Marco Minniti ha visto un mostro

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Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.


Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere... (continua su TheVision)
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Liberi e non troppo uguali a Corbyn

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Compreremo ottomila case. Non è andato proprio per il sottile, Jeremy Corbyn, quando domenica scorsa Andrew Marr della BBC gli ha chiesto cosa avrebbe fatto il Labour per i senzatetto britannici. Potrebbe sembrare la classica promessa elettorale, salvo che le elezioni ci sono già state, ma a questo punto nel Regno Unito potrebbe succedere davvero qualsiasi cosa – qualcuno comincia a parlare di un secondo referendum sulla Brexit. L’approccio di Corbyn è quello di un solido marxista che dietro a ogni fenomeno riconosce la sagoma della lotta di classe: la polemica contro gli speculatori che lasciano le case sfitte in attesa che i prezzi risalgano è un suo tradizionale cavallo di battaglia. Dietro allo spot populista (compriamo subito ottomila case, nessuno dormirà più per strada) c’è quindi l’abbozzo di un programma sociale: daremo alle autorità locali il potere per requisire le abitazioni che non vengono deliberatamente immesse nel mercato. C’è l’identificazione di un nemico di classe: il proprietario che non vende o non affitta. Lui probabilmente non voterà Corbyn, e Corbyn senz’altro il suo voto non lo chiede.
Questa è forse la differenza più grande coi gentisti italiani: anche loro, ultimamente, in fatto di promesse non scherzano. Ma quando poi si chiede a Di Maio dove troverà la copertura per il reddito di cittadinanza, o a Berlusconi dove raccatterà i soldi per portare la pensione a mille euro (specie se nel frattempo Salvini pretende la flat tax), la risposta è sempre un po’ vaga. Il populismo italiano è un fenomeno trasversale che rifugge la lotta di classe e si basa sull’idea che da qualche parte esista un immenso tesoro, un serbatoio di risorse intatte a cui lo Stato ancora non ha attinto a causa della malignità dei suoi rappresentanti. “Aboliremo gli enti inutili!” propone Di Maio, forse senza sapere che se ne parla almeno da 40 anni e che molto è stato già abolito – ma non importa, da qualche parte probabilmente esistono ancora milioni di euro da redistribuire ai disoccupati. E poi, naturalmente, si possono mandare a casa i politici (che in effetti hanno sempre meno soldi per la campagna elettorale, e questo per ora sembra renderli più disperati e rapaci), e che altro c’è? Le banche avide (ma molto spesso sono in sofferenza), i dipendenti pubblici fannulloni (ma quanti saranno?), gli insegnanti che invece di fare 18 ore alla settimana potrebbero farne di più (ma ne fanno già molte di più) e, stavamo per dimenticarli, gli evasori fiscali. Ma di quelli Berlusconi, Grillo (e Casaleggio) hanno sempre parlato poco.
Ne parla più volentieri la sinistra – già, perché c’è anche una sinistra che andrà alle elezioni in Italia. Neanche a farlo apposta, poche ore dopo la dichiarazione di Corbyn è stato pubblicato il programma elettorale di Liberi e Uguali, il movimento che proprio dal Labour sembra avere copiato almeno lo slogan (“Per i molti, non per i pochi”). Si parla di alloggi per i senzatetto, nel programma di LeU?
Se ne parla, sì: e meno male, visto che i senzatetto che nel Regno Unito vengono considerati un’emergenza sono intorno ai quattromila, mentre in Italia l’Istat ne conta molti di più: cinquantamila nel 2014. Ciononostante l’argomento non scalda la campagna elettorale (i senzatetto non votano) e anche LeU dedica a tutta la questione della prima casa appena due righe al capitolo Welfare: “La crisi ha lasciato in eredità un enorme patrimonio immobiliare abbandonato che pesa sui bilanci delle banche. Dalla sua acquisizione, come abbiamo già detto, può venire una risposta importante all’esigenza di tornare a rendere effettivo il diritto alla casa”. Più su in effetti si era proposta “la creazione di un fondo pubblico per l’acquisizione dei crediti in sofferenza garantiti da immobili, da destinare all’edilizia popolare con affitti calmierati”. Sono proposte di buon senso, molto tecniche e che svelano un approccio piuttosto distante da quello di Corbyn. Per lui una bella casa sfitta è un’ingiustizia, e il fondo immobiliare che la possiede l’evidente nemico; per LeU il patrimonio immobiliare abbandonato “pesa sui bilanci delle banche”, un’espressione che tradisce un istintivo moto di pietà, del tipo “povere banche, che vi siete accollate la prima bolla immobiliare dal dopoguerra, in un qualche modo vi aiuteremo”.
In controluce, si indovina tutta la differenza tra le due storie: Corbyn è un virus vetero-marxista che è sopravvissuto nel Labour a ogni vaccino blairiano, fino a prendere il sopravvento. Mentre i Liberi e gli Uguali che si stringono intorno al cartellone di Pietro Grasso sono per lo più amministratori, che con le banche dei loro territori hanno un’antica familiarità: conoscono i loro limiti e non saprebbero chiamarle nemiche nemmeno quando si tratta di spararle grosse in campagna elettorale.Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso:
Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso... (continua su TheVision)
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Senza Sinistra Sulle Schede (Si Sopravvive) (Spero)

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Lo sapete che la sinistra è in crisi? Lo è più o meno da sempre, almeno nella narrazione dei quotidiani. Lo è per definizione: mentre la destra fa paura, sempre sul punto di svoltare, la sinistra è divisa, disorientata, eccetera. Serve un esempio? Questo è appunto il mestiere del commentatore. Trovare ogni tot giorni un esempio diverso.

Lo spunto dell’ultima settimana: pare che sulle schede elettorali, per la prima volta dopo tanti anni (ma quanti?) non vedremo più la parola “sinistra”. In realtà qualche fortunato avrà modo di vederla ancora, nel bollino col quale si presenteranno insieme i principali partiti trotzkisti italiani, che sono appena due. Folklore a parte, le formazioni di sinistra che hanno qualche chance di sbarcare in parlamento (Potere al Popolo, Liberi e Uguali) hanno rinunciato a mettere nel simbolo la parola che comincia per S. Quanto al PD, com’è noto, la “S” l’ha rottamata ben prima che arrivasse Renzi: già nel 2007, quando gli allora Democratici di Sinistra si fusero con i post-democristiani e centristi della Margherita. Risultato: a 22 anni dalle elezioni del ‘96 (in cui il partito più votato in Italia risultò proprio quello dei DS) gli elettori italiani non troveranno “sinistra” sulla scheda. È un fatto grave?

No.

Ma è interessante notare come viene raccontato, con quell’attenzione per il bicchiere mezzo vuoto che è necessaria a chiunque voglia parlare di sinistra (e quindi di crisi). Si dà per scontato che qualsiasi novità debba coincidere con qualcosa di negativo: se non c’è più la parola “Sinistra” ci stiamo senz’altro perdendo qualcosa. Qualcosa che c’era già, e quindi senz’altro è qualcosa di antico, e di nobile. Qualcosa che non riusciamo più a recuperare perché siamo in crisi. Nota: questo modo di pensare è in assoluto l’atteggiamento meno “di sinistra” che si possa immaginare. L’attenzione maniacale alle tradizioni antiche o presunte tali è quello che ci si aspetterebbe dalla destra: ma appunto, in Italia la destra si racconta in tutt’un altro modo. È scaltra, si annida, prolifica nell’ombra e al momento giusto prenderà il sopravvento. Se la destra rinunciasse all’improvviso al suo nome, i commentatori non penserebbero che è in crisi. Sagacemente suggerirebbero che si stia mascherando per ottenere più consensi. Il problema in realtà non si pone, perché la destra ha usato raramente la parola “Destra” sui suoi bollini elettorali. E invece, la Sinistra, l’ha usata poi così spesso?

