Niente di nuovo dal fronte del Natale

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Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l'infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all'aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l'anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus
Dal Fronte per ora questo è tutto: un po' poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe "obbligatorio". Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che "chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore". Insomma l'artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L'impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c'è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l'impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c'è chi addobba l'albero, c'è chi compra i regali, c'è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – "War On Christmas" la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l'augurio "Merry Christmas" dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista "Happy Holidays", buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l'Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d'innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l'esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell'Europa Centrale dev'essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant'anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un'invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l'anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c'è la capacità di riconoscere al volo un'immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c'è l'abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d'inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l'anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l'imperatore Aureliano introdusse nel 274... (Continua su TheVision).


La scelta di celebrare il terzo giorno dopo il solstizio, quando dopo sei mesi le giornate ricominciano ad allungarsi, fu forse ispirata ai culti mitraici, ma quel che interessava realmente ad Aureliano era imporre un culto universale a tutti i popoli dell’impero – e cosa c’è di più unico e universale del sole? I cristiani – magari suggestionati dall’idea di una resurrezione vittoriosa dopo tre giorni di oscurità – fecero propria la festa neopagana. Nel giro di un secolo, il cristianesimo sarebbe diventato religione di Stato, e l’editto di Tessalonica avrebbe definito i non cristiani come “dementes”, pazzi. Non è difficile riconoscere nell’odierna frenesia natalizia qualche aspetto dell’antica follia dei Saturnali romani e delle feste germaniche. Forse non è una coincidenza se da millenni sentiamo il bisogno di circondarci di luci, di affetti e di zucchero nel periodo più oscuro dell’anno.

Nel 2000 il governo russo donò alla città di Demre, già Myra, una statua di San Nicola, raffigurato secondo la classica iconografia ortodossa; un’immagine che i turisti russi in visita alla tomba del Santo avrebbero apprezzato, ma che lasciava evidentemente perplessi gli automobilisti turchi: al punto che pochi anni dopo fu spostata in una posizione più vicina al santuario, e soppiantata al centro della rotonda da un Babbo Natale di plastica. Che ci piaccia o no, il San Nicola più famoso e riconoscibile dai visitatori di tutto il mondo è quest’ultimo. Non c’è dubbio che sia una banalizzazione: ma forse è il prezzo da pagare per avere una festa davvero universale. Chi chiede con insistenza che il presepe rimanga in tutte le scuole e i luoghi pubblici, si prepari a vederlo trasformato in un oggetto altrettanto banale e universale.
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I compiti a casa sono il male (necessario?)

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21 dicembre – San Pietro Canisio (1521-1597), il primo santo insegnante che ho trovato stamattina sul calendario.

Il giorno in cui esce finalmente la tanto strombazzata circolare natalizia del ministro Bussetti sui compiti delle vacanze è anche il giorno in cui si festeggia San Pietro Canisio, aka Pieter Kanijs, un gesuita tedesco che scrisse un catechismo talmente facile e utile che lo si usava ancora nelle scuole qualche decennio fa (ogni tanto penso che dovremmo rivalutare i vecchi catechismi, quelli strutturati con le domande semplici e le risposte secche da imparare a memoria. Col tempo magari li metti in discussione, ma nel frattempo ti danno sicurezza; probabilmente tra un po' ci accorgeremo che ci mancano, li riscopriremo come qualcosa di solido da afferrare nel mare caotico delle mappa concettuali, quei maelstrom caotici di freccette che vanno da tutte le parti e non si capisce mai da che parte cominciare e da che parte finire).


Il giorno in cui si festeggia un insegnante che ha scritto rispostine facili da imparare a memoria per milioni e milioni di studenti è anche il giorno in cui finalmente il ministro, dopo aver annunciato in lungo e in largo che ci avrebbe chiesto di tagliare i compiti delle vacanze, ci ha mandato davvero la circolare – alleluja! È una banalissima circolare che davvero, senza tutto questo tour di presentazione nessuno avrebbe notato. Da nessuna parte ci troverete scritto: tagliate i compiti. C'è invece un olimpico invito agli insegnanti a "riflettere, anche anche collegialmente, sul carico di compiti che saranno assegnati durante le vacanze". Dove "collegialmente" non è un avverbio a caso pescato dal burocratese delle circolari, ma un termine abbastanza pesante: significa che non si tratta di discuterne amichevolmente in sala insegnanti, ma di deliberare attraverso l'organo preposto, il Collegio Docenti. Significa, in altre parole, che il 21 dicembre 2018 il ministro Bussetti ci sta prendendo in giro: non c'è proprio verso che si possano convocare collegi docenti prima dell'inizio delle vacanze di Natale, che quasi ovunque è domani. A quest'ora i compiti sono già stati assegnati, sui diari e sui registri (elettronici). Se ne riparla a Pasqua? Senz'altro se ne riparlerà. Nel frattempo, qualsiasi genitore o alunno convinto di essere stato caricato di un'eccessiva mole di lavoro può prendersela con noi: il ministro non ci copre, il senso della circolare alla fine è questo. Il ministro ci usa come il poliziotto buono adopera il poliziotto cattivo. Va bene, ministro, è stato un piacere, buon Natale anche a lei.

È difficile discutere del problema dei compiti a casa. È uno di quei casi in cui dalla parte del torto siedono molte brave persone e professionisti seri, mentre dalla parte della ragione incontri certi ceffi senza scrupoli che ti fanno domandare se avere ragione sia davvero così importante. Ovvero: chi crede nella scuola pubblica, nella scuola come strumento di uguaglianza sociale, non può che condividere l'idea che i compiti a casa siano ingiusti. Magari necessari, ma concettualmente iniqui. Proprio la scuola democratica, che dovrebbe offrire al bambino benestante e al bambino disagiato la medesima educazione: proprio la scuola pubblica rimanda a casa il benestante e il disagiato con gli stessi compiti. Chi dei due avrà maggiori possibilità di farli davvero, di farli bene, magari con l'assistenza di altro personale pagato dalle famiglie?

Più compiti si danno a casa, più classista è la scuola; e si dà il caso, (lo dice l'OCSE) che in Italia se ne diano troppi. Dovremmo darne meno; forse non dovremmo darli e basta. Sarebbe una linea da difendere a oltranza, se solo in trincea non ci si ritrovasse con politici populisti in cerca di popolarità, genitori lassisti, studenti pigri. E poi diciamolo, imparare a lavorare a casa serve. Allenarsi a ignorare le notifiche, tenersi lontani dalle lusinghe del frigo e a non perdersi su Internet appena ti imbatti in un termine da googlare. Lavoreremo sempre di più in casa, tanto vale addestrarsi sin da piccoli. Certo, in un mondo ideale la scuola dovrebbe fornirti tutta l'educazione e l'istruzione di cui hai bisogno senza chiedere assistenza al pomeriggio a genitori o altri tutori. Ma non viviamo in un mondo ideale: viviamo in Italia, anche se a volte chi parla di istruzione sembra non rendersene conto. Si abbozzano sempre confronti con le scuole di altri Paesi e sono sempre Paesi più a nord – la Francia e la Germania, ovvio, ma anche la Danimarca o la Finlandia. Laggiù di compiti ne danno di meno, è vero. Magari a Natale non ne danno nemmeno, e del resto che compiti vuoi che facciano i ragazzi in quelle due settimane scarse in cui spesso sono ostaggio dei parenti, costretti a sequele interminabili di cenoni, veglioni e cerimonie.

