempre si vince, anzi, mai, ma a volte riesci a portare i vincitori nel tuo campo. Sarebbe già molto (per la sinistra italiana).
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Avanti, a passi sempre un po' più corti

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Modern Times (2006)
(Il disco precedente: "Love and Theft";
il disco successivo: Tell Tale Signs).
Avete notato come passa alla svelta il tempo ultimamente? Roba che ormai ti addormenti in autunno ti risvegli in primavera. Oppure, non so, inviti una ragazza a cena ma passi a prenderla un po' in ritardo e lei nel frattempo si è sposata e ha avuto tre figli uno dei quali vuole fare il liceo scientifico, io che ne penso? Penso che me l'avevano pur detto, che il tempo funzionava così. Pare sia una questione percettiva, abbastanza elementare se ci rifletti.
Quando compi un anno di vita, tutta la vita è in quell'anno; ma poi ne compi un altro e ti sembra un periodo lunghissimo, addirittura la metà della tua vita. E già pensi che ti aspetta un altro anno, ma quando arriva è soltanto un terzo della tua vita (che per carità, è ancora parecchio). Ma insomma, ogni anno che passa, passa più alla svelta: e per quanti anni metti assieme, la somma di tutti gli anni dopo il primo non durerà mai quanto il primo. La funzione insomma è y=x/1+x/2+x/3+x/4+x/5 eccetera, c'è senz'altro un modo più elegante ed esauriente di scriverla ma non ho fatto lo scientifico. La cosa interessante è che quando arrivi a x/65 - l'età di Dylan quando incise Modern Times, in realtà devi ancora arrivare al quinto anno di età percepita. Roba da matti.


Infatti secondo me ho fatto un errore. Eppure il ragionamento spiegherebbe perfettamente il perché a un certo punto oltrepassi una specie di soglia dopo la quale gli anni passano talmente alla svelta che non li riconosci più. C'entra anche il modo in cui ti tratta la vita: fino a vent'anni puoi provare a cambiare spesso i partner, o la città, o la professione, ma a un certo punto fatalmente rimani incastrato in una famiglia e/o una città e/o un ufficio, e da lì in poi certe cose come, che so, fare la spesa, assumono una ritualità ipnotica: se all'Esselunga ogni tanto non cambiano il posto ai prodotti degli scaffali, tu sul serio certe volte non ti ricordi più se quei cetriolini li hai comprati la settimana scorsa o dieci anni fa. Oppure entri in un bar e il cameriere ti serve senza chiederti niente, ma come si permette, poi fai due calcoli e sono già cinque anni che entri e chiedi la stessa cosa, cinque rapidissimi anni, ma in realtà per te ne sono passati appena (1/35+1/36+1/37+1/38+1/39)=0,13, cioè quando dici che ti sembra ieri che inauguravano il locale, dal tuo punto di vista hai ragione (è che il tuo punto di vista sta accelerando man mano che muori).
Il peggio è che lo avevo sempre saputo che sarebbe finita così, ma per qualche motivo ero convinto che l'avrei gestita meglio degli altri. Per esempio: scriverò una pagina tutti i giorni per tutta la mia vita. Quando mi chiederanno, dove hai messo il tuo tempo? Eccolo qua. E non si sgarra, vedrete che ogni anno sarà più o meno di trecento pagine. Che ingenuo, vero? Beh, l'ho fatto sul serio. Meno male che hanno inventato i blog, sennò ormai mi ritroverei in soggiorno una pila di manoscritti che mi accuserebbero: "dove hai messo il tuo tempo?" E, indovinate? Ogni pagina è come se fosse un po' meno importante della precedente. Per esempio: cosa facevo nel febbraio del 2006, mentre Bob Dylan incideva Modern Times (sembra ieri e infatti è successo 11 anni fa)? Voi non vi ricordate di cosa stavate discutendo nel febbraio del 2006. Io sì, io ho l'archivio on line. Io infatti stavo discutendo... delle vignette satiriche di Charlie Hebdo su Maometto.
No, aspetta
Sono passati già undici anni?
Dio mio.
Ma parliamo di Dylan. Ha appena ottenuto una nomination ai Grammy - beh, ne ha già vinti dodici, di cui uno alla carriera. Ultimamente lo candidano nella categoria "Miglior album pop tradizionale", che come ci spiega l'eminente Madeddu non è un campo qualsiasi, ma il teatro di una logorante guerra di posizione tra Tony Bennett e Michael Bublé. Che ci fa Dylan tra questi crooner, questi interpreti confidenziali? Diciamo che la cosa non ci sorprende più. Forse ci avrebbe ancora sorpreso l'altro ieri - ovvero nel 2006, quando uscì Modern Times.