Neanche tanto... (continua su TheVision)
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Al di là del Partito del Piacere

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C’è mai stata una campagna elettorale tanto simile a un saldo di fine stagione? Sarà che Berlusconi non ha più niente da perdere; sarà che il M5S ha più voglia di lanciare promesse assurde che di vincere (col rischio poi di doverle mantenere); sarà magari anche la stagione, la depressione post-natalizia; proprio mentre stiamo lentamente elaborando la delusione per non aver trovato sotto l’albero quello che desideravamo, ecco che arriva Di Maio con uno scrigno pieno di Reddito di Cittadinanza. Ma da dietro spunta Berlusconi e promette di togliere tasse per sei anni a chiunque ci assuma a tempo indeterminato, se le elezioni le vince lui. Quanto a Pietro Grasso, lui non vince di sicuro ed è un peccato, sennò potremmo tornare all’università gratis, magari riavere indietro i nostri vent’anni.


Intruppato in mezzo a questi favolosi personaggi da presepe, Matteo Renzi sembra l’imbonitore meno convinto. Si intuisce che anche lui vorrebbe partecipare al gioco; abolirci, che so, il canone in bolletta. Ma si trova inchiodato a un ruolo che non ha mai incarnato volentieri, ma che è il fardello di ogni leader italiano di Centrosinistra: il rappresentante del Principio di Realtà.

Proprio lui, che appena ieri era il più giovane: proprio a lui ora tocca il ruolo antipatico dell’adulto che fa due conti e scrolla la testa: mi dispiace, ma non ce lo possiamo permettere. Salvini vuole la flat tax? Un bel regalo ai ricchi, ma con che soldi? I Liberi e Uguali vogliono l’università gratis per tutti? Non sarebbe poi un’idea così fantascientifica, per esempio in Danimarca qualcosa del genere c’è, ma qui da noi manca la copertura (la Danimarca ci piace solo quando licenzia facile). Il Principio di Realtà, spiegava Freud, non è opposto al più infantile Principio del Piacere, ma ne è per così dire una versione più evoluta, modellata dalle stesse “pulsioni di autoconservazione dell’ego”: è come se per tutti noi venisse una specie di 7 gennaio della vita in cui capiamo che non possiamo alimentarci per sempre a torrone e pandoro. Dobbiamo in qualche modo accettare l’idea che esiste il diabete, esistono i lunedì, le tasse, i debiti e tutte queste cose orrende e insormontabili che compongono la dimensione chiamata realtà. Un momento del genere arriva persino per gli italiani, più o meno ogni otto/dieci anni: è l’unico momento in cui la sinistra ha qualche chance di vincere le elezioni. Peccato che dopo averle vinte non possa fare quasi nulla di sinistra...

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Dell'Iran (non capiamo niente)

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L’Iran non è mai quello che ti aspetti. Quando verso la fine di dicembre abbiamo iniziato a sentir parlare di proteste, la prima immagine che abbiamo messo a fuoco era quella di una donna giovane che si toglieva il velo e lo sventolava in una strada di Teheran. Semplice e perfetta. Per Roberto Saviano era “il simbolo della rivolta in Iran. Non una rivolta contro il velo ma contro l’obbligo del velo”.

Nel giro di poche ore abbiamo però scoperto che la foto, per quanto potente, non aveva a che fare con le proteste, che non erano nate a Teheran ma a Mashhad (seconda città dell’Iran) e che non sembravano riguardare il velo, ma i rincari dei prezzi e le difficoltà economiche causate da una crisi finanziaria. È una protesta molto diversa dall’Onda Verde del 2009, scriveva una settimana fa sul New York Times lo scrittore iraniano-americano Amir Ahmadi Arian. A protestare non è la classe media, ma quella metà della popolazione a cavallo della soglia della povertà (40 milioni di iraniani): “la folla dei mangiapatate”, come li definisce il giornalista dissidente Ebrahim Nabavi. È una classe sociale che non solo non ha il velo tra le proprie priorità, ma che osserva con rabbia crescente lo spettacolo dei giovani rampolli iraniani, la riccanza locale che ostenta un lifestyle ben poco islamico. “I giovani ricchi iraniani si comportano come una nuova classe aristocratica, inconsapevoli delle origini della loro ricchezza”, scrive Arian. Quel che è peggio è che la postano su Instagram, su account eloquenti come TheRichKidsOfTeheran (“Questo è RKOF, ti avvertono: se sei politicamente frustrato, scoreggiati altrove”). Altro che obbligo di portare il velo: qui c’è gente che posa in bikini a bordo piscina, semplicemente perché può permetterselo (continua su TheVision).


Ci aspettavamo un movimento per i diritti civili, per la libertà di espressione, e invece questi mangiapatate se la prendono per cose proletarie come il carovita. Pensavamo che le protagoniste delle dimostrazioni fossero le donne, ansiose di togliersi il velo, e invece a dominare la scena sono gli iraniani delle aree rurali, ostili verso chi il velo può permettersi di toglierlo, in barba alla shari’a. Speravamo che gli smartphone li avrebbero aiutati a coordinarsi e a comunicare con l’estero (via Telegram e Signal), e invece salta fuori che molto spesso si riducono a uno spaventoso catalizzatore di invidia sociale (via Instagram). Ci aspettavamo una protesta civile, nonviolenta, come l’Onda del 2009, e abbiamo una massa scomposta e forse manovrata dalla frangia ultraconservatrice: l’ex presidente Ahmadinejad sarebbe agli arresti con l’accusa di aver “incitato alla rivolta”. Durante i suoi mandati le cooperative di credito avevano attirato i piccoli risparmiatori, offrendo interessi inverosimili e mandandoli sul lastrico: quando il governo del successore Rouhani ha tentato di normare il settore il sistema è crollato come un castello di carte e ora chi ha perso tutto se la prende con i politici.

Le cose probabilmente sono ancora più complicate di così, soprattutto ora che la protesta è arrivata a Teheran ed è diventata più interclassista. Azar Nafisi (l’autrice di Leggere Lolita a Teheran) su Repubblica domenica scorsa ha ribadito che le donne sono “sempre in prima fila”, e che “stanno portando avanti questa campagna contro il velo”, anche se “non è contro il velo e basta che si battono. È in nome della libertà di scelta…” Anche la Nafisi è un’esule, vive negli USA: uno dei motivi per cui facciamo fatica a raccapezzarci su quanto accade in Iran è che molte delle informazioni filtrano attraverso i contatti – complicati – mantenuti da parte di chi è fuggito. I corrispondenti esteri sono pochi e faticano a uscire da Teheran, che come tutte le capitali non è la città più adatta a capire quel che succede nel Paese profondo.

In una situazione del genere è abbastanza normale che ciascuno proietti sul mistero dell’Iran le proprie ombre: e il velo in questi casi è sempre la prima cosa di cui si parla, il dettaglio più appariscente. Può darsi che non sia l’attuale priorità dei manifestanti che scendono nelle strade a rischio della propria vita: ma di sicuro è una nostra priorità, di occidentali globalizzati che con le donne velate nei luoghi pubblici hanno appena cominciato a convivere, perlomeno in Italia. Forse per gli iraniani il velo è davvero un simbolo, di sicuro lo è per noi. Ed è di noi che stiamo parlando quando crediamo di parlare dell’Iran. Una popolazione povera che protesta contro un brusco rincaro dei prezzi (contro la fame, insomma) è qualcosa di lontano dalla nostra quotidianità, dalla nostra sensibilità. Un gruppo di donne che vuole sfilare a testa scoperta è molto più facile da capire.

