Le cinque vite di Veronica

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9 luglio – Santa Veronica Giuliani (1660-1727), mistica anoressica, autobiografa compulsiva.

Un giorno il demonio entrò nella cella di Veronica; entrò in forma di Maestra delle Novizie, ma appena la vide nella penombra Veronica intuì che qualcosa non andava. La falsa Maestra si mise subito a parlare, Veronica riusciva a malapena a sentirla. C'è qualcuno che mormora, dicono che hai fatto perdere la testa al confessore, è un'accusa molto grave. Ma sta' tranquilla, quel sacerdote non metterà più piede in questo convento.

Il monastero delle cappuccine in Città di Castello.


– Sono tutte calunnie, risponde Veronica: e non sia mai che il confessore abbia da soffrire per causa mia. Sono pronta ad andare dal vescovo a difendere la mia e la sua innocenza.

– Ma che vescovo e vescovo, risponde il demonio, io sono la tua Maestra e ti ordino di stare zitta, la questione è chiusa.

Appena possibile, Veronica ne parla col confessore, che ne rimane molto turbato.

– Chi sono le malelingue che mettono in giro simili infamie? Fatti dare una lista dalla tua Maestra.

– Padre, non posso: ho promesso che non ne avrei parlato a nessuno.

Il confessore abbozza e se ne va. Qualche tempo dopo arriva la maestra a spiegare a Veronica cos'era successo, ovvero nulla. Non c'era mai stato nessun pettegolezzo.

– Ma sorella, era stata proprio lei a entrare in questa cella e dirmi...

– Non ero io: non sono mai entrato nella tua cella. Quello che hai visto era un demonio.

– Un demonio?

– Sai quante volte capita. Magari è lo stesso che prende le tue forme e s'ingozza in cucina davanti alle tue consorelle mentre tu sei nell'oratorio a digiunare. Un demonio mutaforma.

– Questo in effetti spiegherebbe tante cose.

– Tutto. Il demonio spiega tutto.

– Dovrei parlarne col mio padre confessore?

– Ah, ecco, quello sarà davvero trasferito, te ne procureremo un altro.

– Ma non è stato trasferito per i pettegolezzi, vero?

– Quali pettegolezzi? Non c'è mai stato nessun pettegolezzo. È stato il demonio, ti ho detto. Il demonio.


La cosa migliore di scrivere sui Santi è che tornano tutti gli anni, nell'ordine prestabilito. Sai sempre quando arriveranno, il che non significa che riuscirai a essere puntuale all'appuntamento, anzi. Ci sono santi che manchi regolarmente dal 2011. Ma non importa, tanto loro tornano anche l'anno prossimo: sempre in fila, come i solchi di un disco. Io invece da un anno all'altro divento una persona diversa, e il santo che nel 2013 mi stava simpatico nel 2016 mi accorgo di non riuscirlo più a sopportare. Poi ci sono quei santi che rimando ogni volta, perché ancora non ho capito quel che vogliono dirmi, se possono dirmi qualcosa.

Di solito questo è il momento dell'anno in cui comincio a pensare che mi piacerebbe scrivere un pezzo su Santa Veronica Giuliani; sulla sua matta infanzia, sulla sua drammatica anoressia, sulla sua torrenziale autobiografia. E ogni anno mi rispondo che bisognerebbe però fare le cose sul serio, insomma studiarla davvero, Santa Veronica, ma come si fa? Ha scritto ventiduemila pagine di autobiografia – un dato che probabilmente viene usato per spaventare il lettore occasionale, cioè non ha senso contare le pagine manoscritte, magari la santa aveva una calligrafia molto ampia: l'edizione integrale a stampa consta comunque di dieci volumi.

Questo è un comodo compendio in 450 PAGINE.

Ci vorrebbe una vita per studiare la vita di Veronica Giuliani: io non ce l'ho, e mi bastano le venti fulminanti pagine di Rudolph M. Bell (1985), per trovarmi a disagio. Su molti santi è così facile scherzare, quello che ci resta è una leggenda di una paginetta, una sagoma di cartone che si presta anche alla farsa. Ma di Veronica sappiamo troppo. Che la madre non la allattava al venerdì; che sin dall'inizio interpretava i suoi disturbi alimentari come prove di santità; che crebbe in una famiglia dove si leggevano soltanto storie di santi, la minore di tre sorelle che aspiravano tutte al chiostro, a cui rubava il flagello per frustarsi un po' nell'intimità; che alla morte della madre, il padre si trovò rapidamente una compagna e cedette abbastanza presto alla richiesta di Veronica di farsi suora. Una vita da reclusa per la quale, lo si capisce da fin troppi elementi, la ragazzina non era portata, e alla quale reagì smettendo di mangiare e vivendo esperienze allucinate che attirarono su di lei i sospetti dell'Inquisizione. Disturbo dell'attenzione, complesso di Edipo, repressione sessuale, impulsi sadomasochistici, confessori sadici, anoressia e bulimia, nella sua vita c'è di tutto e ce n'è in abbondanza. Eppure quello che anno dopo anno mi attira sempre di più a Veronica è un altro aspetto della sua esistenza lunga e complicata: il fatto che la passò a raccontarla. A molti personaggi più e meno importanti capita di scrivere un'autobiografia: è già molto più raro il caso di qualcuno che ne scriva due (il primo che mi viene in mente è Leonard Nimoy). Veronica Giuliani ne scrisse cinque.

La prima autobiografia (1975) si chiamava "I Am Not Spock", la seconda, vent'anni dopo, "I Am Spock".
Non è che ci avesse preso gusto, anzi lei sosteneva di scrivere con gran fatica: ma i confessori ci tenevano, Veronica ne ebbe diversi e almeno quattro si fecero rilasciare ampi resoconti della sua vita (uno ne volle due, il primo non gli piaceva). Non era una misura terapeutica, anche se secondo Bell fu decisiva a guarirla: ai confessori la salute di Veronica premeva meno della sua ortodossia e leggendo i suoi resoconti volevano semplicemente capire se la monaca era ispirata da Dio o invasata da un demonio. Nessuno giunse a una risposta definitiva, e la stessa Veronica rimase nel dubbio per tutta la vita.

Calco di cera del volto morente di Veronica.
Spesso dietro una santa di successo c’è un confessore che a un certo punto decide di investire la sua credibilità su di lei: è il caso di Raimondo da Capua per Caterina da Siena e di Arnaldo per Angela di Foligno. Veronica fu più sfortunata, o forse era nata in un momento più difficile: un confessore del genere non lo trovò mai. Il destino la mandò a sbattere contro tizi a volte meno equilibrati di lei, che la misero nei guai alimentando pettegolezzi da convento, o abusarono della loro posizione e dell’arrendevolezza con cui Veronica si abbandonava a loro. Ce ne fu uno che le ordinò di lustrare una cella con la lingua, e poi si arrabbiò perché durante il servizio Veronica aveva inghiottito un ragno: ehi, non esageriamo, i ragni fanno male. Forse non fu nemmeno questa gran sfortuna, visto che Veronica, a differenza di tante sante autodistruttive che aveva cercato di imitare, riuscì a superare ben quattro episodi di anoressia e invecchiare con serenità. A un certo punto fu eletta addirittura Madre Badessa, lei ex novizia terribile e ripetente, e divenne a quanto pare una leader autorevole e amorevole, che metteva in guardia le consorelle dagli slanci mistici e dai digiuni estremi, insomma da tutto quello che aveva combinato da ragazza terribile.

Col linguaggio di oggi diremmo che Veronica guarì – anche se continuò ad avere esperienze mistiche e a medicarsi le stimmate. Non sappiamo esattamente cosa la fece guarire: siamo abbastanza sicuri che non furono i confessori. Bell è convinto che la scrittura possa averla aiutata, e io sono fin troppo felice di dargli ragione. La sua quintupla biografia è un trattato di mistica che contiene una ricerca del tempo perduto, che contiene il romanzo di una donna murata viva, che contiene chissà quanti altri strati, una specie di cipolla. Eppure Veronica insiste che scrivere non le piaceva; era solo un’altra forma di penitenza, forse meno grave di pulire i pavimenti con la lingua: ma non doveva essere semplice tornare ogni volta sulla propria infanzia capricciosa, sui pruriti infidi della preadolescenza, sulle frustrazioni della sua giovinezza di reclusa.