Una cosa dovete riconoscere al signor Dylan: non ha mai voluto incidere lo stesso disco due volte. Diciamo *quasi* mai. Persino quando aveva a disposizione solo una chitarra e un'armonica, ogni disco era il segnale che il tempo stava cambiando. The Freewheelin' non assomigliava a The Times They Are A-changin' che non assomigliava ad Another Side. Solo verso gli anni Ottanta le sue difficoltà in studio lo hanno portato un po' a ripetersi: ma persino Saved non assomigliava a Slow Train Coming; persino Knocked Out Loaded, che è pure fatto con gli avanzi di Empire Burlesque, in qualche miracoloso modo è già un disco diverso. Per quanto la gente continuasse a pensare a lui principalmente come al menestrello delle foto in bianco e nero, o il rocker d'avanguardia in occhiali scuri - tutti ricordi risalenti ai suoi pochi, primi, lunghissimi anni - Dylan ha combattuto l'accelerazione del tempo con tutte le sue forze, continuando a cambiare pelle a ogni disco. Questo forse per lui era più importante che la qualità - posso capirlo. Immagino che trovare un seguito a The Freewheelin' debba essere dura, ma quando invece hai fatto trenta dischi, è così importante se il trentunesimo è un capolavoro o è inascoltabile? Smetterai di essere il grande Bob Dylan, se capita che sia un brutto disco? E se invece è buono, qualcuno oserà metterlo sullo stesso piano di Blonde On Blonde e di quei dischi che hai inciso in fretta e quasi per caso da giovane, quando gli anni non finivano mai e succedeva qualcosa di diverso tutti i giorni?



Modern Times è il 32esimo disco di studio di Bob Dylan, e com'è? È buono. Buono come "Love and Theft" Più o meno. Buono come Highway 61? In teoria si potrebbero mettere sullo stesso piano - se potessimo avere un punto di vista fuori dal tempo, e magari tra uno o due secoli un ascoltatore ce l'avrà. Per adesso è come paragonare una stella di media grandezza al big bang. La cosa più notevole è che almeno per una buona metà Modern Times suona quasi identico al precedente, di cui ricalca la struttura (un brano rockabilly, uno swing, di nuovo un rockabilly, ecc.): il che non è poi sorprendente per un tizio che ha già stampato trentadue dischi (i Rolling Stones hanno cominciato a cristallizzarsi trent'anni prima) ma lo è per Dylan. Soprattutto se pensiamo che tra i due dischi ci sono cinque anni: un'eternità.



È lo stesso tempo che separa il suo disco d'esordio da John Wesley Harding. Quante pelli Dylan aveva già cambiato tra 1962 e 1967? Tra 2002 e 2007, Dylan sembra congelato. E invece si stava dando parecchio da fare: nel 2004 pubblica il primo e per ora unico volume della suona biografia, Chronicles I. Nello stesso periodo assiste (per la verità in modo abbastanza distante) alla lavorazione del documentario di Scorsese, No Direction Home; nel frattempo i negozi di dischi vengono riforniti regolarmente di nuove uscite della sua Bootleg Series. Sono insomma anni in cui Dylan sta lavorando molto sul suo passato: lo corregge, in certi casi lo stravolge, inserisce dettagli che mai ci saremmo aspettati... ad esempio scopriamo con Chronicles che a lui i grandi standard jazz sono sempre piaciuti, e che quando nel 1970 tutti lo aspettavano sulle barricate, lui andava con Sara a sentire un concerto di Sinatra Jr. Ma non è sempre stato così con lui? Quando passò al rock, non si premurò di informarci che aveva sempre sognato di suonare il rock? E il country? Non era la musica che aveva sempre sognato di fare prima di riuscirci con Nashville Skyline? Dylan è sempre fedele al suo passato, che però può modificare quando e come vuole.