L’Iran moderno è un Paese isolato che comunica per lo più attraverso i suoi dissidenti. Gran parte di loro facevano parte di una classe media che forse è quella che ha maggiormente sofferto l’avvento del regime oscurantista degli ayatollah. È lo spicchio sociale descritto con straordinaria efficacia in Persepolis, il fumetto e libro di Marjane Satrapi – anche lei esule, in Francia. La Teheran in cui cresce la protagonista è una città che partecipa alla rivoluzione del 1979 con entusiasmo. La famiglia di Marjane è relativamente benestante (la giovanissima protagonista scopre di discendere da una famiglia di principi); uno dei suoi zii è un dissidente comunista, scarcerato durante la rivoluzione e prontamente riarrestato quando i pasdaran prendono il potere. Di fronte alla notizia che gli islamici hanno stravinto le elezioni, reagisce con la flemma del materialista storico: l’Iran è un Paese di contadini – dice – è normale che votino per gli uomini di religione. La Satrapi non potrebbe raccontare la storia di quei contadini, e quel che rende Persepolis una storia straordinariamente onesta ed efficace è proprio il fatto che nemmeno ci prova: il suo è il punto di vista di una figlia della borghesia che durante gli anni della guerra assiste alla perdita dei propri privilegi. È un milieu che tenta di risollevarsi il morale organizzando feste clandestine in cui si può ancora ballare la disco e bere alcolici: fuori, in strada, pattugliano ragazzini fanatici talmente giovani che non riescono a farsi crescere la barba – l’età media della popolazione non raggiunge i 30 anni.

In una delle scene più rivelatrici, una conoscente di Marjane, costretta a chiedere un visto per far operare suo marito all’estero, scopre con orrore che il funzionario che glielo può concedere – l’uomo che ormai ha diritto di vita o di morte su suo marito – è il suo ex lavavetri. Per lo spettatore progressista occidentale è un po’ il momento della verità: fino a che punto saresti pronto ad accettare una rivoluzione? E se il ribaltamento degli assetti sociali portasse il tuo lavavetri su un gradino più alto del tuo? Dal nostro punto di vista è difficile accettare che quella del 1978-1979 sia stata una vera rivoluzione, dal momento che ha condotto l’Iran a un regime teocratico e oscurantista. Per il ceto borghese delle città è stato senz’altro un passo indietro: ma per il popolo delle campagne? Ogni tanto un quotidiano italiano ripubblica foto di donne iraniane prima della rivoluzione, a capo scoperto e vestite nelle tinte sgargianti che negli anni ‘60 e ‘70 potevano andare di moda anche da noi. Il messaggio è chiaro: la Persia dello Shah era un Paese in procinto di diventare una democrazia occidentale, gli ayatollah hanno interrotto quello che ci sembra il progresso naturale delle cose. Ma quelle foto selezionano una classe sociale ben precisa, la borghesia cittadina: nelle campagne, e nei ceti più umili, il velo resisteva. Possiamo considerarlo un simbolo religioso, e odiarlo per la sottomissione che implica, ma è anche un simbolo sociale: è la campagna (tradizionalista, clericale) che vince sulla borghesia cittadina e sulle sue velleità cosmopolite. Appena sentiamo che l’Iran si rivolta, speriamo che c’entri in qualche modo il velo: vorremmo che fosse una protesta moderna, una campagna sui diritti civili, come quelle che combattiamo in occidente e che ormai coincidono con l’agenda progressista di qualsiasi partito di centrosinistra.

Lo zio marxista di Marjane forse direbbe che abbiamo perso la coscienza di classe, e che ci siamo dimenticati che anche l’obbligo del velo è una sovrastruttura. Che le donne smetteranno di indossarlo quando conquisteranno un potere contrattuale che nella società iraniana ancora non hanno, e che conseguiranno quest’ultimo dopo aver conquistato il lavoro e il diritto di voto: perlomeno nelle nostre campagne è andata così. Allo zio, però, potremmo rispondere che le cose si sono rivelate più complesse; per esempio si è scoperto che la Storia non va necessariamente in una direzione. Si pensava che una rivoluzione sociale diretta dal clero sciita fosse un controsenso, ma è un controsenso che va avanti da 40 anni, ormai. Forse più che di progresso bisogna parlare di adattamento all’ambiente, e che finché funziona, il regime degli ayatollah ha dimostrato di sapersi adattare. Un giorno comunque finirà, perché tutto finisce: possiamo sperare che finisca presto, anche se da qui ci è impossibile capire come.
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I giornalisti italiani non parlano ai ventenni

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Buon Anno a tutti – capita anche a voi che i nuovi calendari diano le vertigini? Certi anni hanno dei nomi che da bambino associavo più ai film di fantascienza che alla possibilità di arrivarci vivo. Prendi “2018”, poteva essere il titolo giusto per un romanzo sui sopravvissuti della Terza Guerra Mondiale, non l’anno in cui cambio un lavoro o decido di comprare una macchina nuova (nemmeno volante). Ma forse la vera vertigine è notare come certe cose anche futili restino al loro posto, mentre tutto il resto (giorni, settimane, mesi, governi, legislature) accelera. Per esempio la settimana scorsa, sulla prima del Corriere, mi è capitato di leggere la parola “Tafazzi”. Ancora. Possibile?

È stato Gramellini. Dovendo definire l’autolesionismo dei senatori Pd – che hanno contribuito a far mancare il numero legale sull’ultima votazione per lo ius soli – ha deciso di evocare “il ritorno di Tafazzi”. Questa è forse una buona notizia: almeno è un “ritorno”, insomma, pare che per un po’ Tafazzi non sia stato tra noi. Non solo, ma delle venti righe che ha a disposizione, il giornalista decide di spenderne almeno un paio a spiegare di chi si tratti: per fortuna il personaggio non merita veramente più di questo. “Tafazzi era l’omino di uno sketch televisivo interpretato da Giacomo Poretti che si martellava il basso ventre a bottigliate”: davvero niente da aggiungere, a parte che gli stessi autori (Aldo, Giovanni e Giacomo) lo definivano “lo zero comico assoluto”, e lo utilizzarono per lo più in brevissime gag nella trasmissione Mai dire Goal tra 1995 e 1996. Ci siete? parliamo di una macchietta che si prendeva a bottigliate nelle palle in alcuni sketch andati in onda ventidue anni fa. Ventidue anni fa.

Com’è che ne stiamo ancora parlando?

La vertigine.

Quello che sta facendo Gramellini – quello che Gramellini è bravissimo a fare – si può definire “riferimento alla cultura pop”. Ha due precise funzioni: (1) creare complicità con chi condivide la stessa cultura pop e (2) tagliare fuori tutti gli altri. In effetti di solito questi riferimenti hanno una precisa dimensione generazionale, e tendiamo a riservarli alle conversazioni tra amici. E forse dovrebbe lusingarmi il fatto che io possa ridere a una battuta del giornalista, ti ricordi di quando Giacomo si martellava le palle su Italia1? Ahah, che metafora della sinistra, a quasi un quarto di secolo di distanza. Sul serio, cosa c’è di male? Tafazzi ha 2340 risultati su Google, “tafazzismo” e “tafazzista” sono entrati nella Treccani senza destare un decimo delle polemiche riservate a “petaloso” (che nella Treccani ancora non c’è). Cos’è che mi infastidisce così tanto (a parte l’immagine di Giacomo in calzamaglia?)