Costretta a riscriversi all’infinito, Veronica difficilmente aveva la possibilità di rileggersi: ogni resoconto finiva nel cassetto di un confessore diverso, e a lei toccava ricominciare da capo. Il risultato è che di certi episodi della sua infanzia abbiamo quattro o cinque versioni diverse. L’episodio rimane più o meno lo stesso, ad esempio quella volta che a tre anni volle cimentarsi con la santità toccando davanti a tutti un carbone ardente. Ma la Veronica di trent’anni lo racconta in un modo diverso di quella di quarant’anni, mentre quella di sessanta ormai ammette di non ricordarselo quasi più. L’episodio assume ogni volta un significato diverso e ci domandiamo quale Veronica lo stia ricordando meglio, quando in realtà stiamo soltanto cercando la versione che ci piace di più, quella che si concilia meglio col nostro racconto. Come se il passato esistesse davvero e non assomigliasse più alle memorie di Veronica, che all’inizio si ricordava qualcosa e verso la fine ricordava soltanto sé stessa ricordarsi.


Ogni epoca pretende qualcosa di diverso da Veronica: i suoi contemporanei ragionavano in termini di angeli e di demoni, Bell parla di malattia e di guarigione, chissà cosa ci troveranno nelle stesse pagine di Veronica tra cento, duecento anni. Una volte ho letto da qualche parte che il nostro corpo si rinnova completamente più o meno ogni sette anni. O forse l’ho sentito su Quark, e non ho mai avuto voglia di ricontrollare: è una nozione troppo bella per metterla in discussione. Persino le molecole del midollo delle mie ossa, persino loro nel giro di sette anni si rigenerano e muoiono, non so come facciano, ma insomma tra me e il me stesso che cominciò a scrivere di santi ormai sette anni fa non c’è quasi più una cellula in comune. Siamo due persone diverse che condividono però gli stessi ricordi. Ecco, appunto, questo è l’aspetto più curioso: come faccio a condividere gli stessi ricordi con quel cadavere, se il mio cervello nel frattempo si è rigenerato completamente? Probabilmente c’è una parte della mia memoria fissa che passa il tempo a fare back-up, a raccontare le vecchie storie alle cellule nuove. Proprio come Veronica Giuliani, anche quando credo di ricordare la mia infanzia io in realtà sto ricordando me stesso già adulto che ricorda sé stesso ragazzino che se la ricorda. Questo significa tante cose: la più rassicurante è che non dovrei preoccuparmi più di tanto di morire, visto che succederà auspicabilmente a un tizio più vecchio di me: io in realtà muoio un po’ tutti i giorni ma rinasco anche; una parte non piccola della polvere che si deposita nel dyson sono le mie cellule morte, ricordi inclusi. Ma ciò significa anche che il mio passato è un’invenzione: che posso averlo modificato a piacere e anzi sono sicuro di averlo fatto, diverse volte, cambiando dei dettagli che non piacevano, e smettendo di raccontarmi delle cose che erano troppo difficili da sopportare.


Come faccio a sapere tutto questo? Perché oltre a ricordarmi, io ho questo difetto che scrivo, come Veronica Giuliani: e a differenza di Veronica nessun inquisitore mi impedisce di rileggermi, e scoprire che tutto quello che mi ricordo è sbagliato. L’autore della mia prima autobiografia di vent’anni è una persona che mi è quasi estranea, come può essere estraneo un figlio che si abbandona da piccolo in un convento. Mi dà anche un po’ fastidio sentirlo parlare, non lo frequento volentieri, un giorno o l’altro lo rinchiuderò di nuovo nel cassetto di qualche armadio in soffitta, finché nessuno si ricorderà più di lui. Eppure il passato ogni tanto sembra tornare così vicino, come le stagioni e le feste dei santi sui calendari: ma è un’illusione. Il solco del disco non torna su sé stesso, ma si avvita a spirale. Le cinque vite di Veronica mi danno l’idea che le persone crescano come cipolle, strato su strato: oppure crescere è come perdere uno strato alla volta, finché non rimane solo il cuore, ma anche il cuore non è che l’ultima buccia, e quando finisce non c’è più nessuno a provarne rimpianto o a soffrire per i ricordi perduti; non c’è più dolore, non c’è più niente.
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L'epico, persino un po' brechtiano, Fantozzi

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Dopo aver scritto più di venti libri e lavorato in più di 70 film, in 60 anni di carriera, Paolo Villaggio rischia di essere ricordato soprattutto per aver affermato che la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca. Questa almeno era l’impressione che davano i coccodrilli dell'anno scorso, tutti percorsi dalla necessità non solo di ricordare lo stesso sketch, ma di fornircene un’interpretazione – più che uno sketch ormai è una parabola, una pagina di un testo sacro in cui tutti troviamo qualcosa di diverso.

Per Mattia Feltri era soprattutto un atto di denuncia contro l’ipocrisia dei dirigenti che si atteggiano a rivoluzionari, come il dottor Ricciardelli che la sera di Italia-Inghilterra convoca i suoi dipendenti e li costringe alla visione del capolavoro muto e in bianco e nero; il vecchio Feltri li avrebbe definiti radical chic, il giovane ci risparmia almeno la definizione. Aldo Grasso invece non riuscì nell'occasione a controllare l’impulso di scrivere “superiorità antropologica della sinistra”, contro cui Fantozzi si ribellerebbe; la sua sarebbe la “resistenza che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero”.

Dall’amaca Michele Serra tentava l’impossibile compromesso tra gli orfani di Villaggio e gli estimatori di Ėjzenštejn: “Lo stesso spettatore poteva benissimo amare la Potëmkin e Fantozzi, il cinema d’essai e il cinema popolare. Ma in sale diverse, in momenti diversi e con animo diverso”. È un veltronismo che Villaggio non avrebbe condiviso: anche l’ultima volta che ebbe occasione di parlarne – invitato dalla Cineteca di Bologna nel 2003 in occasione del restauro della Corazzata – ribadì la sentenza fantozziana: altro che capolavoro, era una “cagata” che avrebbe potuto interessare solo “vecchi e insonni”.

E però la necessità di salvare capra e cavoli, Fantozzi e Corazzata, è troppo forte e produce torsioni interessanti, come quella di WuMing1 che dopo la commossa rievocazione di un’epica proiezione della Potemkin in piazza Maggiore propone di leggere l’episodio come una “vertiginosa mise en abime” dei cinque atti del film: “il cineforum è la corazzata; Fantozzi è il marinaio Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo; gli spettatori sono i marinai insorti; l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati; la sala occupata è Odessa; la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono”.

Villaggio novello Ėjzenštejn, e proprio perché si permette di sfottere Ėjzenštejn (...nel momento in cui la borghesia finto-rivoluzionaria se ne impossessa e lo trasforma in un feticcio). A corroborare una lettura tanto epica, WuMing1 riconosce nella saga di Fantozzi un unico personaggio positivo: il marxista Folagra, che dal sottoscala in cui è confinato non rinuncia a spargere il seme della rivolta - un po’ come i WuMing, fedeli al loro personaggio di rivoluzionario in servizio permanente. Folagra però nel film sembra una macchietta, appena in grado di farfugliare quattro slogan autonomisti; la fiaccola rivoluzionaria che passa a Fantozzi si smorza subito nel Grande Acquario dei Dipendenti. Del resto non è che ai personaggi di WuMing la rivoluzione di solito riesca: sin dai tempi di Q non hanno fatto che raccontare storie di rivoluzionari magari più strutturati di Fantozzi, ma ugualmente destinati alla sconfitta. Paolo Villaggio in questo senso è un marxista più ortodosso (o più novecentesco): quando scriveva e sceneggiava Fantozzi, sembrava avere in mente una concezione meno vicina alla New Italian Epic che all’epica brechtiana: come Madre Coraggio, Fantozzi non acquisisce mai una vera consapevolezza della propria condizione di sfruttato. Non è lui che doveva svegliarsi, ma lo spettatore.

Non è esattamente andata così. Il secondo tragico Fantozzi è un film del 1976, un’epoca pre-tv-color in cui i cineforum impegnati erano ancora una realtà non solo nelle grandi città – e in effetti lo sketch era nato in tv come una satira di quell’ambiente, che Villaggio conosceva bene; solo in un secondo momento era stato riadattato all’universo fantozziano. Il successo dei primi Fantozzi di Salce e Villaggio fu notevole, ma la vera penetrazione nell’inconscio collettivo avviene nel decennio successivo, quando la Mediaset ne acquisì i diritti e cominciò a riprogrammarli intensivamente – al punto da risorgere anche il personaggio cinematografico, in una serie di sequel sempre più deprimenti.