Negli altri Paesi però le vacanze di Natale non sono la prima seria interruzione dell'anno scolastico: quasi sempre c'è una seria pausa in novembre (Ognissanti), e poi ce ne sarà un'altra in primavera, o a volte già a Carnevale. In compenso, in questi Paesi le vacanze estive sono molto più brevi: a giugno e a settembre si va già a scuola. Non è che vacanze più brevi e più diluite rendano inutili i compiti, ma consentono a gli insegnanti di assegnarli in dosi ragionevoli, in dosi umane. Non c'è bisogno di assegnare centinaia di esercizi a giugno nella speranza che gli studenti si ricordino ancora come risolverli a settembre.

Quando si parla di questi argomenti mi vengono sempre in mente le formiche di un vecchio racconto di Clifford Simak – uno scrittore di fantascienza dell'età dell'oro, gli anni Quaranta. In questo racconto uno scienziato sociopatico trova un sistema per impedire a una colonia di formiche di andare in letargo. Il risultato è un improvviso balzo evolutivo: le formiche cominciano a costruire minuscoli utensili e in breve arrivano alla rivoluzione industriale. Il tutto perché hanno smesso di dormire per una lunga stagione, e non devono più ripartire da zero ogni anno: hanno cominciato a immagazzinare, oltre al cibo, anche le nozioni. È un'idea molto ingenua, ma non mi si è mai levata dalla testa: forse perché lavorando nella scuola italiana ho spesso la sensazione di trovarmi nel formicaio di Simak, anzi in un formicaio pre-Simak in cui le formiche a settembre non ricordano più quello che avevano scoperto a giugno. Un posto dove ogni anno si ricomincia sempre da capo, rispiegando le stesse cose agli stessi studenti. Persino le classi più brave, quelle che fino all'inizio di giugno ti hanno seguito in qualsiasi argomento, lavorando assieme e acquisendo fior di competenze: anche loro, tre mesi dopo ti guardano catatonici: e non importa quanti compiti hanno fatto, non si ricordano niente. Le tabelline, la rivoluzione francese, l'Inno alla Gioia col flauto: niente. Ma li capisco, anch'io a metà settembre fatico a ricordarmi come si fa lezione. Poi riparto, ma appunto: ho la sensazione di ripartire sempre da capo, di reimparare sempre le stesse cose. Come le formiche. E la gente si preoccupa dei compiti. Ma i compiti sono un falso problema, il modo in cui noi insegnanti cerchiamo di mettere una pezza al problema vero.

Il problema vero... (continua sul Post!) è l’estate, che in Italia non finisce mai (tre mesi e mezzo senza scuola!), e ci riconsegna all’autunno lobotomizzati. Non solo, ma un’estate così lunga ci impedisce di avere delle pause serie nel resto dell’anno. Due settimane a Natale sono appena sufficienti a farci passare l’ansia prenatalizia; cinque giorni a Pasqua sono ridicoli, non fai in tempo a svuotare lo zaino che è già ora di tornare a scuola; quanto ai ponti, sono più dannosi che utili, soste brevissime e forzate che ci spezzano il ritmo proprio quando le scadenze cominciano a farsi vicine. Il nostro calendario è il vero problema: è tutto sbagliato. Quindi per avere una scuola funzionale basterebbe cambiarlo? Eh, ma forse non si può.
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La madonna azteca

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12 dicembre - Nostra Signora della Guadalupe (1531) prima fotografia a colori della Storia.

I latinoamericani sanno già, gli altri sospendano l'incredulità: a Città del Messico c'è una foto cinquecentesca della Madonna, a colori. Sembra un dipinto, ma chi ha potuto esaminarlo dice che non lo è, non c'è nessuna traccia di pigmento, e poi l'espressione del suo volto ha un che di irriproducibile. È l'immagine della Madonna più popolare del Sudamerica, e quindi, tra poco, di tutta la cattolicità. Alcune madonne sono finite sugli scudi e negli stemmi, ma Nostra Signora della Guadalupe è l'unica Madonna a essere stata sventolata come bandiera da un esercito, ovviamente rivoluzionario. Ah, e inoltre è probabilmente una divinità azteca sotto falso nome. Ma procediamo con ordine, o quasi.

Sono passati appena dieci anni da quando Cortés si è impadronito della città del Messico, che gli abitanti sopravvissuti al vaiolo e ai conquistadores chiamano ancora Tenochtitlan. Juan de Zumarraga, primo vescovo della Nuova Spagna, riceve la visita inattesa di un contadino azteco di mezz'età, nome di battesimo Juan Diego, al secolo Cuauhtlatóhuac.  Mi manda nostra signora la Vergine di Dio, dice Juan al vescovo, stavo andando alla chiesa di Tlatelolco quando l'ho vista sul colle Tepeyac, mi ha detto di venire da voi perché vuole che le si costruisca un tempio lì.

Zumarraga non è un frescone: nel vecchio mondo faceva l'inquisitore, anche nel Nuovo troverà il modo di bruciare qualche prete azteco che forse non aveva del tutto rinunciato ai sacrifici umani. Probabilmente sa che su quel colle fino a poco tempo prima c'era il tempio di una divinità chiamata Tonantzin, "Nostra Cara Terra", insomma diffida. Quando il giorno seguente Juan Diego ritorna da lui, raccontandogli di avere rivisto la Madonna che insiste con la storia del tempio, lo caccia in malo modo e lo fa addirittura pedinare. Juan, disperato, torna dalla Madonna scusandosi e implorandola di trovarsi un migliore avvocato. La Madonna lo esorta a non mollare e gli promette che l'indomani gli farà avere una prova da esibire al vescovo scettico.

Il nastro nero in vita è un'allusione alla
gravidanza che i nativi avrebbero compreso
immediatamente. Luna, stelle e raggi del sole
sono attributi divini, ma lo sguardo rivolto
al basso attesta che non si tratta di una divinità.
Il giorno dopo, però, Juan non si fa vivo. È assente giustificato, suo zio è in fin di vita. Verso sera l'anziano parente gli chiede di andare l'indomani a Tlatelolco a trovargli un confessore. Invano Juan spiega che ha già una commissione da sbrigare per conto di Nostra Signora: lo zio se non trova un confessore va all'inferno. Juan a malincuore sceglie di dare buca alla Madonna, ma invano: quella lo attende al varco l'indomani sulla strada per Tlatelolco.

Quando la vede Juan si getta ai suoi piedi e cerca di spiegarsi. Non preoccuparti per tuo zio che sta già meglio, gli dice bonaria Nostra Signora. Piuttosto sali sul solito colle e raccoglimi dei fiori. Fiori? È il 12 dicembre, esattamente 481 anni fa, e il Tepeyac è una pietraia: e tuttavia Juan vi trova dei bellissimi "fiori di Castiglia" (rose?), che raccoglie nel suo mantello (tilma) e corre a offrire a Maria. Questa li manipola per qualche istante e poi li rimette nella tilma: portali al vescovo, vedrai che stavolta ti crede.