Accanto a questa incessante opera di revisionismo storico, c'è una vita quotidiana fatta soprattutto di concerti: più o meno ottanta all'anno, in Europa, Asia e soprattutto America. Forse Dylan ha avuto un'idea migliore della mia: quando ha capito che fare un disco all'anno non avrebbe fermato il tempo, ha deciso di svegliarsi ogni mattina in un albergo diverso. Magari il Tour Infinito è il suo modo di fermare l'istante. Che dire: beato lui. In albergo, tra una data e l'altra, trova anche il tempo di registrare il suo "Theme Time Radio Hour", un programma radiofonico che comincerà nel 2006 e andrà avanti fino al 2009. Un'ora di trasmissione, una dozzina di vecchie canzoni collegate dallo stesso argomento, e tra un pezzo e l'altro la voce di Dylan che si atteggia a vecchio dj notturno - quel caldo timbro sussurrato delle vecchie FM (continua sul Post)
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E se avesse vinto il Sì? Renzi sarebbe più tranquillo? (No)

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È passato un anno da quando ce la siamo vista bella. L’Italia stava per affondare nel caos e nella recessione. Ricordate? Il 4 dicembre del 2016 gli italiani furono chiamati alle urne: ufficialmente per dare il proprio assenso ad alcune “non lievi” riforme costituzionali, in pratica per scegliere tra il Governo Renzi e la Catastrofe. Ci aveva ben avvertito Confindustria, fin dall’estate precedente: la vittoria del “No” avrebbe causato “il caos politico” e le aste dei titoli di Stato sarebbero andate deserte, con la conseguente crisi di fiducia degli investitori, fuga di capitali, svalutazione dell’Euro, recessione, pioggia di rane, invasione di cavallette. Se tutto questo non è successo, non possiamo che ringraziare la prudenza e il giudizio degli elettori italiani, che tra Renzi e l’Apocalisse hanno scelto… ehm, cos’hanno scelto?



Perché in effetti ha vinto il “No”: a quest’ora le cavallette dovrebbero essere passate da un pezzo. Qualcuno le ha viste? (Ho scritto un pezzo per TheVision: A un anno dal referendum la vittoria del No è stata un disastro solo per Renzi).
Da parte sua Confindustria nel suo ultimo rapporto ha rivisto al rialzo le stime per il PIL italiano (nel 2017 +1,5%; nel 2018 +1,3). “A fine 2018 il PIL recupererà il terreno perduto con la seconda recessione (2011-13)”. Le esportazioni addirittura “volano”, il Made in Italy guadagna quote di mercato, “gli investimenti mostrano un vivace dinamismo”, l’occupazione sale dell’1,1% e di questo passo nel 2018 dovrebbe toccare i massimi storici. Non è tutto rosa e fiori, sia chiaro: l’Italia cresce, ma meno degli altri Paesi della UE; abbiamo quasi otto milioni di disoccupati, troppi dei quali sono giovani. Ma tutto sommato quest’anno Uno dal Referendum poteva andare molto peggio di così. Insomma forse l’anno scorso Confindustria aveva un po’ esagerato. Dopo Renzi non c’è stato il diluvio, ma un passaggio di consegne molto rapido e quasi indolore; Gentiloni gli è subentrato a Palazzo Chigi sostenuto più o meno dalla stessa maggioranza, che nei sondaggi risulta spesso più popolare di Renzi. Altri sondaggi danno il partito di Renzi dietro al M5S, a volte anche dietro Forza Italia. Insomma il 4 dicembre è stata davvero una catastrofe: magari non per l’Italia ma per Renzi e i suoi sostenitori.