È solo in quel momento che “è una cagata pazzesca” diventa un modo di dire della lingua italiana (70.700 risultati su google); una specie di versione adulta e sboccata dell’andersoniano “il re è nudo” (anche “92 minuti di applausi” era già un meme prima delle GIF: nell’era pre-facebookiana di internet la citazione fantozziana era un buon surrogato del tasto “Mi Piace”). Nel frattempo però il paesaggio che Villaggio irrideva – quel mondo scalcagnato di cineforum fumosi coi seggiolini di legno – era completamente scomparso; e Ėjzenštejn dimenticato, anche dal palinsesto notturno di Rai3. La tv commerciale stava crescendo una nuova generazione di cinefili, forse non meno fanatici del dottor Ricciardelli, ma dai gusti completamente diversi: completamente digiuni dei maestri russi e degli espressionisti tedeschi, ma in grado di riconoscere un film di Bombolo o Lino Banfi dal singolo fotogramma.

Chi cresceva in quegli anni poteva condividere la sensazione di ritrovarsi bloccato nella scena dell’assedio fantozziano, e costretto come Ricciardelli a vedere a ripetizione “Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza”. Tra questi titoli ormai imprescindibili della storia del cinema italiano, non mancavano i film di Fantozzi. La rassegna integrale, sempre più lunga e ridondante (e triste, nel suo lungo percorso verso il trash), veniva riprogrammata una volta a semestre. I megadirettori delle emittenti ci convocavano per sentirci ridere – ridere stava diventando obbligatorio, come una volta partecipare al dibattito. Invece dell’“occhio della madre”, era obbligatorio menzionare il "radical-chic" e la “superiorità-antropologica-della-sinistra”; al posto del “montaggio analogico”, c’era lo sberleffo obbligatorio verso un modello di cinema e di società che non avevamo nemmeno fatto in tempo a conoscere. È andata così e non è certo responsabilità di Paolo Villaggio; comunque è finita. Vero?
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La guerra di Salvini contro le ONG (e l'umanità)

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[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision ed era stato scritto qualche giorno e duecento morti annegati prima].


Matteo Salvini non sopporta le ONG. "Non toccheranno più un porto italiano", ha annunciato martedì scorso a un convegno di Confartigianato (che forse aveva altre priorità). Non che la cosa abbia molta importanza: in una sola settimana di giugno sono sbarcati più di duemila migranti, di cui appena duecento passati per una nave di ONG. Ecco, quei duecento per Salvini sono uno scandalo, una macchia insopportabile nel uso curriculum di Ruspa Umana. Quanto agli altri 1800, possono accomodarsi: non fanno neanche notizia. Mentre la Lifeline rimaneva bloccata al largo di Malta con 234 migranti, la Maersk ne sbarcava tranquillamente 108 a Pozzallo – ma la Lifeline è la nave di una ONG tedesca, la Maersk è un cargo mercantile: nessuno l'accuserà nemmeno velatamente di trescare con gli scafisti.

È come se gli unici migranti che preoccupano Salvini fossero quelli a cui capita di essere soccorsi dalle ONG. Ricordate l'Aquarius, coi suoi 630 migranti? Dovette affrontare una tempesta e riparare in Spagna, mentre Capitan Ruspa mostrava i muscoli in campagna elettorale twittando #ChiudiamoIPorti; nel frattempo la Guardia Costiera sbarcava 932 migranti a Catania senza che né Salvini né Toninelli trovassero nulla da ridire: insomma i porti sono "chiusi" soltanto per le ONG, e siccome le ONG soccorrono soltanto una piccola parte dei dispersi in mare, i porti sono "chiusi" solo per chi si beve gli hashtag di Salvini. Allontanare le ONG dai porti italiani gli consente di cantare #Vittoria per un'altra mezza giornata, ma non ha nessun effetto misurabile sul fenomeno migratorio: se le navi non governative non possono attraccare da noi, possono pur sempre chiedere soccorso ad altre navi. Che non glielo rifiuteranno.

Il comandante della Guardia Costiera al proposito è molto chiaro: "Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ogni chiamata di soccorso perché è un obbligo giuridico, ma prima ancora morale". È la legge del mare: i naufraghi si soccorrono. Che se ne faccia carico un'ONG o la Guardia Costiera, non fa differenza. O meglio, una differenza c'è, che anche l'elettore salviniano dovrebbe apprezzare: la Guardia Costiera la paghiamo noi. Con le nostre tasse. Ogni litro di carburante, ogni ora di straordinario dell'equipaggio. Le ONG invece si finanziano da sole, senza nulla pretendere dal contribuente italiano. Salvano vite senza chiederci un soldo: questa cosa Matteo Salvini non la sopporta. Piuttosto di fare attraccare l'Aquarius in Italia, preferisce buttar via i nostri soldi facendola scortare dalla Guardia Costiera fino a Valencia. Perché? Storia lunga. C'entra uno youtuber, un libro Mondadori e forse anche un po' Putin (ma non ha senso dare tutta la colpa a Putin).

Prima di raccontarla, fissiamo alcuni punti: le migrazioni nel Mediterraneo non sono un'emergenza (anzi negli ultimi mesi il numero dei migranti è bruscamente calato), ma un processo storico. Non è cominciato a causa del malvaggio Piddì, e non finirà perché Salvini fa la voce grossa con gli interlocutori più piccoli, la minuscola Malta e le minuscole ONG. Né le navi delle ONG, per quanto volonterose, possono essere ritenute responsabili del fenomeno, che non si è intensificato da quando sono in mare. Inoltre a tutt'oggi non risulta che siano colluse con gli scafisti. Probabilmente negli ultimi mesi avete sentito dire il contrario. Da Salvini, che le ha definite "vicescafisti", o da Marco Travaglio, che anche martedì su Carta Bianca parlava di una "collaborazione di fatto" tra scafisti e operatori ONG. È almeno da un anno che ne parla, ma martedì ha precisato che non sta parlando di reati, e che non si aspetta che le indagini "arrestino o colpevolizzino" le ONG. Ne ha parlato molto anche il procuratore di Catania, Zuccaro, anche se confrontando le sue dichiarazioni sembra evidente che col tempo ha corretto il tiro: all'inizio diceva di avere delle prove, ma già da un anno sta parlando di "ipotesi di lavoro". Ultimamente nelle interviste preferisce parlare di reti criminali basate in Africa: non sempre i titolisti se ne accorgono.

Nel frattempo però la procura di Palermo ha archiviato le indagini su due ONG, Sea Watch e Proactiva. La sentenza è importante perché ribadisce che secondo le convenzioni internazionali "le azioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro": se la Libia non lo è, e Malta non sempre collabora, le navi delle ONG hanno tutto il diritto di attraccare in un porto italiano – o perlomeno non commettono un reato provandoci. Sì, c'è una sentenza di un tribunale italiano che dà ragione alle ONG e torto a Salvini e Toninelli (Continua su TheVision).



Per la Proactiva non è nemmeno il primo risultato positivo: già in marzo era caduta un’accusa di associazione per delinquere. L’equipaggio si era rifiutato di consegnare i migranti alla cosiddetta Guardia Costiera libica, e li aveva fatti sbarcare a Pozzallo. Ma il caso più interessante – e ancora aperto – rimane quello della nave Iuventa, proprietà dell’Ong tedesca Jugend Rettet, tuttora sotto sequestro e indagata dalla procura di Trapani. Non solo per la gravità delle accuse (la Iuventa si sarebbe fatta consegnare i migranti direttamente dagli scafisti, che addirittura avrebbero recuperato i gommoni), ma per la modalità con cui sono state prodotte le prove: su un’altra nave non governativa presente in quel settore, la Von Hestia, c’era un agente sotto copertura del Servizio Centrale Operativo della polizia di Stato. L’agente era stato inviato dopo una segnalazione di due addetti alla sicurezza della nave, due ex poliziotti che avevano inviato un dossier anche a Salvini e Di Battista. Secondo quanto riferito dai rappresentanti della Jugend Rettet sarebbero legati a gruppi di estrema destra italiani. Le foto che sono state esibite però non sono la prova incontrovertibile che avrebbero dovuto essere: le intercettazioni incriminanti che Travaglio citava l’estate scorsa si prestano forse a diverse interpretazioni – lo stesso Travaglio, come si è visto, è diventato molto più prudente; la Jugend Rettet nel frattempo ha pubblicato un cospicuo contro-dossier in cui si difende da tutte le accuse. Ora che le altre inchieste sono state archiviate, il caso Iuventa diventa cruciale: è forse l’ultima possibilità di dimostrare che le Ong fanno parte di un complotto criminale per sostituire la popolazione europea – un complotto assai inefficace: al ritmo attuale servirebbero 200 anni.