Mentre a casa lo zio guarisce miracolosamente, Juan torna per la terza volta dal vescovo inquisitore. Stavolta gli uscieri non lo vogliono nemmeno far entrare: poi notano i bei fiori nella sua tilma e cercano di portarglieli via, ma non si staccano: incuriositi dal fenomeno, vanno a chiamare Zumarraga. "Ancora lui? Cos'hai portato stavolta?" Juan Diego balbetta qualcosa e poi apre la tilma: ZOT!

Succede qualcosa di inspiegabile: un flash illumina la stanza e sul tessuto vegetale del mantello di Juan Diego si sviluppa all'istante l'immagine di Nostra Signora della Guadalupe, così come la possiamo vedere adesso nel suo santuario effettivamente costruito alle pendici del Tepeyac (le foto in questo caso non valgono, l'espressione ha un che di ineffabile che si può notare soltanto dal vivo). Va bene, direte voi, ma allora perché non si chiama Nostra Signora del Tepeyac? Perché la vergine avrebbe insistito con Juan per farsi chiamare proprio Vergine della Guadalupe, che è un santuario della vecchia Spagna, e precisamente dell'Extremadura, la terra arcigna donde provenivano tanti conquistadores e in particolare Hernan Cortés? Ci sono tante teorie.

Per esempio: forse Juan non ha detto davvero "Guadalupe", ha detto "Tecuatlanopeuh" ("Colei che ha origine dalle cime rocciose"), e gli spagnoli che lo ascoltavano hanno comprensibilmente interpretato con la parola più vicina nella loro lingua, ovvero "Guadalupe" (che per coincidenza era anche un santuario europeo veneratissimo da molti conquistadores, eccetera). Diego avrebbe potuto anche dire "Tecuantlaxopeuh" ("Colei che scaccia chi ci divorava"), o, ipotesi più accreditata, "Coatlaxopeuh", "colei che schiaccia il serpente", bella reminiscenza di Genesi ("Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno") e Apocalisse (la donna insidiata dal drago-serpente). La Madonna fotografata nella tilma non schiaccia un serpente ma sta in piedi sulla luna, come in tante immagini ispirate all'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi"). Vale anche la pena di ricordare che Quetzalcoatl, uno degli dei più adorati dagli aztechi, era il "serpente piumato", un Prometeo locale squamoso e vagamente antropomorfo simile anche a un drago. Un personaggio estremamente complesso, ma per i primi missionari messicani un semplice demone da schiacciare col calcagno...
Il racconto insomma alluderebbe a un esempio classico di inculturazione: un santuario azteco in onore di una divinità femminile viene nel giro di una generazione "schiacciato" e sostituito da uno nuovo in onore della Madonna. Anche se nel racconto a farsi promotore dell'operazione è un umile nativo, Juan Diego, di cui però non ci sono molte testimonianze. Zumarraga nei suoi scritti non parla mai né di Diego né di Nostra Signora.

La Guadalupe originale, quella in Estremadura,
a me fa pure più paura.
Un quarto di secolo più tardi, il primo a lasciarci una testimonianza approfondita sulla venerazione dei nativi per il santuario della Guadalupe-Tepeyac è un altro francescano scettico, Francisco de Bustamante. Costui scrive preoccupato al viceré riguardo a questo culto, fomentato dai domenicani, che ritiene dannoso per i nativi, perché "fa credere loro che l'immagine dipinta dal pittore indio Marcos sia in qualche modo miracolosa". Dunque esiste un pittore: dovrebbe chiamarsi Marcos Cipac de Aquino, essere di origine indigena ma dipingere all'europea, però su un tessuto vegetale sconosciuto in Europa, con tecniche che non siamo ancora riusciti a capire (qualsiasi tentativo di rifare l'immagine coi colori del tempo, su un tessuto simile, ha dato per ora risultati insoddisfacenti). Naturalmente per molti Marcos è semplicemente un restauratore, un tizio che a un certo punto avrebbe cercato di correggere col pennello, in modo anche piuttosto maldestro, alcuni dettagli dell'immagine originale. Ma a ben vedere le due storie sono in conflitto: o è esistito Marcos l'indio, o è esistito Juan Diego. Il primo esclude l'altro. Il primo è attestato sin dal 1556. Il secondo però è stato fatto santo da Giovanni Paolo II. Diciamo che la Chiesa a un certo punto ha preso posizione.

Pensate che la disposizione delle stelle
sulla veste sia casuale? Eh no, è proprio
la posizione che dovevano avere il 12 dicembre
1531 a Città del Messico (ma non era giorno?)
Nel 1556 la situazione era più fluida. All'indomani della denuncia di Bustamante parte un'inchiesta: da una parte domenicani e vescovo, favorevoli al culto che è già popolarissimo; dall'altra i francescani, che perderanno il controllo del santuario, destinato di lì a poco a essere smantellato e ricostruito più grande, e poi più grande ancora. Qualche anno più tardi Bernardino de Sahagun scrive che gli indios continuano a chiamare Nostra Signora col nome nahuatl di Tonantzin, "prendendo spunto dai Predicatori che chiamano col nome di Tonantzin Nostra Signora, la Madre di Dio". Ma di Juan Diego e della sua storia ancora nessuna traccia. La Madonna azteca varca l'oceano, diffondendosi prima della patata: nel 1571 l'ammiraglio Gian Andrea Doria che guida la flotta cristiana a Lepanto ha in cabina di comando una riproduzione dell'immagine miracolosa, dono personale di re Filippo II di Spagna. Il che non gli impedisce di tagliar la corda quando se la vede brutta: i cristiani vinceranno lo stesso e lui racconterà a tutti che è stata una geniale mossa tattica, era scappato solo per finta. Il Papa ne approfitterà per attribuire la vittoria alla Madonna del Rosario, del resto anche quella di Coatlaxopeuh-Guadalupe era nata dalle rose. Ma questo nel 1571 ancora non lo sapeva nessuno. I primi racconti della vicenda di Juan Diego risalgono a metà del secolo successivo. Un po' tardi per un evento che avrebbe dovuto essere avvenuto centoventi anni prima.