C’è che gli amici che ridono cominciano a diradarsi. I quotidiani cartacei hanno perso il 50% dei lettori in dieci anni – aumentando, nel frattempo, appena del 4% su web. Le indagini sulla lettura ci confermano che la percentuale degli italiani che legge un libro oscilla da un decennio intorno al 40%. Dunque, non solo molta gente della mia età ha smesso di leggere libri e giornali, ma moltissima gente più giovane di me non ha mai iniziato. Quand’è l’età giusta per imparare a leggere un giornale? Io al liceo lo compravo. Non è che capissi tutto, ma potevo farcela. E un ventenne di oggi ce la può fare, visto quello che ci viene scritto sopra? Me lo domando spesso.

E quando leggo “il ritorno di Tafazzi” in prima pagina, mi rispondo: No. I ventenni del 2018, quando Tafazzi si sbottigliava le palle su Italia 1, non erano nemmeno nati. Non è una questione di comprensione del testo – alla fine se uno ha pazienza di leggere due righe il giornalista è pure disposto a condividere con il giovane lettore la fondamentale nozione di storia della tv degli anni ‘90 – ma chi ce l’ha quella pazienza? Se io avessi vent’anni oggi, e uno smartphone in tasca, al primo “Tafazzi” cliccherei altrove. Non saprei chi sia e nemmeno m’interesserebbe. Nome già sentito, roba da vecchi. Perlomeno ai miei tempi ragionavamo così, ogni volta che fiutavamo qualche riferimento a commedie italiane in bianco e nero o dialoghi di western con John Wayne – c’è puzza di vecchio qui, filare. A meno che nel frattempo la soglia di attenzione degli adolescenti non sia aumentata – ahahah, NO (continua su The Vision, dopo la foto di Mentana).



I giovani italiani non leggono i giornali, né su carta né altrove, e forse non li leggeranno mai. È colpa di Gramellini che si ostina a scrivere “Tafazzi” come andava di moda vent’anni fa? No. Credo che più che una causa rappresenti un sintomo. C’è una generazione di giornalisti che ai potenziali giovani lettori ha consapevolmente volto le spalle; ha fatto due calcoli e si è resa probabilmente conto che la fatica di trovare un nuovo linguaggio per recuperare i venti-trentenni non li ripagherebbe del rischio di perdere l’unica (semi)solida certezza: il pubblico ultracinquantenne.


Questi calcoli li possiamo fare anche noi: non sono difficili. Solo un po’ deprimenti. Durante le feste qualcuno è stato così gentile da allungarmi un link a un sito che non solo mi ha ragguagliato sulla data della mia probabile morte (quella più o meno l’avevo già calcolata), ma anche sulla mia posizione rispetto al resto della popolazione mondiale o nazionale. Dunque.





La cosa interessante è che mentre sono entrato a far parte già da un po’ del terzo più vecchio della popolazione mondiale, in Italia farò ancora parte per qualche anno della metà più giovane – il che è molto indicativo di quanto sia sbilanciata verso l’alto l’età media di noi italiani.


Ma che senso ha parlare di me? Stavamo parlando di Gramellini, che invece si trova qui:




Insomma ha appena scollinato, e questo spiega in parte il suo successo – è come se dalla sua terrazza Gramellini dominasse tutta la vallata che dalle vette dei Cinquanta-e-qualcosa declina lentamente verso i Novanta. Tutti quei declivi li conosce a memoria: sono il paesaggio che ha avuto davanti a sé da quando è nato. Conosce ogni sentiero e ogni modo di dire, sa dove si nasconde il Tafazzi e il Sarchiapone e ogni altra bestia fantastica dell’immaginario dei suoi lettori. Si trova nella posizione ottimale per echeggiare la porzione della popolazione italiana che i giornali ancora li legge.


La discesa non diventerà particolarmente ripida ancora per un pezzo; quanto agli abitanti della vallata a sinistra, tentare di raggiungerli non vale probabilmente la fatica di aggiornarsi. È viceversa ai venti-trentenni che viene chiesto lo sforzo di decifrare gli oscuri riferimenti alla cultura pop del secolo scorso: per fortuna c’è Google, oppure si può dare un’occhiata alla tv – specialmente alla Rai, che da questo punto di vista non è venuta meno alla sua missione di servizio pubblico: negli anni ‘60 insegnava l’italiano agli analfabeti, oggi in prima serata con il suo programma di punta (Techetechetè) insegna gli anni ‘60-’70-’80 a chi ha avuto la tremenda sfortuna di essere nato dopo.


Il grafico non è utile soltanto per mostrarci quando moriremo: ci fornisce anche una previsione ragionevole sul momento in cui auspicabilmente non sentiremo più parlare di “Tafazzi” e “tafazzismo” – più o meno verso il 2040. A quel punto Gramellini sarà sugli 80, che già oggi in Italia per un editorialista è un’età ragguardevole ma non eccezionale: Scalfari ne ha 93, Sartori ne aveva 90 quando si arrabbiò perché al Corriere gli toglievano i corsivi dalla prima pagina senza il suo permesso

Non è invece affatto facile capire cosa succederà, nel frattempo, nel mondo dell’informazione in lingua italiana: che riferimenti culturali condivideremo quando i babyboomers andranno in pensione (tardi) e non sarà più indispensabile comunicare con loro e attraverso loro? Esisterà una lingua comune che i millennial italiani possano adoperare o finiranno per usare anche loro “tafazzi” come sinonimo colorito per “masochista”, anche quando si sarà del tutto persa l’immagine terribile di Giacomo sbottigliantesi i testicoli? Non saprei. So che prima o poi dovremo preoccuparcene – il 2040 in fondo è tra poco più di vent’anni.



(La vertigine).
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L'ultimo sanguinario, tempestoso Dylan

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Tempest (2012)
(Il disco precedente: Christmas in the Heart)
Poi c'è una specie di canzone: Murder Most Foul).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come per spazzarmi via.
Mi fermo un po' a Carbondale, poi riparto,
il Duquesne mi riprenderà con sé.
Mi dai del giocatore, del ruffiano,
Ma non sono né l'uno né l'altro.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come fosse l'ultima partenza.