D’altro canto, chi racconta falsità del genere non ha così bisogno di prove. Gli hashtag funzionano meglio. “Le navi delle #ONG si scordino l’#Italia, stop a #scafisti e mafiosi,” cinguettano gli account filosalviniani. Per ora non c’è una sola condanna a carico di una Ong. Non una. L’unica cosa che hanno fatto è stata salvare vite senza chiedere soldi al contribuente italiano. Ma se Salvini ha scelto di prendersela con loro, non è soltanto per quell’istinto da bullo che fa impazzire tanti suoi elettori. Al mondo siamo sette miliardi e mezzo, e aumentiamo; l’Italia è un ponte naturale tra il Nord ricco e il Sud in via di sviluppo. Salvini sembra abbastanza furbo da rendersi conto che contrastare i fenomeni migratori è come tappare una diga col dito. Ma se le migrazioni sono inevitabili, altrettanto inevitabile risulta la reazione xenofoba che scatenano nella popolazione impoverita: un’ondata pericolosa, ma che ben cavalcata ti può far vincere le elezioni. Bisogna però avere qualche ricetta pronta, almeno una serie di parole d’ordine facili da ripetere, e Salvini se le è procurate: #FlatTax, #NoEuro, #Ruspa, #Censimento, “Via le #ONG”. Basta convincere il tuo bacino di elettori che combattendo una manciata di organizzazioni non governative si contrasta in qualche modo l’immigrazione. Non è nemmeno necessario che anneghino più poveracci: l’importante è che a ripescarli non siano le Ong.

Per quanto balordo possa sembrare, il complotto mondiale delle Ong assolve a una necessità emotiva di molti italiani, non solo elettori di Lega e M5S. Di fronte a un fenomeno migratorio non particolarmente violento, ma che nei tempi medio-lunghi metterà comunque in discussione il nostro stile di vita, chi assume un atteggiamento di rifiuto non vorrebbe sempre sentirsi accusare di razzismo. Ed ecco che qualche giovane comunicatore ti svela che i veri colpevoli di questo complotto sono europei, sono ricchi e sono bianchi: è l’uovo di Colombo. Ora puoi rifiutare le migrazioni senza passare per xenofobo. Non ce l’hai con gli africani, anzi, vorresti tanto aiutarli a casa loro; ce l’hai con gli scafisti che li rapinano, con i vicescafisti che li supportano; con le cooperative sociali che li sfruttano – e se non riesci a rinunciare a un po’ di antisemitismo vecchio stile, puoi anche incolpare di tutto il grande burattinaio, il solito George Soros. Trasformare le Ong nell’obiettivo primario della propaganda leghista e sovranista è in effetti una mossa geniale per essere venuta in mente a uno youtuber che studia scienze della comunicazione. Eppure è così, prima che Luca Donadel pubblicasse il suo primo video in cui spiegava “Tutta la verità sui migranti”, nessuno se l’era presa con le Ong. Anche il libro di Mondadori che Donadel reclamizzava nel suo video, Profugopoli di Mario Giordano, si concentrava sugli abusi delle Cooperative Sociali che gestiscono l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano, il cosiddetto “business dell’accoglienza”, ma non dedicava una sola pagina al ruolo delle Ong nel Mediterraneo. Il ragazzo che nel suo ultimo video attacca Saviano nella sua cameretta, in shorts, prendendo a pugni un cuscino, avrebbe davvero scoperto un argomento che prima in Italia non esisteva. Ma, curiosa coincidenza, esisteva in Russia. Come ha notato Andrea Vigani su Leftwing, la prima nazione europea a dichiarare guerra alle organizzazioni non governative è stata la Federazione Russa; seguita a ruota da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: le nazioni del gruppo di Visegrad. “In queste prime settimane non sono mancati ammiccamenti del governo italiano al gruppo di Visegrad. Si faccia attenzione perché la guerra alle Ong potrebbe essere un altro passo verso quel modello.”

Lunedì, su la Repubblica c’era un’intervista a un’attivista di una di quelle Ong che Travaglio definirebbe “buone”, quelle che rispettano il codice Minniti e che prima di salvare i naufraghi chiedono istruzioni al Centro di coordinamento. Si chiama Giulia Bertoni, ha 25 anni, studia alla Columbia University, per Salvini e seguaci un po’ filorussi è il bersaglio ideale. Il 18 giugno era di vedetta sulla Seefuchs della Sea Eye, quando ha sentito l’Sos di uno scafo con 120 persone nelle acque libiche, dove le Ong “buone” non dovrebbero entrare. La Seefuchs ha chiamato Roma, a Roma hanno detto di chiedere a Tripoli. Il giorno dopo le 120 persone erano scomparse e Giulia Bertoni non si dà pace. “Io, noi, avremmo dovuto disubbidire al capitano, al direttore della Ong che ci ha ordinato di allontanarci. Ci dovrebbero arrestare per aver ubbidito, per averli lasciati morire. Se volete arrestarci, arrestateci per questo. È come se dei pompieri si fermassero al semaforo di fronte a una casa in fiamme. Se fossimo stati dei privati, la legge del mare ci avrebbe obbligato a soccorrere.”
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Tommaso, apostolo ambiguo

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3 luglio – San Tommaso apostolo (I sec.), scettico credente e giramondo

C'è un gesuita austriaco in giro per l'Amazzonia in cerca di popoli da battezzare. Quando incontra una tribù di Guaranì, la prende molto per il largo: salve, mi chiamo Martin Dobrizhoffer, vengo dall'altra parte del grande mare, sono un prete e vengo a portarvi il C...
"Sì, sì", taglia corto il capotribù, "grazie del pensiero ma non abbiamo bisogno di preti qui, tutta la storia di Cristo e della salvezza ce l'ha spiegata direttamente Tommaso".
"Tommaso?"
"L'apostolo".
Ci sarebbe di che gridare al miracolo – salvo che siamo nella seconda metà del Settecento e neanche Dobrizhoffer riesce ad accettare l'idea che San Tommaso si sia spinto a predicare il vangelo in Paraguay. La stessa risposta l'aveva ottenuta un gesuita spagnolo un secolo prima; magari i guaranì avevano semplicemente scoperto che raccontando la storiella giusta i gesuiti li lasciavano stare.
Oppure.
Oppure un Tommaso evangelizzatore è esistito davvero: non necessariamente l'apostolo, ma uno dei primissimi esploratori europei, perché no? un cane sciolto che si era perso nella jungla e che aveva insegnato il cristianesimo agli indigeni caricandosi una croce sulle spalle. Qualcosa del genere, lo vedremo, potrebbe essere successa anche dall'altra parte del mondo.

Sì però dovresti verificare la profondità di una ferita mortale,
così sembra che gli stai strizzando un brufolo.

Del resto Tommaso è un doppio: lo dice il nome. In aramaico significa "gemello", e a volte è affiancato all'equivalente termine greco, Didimo. I tre vangeli sinottici non ci dicono nient'altro di lui. È solo col vangelo di Giovanni che diventa un personaggio, uno di quelli di poche parole ma tutte importanti. Sua è una delle frasi più icastiche di tutto il libro, quando alla notizia che Gesù intende riavvicinarsi a Gerusalemme, dice ai colleghi: "Andiamo a morire con lui". Giovanni passa per l'evangelista-filosofo, ma in certi casi mi sembra anche uno straordinario narratore: in tre parole ha suggerito al lettore il momento in cui Gesù decide di mettersi davvero nei guai, e la rassegnazione con cui i seguaci più intimi lo accompagnano al macello. Inoltre ci ha preparato per l'altra scena in cui userà il suo personaggio: che idea ci facciamo di Tommaso in questo versetto? Sembra il brontolone nell'angolo, il tizio che mentre Pietro e Giovanni si esaltano al pensiero di sedere nella gloria del figlio dell'uomo, sta riflettendo sul fatto che probabilmente nessuno riporterà la pelle a casa.
Oppure?

Io perlomeno l'ho sempre visto così ("Ecco, adesso ci tocca morire anche noi"), ma rileggendo mi sono reso conto che la frase si può anche interpretare in un modo più semplice, come un'esortazione al martirio: dai, andiamo a morire con lui! Dipende insomma tutto da come ti immagini la scena, e la tua immaginazione dipende molto dalla tua esperienza di vita. Per tutto questo tempo non mi ero accorto che alla fine il mio Tommaso era uno specchio: il brontolone nell'angolo ero io.