La fatidica data va quindi ad aggiungersi al Catalogo delle grandi occasioni perdute del centrosinistra, un volume ormai cospicuo e straziante, che i lettori affezionati non riescono a non riaprire a intervalli regolari, ogni volta che sale quella tipica voglia di piangere sul latte versato – ah, se Bersani non avesse sostenuto il governo Monti. Ah, se il Prodi Due non fosse caduto per un voto. Ah, se Bertinotti non avesse fatto cadere il Prodi Uno. E così via, credo che si possa risalire almeno fino all’Aventino (quello del 1924, ma forse anche quello del 494 aC). Ah, se Renzi avesse vinto il referendum... In che Italia vivremmo adesso? Certo, la Storia non si fa coi Se. Ma in politica non c’è niente di male a sperimentare qualche “Se” ogni tanto. Chiamiamolo esercizio mentale. Se le cose dopo il No al referendum non sono andate malaccio, è lecito sospettare che con un Sì sarebbero andate ancora meglio. Renzi sarebbe rimasto al suo posto e… cosa sarebbe successo, poi? Se lo chiedi a un renzista, ti dipingerà uno scenario idilliaco: Renzi avrebbe finalmente governato indisturbato.

Più che un’ideologia il renzismo è un credo, un atto di fede. Chi lo professa è serenamente convinto che Renzi possa trasformare l’Italia in un Paese migliore. Per farlo, però, Renzi (come tutti i rivoluzionari) deve essere lasciato indisturbato per un impreciso periodo di tempo – niente compromessi, niente volgari coalizioni e ammucchiate, insomma niente democrazia parlamentare (che con l’Italicum si proponeva neanche tanto velatamente di superare). Renzi si realizzerà soltanto nel momento della vittoria totale; e siccome il tizio non è mai riuscito a farsi votare da più di 11 su 50 milioni di elettori italiani, vale la pena di domandarsi se si realizzerà mai. La prospettiva renziana sul post-referendum dipendeva molto da questo assunto: una volta vinto il referendum, Renzi sarebbe diventato super-popolare e imbattibile. Di lì a poco Mattarella (che Renzi fortissimamente volle al Quirinale) avrebbe probabilmente sciolto le camere, di modo che già nella primavera 2017 avremmo avuto la possibilità di votare e di veder trionfare un governo Renzi Due completamente monocolore. Che prospettiva esaltante (per un renziano).

Ma le cose difficilmente sarebbero andate così. Per pensare a uno scenario del genere, non bisogna soltanto credere in Renzi, ma anche che la democrazia contemporanea preveda l’annichilimento dell’avversario. I nemici di Renzi (Berlusconi, Grillo, Bersani, Salvini, insomma tutti), una volta sconfitti al referendum, avrebbero dovuto accettare una resa incondizionata e ritirarsi a vita privata. In democrazia accade spesso il contrario: l’avversario sconfitto non scompare, ma incattivisce. Dietro a Berlusconi, Grillo, Bersani e Salvini ci sono quattro fette di elettorato che difficilmente Renzi avrebbe potuto erodere in pochi mesi - se vi ricordate i toni della campagna di un anno fa si erano fatti piuttosto accesi. Renzi era già l’uomo da battere prima del referendum: dopo il 4 dicembre gli agguati trasversali si sarebbero intensificati. Uno in particolare era già predisposto sul cammino di Renzi: il 25 gennaio del 2017 la Consulta avrebbe dichiarato incostituzionale la legge elettorale inventata da Renzi e Berlusconi al Nazareno, il cosiddetto “Italicum”, e in particolare l’istituzione del ballottaggio nel caso nessuna lista avesse sorpassato il 40% dei suffragi.