È stato un lungo viaggio. Anche per chi come noi lo ha fatto tutto in un anno solo, concentrato, una stazione alla settimana. Per più di un anno abbiamo accettato l'idea che un insieme arbitrario di canzoni incise sullo stesso supporto ("disco") possano avere un senso, una qualità superiore (o inferiore, talvolta) alla somma delle parti. Alcune stazioni erano famosissime, altre in disuso; altre sconosciute, artificiali, monumentali, postume. Spesso abbiamo avuto la sensazione di ritornare indietro; talvolta ci siamo messi a fantasticare di ideali scorciatoie, o di stazioni immaginarie che avrebbero avuto più senso di quelle che invece esistono davvero (e che non hanno sempre senso). Tre o quattro volte siamo arrivati in una stazione che sembrava essere concepita come l'ultima - già Blonde on Blonde in qualche modo suggeriva questa sensazione. E poi i dischi con Lanois; alcuni confanetti; e tutti i dischi dal 2000 in poi: hanno tutti quell'aria di capolinea che non ci ha mai impedito di ripartire. Tempest, uscito nel 2012, allude all'ipotesi già dal titolo, che ogni buon ex studente anglofono collega, ancor prima che a un evento atmosferico, all'ultima opera di William Shakespeare. Quella però si chiama The Tempest, con l'articolo: fu Dylan stesso a ricordarlo ai giornalisti, almeno una volta. Segno che si era posto il problema; che non trovava poi così immodesto paragonarsi al più grande bardo inglese, dopo essersi paragonato più di una volta a Picasso - e proprio di Shakespeare avrebbe parlato nel primo biglietto di ringraziamento spedito all'Accademia di Svezia dopo l'annuncio del Nobel: uno Shakespeare impresario di sé stesso, che oltre a scrivere tot righe all'anno deve anche preoccuparsi di fundraising e oggetti di scena (“Dove posso procurarmi un cranio umano?”). Chissà se poi le cose andassero davvero così, se Dylan si sia realmente documentato sulle incombenze dei drammaturghi elisabettiani. Fatto sta che a un certo punto Dylan ha voluto chiamare una stazione "Tempest"; ha voluto che pensassimo che poteva essere l'ultima; quando gliel'hanno chiesto, ha negato; e in effetti ci sono state altre stazioni, ma ora che ci siamo lasciati parecchie miglia alle spalle ci rendiamo conto che forse è andata proprio così: Tempest era l'ultima.

Certo, il treno è andato avanti. E potremmo andare avanti anche noi, almeno per un po'. Ma in un certo senso Dylan è sceso. Il Dylan compositore, perlomeno: ovvero quello che ci interessa di più. Seguono altre tre stazioni di cover di lusso, una interminabile playlist di pezzi confidenziali che potrebbe essere quel tipo di musica che suonano nell'ascensore mentre uno va in paradiso, ecco, forse da Tempest in poi ci troveremo in un limbo del genere, e sai quanto ci divertiremo! Abbiamo tre stazioni per decidere se Dylan abbia preso più da Sinatra o più da Louis Armstrong o per caso niente da entrambi. Ma prima di tutto questo dobbiamo affrontare Tempest con la consapevolezza che è davvero, che ha proprio tutta l'aria di essere l'ultimo disco di inediti che Dylan ha voluto pubblicare. E com'è questo Ultimo Disco di Dylan, com'è? Beh:


Ha una della copertine più brutte mai autorizzate da Dylan ("Qualcuno è stato davvero pagato per questa cosa?" "Sembrano i primi passi su photoshop di uno studente del primo anno"). Ma dal punto di vista musicale, l'unico che c'interessi davvero, com'è?

È... straordinario (per un settantenne, almeno).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come non ha fischiato mai.
Il blu lampeggia, il rosso avvampa
come sulla porta della mia camera.
E tu sorridi ancora dal cancello
come mi sorridevi un dì?
Senti come fischia il vecchio Duquesne:
come se non dovesse fischiare più.

La straordinaria opera di un settantenne. Temo che a questo punto del viaggio l'età del conducente non possa più essere considerata una curiosità. Per quanto ancora possano essere suggestive le stazioni, è il viaggio che sta diventando un'opera in sé; nessun treno dello stesso genere ha percorso un tratto così lungo e complicato. Forse non abbiamo neanche gli strumenti per descriverlo, il disco rock di un settantenne; ci mancano i punti di riferimento - persino i Rolling Stones (comunque partiti dopo) sono rimasti indietro, su una pista tutta loro che torna sempre alle stesse stazioni. La grandezza del Dylan di Tempest rischia di essere la grandezza di certi atleti che vanno alle olimpiadi senior per la quarta volta e finalmente vincono la medaglia perché i loro avversari storici nel frattempo sono morti. Allo stesso tempo, come si fa a ignorare che Dylan continui a suonare ottanta concerti all'anno all'età in cui voi vi immaginate davanti a un brodino caldo all'ospizio? Che stia ancora scrivendo canzoni mezzo secolo dopo aver pubblicato Blowin' in the Wind?




Stavolta a soffiare è una vecchia locomotiva a vapore, la "Duquesne", metafora semplice e immediata della vita e della morte. È un soffio che gli ricorda chi è stato e chi non potrà mai non essere; è un fischio che annuncia il destino, come quello di When the Ship Comes In; se è della morte che si sta parlando, non è questa gran novità: ne parlava più ossessivamente il Dylan del suo primo disco di 50 anni prima. La novità è magari il modo sornione con cui ne parla: Duquesne è il brano più allegro, più sereno del disco, l'unico vero swing (e l'unica collaborazione con Robert Hunter, a mio avviso la più riuscita). Dylan attraversa la canzone come un vecchio giocatore con qualche brutta avventura alle spalle e un pensiero fisso che gli fa compagnia come una vecchia amante. Il riff della chitarra è un capolavoro di sintesi tipico del suo ultimo stile chitarristico (lui nel frattempo nei concerti era passato alla tastiera, segno che forse le articolazioni gli danno qualche difficoltà). Due note; di nuovo due note ma con una velocità diversa; di nuovo il primo intervallo di due note; e infine un intervallo un po' più esteso. Come la biella della locomotiva, che ha solo due direzioni e manda avanti un treno intero. Qui e in The Long and Narrow Way (che gira intorno a una versione semplificata del riff di Hoochie Coochie Man) il minimalismo chitarristico di Dylan potrebbe essere un modo per adeguare la musica ad articolazioni meno reattive: ma ricorda anche quel certo tipo di sbrigatività con cui affrontava i suoi cavalli di battaglia acustici già dopo qualche anno, accelerandoli e semplificandoli. Il vecchio Dylan contiene sempre il giovane Dylan.

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se facesse a pezzi il cielo.
Sei l'unica cosa viva che mi manda avanti,
sei una bomba a orologeria nel mio cuore.
Riesco a sentire una voce che mi chiama...
Dev'essere la madre di nostro Signore.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se il mio amore fosse a bordo.



Poteva essere molto peggio, questo ultimo disco di Dylan. (Per esempio: poteva essere Together through Life).  Come uscita di scena di un grande autore, è comunque notevole: contiene almeno due brani (DuquesneTin Angel) che salgono immediatamente nell'empireo delle trenta canzoni migliori di tutti i Dylan: il che non si può dire di dischi più robusti come Modern Times Time Out of Mind. Allo stesso tempo contiene anche brani che possono lasciare perplessi (Long and Wasted YearsTempestRoll On John), come non succedeva ormai da parecchi anni; perché Dylan in Tempest si prende dei rischi che non si prendeva da tantissimo tempo, da quanto? Forse dal 1990 di Under the Red Sky. Ricordate che a un certo punto il viaggio si è fatto molto più tranquillo, senza più scossoni improvvisi, con tappe più lunghe e rifornimenti confortevoli, ma come dire, un po' ripetitivi? Ecco, Tempest non è così e sarebbe il suo più grande pregio - se non contenesse Duquesne Tin Angel, che sono pregi più grandi. Proprio quando ci aspettavamo l'Ennesimo Disco Alla Jack Frost, metà blues metà ballate confidenziali, il settantenne Dylan si rimette a pasticciare con altre cose; e i risultati non è che siano sempre limpidi, però...