Ma l'episodio che fa di Tommaso uno degli apostoli più conosciuti è ovviamente quello del dito nella piaga (un dito che Tommaso non ha necessariamente infilato, anche se la scena era troppo adatta a Caravaggio perché Caravaggio non la dipingesse). Dopo la morte in croce, quando Gesù comincia ad apparire qua e là, Tommaso prende di nuovo la voce a nome degli osservatori più concreti, meno disposti a farsi prendere dall'entusiasmo: sentite, so che siamo tutti molto scossi, ma questa cosa non la bevo. Non ci credo. Potrebbe essere un altro, dopotutto, no? Per crederci dovrei vederlo, anzi no, dovrei infilare il dito nelle ferite dei chiodi, la mano nel suo costato. Otto giorni dopo, Gesù riappare e sfida Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio costato». A questo punto molti credono che Tommaso abbia davvero infilato il dito (e Caravaggio è appunto tra loro), ma il vangelo non lo dice. Giovanni si limita a riferire che Tommaso cede su tutta la linea: «Mio Signore e mio Dio», dice. Gesù gli risponde: tu hai veduto e hai creduto; beati quelli che non vedranno ma crederanno. Per il quarto evangelista in effetti non c'è niente di male a chiedere a Gesù dei segni tangibili della propria divinità: la prima parte del suo resoconto è proprio un elenco circostanziato di miracoli (il cosiddetto Vangelo dei segni), avvenuti davanti a testimoni credibili. Con l'Ascensione di Gesù in cielo il tempo dei segni si conclude: non sarà più possibile chiedere dei segni, Tommaso è tra gli ultimi ad averne ottenuto uno. Da qui in poi, per credere bisogna fidarsi dei testimoni: tanto più che la fine dei tempi è vicina.
Oppure?

Oppure il Gesù risorto era un imbroglione, e Tommaso il suo compare. Come altri personaggi del quarto vangelo, sembra più un'invenzione letteraria che un testimone in carne e ossa: nell'economia del racconto la sua funzione è proprio quella del compare del ciarlatano. Se avete presente la scena: il tizio con la cura miracolosa sta imbonendo la folla. Un tizio prende la parola per dire che non ci crede. Il ciarlatano stranamente lo lascia parlare, finché non ha catalizzato tutto lo scetticismo del pubblico, e poi gli propone di provare il suo elisir. Il tizio esita, in un primo momento non vuole (forse ha paura?) ma poi si lascia convincere, e miracolo! La cura su di lui funziona. Il pubblico si pente di aver dubitato.



È un trucco da quattro soldi (continua sul Post)
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Che cultura ti fai col bonus cultura

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[Questo pezzo è apparso ieri su TheVision]. C’è stato un mattino, sulla fine della primavera, in cui i nati nel 2000 e nel 2001 si sono svegliati con 500 euro in meno. Il Consiglio di Stato si era appena accorto che il governo Gentiloni non aveva lasciato scritto dove avrebbe preso i 200 milioni di copertura necessari; il neoministro Bonisoli, bocconiano di area 5Stelle, ha pensato bene di farsi conoscere al grande pubblico con una dichiarazione roboante e piuttosto maldestra: facciamo venire la fame di cultura ai giovani, rinuncino a un paio di scarpe. Ben fatto ministro Bonisoli, ora tutti immaginiamo i tuoi figli calzati con scarpe da 500 euro.


Persino in questa fase di luna di miele, in cui gli esponenti del nuovo governo raccolgono applausi anche quando suggeriscono schedature su base razziale, l’uscita di Bonisoli deve essere stata giudicata disastrosa se nel giro di 48 ore ha dovuto rimangiarsela: da qualche parte i 200 milioni sono stati trovati, il bonus ci sarà anche nel 2019. In commissione cultura i senatori 5Stelle non hanno smesso di borbottare: è solo una mossa elettorale, se davvero si tratta di promuovere la cultura tra i giovani ci vorrebbe qualcosa di più strutturale. Sagge parole che non costano nulla: senz’altro si può fare qualcosa di più “strutturale” che infilare 500 euro in tasca ai 18enni (con l’obbligo di spenderli in sei mesi), ma cosa?


Bisognerebbe fare un ragionamento più ampio sul concetto di cultura; servono idee, serve tempo. Cinque anni fa Matteo Renzi non ne aveva: doveva svecchiare l’immagine della sinistra e ampliare il suo bacino elettorale in tempi brevissimi. I bonus un po’ a pioggia, ai giovani, ai docenti, agli impiegati, non erano una misura né strutturale né elegante, ma facevano notizia e all’inizio sembravano funzionare. Oggi il M5S, ancora impegnato in una delicata campagna per i ballottaggi, non si trova in una situazione così diversa: per gareggiare con le sparate quotidiane di Salvini non può permettersi di scoprirsi su nessun fronte; se la cultura giovanile non è la sua priorità, Di Maio non può nemmeno rischiare di passare per il politico che ha tolto ai diciottenni 500 euro di libri, o addirittura di scarpe – Bonisoli, ma che ti ha detto il cervello? Proporre ai 18enni di fare a meno delle scarpe. Maria Antonietta in confronto con quella cosa della brioches fu una grande comunicatrice (in realtà non disse mai quella cosa delle brioches. L’ho scoperto su Wikipedia).


Insomma il bonus elettorale resta, e la discussione su cosa sia la cultura e su quale sia il modo migliore di promuoverla è rimandata a data da destinarsi. Se vi va possiamo cominciarla qua sotto, gratis. Partirei da un’osservazione empirica: a 18 anni, non so voi, ma io non è che ne capissi molto in generale. Ero un coglione. In altri Paesi europei mi avrebbero aiutato a uscire di casa o a trovare un lavoro; ma se mi avessero infilato in tasca 500 euro e mi avessero costretto a spenderli in “cultura”, li avrei spesi in stronzate. Per fortuna nessuno si era già fatto venire questa buffa idea. E siccome avevo comunque fame di “cultura”, qualsiasi cosa fosse, mi avreste trovato spesso in biblioteca. Nelle città in cui mi è capitato di vivere ce ne sono di meravigliose: le amministrazioni di sinistra in particolare ci hanno investito, aggiungendo al tradizionale prestito dei libri anche quello di CD e DVD originali (tutti con la loro brava scritta “proibito il noleggio”). Ho una grande nostalgia per i miei pomeriggi di ozio in quegli ambienti luminosi e tranquilli, ma mi domando se non rischio davvero di sembrare quel tipo di persona che cerca di infilare il gettone telefonico nell’Iphone, una volta Renzi li descriveva così. Che senso ha insistere su un luogo fisico, ancorché pubblico, oggi che la cultura tende a smaterializzarsi – noleggiare CD e DVD, nell’era di Spotify e Netflix? Un’app che produce voucher è meno scenografica di una biblioteca, ma forse è più adatta ai tempi, così come uno smartphone è più comodo di una cabina telefonica (continua su TheVision).



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Sì, non ho votato il PD; no, non mi sono ancora pentito

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ciao, forse ci conosciamo. Sono più o meno il responsabile di tutto ciò che sta andando storto in Italia negli ultimi tempi. Hai presente quei poveretti in mezzo al mare? Se annegano li avrò sulla coscienza. Ti ricordi qualche settimana fa, quando un ministro dell'economia in pectore non escludeva di uscire dall'euro a causa della "teoria dei giochi" (scrisse proprio così), e lo spread schizzò alle stelle? Sono stato io.

No, non sono George Soros. Neanche sul suo libro paga, fammi controllare – no.

Durante gli ultimi vertici internazionali non hai avuto anche tu la sensazione che l'Italia fosse rappresentato da un prestanome imbarazzato che si tinge i capelli e mette a curriculum anche le visite alla fidanzata? No, sul serio, chi ce l'ha messo a Palazzo Chigi un tizio così? Indovina: sono stato io. E così via. Di' un solo guaio successo negli ultimi due mesi: l'ho fatto succedere io. Proprio io.

Che non ho votato il Pd.

Eppure lo sapevo. Me l'aveva pur spiegato un sacco di gente, con ottimi argomenti. Le scorse elezioni non erano elezioni qualsiasi: stavolta era in gioco molto di più. La nostra permanenza in Europa, l'Europa stessa, la democrazia – la nostra umanità. Ricordo molto bene tutti questi discorsi, rivolti a quel bacino di elettori che in passato aveva votato Pd e che questa volta si sarebbe rivolto ad altre creature: principalmente il M5S, ma non solo. Si tratta di discorsi ai quali sono stato sensibile tante altre volte: benché abbia sempre odiato l'espressione "turarsi il naso" o "votare col mal di pancia", più o meno è quello che mi è capitato sempre di fare, salvo stavolta: e proprio stavolta, guarda che casino ho combinato.