Dalla posizione delle stelle poi puoi arrivare alla proiezione del planisfero sulla tilma, il che ti porta a fare tutte delle considerazioni geopolitiche interessanti (ad esempio la luna punta verso gli USA, le mani stanno in Medio Oriente, uhm).
La cosa non impensierisce più di tanto i devoti, che più che che dalle vicende terrene di Juan Diego sono attirati dai miracoli - sono le grazie ricevute, non le leggende di fondazione, ad attirare il grosso dei pellegrini. Uno dei primi miracoli rivela che la transizione da tempio azteco a santuario mariano dev'essere stata abbastanza graduale: i fedeli sono ancora indios che partecipano ai riti con archi e frecce; poi si sa cosa succede quando tutti girano armati, prima o poi un colpo parte, è statistica, insomma un fedele rimane ferito, viene esposto davanti all'immagine e guarisce all'istante: potente Tonantzin, pardon, Nostra Signora, ma tanto per i domenicani Tonantzin vuol proprio dire Nostra Signora, quindi viva pure Tonantzin, l'inculturazione non è uno sport per chi ha troppi peli sullo stomaco. Anche il fatto che sia un po' scura di pelle ha il suo perché: per alcuni è la dimostrazione del suo carattere sovrannaturale, Nostra Signora appare a Juan Diego già con quelle fattezze meticce che diventeranno tipiche dei messicani solo qualche generazione più tardi. Ribattono gli scettici: non è meticcia, ha la pelle scura come tante madonne europee sin dall'epoca bizantina; peraltro la Madonna della Guadalupe originale, quella dell'Estremadura, è proprio nera; ed era davvero veneratissima da tutti i colonizzatori spagnoli, lo prova il fatto che negli stessi anni stava avendo un enorme successo dall'altra parte del Pacifico, nelle Filippine.

Secoli di bandiere messicane.
Nel giro di due secoli Tonantzin-Guadalupe diventa il vero emblema del Messico, pronta a seguire il suo paese in tutte le tappe di una storia che si preannunciava tormentata. "Morte agli spagnoli e viva la Vergine della Guadalupe!", intona padre Miguel Hidalgo all'inizio del suo "Grido di dolore" (1810): è l'inizio della guerra d'indipendenza. Al termine del conflitto il Messico avrà un primo presidente, José Miguel Ramón Adaucto Fernández, però forse i lunghissimi nomi dei dominatori spagnoli hanno un po' stancato, così José decide di tagliar corto e si ribattezza Guadalupe Victoria. Un secolo dopo, Pancho Villa ed Emiliano Zapata sventolano ancora la Vergine come stendardo. Ancora un altro secolo, e l'EZLN che occupa il Chiapas battezza la sua capitale itinerante Guadalupe-Tepeyac. E tuttavia non è che stia simpatica a tutti: nel 1921 sopravvisse (miracolosamente, va da sé) a un attentato di un bombarolo anticattolico – il governo però disse che erano stati i cattolici a mettere la bomba per attuare una strategia della tensione ecc. ecc. La storia di Nostra Signora è la storia del Messico, che in questo post, abbiate pazienza, non ci sta.

ECCO JUAN DIEGO! Non lo vedi?
Vabbe', miscredente.
Torniamo invece a Juan Diego. Per molto tempo non è stato così importante. È comparso piuttosto in ritardo, come si è visto (la prima ricerca ufficiale della Chiesa è del 1666), e per molto tempo è rimasto un dettaglio. Poi nel 1951 il fotografo José Carlos Salinas Chávez annuncia di avere trovato il suo volto. Dove? Ma è ovvio: riflesso negli occhi della vergine, catturato nel momento in cui l'immagine si fissa nella tilma, così come negli occhi di ogni personaggio fotografato c'è un minuscolo ritratto di chi sta scattando la fotografia. Purtroppo la risoluzione non ci permette mai di ingrandire così tanto – ma la tilma è una fotografia divina, puoi ingrandirla quanto vuoi. Sarà anche così, peccato che sia Chávez che i fanatici successivi non abbiano lavorato sulla tilma, ma su normali riproduzioni fotografiche che non si possono ingrandire più di tanto: la faccia barbuta intravista da Chávez è un esempio perfino banale di pareidolia, la tendenza a riconoscere volti umani in qualsiasi macchia casuale di colore. Lo dimostrerà suo malgrado l'ingegnere peruviano José Aste Tonsmann, che vent'anni dopo proverà a ingrandire per 2500 volte una foto, e non ci vedrà più la faccia che ci vedeva Chávez, bensì... cinque o sei facce diverse, ovvero Juan Diego più il vescovo, più il traduttore, più i servi scettici e persino una governante di colore. E così via, l'ultima volta che ne ha parlato Voyager i personaggi erano tredici: tutti in una macchiolina in una pupilla socchiusa ingrandita migliaia di volte. Tutti questi personaggi poi profetizzano l'apocalisse Maya del 21 corrente mese, c'è senz'altro un blog da qualche parte che lo dice (trovato), d'altro canto se la Madonna appare il 12 non è un caso. Nulla è mai un caso.

Il vescovo è quello con la barba e la pelata, la serva nera è in basso, Juan Diego ha il cappello a punta,
e ce n'è altri due NON LI VEDI? Sei senza speranza.

Anche il fatto che la Chiesa abbia recuperato l'evanescente figura di Juan Diego non è un caso, ma deriva dalla determinazione di Giovanni Paolo II a trovare santi in ogni dove e in ogni quando: non gli bastavano quelli latinoamericani, no, lui voleva anche il santo azteco, e quindi bisognava in un qualche modo dimostrare che Juan Diego (beatificato già nel 1990) fosse realmente vissuto. E tuttavia l'assenza di testimonianze per un secolo e più stava portando il processo di canonizzazione a uno stallo, quando nel 1995 Padre Escalada, già autore non di un saggio sulla Madonna di Guadalupe, ma di un'enciclopedia di cinque volumi sulla Madonna di Guadalupe, annunciò al mondo di avere ritrovato un resoconto dell'apparizione del 1531 su una pelle di daino risalente al Cinquecento. Nella cartapecora, anzi cartadaino, rinvenuta per caso tra le pagine di un libro ottocentesco in un negozio di reprint, e passato di mano in mano fino a quella di Padre Escalada, si fa il nome di Juan Diego, anzi di Cuauhtlactoatzin, di cui si segnala la data di morte: 1548. C'è anche la firma di un francescano famoso, Bernardino de Sahagun, ed è inutile che facciate quella faccia, la firma è autentica. Lo dicono gli studiosi, se è un falso è stato fatto veramente molto bene. C'è da dire che, come molti falsi, si guarda bene da aggiungere qualcosa a quello che già sapevamo. Non tutti si convinsero: nel 1996 Guillermo Schulenburg, canonico del santuario della Madonna, dichiarava ancora che Juan Diego era da considerare un semplice simbolo, e non un personaggio storico - dopodiché perse il posto, dopo trentasei anni di onorata attività. Nel 2002 Juan Diego è diventato santo; si festeggia il nove dicembre. In Europa invece non è molto conosciuto. Eppure è probabile che la sua storia vi sia risultata familiare.

"Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna
ripida, in cima alla quale c’era una grande Croce di tronchi grezzi
come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di
arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo
con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime
dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte,
prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso
da un gruppo di soldati" (Terzo segreto di Fatima).
In effetti ricalca quello delle apparizioni mariane più celebri, da Lourdes a Fatima: apparizione a un personaggio incolto, intervento di un'autorità scettica che cerca di negare l'apparizione, agnizione finale di Nostra Signora che trionfa anche sui dubbiosi. Ma la Madonna non si è sempre comportata così: questo modus operandi un po' da romanzo popolare è una novità relativamente recente nella storia della Chiesa. In Europa la prima apparizione di questo tipo (Nostra Signora del Laus, Francia) è a cavallo tra Sei e Settecento. Quindi, anche se Juan Diego fosse un personaggio inventato a metà Seicento, sarebbe comunque un'invenzione assolutamente originale, un prodotto di esportazione americano più rapido ad attecchire di patata e caffè. Il che ci lascia un sospetto. E se fosse sul serio Tonantzin? Se Guadalupe fosse la tradizione malintesa di Quetzalcoatl, se fosse un'incarnazione del Serpente Piumato o di qualche altra divinità mesoamericana, che in una delle sue mute millenarie si è impossessato di un'immagine dell'inconscio collettivo dei conquistadores europei, ha preso le forme di una tenera fanciulla gravida, e con quelle forme ha invaso l'Europa? E se Gian Andrea Doria, mentre sconfiggeva i turchi con le sue ritirate strategiche, avesse avuto senza saperlo a bordo una divinità pagana assetata di sangue? E poi? Chi è apparso davvero a Bernardette? Chi ha sussurrato i segreti apocalittici ai tre pastorelli di Fatima? La montagna insanguinata del terzo segreto, non ricorda in qualche modo una piramide azteca? D'altro canto, un dio mesoamericano assetato di sangue poteva davvero perdersi i campi di battaglia europei tra Ottocento e Novecento? Chi tra le divinità assassine non avrebbe fatto di tutto per essere presente, compreso travestirsi da fanciulla un po' scura di pelle? Non è che siamo tutti devoti da tre secoli al serpente piumato, non è che Cortés credeva di vincere e invece ha perso, non è che i veri aztechi alla fine siamo noi?

[Pubblicato la prima volta nel 2012].
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Senza macchia o senza scelta?

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8 dicembre - Immacolata concezione della vergine Maria, dogma di fede

Maria di Nazareth si venera con tante feste diverse, per tanti motivi diversi. Nei prossimi giorni assisteremo a un trittico fortuito e fantastico: oggi è l'Immacolata, l'esito ultimo di una diatriba teologica durata più di mille anni; il dieci sarà Santa Maria Aviatrice, alias la Madonna di Loreto; e il 12 dicembre tenetevi pronti per la Madonna più bizzarra ed esotica di tutte, quella azteca della Guadalupe. Il primo gennaio festeggeremo Maria in quanto madre di Dio (anche lì i teologi litigarono non poco, ci furono morti e dispersi); in seguito avremo l'Annunciazione, l'Assunzione, il Carmelo, il Rosario, Lourdes, Fatima, la Madonna della Neve. Inoltre l'otto settembre, tra nove mesi esatti, sarà il suo compleanno.


Francesco Podesti, musei vaticani. Gli affreschi della sala dell'Immacolata
sono l'ultimo kolossal pittorico romano, prima del grigio diluvio democratico.

In tutti questi giorni, se uno vuole, può venerare la vergine. Ma non c'è una vera festa della Vergine in quanto tale. La possiamo considerare in quanto assunta in cielo, o immacolata, o comparsa a Lourdes o altrove. Ma un giorno per riflettere sulla sua misteriosa verginità pre- e post-puerperale non c'è. Questo è singolare, anche per il modo in cui sono nate molte di queste feste: per gemmazione più o meno spontanea, molti secoli prima che un concilio o un papa ratificasse ex cathedra il dogma. L'Assunzione, per dire, si festeggiava mille anni fa, ma è stata omologata da Pio XII nel 1950. Anche l'Immacolata concezione, un concetto che circolava sicuramente sin dai tempi di Agostino, ha dovuto attendere il 1854. Quanto alla nascita verginale di Gesù, è un dogma sin dal 553 e non era molto controversa nemmeno prima: le Scritture lì parlano abbastanza chiaro. Un altro paio di maniche però è sostenere che la Madonna abbia continuato a essere vergine anche dopo il parto, e non abbia concepito col suo legittimo sposo altri fratelli (malgrado nei vangeli li si chiami per nome). Questa sorta di postulato al quinto dogma è uno degli articoli di fede più refrattari alla contemporaneità: una divinità che decida di incarnarsi in un uomo e sacrificarsi per i suoi peccati può sembrare bizzarra, ma una donna che resta vergine dopo un concepimento e dopo un parto è qualcosa di irrimediabilmente buffo: non si capisce come se ne possa discutere restando seri, e in effetti i teologi se possono evitano l'argomento. Ma si tratta in qualche modo di un effetto ottico, un difetto nella nostra prospettiva. Quando parliamo di corpo, noi abbiamo sempre in mente quello contemporaneo, misurabile, raffigurabile, sezionabile, fotografabile addirittura. Se non siamo storici - e non lo siamo quasi mai - ci è facile commettere l'errore di guardare al medioevo o all'epoca antica senza cambiare il nostro paradigma: per noi si è vergini o no a seconda di una cosa che si chiama imene, che siamo tutti convinti di sapere cos'è e dove si trova (sbagliandoci). La verginità è diventata un puro fatto fisico, tant'è che oggi "rifarsi una verginità" ha smesso di essere un paradossale modo di dire: esistono chirurghi che ti rifanno l'imene. Siccome ai tempi di Maria di Nazareth questo tipo di chirurgia era impossibile, ne deduciamo che il quinto dogma sia un'assurdità, pura propaganda che ha fatto il suo tempo. Siccome capiamo soltanto quello che possiamo osservare e misurare, l'unica caratteristica della Madonna che ci interessa davvero non è l'immacolata concezione o l'assunzione o la maternità di Dio, ma il suo imene.

Non ci viene quasi mai il sospetto che la parola "verginità" possa avere avuto un significato diverso, in un'epoca diversa, in cui ogni corpo aveva una dimensione morale inscindibile da quella fisica. I cattolici, per primi, mostrano una certa difficoltà a relativizzare. Se un concilio nel VI secolo ha detto "vergine", dovremmo credere che intendeva "vergine" nel senso che ha il termine su un manuale di anatomia del XXI secolo. Il problema dei dogmi è tutto qui: non puoi che fissarli a parole, ma le parole cambiano significato continuamente. L'unica è smettere di usarle: e infatti più che della verginità - concetto sempre più scabroso, man mano che la morale sfuma e la corporeità viene messa sempre più a fuoco - i cattolici amano parlare di immacolata concezione. Lì sì che la teologia si può sfrenare senza attriti col mondo fisico: non ci sono imeni che tengono, si tratta di stabilire se la Madonna non sia mai stata macchiata dal peccato originale. Siccome ha procreato Cristo che è Dio, carne della sua carne, se ne deduce di no, fine del dibattito - eh no, troppo comodo. Solo Cristo ci ha liberato dal peccato originale, quindi come poteva la Madonna esserne libera prima? L'obiezione è di Tommaso d'Aquino, mica l'ultimo arrivato: però già Agostino aveva messo in dubbio la categoria del tempo, forse il "prima" e il "dopo" per Dio non hanno il senso che hanno per noi. C'è poi la questione del libero arbitrio: Maria di Nazareth ha scelto o no di concepire il Cristo? Ci piacerebbe pensare di sì; ma se Dio l'aveva già creata senza peccato, la scelta non era in un qualche modo già pilotata?