Però a questo punto meglio così, davvero. Meglio cose torbide come Pay in Blood e persino filastrocche interminabili e inascoltabili come Tempest: meglio tutto questo all'ennesima collezione di rockabilly e blues, perdio, lo so che sono la quintessenza del folklore americano e una componente ineludibile della dylanità, ma sono su questo scompartimento da un anno e non so se sarei riuscito ad ascoltarne tre in più. In Tempest ce n'è il minimo sindacale (sul serio, probabilmente se non ne infila almeno un paio ad album Robert Johnson sale dall'inferno a complicargli i sogni): entrambe variazioni di Hoochie Coochie Man: la già citata Long and Narrow Way ed Early Roman KingsHoochie Coochie era un inno all'arroganza del maschio alpha; le nuove Hoochie Coochie di Dylan sono canzoni più trucide che arroganti, ma è un aspetto che condividono con quasi tutto il disco - è un disco che trabocca di sangue. Quel che più sorprende è che non sia sangue di Dylan. Lui stesso ce lo spiega per cinque lunghi minuti: “pagherò col sangue, ma non col mio”... (continua sul Post).
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La CEI vuole i tuoi soldi per le sue scuole

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Immagina di essere il sindaco di una città che ha qualche problema con il traffico. Una mattina irrompe nel tuo ufficio un tale, dicendo che ha un’idea che risolverà i tuoi problemi. Lo conosci, ha messo su un servizio di minibus in alcuni quartieri – è stato anche accusato di discriminazione perché assume solo determinate categorie di autisti. Ma insomma, che vuole? “I miei bus hanno qualche problema”, dice, “non sono abbastanza competitivi”. Come se fosse un tuo problema di sindaco. Gli suggerisci di abbassare le tariffe. “Non ce la faccio”, ammette lui, “ma ho un’altra idea. Perché non calare le tasse ai cittadini che scelgono di usare i miei bus invece che i vostri?” Tu ti domandi se hai capito bene. “Sì, hai capito bene! In questo modo darai ai cittadini il vero diritto di scegliere, e io riuscirò a riempire i miei veicoli.” Tu gli fai notare che se lui riempie i suoi, quelli del servizio pubblico si svuoteranno. “Meglio così, no? In questo modo potrai togliere alcune tratte, licenziare qualche autista e risparmiare un sacco di soldi! Ci stai?”

Se il tizio vi sembra un matto, spero che non siate devoti cattolici. Perché è più o meno quello che la Conferenza Episcopale Italiana sta chiedendo da anni: siccome la scuola statale ha dei problemi lo Stato dovrebbe finanziare le scuole paritarie cattoliche. Così finalmente potrebbero essere competitive – nel senso che potrebbero sottrarre alle scuole statali una maggiore fetta di utenti. In questo modo, secondo tanti vescovi e insigni personaggi, lo Stato risparmierebbe. E non poco: miliardi di euro! Proprio così. Chiedono soldi allo Stato per far risparmiare lo Stato. Paradossale, vero? Ma non potrebbero fare diversamente. L’articolo 33 della Costituzione parla chiaro: ai privati è garantito “il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma… “senza oneri per lo Stato”. Quindi l’unico sistema per scucire un po’ di soldi dal Ministero è dimostrare che buttandoli a pioggia sugli istituti paritari, lo Stato ne risparmierà. E per quanto possa essere difficile convincere qualcuno a risparmiare dei soldi regalandoteli, i cattolici non hanno mai smesso di provarci (continua su TheVision).




È tempo di conoscere suor Anna Monia Alfieri, presidente della federazione di scuole cattoliche Fidae Lombardia, e portavoce di chi in Italia lotta per il diritto di iscrivere i figli alle scuole paritarie. Un mese fa ha ottenuto un grande successo: ha presentato il suo nuovo piano, il Costo Standard di Sostenibilità, alla ministra dell’istruzione Fedeli, che lo ha trovato interessante (e non c’è dubbio che lo sia). Si tratta in effetti di una specie di rivoluzione copernicana: fino a questo momento le famiglie che ritengono giusto iscrivere i propri figli alle paritarie hanno dovuto pagare una retta, che mediamente oscilla tra 2000 e i 4000€ all’anno (a cui lo Stato aggiunge il Buono Scuola, una mancetta di 500€). Questa cosa – che una famiglia debba pagare una retta – per suor Alfieri è sommamente iniquo, dal momento che la stessa famiglia paga le tasse, e che parte di quelle tasse servono a pagare la scuola pubblica a tutti gli altri studenti. Secondo suor Alfieri chi paga la retta non dovrebbe pagare le tasse. Semplice.

Si potrebbe obiettare che la scuola pubblica è tale proprio perché la paghiamo tutti: e non paghiamo solo per i nostri figli, ma anche per i figli degli altri (la paghiamo anche dopo che i nostri figli si diplomano. La paga anche chi figli non ne ha proprio). Suor Alfieri ci risponderebbe probabilmente che questo è un modo vetusto di vedere la cosa pubblica, e che il futuro è la sussidiarietà: dove non arriva il pubblico con le sue scuole costose (costose?) può arrivare il privato più agile e snello. Anche se non è esattamente quello che sta succedendo.

Per ora, anzi, il contrario. Gli iscritti alle paritarie in cinque anni sono crollati del 13%. Un effetto della crisi (che però in teoria è finita) e della denatalità (ma per fortuna aumentano gli studenti stranieri, anche nelle paritarie). Per Suor Alfieri, si tratta dell’effetto di una vera e propria ingiustizia sociale. “Il sistema italiano è classista”, dice, perché “impedisce ai più poveri di iscrivere i figli in scuole non statali”. In effetti queste scuole non statali non solo costano parecchio di più alle famiglie, ma non garantiscono affatto risultati migliori, come continuano a mostrare le rilevazioni OSCE-PISA. Che senso ha pagare una retta per una scuola mediamente meno buona di quella che lo Stato ti fornisce gratis? E così, specie negli anni di crisi, gli studenti si sono progressivamente allontanati dalla scuola paritaria. Questo per suor Alfieri e tanti altri cattolici è un’ingiustizia: lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che vorrebbero scegliere le paritarie ma non possono permetterselo. E ci risparmierebbe! Sì, ma come?

Ricordiamo che lo Stato spende già per l’educazione meno di ogni altro Paese dell’Europa occidentale (Irlanda esclusa). Eppure sono già 6400€ a studente. Come fanno le scuole paritarie a spendere migliaia di euro in meno? Il sospetto è che si appoggino alle infrastrutture delle curie, che possiedono un po’ dappertutto in Italia immobili di pregio (su cui non pagano l’IMU); che gli ordini religiosi possano fornire un po’ di manodopera non pagatissima; e che in generale gli insegnanti abbiano stipendi inferiori ai colleghi statali che, ricordiamolo per l’ennesima volta, sono tra i meno pagati d’Europa.

Se le cose stanno così non sorprende poi molto che i risultati di queste scuole siano per ora inferiori a quelli delle scuole pubbliche: quello che in Italia sia pubblico che privato stentano a capire è che se vuoi un’educazione di qualità, ci devi investire soldi seri; attirare insegnanti bravi o formarli con cura; per ora invece abbiamo una corsa al risparmio che non è nemmeno destinata a rallentare, anzi: nei prossimi anni potremmo assistere a un’impennata, uno straordinario testa a testa tra poveri, una gara a chi taglia di più - anche grazie agli sforzi di suor Anna Maria Alfieri e al suo Costo Standard di Sostenibilità. Di che si tratta?