In realtà già a dicembre l’Italicum era considerato dagli stessi renziani una legge sorpassata, da modificare al più presto. Non per una serie di obiezioni costituzionali più che fondate, ma perché ormai i sondaggi avevano chiarito che l’Italicum, per come era stato disegnato, rischiava di consegnare una solida maggioranza parlamentare al Movimento Cinque Stelle. Possiamo anche immaginare che Renzi, ebbro del successo appena ottenuto col referendum, decidesse di giocarsi il tutto per tutto in inverno con l’Italicum: ma difficilmente Mattarella avrebbe sciolto le camere a Natale (e in tal caso, comunque, si sarebbe aperta una fase di incertezza politica non molto diversa da quella prospettata da Confindustria in caso di vittoria del No). Più probabilmente, Renzi avrebbe atteso la primavera per rassegnare le dimissioni: e a quel punto la bocciatura dell’Italicum non lo avrebbe mortificato, anzi. Dopo aver vinto il Referendum – quindi dopo aver ottenuto più del 50% dei voti su un quesito costituzionale – Renzi avrebbe senz’altro immaginato di poter ottenere più del 40% dei suffragi alle elezioni anticipate. E quindi? E quindi ci avrebbe portato a votare in primavera.

E avrebbe vinto?

Non possiamo saperlo, ma dobbiamo immaginare a cosa sarebbe successo a quel punto in Italia: di che cosa si sarebbe discusso nei mesi tra la campagna referendaria e quella elettorale. Ma visto che negli ultimi mesi il centrodestra ha puntato tutto sulla cosiddetta emergenza dei rifugiati, azzardiamo un’ipotesi: Berlusconi e Salvini avrebbero fatto la stessa cosa. Storicamente la Lega e Forza Italia insistono sempre sul tema della sicurezza, in campagna elettorale. Bossi proponeva di sparare ai barconi più di dieci anni fa; Berlusconi è meno drastico ma ha sempre chiamato il suo popolo a raccolta contro la minaccia esterna, i comunisti, i musulmani che vogliono invaderci, eccetera. A Renzi sarebbe rimasto il ruolo ingrato di difensore dell’accoglienza: dopotutto fu il suo governo ad accettare la missione Frontex, che prevede che le navi che pattugliano il Mediterraneo portino i profughi in Italia. Renzi sarebbe andato alle elezioni in primavera non solo come l’uomo da battere, ma come l’uomo di Frontex e dello Ius Soli. Avrebbe vinto? Secondo me no, non ce l’avrebbe fatta. Forse avrebbe prevalso su un Berlusconi ancora intorpidito e un Grillo poco intenzionato a governare; forse avrebbe avuto persino il mio voto; ma non avrebbe raggiunto il 40% dei voti. E quindi?

E quindi ci saremmo trovati un altro governo di coalizione, come quello che ci aspetta, probabilmente, nel 2018. Forse avremmo risparmiato un anno. Forse il Pd non si sarebbe spaccato. Ma di sicuro avremmo vissuto un’altra stagione di incertezza, e Confindustria ce l’ha già spiegato: ai mercati l’incertezza non piace.
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Dylan ama, Dylan ruba

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"Love and Theft" (2001)


(Il disco precedente: Time Out of Mind
Il disco successivo: Modern Times).


Questi cosiddetti esperti della musica di Bob Dylan... Non credo che ne sappiano nulla, che abbiano la minima idea di chi sono e cosa rappresento. Lo so che credono di avercela, il che è ridicolo, esilarante e triste. Il fatto che gente del genere abbia passato così tanto tempo pensando... a chi? A me? Fatevi una vita, per favore. Nessuno dovrebbe pensare così tanto a qualcun altro. Non state onorando la vostra vita. La state buttando via (Dylan nel 2001 al Times, a proposito di me).