Adesso ogni giorno c'è qualcuno in tv o sull'internet che mi suggerisce di fare autocritica. L'altro giorno Virzì, intervistato dal Foglio, mi ha spiegato che i 5stelle sono fascisti, e che avrei dovuto arrivarci prima – no, non ho votato 5Stelle; ma ho comunque fatto perdere il Pd: avrei pur dovuto capirlo che se perdeva il Pd i 5Stelle avrebbero rivelato il loro fascismo latente alleandosi con la Lega. Queste cose si sapevano già. È un lungo discorso che si può mirabilmente riassumere in una vignetta di Staino, nata apocrifa ma poi confermata dall'autore stesso: "Fascisti, razzisti, incompetenti. Com'è stato possibile tutto questo?" "Sai, mi stava sulle balle Renzi". Insomma tutto questo – la catastrofe umanitaria, lo spread, le figuracce internazionali – è successo perché sono antirenziano.

Magari è davvero così.

Faccio parte di un cospicuo insieme di elettori che non si trovava a suo agio, per usare un eufemismo, con molte delle proposte di Renzi. Appena ci fu l'occasione di farglielo capire (il referendum del 2016), ne approfittai. A quel punto Renzi sembrò fare un passo indietro, ma il Pd a quel punto continuò a sembrarmi un oggetto distante. In particolare la dottrina Minniti mi sembrava indifendibile, e così quando si è tornati a votare non ho votato il Pd. Per molti osservatori avrei comunque dovuto scegliere il meno peggio, il voto utile – è un discorso che capisco, ma a quel punto davvero un voto al Pd non mi sembrava più utile: al contrario, mi sembrava un voto perso... (continua su TheVision).

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Uno, nessuno, centomila Calogero

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18 giugno – San Calogero eremita 

"San Calogero di Girgenti, miracoli non ne fa nienti;
San Calogero di Canicattì, miracoli non ne fa tri;
San Calogero di Naro, miracoli ne fa un migliaro".

Calogero di Agrigento
Di Calogero si sa che fu eremita e fu in Sicilia; su tutto il resto i siciliani disputano. Potrebbe essere vissuto nel primo secolo ad Agrigento o nel decimo a Naro. Potrebbe aver viaggiato l'isola in lungo e in largo, soggiornando in quasi tutte le grotte da cui sgorgano acque termali; potrebbe esser vissuto a lungo, veramente molto a lungo. Per gli abitanti di Naro la questione si risolve come sopra, in modo molto pragmatico: cosa importa il passato? Quel che conta è determinare il Calogero più efficace nel presente, quello che fa più miracoli, e il nostro ne fa mille. Al che gli agrigentini obiettano: "San Calogero di Girgenti, le grazie le fa per nienti; San Calogero di Naro le fa sempre per denaro". Alla fine della disputa ognuno resta col Calogero suo. Siccome poi "Calogero" in greco vuol dire "buon vecchio", non si fatica a immaginare che di Calogeri ce ne siano veramente stati più d'uno, e che a un certo punto della tarda antichità "Calogero" fosse il semplice appellativo con cui i siciliani si rivolgevano i vecchi e saggi eremiti che vivevano nelle grotte. Per non sottoporre i loro fragili corpi alle tentazioni del secolo? Per trovare nel silenzio e nella solitudine una via più diretta all'assoluto? Ma anche perché avevano scoperto che bagnarsi in acque solforose fa bene alla salute e ti aiuta a invecchiare più lentamente.

Di tutte le leggende, quella della cerva avvalora l'ipotesi. Racconta che giunto intorno ai novant'anni, Calogero non riuscisse più a mandar giù nessun tipo di cibo. Il digiuno, che di solito nelle storie dei santi è una pratica autoindotta e consapevole, qui è semplicemente il segno dell'invecchiamento. Calogero dunque si nutre unicamente del latte ad altissima digeribilità prodotto da una cerva che Dio gli invia tutte le mattine. Finché un cacciatore, Siero, non gliela ferisce a morte. La cerva fa giusto in tempo a tornare nella grotta di Calogero e morirgli tra le braccia; il cacciatore che la stava braccando arriva anche lui nella grotta, vede il monaco che l'ha battezzato che chiude gli occhi alla preda che ha ucciso: minchia, pensa, l'ho fatta grossa. Ma il santo lo perdona immediatamente, e già che c'è gli mostra la grotta vaporosa e gli illustra tutte le virtù delle acque che sgorgano in quelle falde, un vero tour guidato al termine del quale Siero diventa un suo discepolo, appena in tempo perché Calogero non sopravviverà alla cerva che per quaranta giorni.

Calogero è un buon vecchio che conosce le virtù nascoste all'interno della terra; lo si venera a Sciacca, il cui monte era dedicato al dio Crono; sul monte di Termini Imerese dove avrebbe scacciato i demoni e lasciato l'impronta della mano; mentre a Vicari avrebbe lasciato quella del piede. Calogero è insomma una figura dell'inculturazione, il nome dietro al quale uno dieci o centomila chierici, forse davvero provenienti dalla Grecia bizantina, scacciarono le antiche divinità ctonie dalle grotte della Sicilia; che poi uno o dieci avessero davvero la pelle scura, non è implausibile; ma il momento in cui San Calogero diventò davvero nero fu quando cominciarono a circolare le sue statue, più spesso in bronzo o in rame. Il bronzo dei Calogeri di Agrigento e di Naro ha anche l'indubbio vantaggio di scintillare al sole, il che deve suggerire durante la processione del pomeriggio di giugno l'idea che anche il santo stia sudando; che il suo sudore sia qualcosa di fisico, che si può trattenere nelle pezzuole e poi usare per curare i malati. Il sudore di Naro pare che funzioni di più di quello di Agrigento (ma che sia anche più costoso).

La negritudine di Calogero nei secoli è stata spiegata con tante ipotesi diverse, nessuna del tutto soddisfacente... (continua sul Post)
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La ballata di San Vito

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15 giugno – San Vito (♱303, patrono di un sacco di posti e di 34 categorie professionali, invocato in tutte le patologie che contemplano convulsioni). 

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Vito era un bambino agitato, alzi la mano chi non lo è stato. Il padre gli diceva: vuoi star fermo? Non è che se smetti di correrci non si chiama più corridoio. E quelle sono posate, non bacchette del tamburo. Ce la fai a star seduto mentre mangi? T'ha punto un ragno, t'ha morso un serpente, si può sapere cos'hai? E Vito, sempre: Scusa papà!, perché alla fine era un bambino perbene: ma non lo tenevi neanche con le catene.

"Un giorno io chiamo Diocleziano e gli racconto che sei un cristiano".
"No papà dai, non lo farò più".
"Non farai più cosa?"
"Non lo so, cosa stavo facendo?"

Vito faceva il distratto, alzi il piede chi non l'ha mai fatto. Perché in verità era cristiano sul serio: l'aveva convertito il suo maestro, che poi era San Modesto. E non aveva ancora finito di asciugarsi dall'acqua del battesimo che si era già messo a fare miracoli a destra e a manca; ora si capisce che un santo i miracoli ogni tanto li deve fare, ma Vito proprio non se li teneva, gli scappavano da tutte le parti. Ti guariva la psoriasi anche solo a guardarlo da lontano, anche solo a pensarci. San Modesto gli diceva: ti vuoi calmare? Hai tolto la rabbia all'intero canile, vuoi mandare sul lastrico i veterinari? Non c'è più un caso di encefalite da Praga a Mazara del Vallo: e i dottori che cosa faranno? Anche Cristo si è fermato a Eboli: tu dov'è che pensi di andare? E Vito, sempre: scusa Modesto! perché alla fine era un bambino onesto: ma niente da fare, come si voltava ricominciava a mollare miracoli dappertutto.

"Guarda che arriva Diocleziano, guarda che scopre che sei cristiano".
Difatti un bel giorno arrivò, lo processò e lo condannò. Ma Vito era un po' iperattivo, chi non lo è stato controlli se è vivo. Vuoi stare un po' fermo (gli diceva Diocleziano mentre lo immergevano nella pece bollente)? Non vedi che sporchi dappertutto.