Dell’ennesimo tentativo di eludere l’articolo 33, però bisogna ammettere che stavolta l’approccio è davvero scientifico. Suor Alfieri ha messo assieme un pool di economisti che due anni fa hanno pubblicato uno studio serio, con tante tabelle e numeri. Invece di preoccuparsi di quanto costano le scuole adesso, si sono domandati: quanto dovrebbero costare? Quanto dovrebbe spendere la collettività per mandare un bambino alla scuola dell’infanzia (3201€ all’anno), alla scuola primaria (3395€), alle medie (4390€), al liceo (dipende: ad esempio al biennio scientifico 4300€), a un istituto tecnologico e così via? Le cifre variano poi a seconda di diversi fattori (tra cui le eventuali difficoltà economiche della famiglia, la presenza nella classe di un alunno disabile, ecc.). Sono tabelle davvero bellissime - le ho guardate e riguardate sperando di trovare un grosso buco da qualche parte, ma fin qui non l’ho trovato. Sembra che suor Alfieri e i suoi abbiano davvero calcolato tutto: lo stipendio medio dell’insegnante (non bassissimo), quello del dirigente e del suo staff; i bidelli; le utenze, le visite d’istruzione, i progetti di integrazione, il sostegno eccetera. Grazie a queste tabelle, oggi sappiamo qual è il Costo Standard di Sostenibilità di uno studente, ovvero quanto costa mandarlo a scuola. Indovinate? Costa meno di quello che spende oggi lo Stato: ma non un po’ meno: qualcosa come “dai 2,8 ai 7 miliardi” di meno, all’anno! Insomma è suor Alfieri ad aver scoperto un buco enorme in cui la scuola pubblica italiana ogni anno riversa un sacco di soldi. Ma sarà così? Senz’altro degli sprechi ci sono, ma in tanti casi lo Stato spende di più perché non si trova davanti quella situazione ottimale che è descritta dalle tabelle del libro. Lo Stato spende anche per scuole disagiate, nelle periferie o nelle montagne, magari poco frequentate ma necessarie. Per scuole di città allocate in edifici storici più difficili da riscaldare (per i quali a volte lo Stato paga l’affitto). Non è che spenda tantissimo (rispetto alla media europea), e magari non spende sempre in modo oculato, ma non può certo competere con un’idea di scuola astratta che per ora si trova soltanto nelle tabelle del libro, con tot alunni egualmente distribuiti su tot classi in tot corsi.

Invece suor Maria è convinta che la scuola pubblica, già vittima di tagli straordinari nello scorso decennio, debba essere messa in competizione con altre scuole che, sulla carta, costano persino meno (ma per ora non ottengono risultati migliori). Una volta individuato il Costo Standard non ci sarà più bisogno di buoni scuola: saranno le famiglie a scegliere. Se vogliono andare alla scuola paritaria, pagheranno il Costo Standard direttamente alla paritaria, ma – attenti al trucco – non pagheranno l’equivalente in tasse. È il modello della sanità, ci spiegano: dove non arriva il servizio pubblico, ci pensano i privati. Sussidiarietà! A dire il vero fin qui tutto sommato è il pubblico che è arrivato dappertutto, dai più remoti paesini alle isole – e se nelle cliniche cattoliche è più difficile trovare chirurghi che praticano l’aborto, il sospetto è che anche nelle scuole cattoliche non sarà così facile trovare insegnanti che spiegano come l’aborto sia un diritto - e cosa sia il testamento biologico, e le unioni civili anche tra persone dello stesso sesso (gli insegnanti gay non sembrano avere vita facile nelle scuole cattoliche), e tante altre cose che fanno parte del mondo in cui viviamo ma vanno contro quelli che i cattolici definiscono “valori non negoziabili”.

Non è così strano che la CEI voglia difendere questi valori nelle sue scuole – non si capisce però perché lo debba fare a spese dei contribuenti italiani, tutto qui. Perché quello che la CEI, per bocca di suor Alfieri, ci sta proponendo, è di usare i soldi delle tasse di tutti per pagare un biglietto dell’autobus a chi vuole andare sull’autobus privato. Un autobus guidato da un autista che non è selezionato meglio di quello pubblico, né è meglio pagato; ma almeno arriva più in orario? Oggi no, domani – se lo paghiamo tutti un po’ di più – chissà.


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Dylan sarà a casa per Natale

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Christmas in the Heart (2009)
(Il disco precedente: Together through Life.
Il disco successivo: Tempest).

Un disco no, ormai c'è Spotify. Un dvd no, abbiamo Netflix. Un profumo te l'ho preso per il compleanno. Questo Natale mi sa che tocca a un libro. Così entro in libreria, nell'unica seria rimasta, e incontro proprio te. Ci salutiamo imbarazzati come se non ci conoscessimo da mezza vita; tu stavi giusto uscendo con due o tre sacchetti che vistosamente ignoro. Ora che non ci sei più e posso scegliere con libertà, do un'occhiata alle ultime uscite e in cinque secondi trovo:

1. Il libro che un po' desidero e che sicuramente mi hai appena comprato.

2. Il libro che desideri tu. Ma lo desideri nel senso che te lo devo comprare, o non hai resistito e te lo sei comprata da sola? Perché magari lo desideri troppo per fidarti di me, magari pensavi che ti avrei preso una sciarpa.

Mi sta mancando l'aria. Intorno a me tutti comprano cose come se fosse il gesto più naturale del mondo: è Natale. A volte fingo di dimenticarmi che soffro il Natale. Finché sei adolescente è ok, poi diventa una posa noiosa. Ma temo che non sia una posa, è proprio il momento sbagliato dell'anno per me, arriva troppo presto. Avrei centinaia di cose da fare ma sbam! Natale. Devo anche recensire Christmas in the Heart, il più assurdo dei dischi di Bob Dylan, o no?

I've done my window shopping
There's not a store I've missed
But what's the use of stopping
When there's no one on your list
You'll know the way I'm feeling
When you love and you lose
I guess I've got the Christmas blues

"Più divertente dei chipmunks, riconosciamoglielo" (Robert Christgau).

Ognuno ha le sue liturgie che non sa più giustificare; tu per esempio ovunque sei nel mondo a Natale cerchi di andare a messa. Non ci sarebbe niente di strano, senonché tu odi le messe natalizie e detesti i preti che si sentono finalmente sotto i riflettori e decidono che davanti a una folla rassegnata a restare in piedi per un'ora pronunceranno l'omelia della vita. Così ti ritrovi in giro nel pomeriggio del 25 - uno dei momenti più bui dell'anno, malgrado tutte le luci. Dai comignoli essuda ancora il vapore del brodo di cottura dello zampone - finalmente trovi una chiesa ancora aperta. Ti butti dentro, è tutto buio e vuoto e la prima cosa che senti è un tizio che cerca di cantare Adeste fideles. Non ha voce e non sa il latino, ma in un qualche modo strano funziona. È un vecchio parrocchiano che ha deciso di venire a digerire il Natale qui, cantando la messa più sfigata di tutte. Come un Babbo Natale ubriaco. 

"Adesti fide-e-leis, leity thriooomphanteis
Venitew veni-i-tew ad Bethle-e-ehm..." 

(La pronuncia di zio Bob non è meno corretta di quella di qualsiasi studente di liceo. È solo diversa dalla nostra, ma forse quella degli antichi era più simile alla sua. Anche loro avrebbero pronunciato qualcosa di più simile a "reghem anghelor'm", piuttosto del nostro "regem angelorum". D'altro canto non ce l'avevano, il Re degli Angeli, quindi di cosa stiamo parlando?)

"Cosa stiamo ascoltando?"
"Il disco di Natale di Bob Dylan".
"Sì, ma perché?"
"Beh. perché... è Natale".
"È stonato".
"No, tecnicamente non è stonato. È solo un po'..."
"È fastidioso".
"Dici? io lo trovo commovente".
"Mi fa male alle orecchie. Perché lo stiamo ascoltando?"
"È per beneficenza".