Un po' sì, gli somiglia.
Il dibattito prosegue per secoli e arriva a un punto di svolta nel Duecento con John Duns detto Scotus perché era nato in Scozia, o anche Dottor Sottile, settecento anni prima di Giuliano Amato che un po' gli somiglia. A differenza di Tommaso d'Aquino, Duns giunge alla conclusione che l'uomo riceva l'anima al concepimento: questa idea (che lo avrebbe reso secoli più tardi il teologo di riferimento dei movimenti pro life) lo porta in pochi passaggi a postulare che Maria non solo fosse senza peccato originale nel momento in cui concepì Cristo, ma che sia stata a sua volta concepita così, senza la macchia originale, immacolata: è una mezza rivoluzione, perché fino a quel momento anche chi sosteneva la purezza di Maria pensava che Dio le avesse tolto la macchia in un secondo momento. Scoto non esclude la possibilità, ma ritiene più logico, più "pulito" che Dio l'abbia creata direttamente senza macchia. Scoto non ha nessuna difficoltà a invertire la cronologia dei rapporti di causa-effetto: in virtù del sacrificio del Cristo, più o meno cinquant'anni prima, sua madre è stata concepita immacolata da Dio, che tutto sa in anticipo. E il libero arbitrio? Eh, non è che io abbia ben capito come funziona, ma mi pare che Scoto sia di quella corrente che, da Agostino in poi, tende a minimizzarlo: siamo atomi di male davanti a Dio, la nostra pretesa di decidere dove orbitiamo è una pia illusione che Dio stesso forse ci autorizza - il protestantesimo nasce da queste parti.

Oltre a essere un neo-aristotelico di razza, Scoto è francescano, e questo avrà ripercussioni importanti, perché la storia della Chiesa è anche una storia di lotta fra bande. Con lui i francescani diventano (quasi tutti) immacolisti, ovvero difensori dell'Immacolata concezione; e i loro rivali di sempre, i neri domenicani, fedeli alla summa del loro San Tommaso, macolisti.

La polemica esplode negli anni Ottanta del Trecento al Quartiere Latino: il tomista domenicano Giovanni Monzón accusa di eresia gli scotiani; gli rispondono Giovanni Duval e Andrea di Novocastro - è il caos alla Sorbona, blocco delle lezioni, già allora ogni scusa era buona per far filotto. Viene convocata una corte di trenta teologi che si guarda bene dal deliberare in materia (servirebbe un concilio) ma condanna il Monzón. Quest'ultimo si appella al Papa: niente da fare. In linea di massima chi parla bene della Madonna vince sempre, anche se le battaglie sono lunghe ed estenuanti. Gli immacolisti sembrano spuntarla al concilio di Basilea (1438), ma il decreto che condanna i macolisti e impone a tutti i cattolici la credenza nell'Immacolata concezione diventa lettera morta: il papa Eugenio IV nel frattempo ha deciso di trasferire il concilio a Ferrara. I vescovi riuniti a Basilea si rifiutano di scendere in Italia, lui li scomunica e ne convoca degli altri (aprendo agli ortodossi), loro nominano un altro papa - un classico scisma del Quattrocento. Negli anni Ottanta papa Sisto IV, francescano, introduce a Roma la festa dell'otto dicembre che - come l'Assunzione - in oriente era antichissima. Gli ortodossi però si limitavano a festeggiare la Concezione di Maria: Sisto almeno in un documento la chiama "Immacolata concezione" (i successori depenneranno l'aggettivo), richiamando nel frattempo macolisti e immacolisti al rispetto reciproco: il primo che accusa l'altro di eresia lo scomunico. I pittori ne approfittano per dipingere le dispute dell'immacolata, sacre conversazioni dove i santi per una volta conversano davvero: macolisti da una parte, immacolisti dall'altra, gli uni mostrano un libro, gli altri puntano il dito sulla Madonna stessa, è un talk show che i papi disciplinano ma si guardano bene dall'interrompere.

Questo è il Pordenone. L'anoressico che pesta
un libro è senz'altro Girolamo, ma gli altri,
 mah, potrei sbagliarmi.
Persino il concilio di Trento glisserà sull'argomento. Bisogna anche dire che a quel punto molti teologi di formazione agostiniana e scotista erano passati dalla parte di Lutero, o rischiavano di essere considerati luterani e contestualmente bruciati. Il cattolicesimo che si riorganizza dopo lo scisma protestante è molto più sensibile al tema del libero arbitrio: è una naturale reazione alle dottrine della predestinazione che nascono in ambito protestante, nonché l'unica via per continuare a lucrare un po' sulle indulgenze: ma come abbiamo visto una Madonna già programmata alla nascita per concepire il Cristo stona un po' con l'idea del libero arbitrio in libera vergine. Nulla che non si possa risolvere con un po' di fuffa teologica - ma ci vorrà ancora qualche secolo, e un Papa deciso a far valere la sua autorità spirituale in un'Europa che si accinge a toglierlo dal tavolo delle autorità politiche.

Nel 1848 Pio IX è appena tornato da Gaeta, dove si era rifugiato in attesa che Napoleone III gli restituisse Roma sloggiando quei democratici petulanti, Mazzini e l'altro pirata barbuto. L'Immacolata è ormai una presenza rassicurante nel calendario, ma i teologi più in vista gli sconsigliano ugualmente di ufficializzarla con un dogma: son cose delicate, e poi bisognerebbe convocare un concilio... Pio IX preferisce procedere nominando commissioni, per poi pubblicare un'enciclica, la Ineffabilis Deus, nella quale per la prima volta un pontefice afferma una verità di fede senza il sostegno di un'assemblea conciliare di vescovi: è una prova di forza del papa-re che da lì a poco avrebbe perso tutte le guerre; l'anticipo di quel Concilio Vaticano I che ratificherà l'infallibilità papale e si scioglierà alla chetichella mentre i bersaglieri sbrecciano Porta Pia. I dogmi non portano fortuna.

Oggi a pranzo, se qualche parente si mette a ironizzare sul fatto che si festeggi la verginità della madonna, potete spiegargli con serenità che l'imene non c'entra nulla, e che si tratta viceversa dell'esito finale di una disputa secolare intorno ai concetti di grazia e di libero arbitrio. Sennò si può parlar d'altro; ci sono i sorteggi della coppa del Mondo, il campionato, mal che vada le primarie del PD (CIVATI).

[Quindi è un pezzo del 2013].
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A Parigi è già inverno (il più caldo)

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Sarà l'inverno più caldo di sempre in Europa, e non a causa dei gilet gialli. Per quanto abbiano dimostrato, nel giro di un paio di settimane, di poter mettere Parigi e la provincia a ferro e fuoco; costringendo il governo a un passo indietro clamoroso, e dimostrando ancora una volta al mondo che ribellarsi paga (almeno in Francia): per quanto abbiano già scritto un pezzetto di Storia, quel pezzetto non racconterà che i gilet gialli furono la miccia dell'inverno più caldo. Tutto il contrario.