"Guarda qui che macello, ci sono macchie di pece fino in Basilicata".
"Scusa Cesare".
"Augusto, io mi chiamo Augusto, Cesare è il mio vice. Ma a scuola non la studiate più la tetrarchia?"
"Non lo so, ho perso il diario".
"La solita scusa, anche mio figlio non fa in tempo a scriversi i compiti che..."
"Tuo figlio in realtà è indemoniato".
"Ti dirò che la cosa non mi sorprende affatto".
"Comunque l'ho guarito".
"Meno male, adesso se non ti dispiace potresti smettere di accarezzare quel leone?"
"Ma perché? È così carino".
"Non è carino, è una belva feroce, è anche paurosamente magro, non mangia da una settimana, l'abbiamo liberato in questa arena affinché ti morsichi a morte e tu gli stai facendo i grattini dietro alle orecchie".
"Senti che fusa, senti".
"Va bene, ho capito, portate via il leone, proviamo col supplizio del cavalletto. Io non li sopporto questi cristiani. Han così tanta voglia di morire e poi alla prova dei fatti non muoiono mai. Li immergi nella pece e non si scottano, liberi i leoni e fanno le fusa. Abbassi la scure e la scure rimbalza. Li lanci dalla finestra e s'involano con gli angeli, ma che razza di religione è. Se proprio ci tieni a morire, non puoi star fermo un attimo e aspettare che ti ammazzino? E adesso cosa c'è? Cosa dice il boia?"
"Cesare, si dimena troppo, non riusciamo ad appenderlo".
"AUGUSTO! MI CHIAMO AUGUSTO! È da vent'anni che ho implementato questa cazzo di tetrarchia e ancora i sottoposti non sanno come chiamarmi ma dico io, le leggete le circolari?"
"Ma Maestà..."
"Non si dice Maestà, non siamo in una fiaba medievale, questo è l'impero romano e io devo essere chiamato Au-gu-sto, Au-gu-sto, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano per i biografi. E il cristiano nel frattempo che fine ha fatto?"
"Credo che si sia involato con gli angeli".
“No vabbe’. Io esco. Vado a Spalato a coltivare i cavoli, con vent’anni di contributi da imperatore credo di potermi permettere una villetta in campagna”.

L’angelo aveva portato San Vito alla foce del fiume Sele, dove fece giusto in tempo a morire a causa delle torture, e salito in paradiso cominciò a tormentare anche i santi. Ma vuoi stare un po’ fermo? gli diceva San Simeone Stilita. T’ha morsicato un serpente? gli chiedeva San Patrizio. Qua bisogna dargli qualcosa da fare, propose Sant’Isidro contadino. Buona idea, pensò San Pietro: “Vito, ti va di proteggere i farmacisti? Non hanno ancora un patronato, potresti pensarci t–”

“Fatto”.
“Come fatto”.
“Li ho protetti, capo”.
“Ma ti ho detto di farlo due secondi fa”.
“Controlla”.
“Sì vabbe’ ma scusa non si fa così, non te l’ha spiegato San Modesto? Bisogna avere anche un po’ di rispetto per i santi che ci mettono più tempo”.
“Scusa hai ragione, prova a darmi un altro patronato”.
“Eh vabbe’, così, su due piedi… Gli albergatori”.
“Ok”
“Ok cosa vuol dire? Li hai già protetti?”
“No, no, ci sto lavorando”.
“Non fare il furbo con me”.
“Ti giuro capo, non ho già finito, ci sto mettendo più tempo, guarda”.
“Ci hai messo tre secondi in più, Vito, dai, non è una cosa seria”.
“Ma che ci posso fare? Sono nato così”.
“Non c’è nessuna gloria nell’essere nati, io per dire ero nato pescatore. Bisogna sforzarsi un po’, inventarsi qualcosa. Sennò sembriamo palline scagliate dalla racchetta di Dio. Almeno un po’ di effetto, un po’ di libero arbitrio; Dio t’ha fatto tondo? Prova a metter fuori gli angoli. Se Dio ti ha creato veloce tu almeno prova a rallentare”.
“Ma se Dio mi ha creato in un modo…”
“Di sicuro non era per vederti finire nello stesso modo. Dio ama le sorprese”.
“Ma se è onnisciente”.
“Esatto, ama l’unica cosa che non può avere davvero. È per quello che ci somiglia tanto. Ma cosa puoi capirne tu, sei solo un bambino. E probabilmente lo resterai. Ma fa una cosa: proteggimi i birrai, tu che non bevi mai”.
“Protetti”.
“E i bottai”.
“Fatto”.
“I muti e i sordi, tu che non taci mai”.
“Protetti”.
“Gli abitanti di Sapri e di Rijeka già Fiume, in Croazia. Gli idrofobi e i letargici – proprio tu che non dormi mai”.
“Ok”.
“Sei uno spasso, Vito, non invecchiare”.
“Capo, non credo di poterlo fare”.

Vito era un bambino complesso, chi non lo è stato può alzarsi adesso. Batti quel piede, batti la mano, danza con Pietro e con Diocleziano. Tu che se vuoi riesci a stare seduto (e per questo ai maestri sei sempre piaciuto); che se ti dicono “fermo” tu stai; ma io dico “balla”, e tu ballerai. Tutta la notte finché, sfinito, non ti verrà a salvare San Vito. Lui fa in un attimo, stende la mano: su te, su Pietro e su Diocleziano. Così saprai come ci si sente, a non poter star mai fermi per niente: a sentirsi bruciare le ossa, mentre i nervi ti danno la scossa. E avrai pietà anche di quel cristiano: e pietà per Pietro, e per Diocleziano.
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Di che scuola sta parlando professore

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Vedrete che tra un po' chiederanno di reintrodurre il frustino. Qualche settimana fa, quando imperversavano gli articoli e i servizi giornalistici sul teppismo scolastico, mi è capitato di dire ai miei colleghi questa cosa. Ero io stesso convinto di esagerare. Eppure ieri sul Corriere un importante opinionista ha scritto una letterina al neoministro dell'istruzione, suggerendo un decalogo che prevede, tra l'altro: (1), la "predella", il gradino rialzato per la cattedra degli insegnanti; (4) l'eliminazione di "qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanze nell'istruzione scolastica"; (8) una cineteca obbligatoria, ma veramente obbligatoria, se non la fai ti chiudono il plesso; (9), "Alle gite scolastiche sia fatto obbligo di scegliere come meta solo località italiane. Che senso ha per un giovane italiano conoscere Berlino o Barcellona e non aver mai messo piede a Lucca o a Matera?" Ci sono altre perle, ma il frustino ancora non c'è.

Sembra comunque di intravederlo in controluce, tra le proposte scartate all'ultimo momento, e in fondo è il motivo per cui mi sto mettendo a scrivere: questo tipo di pezzi apparentemente sconclusionati, che sembrano concepiti unicamente per strappare qualche applauso tra vecchi studenti e perfino insegnanti (c'è persino il divieto a convocare i docenti a più di quattro riunioni al mese), in realtà qualche effetto lo ottengono. In gergo giornalistico si chiamano "provocazioni", servono a far discutere, ma anche a spostare un po' più in alto l'asticella del tollerabile. Non importa se la maggior parte dei lettori trova ridicola la predella: nel frattempo ci siamo rimessi a parlarne e qualcuno, anche uno su cento, magari non l'ha trovata una cattiva idea. E così, editoriale dopo editoriale, il frustino diventa uno scenario sempre meno improbabile. Soprattutto se nessuno ogni tanto si sobbarca il fastidio di intervenire per far presente che chi suggerisce una cosa così demenziale come un gradino in mezzo a un'aula evidentemente non conosce le normative in fatto di sicurezza – quelle su cui il personale scolastico è tenuto ad aggiornarsi a intervalli regolari. Proporre anche solo per scherzo una cosa del genere non tradisce solo una scarsa conoscenza della scuola contemporanea, ma un po' di tutto il mondo del lavoro (continua su TheVision).


In alcuni casi risulta chiaro che lo stimato opinionista abbia preso lucciole per lanterne: è infastidito dal fatto che gli insegnanti non usino tutti i 500 euro del bonus cultura per “acquistare libri” – forse crede che si possano usare per le medicine o le mutande e non sa che le alternative sono corsi d’aggiornamento o supporti tecnologici. La creazione degli istituti comprensivi lo disorienta non perché inglobino scuole con utenze diversissime, dai tre ai 14 anni, ma perché invece di essere “intitolati al nome di una personalità illustre” sono designati “con un semplice numero o l’indicazione di una via!” Gran parte delle sue proposte sono ben poca cosa, se confrontate con le reali esigenze e richieste concrete di chi a scuola ci lavora.

Docenti e studenti chiedono scuole più sicure e la riduzione delle barriere architettoniche; lui ha ancora in testa la predella, ignaro che in diversi casi il disabile che avrebbe difficoltà a montare su quell’inutile gradino è proprio l’insegnante. Docenti e studenti vorrebbero più banda a scuola, per accedere alle risorse online e condividere compiti ed esperienze in rete (quando non c’è a volte ovviano utilizzando il traffico dati dei loro smartphone); l’opinionista non lo sa e propone di sequestrarli, gli smartphone (mentre “i semplici cellulari” vanno bene: viva i cari vecchi Nokia di una volta). Insegnanti e dirigenti si struggono per inserire nell’offerta educativa delle loro scuole qualche gita all’estero che possa fare la differenza; per lo stimato opinionista bisogna prima passare da Matera, unico capoluogo di provincia non ancora servito dalle Ferrovie dello Stato, un incubo logistico per ogni scuola del nord Italia (Provenza e Ticino sono molto più a portata di mano).