Who wears boots and a suit of red?
Santa wears boots and a suit of red.
Who wears a long cap on his head?
Santa wears a long cap on his head!



Il più bel video in cui canta Bob Dylan è Must Be Santa. Indossa svariati cappelli buffi e una parrucca assurda e non si è mai calato così bene in una parte. È un vecchio zio che senza troppo dare nell'occhio sta tenendo accesa una festa. Quando c'è bisogno di far partire le danze, lui canta. Quando tutti ballano, se ne sta in poltrona col sigaro. Nel momento esatto in cui hai bisogno di un bicchiere, lui tira fuori due bottiglie pronte. È una festa di famiglia, e quindi è intergenerazionale, incasinata, e devi stare attento perché prima o poi voleranno bottiglie. Nel finale arriva il Babbo vero, che scambia con Babbo Dylan un'occhiata di profonda comprensione. Bah, che mondo. Ormai fanno entrambi lo stesso mestiere.

"Mestiere un po' di merda eh?"
"È quel che so fare".
"Ma senti c'è una cosa che mi sono sempre chiesto. Come hai cominciato?"

"Guarda, ho ricordi molto vaghi. Ero un vescovo che si preoccupava per la dote di alcune ragazze... oppure ero il dio Odino che galoppava su un cavallo a otto zampe... è passato del tempo, capisci. E tu?"

"Anch'io ne so poco. Ero un un poeta beat, forse, oppure un profeta hippie..."
"Tu? Hippie? Ma sei sicuro?"
"No appunto. Ma a un certo punto ero senz'altro un ragazzino senza un soldo che cantava nei caffè. Sai cosa ricordo bene?"
"Il freddo".
"Puoi dirlo".

Ding Ding Ding
(Il brano di gran lunga più riuscito è Winter Wonderland. Uno dei problemi degli artisti che incidono dischi natalizi è che molto spesso devono farli in estate, ed è difficile azzeccare il feeling. Dylan in Winter Wonderland ce l'ha fatta alla grande. Senti come canta "When it snows, ain't it thrilling"? C'è proprio tutta la soddisfazione di un vegliardo alla finestra che vede scendere la neve e torna bambino. Non l'ho mai sentito sorridere tanto come mentre canta "In the meadow we can build a snowman", chissà che pupazzi facevano ai tempi in Minnesota).

"...Un freddo atroce, dio, l'inverno è una cosa orribile. Soprattutto quando arrivi a fine dicembre e pensi, beh, quanto inverno ci resta da soffrire? E invece è appena iniziato".
"È per questo che il nostro lavoro è importante, Bob".

A un certo punto, credo durante la lavorazione di Shot of Love, Dylan arrivò in uno studio e decise che avrebbe inciso White Christmas di Bing Crosby, solamente perché aveva sentito dire che Bing Crosby aveva lavorato lì. Fu il solito buco nell'acqua e a tutt'oggi non si sono ancora trovate le registrazioni, ma è la prima manifestazione di un interesse di Bob Dylan per il Natale.

(La canzone più triste è I'll Be Home for Christmas, un pezzo strappaventricoli di Bing Crosby che nel 1943 speculava sulla malinconia dei soldati che non avrebbero fatto in tempo ad arrivare a casa a Natale: ci sarò, canta Dylan, conta su di me, prepara il vischio e i regali sotto l'albero perché sarà a casa per Natale... almeno nei miei sogni. In 40 minuti del disco è l'unico momento in cui serpeggia il sospetto che sia tutto finto, che il Natale di Dylan sia l'invenzione di un vecchio signore rimasto solo con le sue vecchie canzoni, che nessuno inviterà a una festa).

Dylan in effetti non è mai stato natalizio, neanche nel suo periodo gospel. Il suo inverno è un mondo orribile dove si muore sul marciapiede, e gli ultimi spiccioli ti servono per comprare una pallottola per ogni membro della famiglia. Sai chi è sempre stato natalizio? I Beatles, loro sì. Anche se non hanno mai scritto una vera canzone di Natale - i loro dischi natalizi poco più che curiosità - i Beatles hanno quel quid. Sanno di zenzero, di cannella. Tutti vogliono bene ai Beatles, anche se li odiano. Il tempo passa e loro restano lì, per sempre uguali a sé stessi. Scaldano il cuore, rallegrano i bambini. Tutte cose che Bob Dylan per tantissimo tempo non si è posto il problema di fare. Là fuori il mercato dei dischi crollava, e artisti che fino a qualche anno prima, se gli avessi chiesto: "che ne pensi di un album natalizio?" ti avrebbero riso in faccia - non siamo mica negli anni Cinquanta, nonno! - ma a un certo punto il mercato si è piegato che nemmeno il Titanic, ed eccoli all'improvviso tutti in vetrina col cappuccio e l'albero e il vischio, i pattini, le renne, vi prego comprate il nostro disco di Natale! Ma il caso di Dylan è un po' diverso - se non altro non aveva bisogno di soldi, anzi. Ha dato tutto in beneficenza, al World Food Programme. Molto nobile da parte sua.

D'altro canto, chi è che regala davvero gli album natalizi? Vi hanno mai regalato un album natalizio? (Continua sul Post)
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Il M5S non ha tutta questa voglia di uscire dall'Euro

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La novità delle ultime ore è che finalmente Luigi Di Maio, leader elettorale del Movimento Cinque Stelle, ha voluto dirci se lui uscirebbe dall’Euro o no. Messo alle strette da Myrta Merlino all’Aria che tira (La7), ha ammesso che: nel caso in cui si arrivasse a un referendum; come extrema ratio; dopo averle provate tutte; se proprio l’Europa non ci volesse ascoltare… Di Maio voterebbe per uscire. Anche se le cose non stanno più come nel 2013, ha spiegato, l’Europa sta cambiando, ci sono molte opportunità… e a questo punto la Merlino, impaziente, ha cambiato argomento.
Insomma, è stata tutto tranne che una risposta categorica. Di Maio ha preferito dilungarsi in premesse, in distinguo, in quella cautela così tipica dei leader politici pre-Berlusconi. Se Di Maio è sempre sembrato tra i grillini il più morbido, diplomatico – insomma il più democristiano – Matteo Renzi tra i post-democristiani è sempre parso il più irruente: e anche in questo caso non ha perso tempo a replicare, via tweet“Stavolta Di Maio ha fatto chiarezza, bisogna ammetterlo: lui voterebbe per l’uscita dall’Euro. Io dico invece che sarebbe una follia per l’economia italiana”.
Dunque, i giochi sono fatti: il M5S vuole uscire, Renzi vuole restare, votate di conseguenza. Nessuna sfumatura, nessuna cautela, Renzi è così. C’è un bivio – c’è sempre un bivio per lui – e lui sa sempre da che parte stare. Il M5S promette referendum, Renzi li fa. Poi al massimo li perde. Ma se Renzi sposa la causa europeista e perde, quanto margine avranno i vincitori per fingere che gli italiani non abbiano un parere preciso sull’uscita dall’Euro? Da cui la domanda: di chi deve aver più paura, oggi, un europeista? Di un leader del M5S che glissa, prende tempo, mette le mani avanti, o di un leader del PD che abbraccia convinto la causa dell’Euro, salvo che rischia di perdere le elezioni, tornare nell’ombra e trascinare con sé anche questa causa?
Beh, in fondo perché scegliere? Possiamo avere paura di entrambi... (continua su TheVision)
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