Il nuovo secolo avrebbe dovuto portarci i telefonini coi tasti più piccoli, Berlusconi di nuovo a palazzo Chigi, e un brutto disco di Dylan. I segni nell'aria c'erano tutti: la gente aveva davvero bisogno di più tasti sui telefoni. Tutti non facevano che messaggiarsi, passavano il tempo a premere anche tre volte un tasto per trovare la lettera giusta (nessuno si fidava del t9, ammesso ci fosse già). Quando non venivano investiti agli incroci erano loro stessi a investire qualcuno, era un'emergenza sociale, i giornalisti erano preoccupatissimi. Quanto a Berlusconi, beh, il suo principale contendente era Rutelli. La vittoria del Polo della Libertà era data per inevitabile, e anche Dylan probabilmente stava per uscire con un brutto disco. Anche solo per una questione di statistica. Berlusconi vince un'elezione su due, Dylan ha mai fatto tre dischi belli di fila? Il dylanita alla soglia del 21esimo secolo ormai lo sapeva: ogni capolavoro ha un suo prezzo. Se il prezzo di Oh Mercy era stato Under the Red Sky, cosa potevamo aspettarci dopo Time Out of Mind? I segni dell'imminente catastrofe c'erano tutti. Aggiungi questa circostanza inquietante: non si trovava più nessuno in giro disposto a parlare male di Bob Dylan. Time Out, col suo Grammy per il Miglior Disco, aveva segnato il discrimine da "solito stronzo" a "venerato maestro". Improvvisamente stava simpatico a tutti. Quando Curtis Hanson, il regista di LA Confidential, gli chiede una canzone per il suo nuovo film, Dylan non si fa pregare e offre un brano pregevole, Things Have Changed, in cui gioca col suo personaggio con una disinvoltura inedita per lui (se il ritornello è davvero un disincantato riferimento a The Times They Are-A Changin'):

La gente è matta, i tempi son strani,
io sto fuori dal giro, ho legate le mani:
una volta mi sarei preoccupato,
ma è tutto cambiato.



Con Things Have Changed Bob Dylan vince l'Oscar per la miglior canzone. Se lo meritava? In lizza c'era anche Björk, era l'anno di Dancer in the Dark. Può anche darsi che il 2000 non avesse niente di meglio da offrire, ma fa un certo effetto pensare che i giurati dell'Academy trent'anni prima non avessero notato Knockin' on Heaven's Door - non dico una statuetta, ma almeno una nomination. È che nel 2000 Dylan, senza sforzo apparente, è diventato molto più premiabile. Ormai è un'icona al di sopra delle polemiche: sfoggiarlo in salotto fa fine e non impegna. A questo punto servirebbe proprio un disco brutto - anzi no, qualcosa di peggio. Qualcosa che, nelle mani di Dylan, fosse una garanzia di disastro: un film.