Più in generale l’opinionista dà per scontato che non esista problema che non si possa risolvere con qualche bella ricetta di una volta. I tempi sembrano propizi: per la prima volta nella storia della Repubblica c’è un un ministro dell’Istruzione di area leghista; in giro si respira una gran voglia di controriforma, sollecitata anche dall’ondata di allarmi sul bullismo scolastico. Gli stessi insegnanti potrebbero essere sensibili a questi argomenti, e in fondo il decalogo del Corriere è rivolto in primis a loro. A una categoria eternamente insoddisfatta il pregiato opinionista non offre soltanto uno scalino in più, ma anche il miraggio di una scuola senza genitori (e senza smartphone).

Siamo un popolo di allenatori della Nazionale. Durante la crisi di governo siamo diventati un popolo di giudici costituzionali. A maggior ragione riteniamo di avere qualcosa di sensato da dire sulla scuola, un’istituzione che tra l’altro abbiamo frequentato tutti – anche se magari è stato quarant’anni fa. In fondo non c’è niente di strano, anzi: la scuola è tra le altre cose un modello di società. Questo la rende, in molte conversazioni, un mero pretesto. In fondo, mentre propone di ripristinare uno scomodo gradino di pochi centimetri, lo stimato opinionista sta soprattutto cercando di difendere il proprio.
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La repubblica dei padroncini

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ma insomma alla fine chi ha vinto queste elezioni? Fin qui è abbastanza facile indovinare chi le ha perse, a partire da migranti e famiglie LGBT. Per capire davvero chi ha vinto occorre aspettare che si posi il polverone di promesse e false speranze. Dobbiamo ancora capire quante aliquote avrà davvero la cosiddetta flat tax, e se il reddito di cittadinanza dei CinqueStelle non si ridurrà a "una indennità di disoccupazione un poco rafforzata", come l'aveva definita Giovanni Tria prima di diventare ministro dell'economia. È ancora presto per fare supposizioni; facciamole lo stesso. Secondo me hanno vinto i padroncini.

Si sa che i primi provvedimenti di un ministro hanno soprattutto un ruolo simbolico: Di Maio, arrivato al ministero del lavoro, per prima cosa ha mandato a chiamare Sergio Bramini, un imprenditore brianzolo diventato famoso grazie alle Iene perché... è fallito. La sua impresa di smaltimento rifiuti aveva come clienti lo Stato e altri enti pubblici; lo Stato e gli enti tardavano a pagare e Bramini, piuttosto di dichiarare bancarotta, ha ipotecato la casa; col risultato che gliel'hanno portata via, il suo cane è morto in un canile, e adesso Bramini andrà a Roma ad assistere le piccole imprese. A salvare i padroncini, qui nella Padania periferica li chiamiamo così. Non solo perché sono dirigono aziende piccole, a volte più piccole delle auto di rappresentanza con cui vanno in giro (intestate all'azienda). Non solo perché spesso sono i figli, se non i figli dei figli dei fondatori. Sono quelli che vivono ancora in ville contigue al loro capannone. Una siepe separa il giardino con piscina dal magazzino, dallo sguardo dei facchini indiani. I padroncini.

Forse hanno vinto loro. Il primo messaggio che Di Maio ha voluto dare dal suo ministero è: vi salveremo. A Bramini piace la flat tax, che per il piccolo-medio imprenditore in effetti dovrebbe tradursi in una manna dal cielo. Certo, servono soldi ("coperture", le chiamano), dove prenderli? Per il neoministro dell'economia Tria si può benissimo alzare l'IVA (che è già una delle più alte in Europa). La prima imposta che avete pagato da bambini, quando vi davano i due euro per comprarvi il gelato. Non che il gelataio ritenesse sempre necessario rilasciarvi lo scontrino; ma voi l'IVA la pagavate lo stesso, e presto la pagherete un po' di più. Ne va della sovranità dell'Italia, e poi bisogna salvare i padroncini. "Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso". Salvare i padroncini. "Falliscono 320 imprese al giorno", spiega Bramini, uno di quei classici numeri che ogni tanto dava Grillo sul suo vecchio blog. Sono più di centomila imprese all'anno, è abbastanza incredibile. Non solo che chiudano: che in Italia ce ne siano così tante. Eppure Eurostat conferma: ancora nel 2014 avevamo il doppio delle imprese della Germania. Siamo la nazione con più imprese in Europa – siamo anche una delle nazioni che cresce meno.

Potrebbe non essere una coincidenza: l'industria italiana potrebbe avere un serio problema di nanismo. Il caso di Bramini in fondo ci racconta proprio che una piccola impresa che vive di commesse statali rischia di essere strangolata a causa di banali ritardi burocratici. Altrove è lo stesso mercato a favorire la fusione e la creazione di imprese più grandi, in grado di far fronte con più efficienza a crisi di liquidità. Da noi no, da noi occorre salvare l'ecosistema dei padroncini. Quel tessuto sociale di capannoni e villette che era un chiodo fisso di Grillo, che è il Nord della bussola di Salvini (e di Bossi prima di lui). Su tante cose Lega e M5S non andavano d'accordo e probabilmente litigheranno presto; ma i padroncini piacciono a entrambi. Una delle prime destinazioni a cui i parlamentari 5S cominciarono a destinare i loro stipendi da parlamentari fu proprio un fondo salva-piccole-imprese. Nemmeno i panda hanno goduto di tanta attenzione. E come per i panda (orsetti vegetariani che mangiano solo bambù e non lo digeriscono neanche bene) è lecito domandarsi se ne valga la pena; se il modello di sviluppo della piccola impresa non sia per caso condannato dall'evoluzione, che in economia si chiama globalizzazione e ultimamente premia chi riesce ad adattarsi a una tendenza mondiale di livellamento dei prezzi delle risorse e della manodopera.

La risposta è scontata: no (continua su TheVision).


La risposta è scontata: no, non ne vale la pena; la piccola impresa è spacciata, e i primi a rendersene conto sono gli stessi proprietari. I più previdenti hanno delocalizzato da anni, in Romania o in Cina; il capannone italiano lo tengono ancora per una questione di rappresentanza, e poi magari c’è ancora una decina di magazzinieri o qualche operaio che attacca l’etichetta Made in Italy fatta in Romania sul vestito confezionato in Cina. Nel frattempo il padroncino è al bar che si lamenta dei politici rapaci, dei migranti che rubano, dell’embargo contro la Russia, dei migranti che invece di rubare lavorano, ovvero rubano il lavoro; e soprattutto della piovra immonda che ha permesso tutto questo, l’Unione europea. Si stava meglio prima. Lui di solito votava Berlusconi, e quand’era deluso da Berlusconi passava a Bossi; adesso non c’è neanche bisogno di chiederglielo, bisogna rialzare gli steccati. Magari anche stampare le lire. Contro la Germania la lira era fantastica: bastava svalutarla un po’ e ti calavano anche i debiti. Bei tempi, Salvini potrebbe reintrodurli per decreto. Il piccolo imprenditore non è scemo, non sempre perlomeno; non crede per forza in tutto quello che dice, ma è bello credere anche solo per un momento che la Valpadana possa resistere ora e sempre contro l’avversario globale che si chiama Economia.

Il padroncino di solito non ha studiato tanto: non ne aveva motivo. Anche chi non era già instradato sull’asse ereditario si trovava comunque già in quella fascia generazionale in cui un laureato guadagnava a trent’anni la metà di un coetaneo che aveva cominciato a lavorare a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata, e anche oggi, che una laurea fa comodo anche per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura offra le soluzioni: permette solo vedere meglio i problemi. Sei hai studiato Economia sai bene che la piccola impresa è ormai finita, con o senza euro: conviene scappare. Se invece hai studiato Storia sai, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com’era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco da Gama vide le coste indiane: questo però non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo la possibilità. Forse l’Unesco potrebbe fare qualcosa per salvare i nostri capannoni, dichiarando il nostro cemento unico al mondo. La Padania, l’Italia, sorgerà come una piccola patria di officine: costruiremo tutto, un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti, le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio, se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo gli antichi progetti; i turisti verranno non solo a carnevale e saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova; il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c’è bisogno di dirlo, abolita.
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