Sarà l'inverno più caldo di sempre perché farà più caldo, semplicemente: e l'evidenza non può più essere ignorata. È l'inverno che ha già causato i gilet gialli; è l'emergenza ambientale che sta bussando alla porta; è la catastrofe del clima che si annuncia, e i tafferugli francesi non sono che un timido annuncio di quello che succederà da qui in poi. È normale che l'allarme arrivi dalla Francia: è il suo destino, la sua geografia: la nazione più vasta dell'area più ricca, che include come l'Italia paesaggi diversissimi, ma a differenza dell'Italia non separati da barriere difficili da valicare: il che l'ha resa il laboratorio dell'assolutismo, del protezionismo, e allo stesso tempo ha creato le premesse per la Rivoluzione.

Due secoli e trent'anni dopo, la Francia è l'unica grande democrazia presidenziale europea, ed era assolutamente prevedibile che la tensione tra una provincia avvilita dalla globalizzazione e un'élite tecnocratica confinata nella capitale dovesse spezzarsi proprio qui. In un certo senso la novità non sono i gilet gialli, che protestano come i francesi hanno sempre protestato: la vera novità è il loro avversario, il presidente Macron. Salito all'Eliseo grazie a un sistema elettorale che lo ha investito di un potere e di una responsabilità assolutamente sproporzionate rispetto al credito che gode presso i cittadini, Macron e i suoi uomini si sono ritrovati a incarnare con precisione fin qui mai immaginata l'archetipo del tecnocrate gelido e cosmopolita. L'Europa delle istituzioni, lontana dal cuore del popolo eccetera.  È chiaro che avrebbe risposto all'emergenza con misure impopolari: è ovvio a chi le avrebbe fatte pagare.

L'idea del suo governo aveva un che di disumano, nella sua drastica semplicità: il costo del riscaldamento globale, lo paghino gli automobilisti e gli autotrasportatori. Chi non abita entro i confini della capitale; chi non è stato abbastanza fortunato o avveduto da ritrovarsi da vivere nei centri lambiti dall'Alta Velocità; che anche in Francia ha assorbito l'attenzione dello Stato ai danni delle tratte ferroviarie periferiche; chiunque si ritrovi costretto ancora nel 2018 a usare un'automobile per lavorare (o semplicemente viva in un piccolo centro dove i supermercati sono riforniti dai camion). Per la Capitale sono loro i colpevoli, sono loro che ammorbano l'aria di Co2 e polveri sottili; quindi è a loro che toccherà pagare. C'è il piccolo particolare che sono la maggioranza dei francesi, e i francesi non sono quel tipo di popolo che mugugna ma sopporta.

Questo è più o meno il senso della lotta: non che si possano fare analisi più approfondite, ma si rischia di caricare un movimento spontaneo di connotazioni che ancora deve assumere (magari le assumerà, ma non forziamo lo sguardo). Certo, c'è un programma, e in quel programma ovviamente c'è di tutto e quasi il contrario di tutto: solidarietà con i richiedenti asilo e rigore con i richiedenti asilo respinti. Ci sono tantissime misure sociali che nessuno a sinistra potrebbe respingere, innalzamento del salario minimo e delle pensioni; salvo che ovviamente non ci si pone il problema della copertura; così come non se lo ponevano, in campagna elettorale, né Di Maio né Salvini. Ma quanti gilet hanno davvero letto e sottoscritto il documento, quanti sono scesi in piazza semplicemente per difendersi da un rincaro del carburante? (continua su TheVision)

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Il vescovo venuto dal futuro

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7 dicembre - Sant'Ambrogio, già Aurelius Ambrosius, 339-397, vescovo di Milano, dottore della Chiesa.

In certe giornate di giugno, non potendo fare diversamente, mia madre mi caricava in macchina e mi portava con sé al lavoro, nella scuola materna che pochi anni prima avevo frequentato anch'io. Ero già più alto e robusto dei suoi alunni, e disponevo di tutto il necessario per sbulleggiarli, tranne l'inclinazione. Me ne stavo per lo più seduto su una panca, o un gradino, o un'altalena, a leggere qualcosa - era incredibile quanti libri ci fossero in un istituto per non alfabetizzati, ed era tutta roba di qualità, i classici, Rodari Lodi Calvino. A volte leggevo ad alta voce ai bimbi che me lo chiedevano peffavore, altre volte uno di loro veniva a chiedermi cosa stessi facendo, senza nessuna ironia: perché me ne stavo impalato davanti a quelle pagine senza leggerle? Dopo il mio iniziale stupore, mi ero rassegnato a spiegare ogni volta l'arcano.

"Sto leggendo con gli occhi".
Ambrogio è uno dei pochi santi dell'antichità
di cui abbiamo la sensazione di conoscere
davvero il volto: il mosaico nella sua basilica
è quasi una fototessera (io me ne sarei fatta
scattare un'altra con le orecchie allineate,
ma vabbe', vanità).
"Eh?"
"Non c'è bisogno di parlare quando si legge. Si può fare anche solo con gli occhi".
"Cioè tu stai leggendo?
"Eccerto".
"Non ci credo. Dimmi cosa c'è scritto qui".
"Schiaccia il piede Cipollone / al gran principe Limone".
"Ma come fai?"
"Ma niente, è facile, alle elementari lo insegnano anche a te vedrai".
"Ma la maestra..."
"Anche la maestra sa leggere con gli occhi se vuole. Usa la bocca solo per leggere le fiabe a voialtri analfabeti".
"MAESTRA! TONDELLI MI A DETTO ALFANABETA!"
Giuro, mi chiamavano Tondelli già all'asilo.

Quando penso ad Ambrogio mi vengono sempre in mente quelle giornate di giugno in cui per la prima volta mi sentivo un grande in mezzo ai piccoli; uno che sa fare senza difficoltà qualcosa che loro nemmeno riescono a immaginare. Forse Ambrogio si è sentito così tutta la vita, l'unico adulto di tutta Milano, di tutto l'impero. Nelle sue Confessioni Agostino riporta, sbalordito, un dettaglio illuminante: Ambrogio sapeva leggere senza parlare, senza nemmeno muovere le labbra! Ma perché faceva così? Forse, riflette Agostino (certo non l'ultimo arrivato, anzi un famoso docente di retorica, uno specialista della parola orale e scritta), forse era un modo per non affaticare le corde vocali, stressate dalle continue prediche e orazioni. Si direbbe che al più grande intellettuale e scrittore del quinto secolo sfugga la semplice evidenza che leggere con gli occhi è il modo più spiccio. Quindi, insomma, i contemporanei di Agostino e Ambrogio non sapevano leggere in silenzio. Forse non era sempre stato così, per esempio Plutarco rappresenta sia Alessandro Magno sia Giulio Cesare nell'atto di leggere in silenzio almeno dei brevi biglietti. Magari leggere a voce alta era l'unico sistema per decifrare fitte righe scritte a mano senza nemmeno uno spazio tra una parola e l'altra. O magari verso il quarto secolo la qualità delle scuole era calata drasticamente: non possiamo saperlo perché non c'erano ancora le ricerche Ocse o Invalsi.
(Lorenzo Sabbatini, Ambrogio e Agostino).
Ma sul serio devo passare l'eternità a
conversare con 'sto tizio che, Sant'Iddio,
non sa leggere un versetto senza parlare
a voce alta?