E infatti ecco il film - anche a questo il dylanita è ormai rassegnato: quando le cose cominciano ad andare troppo bene, di solito Dylan fa un passo più lungo della gamba che spesso si traduce in un film (o un aborto di). Ai tempi di Blonde on Blonde stava cercando di montare Eat the Document (non c'è mai riuscito); la Rolling Thunder Revue terminò col botto di Renaldo and Clara; il primo millennio di Dylan termina con Masked And Anonymous, un film scritto da Dylan in collaborazione con Larry Charles, al suo debutto dietro la macchina da presa. Charles era uno degli autori di Seinfeld: in seguito avrebbe firmato i film di Sacha Baron Cohen. Masked non è purtroppo il film divertente che avremmo potuto aspettarci da lui. Si capisce che Dylan ci ha lavorato davvero - ogni personaggio, più che dialogare, sembra intonare un monologo, attaccare una strofa. Qualsiasi tentativo di alleggerire i contenuti è demandato ai membri dell'incredibile cast: Jeff Bridges (Dylan lo minaccia spaccando una bottiglia di Jack Daniels), Penelope Cruz, John Goodman (sempre il migliore), Jessica Lange, Luke Wilson, Val Kilmer (a un certo punto si dimentica la parte ma Charles continua a girare), Chris Penn, Mickey Rourke, Christian Slater, e ne ho senz'altro dimenticati. Tutta gente che recita al minimo sindacale o quasi, per la gloria di stare sul set col grande Bob Dylan. Quindici anni prima sarebbe stato impensabile. Quel che ricordo meglio di Masked è l'ambientazione caotica, un set che sembra ricavato all'ultimo momento nella periferia di una guerra civile. Se non siamo nel Terzo Mondo, stiamo per entrarci. Bob Dylan è Jack Fate, un burbero cantautore che un tempo era un mito (sì, lo stesso personaggio di Hearts of Fire) che si ritrova senza sapere bene perché sul palco di un equivoco concerto di beneficenza ("Se vuoi far venire un cantante, gli devi dare una Causa o un Premio", dice l'impresaria Jessica Lange). La storia è un pretesto per contemplare un mondo devastato e dispensare qualche massima di saggezza; c'è anche il tempo per cantare un paio di canzoni con la sua band, ma la maggior parte della colonna sonora è composta da cover dei suoi brani anche in lingue straniere, tra cui una memorabile My Back Pages in giapponese, mentre il contingente dylanita italiano è rappresentato da ben due brani. Uno è di De Gregori, e non sorprende, l'altro è Come una pietra scalciata degli Articolo 31, e sorprende eccome.



Il Dylan dei primi Duemila, tra Things Have Changed e Masked And Anonymous, sembra ormai vivere in una bolla autoreferenziale: tutti gli vogliono bene purché lui continui a interpretare sé stesso, e per una volta lui sembra non volerli deludere. Con Masked si cristallizza anche l'immagine del "vecchio Dylan", che sul set del video di Things si aggirava ancora un po' smarrito mentre ora sembra disegnato a tavolino da un team di stylist molto attenti a valorizzare il brand: il cappello Stanton e i baffetti sottili devono diventare rapidamente dettagli iconici, come la bombetta e il baffo di Chaplin. È lo stesso Dylan che ci guarda intenso dalla copertina del nuovo disco (ancora un bianco e nero vintage) che compare finalmente nei negozi nel giorno meno adatto al mondo, l'undici settembre 2001. Immaginatevi i crocchi di gente nei multistore che guardano le Twin Towers crollare in diretta sui primi maxischermi piatti. I dylaniti aggirano la folla, sovrappensiero: devono comprare il nuovo cd, e chissà che ciofeca sarà. Stavolta non c'è scampo - ormai son più di dieci anni che non fa un disco davvero brutto, stavolta dev'essere la volta. Per dire, chi è il produttore? Jack Frost? Jack chi?

Jack Frost, nel folklore anglosassone, è una specie di folletto della brina, l'entità invernale che disegna cristalli alle finestre. Dylan ha già cominciato a usare questo pseudonimo negli anni Ottanta, ogni qualvolta si è assunto l'onere di produttore - mai da solo però. Bob Dylan, si sa, non è capace di prodursi da solo. A malapena riesce a riascoltarsi. Bob Dylan, meno tempo passa in sala di registrazione, meglio è. Bob Dylan ha bisogno di qualcuno che lo segua passo passo. Bob Dylan è il peggior critico di sé stesso: un disco prodotto da Dylan/Frost non può che essere una catastrofe. E ora che lo sappiamo, coraggio, ascoltiamo "Love and Theft".

E scopriamo che è uno dei più bei dischi di Bob Dylan.

(Non sto scherzando stavolta).

Tweedle-dee Dum and Tweedle-dee Dee, 
they’re throwing knives into the tree. 
Two big bags of dead man’s bones, 
got their noses to the grindstones...

(Continua sul Post)
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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

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Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 

E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.

Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.





Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.

Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.

Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killersatanico; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).

E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.

Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.

Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.

A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).

Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.



Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40

*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
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