È persino possibile che Ambrogio, rampollo di una famiglia facoltosa, prima di cominciare il suo cursus honorum nelle cariche pubbliche avesse goduto nella sua lontana Treviri di una formazione di prima qualità. In fondo l'impero aveva bisogno di funzionari professionisti ancor più che di generali sanguinari. Ma è anche possibile che il trentenne governatore della provincia Emilia-Liguria brillasse semplicemente di doti non comuni: gli basta moderare un dibattito tra i due candidati alla carica di vescovo, perché tutti i milanesi si convincano che la scelta migliore è proprio lui. Non è che dobbiamo credere proprio alla storia del bambino che in uno squarcio di silenzio urla "Ambrogio vescovo" e tutti dietro, visto che assomiglia già a una fiaba e il diretto interessato ha avuto tutto il tempo per riscriverla come gli aggradava. Anche tutti i suoi tentativi di sottrarsi alla nomina possiamo ritenerli sceneggiate di un abile press-agent di sé stesso. Il più intrigante - sempre più attuale - resta l'aneddoto dell'orgia, che Ambrogio avrebbe organizzato in casa sua con amici e prostitute alla vigilia della solenne investitura, per dimostrare definitivamente ai milanesi di non essere degno della loro fiducia. Possiamo anche leggerlo in controluce: magari prima di dare l'addio al secolo il ricco Ambrogio volle concedersi almeno un festino stile pagano, e finì arrestato e schedato con l'intera comitiva per schiamazzi e atti osceni. Ma niente da fare: poche ore dopo l'arresto nella cattedrale viene definitivamente acclamato vescovo di Milano. Benché la sua famiglia fosse già convertita al cristianesimo, Ambrogio non si era ancora battezzato (molti non praticanti lo facevano soltanto in fin di vita) e non nascondeva le sue scarse competenze in fatto di religione: si vede che non era questo che i milanesi cercavano in lui - e nemmeno il rigore morale dell'uomo di governo, al quale del resto non sembrano aver mai tenuto in modo eccessivo. Forse era una questione di carisma. D'altro canto, se in città c'è l'uomo più intelligente del mondo, vuoi che ce lo facciamo scappare? È addirittura in grado di leggere senza muovere le labbra!

Ad Ambrogio riesce tutto bene: se non al primo, al secondo tentativo. Ambrogio sa leggere, sa predicare il Verbo di una religione che ha imparato pochi giorni prima, sa persino cantare: è lui a inserire gli inni nelle liturgie cattoliche, copiando forse l'idea dai rivali di culto ariano. Col battesimo di Ambrogio, la Chiesa cosiddetta nicena realizza uno dei colpi migliori di quella campagna acquisti che la condurrà di lì a poco all'egemonia culturale. I niceni non sono il culto maggioritario, non sono nemmeno i preferiti dagli imperatori (alcuni dei quali favoriscono apertamente i rivali ariani), ma da Ambrogio in poi calamitano gli intellettuali più importanti e i funzionari più capaci: il solo fatto che un personaggio come Ambrogio potesse, e a ragione, rinunciare a una carica amministrativa di primo piano per farsi vescovo fotografa con precisione il momento in cui l'edificio imperiale collassa rilevando una struttura nuova cresciuta al suo interno. Nel 380 l'editto di Tessalonica obbligherà tutti i cittadini dell'impero a professare il credo niceno e ad assumere il nome "christianorum catholicorum": quelli che rifiuteranno saranno da considerarsi eretici e "dementes". Mollando la carica pubblica di governatore per quella religiosa di vescovo, Ambrogio aveva scommesso sul cavallo giusto: l'impero non sarebbe sopravvissuto un altro secolo, la Chiesa cattolica duemila anni dopo è ancora qui. Ma forse il cavallo diventò quello giusto anche perché gli uomini migliori decisero di cavalcarlo. Non fu una scelta indolore: Ambrogio rinunciò a farsi una famiglia, rinunciò a una discendenza, e sposò Milano, dividendo con lei tutto il suo patrimonio. D'altro canto da vescovo diventò intoccabile; nei vent'anni abbondanti del suo patriarcato vide una mezza dozzina di imperatori morire di morte violenta: per tacere dei loro dignitari, quasi tutti coinvolti in uno spoil system piuttosto rozzo che contemplava l'esilio o l'assassinio. Il vescovo invece morì nel suo letto, circondato dall'affetto sincero di una città a cui aveva insegnato a cantare e aveva regalato il carnevale più lungo d'Europa; motivi forse sufficienti per bersi vent'anni di prediche moraleggianti e sessuofobe: in fondo è stato giovane anche lui, sembra di sentirli pensare, mica ci dimentichiamo l'orgia da cui ti abbiamo tirato fuori a forza per farti vescovo.

(Camillo Procaccini, Ambrogio ferma Teodosio)
In realtà la scenata in pubblico non ci fu,
erano uomini di mondo. Ambrogio si limitò
a darsi malato per non incontrare l'imperatore,
e gli fece sapere via mail i dettagli della pubblica
cerimonia di pentimento a cui Teodosio
si sarebbe dovuto sottoporre
A un certo punto della sua carriera Ambrogio tratta gli imperatori da suoi pari, tanto più che quello che risiede a Milano, Graziano, è solo un ragazzino, bisognoso di guida e protezione: raramente gli imperatori invecchiavano. Per far contento Ambrogio l'imperatore convoca un concilio, fa rimuovere la statua pagana della Vittoria dalla curia del Senato romano, malgrado l'accorata protesta del più grande intellettuale del suo tempo, il prefetto Quinto Aurelio Simmaco, un inno alla tolleranza religiosa: Grande è il mistero, non può esserci una sola strada per trovare quel Dio che, comunque, è uno solo - non siamo tutti sotto uno stesso cielo, sotto le stesse stelle, avvolti nello stesso universo? No, risponde Ambrogio, c'è un solo Dio ed è il mio. Gli altri sono demoni; chi li segue - ebrei, pagani, ariani - nemici. Fine della discussione, anzi non c'è mai stata nessuna discussione, inutile discutere coi bambini.

Perfino Teodosio, l'Augusto che da Costantinopoli farà del cristianesimo la religione di Stato, verrà costretto a umiliarsi e a chiedere perdono in una pubblica cerimonia. Era successo che a Tessalonica la repressione di una rivolta cittadina aveva un po' preso la mano ai legionari, che avevano lasciato nello stadio e nelle vie circostanti qualche migliaio di morti. Erano troppi anche per lo standard dei tempi. Ma chi lo decideva poi lo standard dei tempi, chi poteva avere l'autorità morale per dire No, questo è troppo? Ambrogio è l'unico adulto in città, nell'impero, nel mondo. Non ha nessun rispetto per il passato, il cristianesimo gli offre l'opportunità per rottamarlo e riscriverlo come gli pare: mentre a Roma smontano l'altare della Vittoria, a Milano organizza il ritrovamento delle prime reliquie, i sacri resti di due martiri misteriosi ma finalmente milanesi, Gervasio e Protasio, di cui nessuno sapeva niente e che guarda caso erano sepolti nei pressi della nuova grande Basilica che Ambrogio stava facendo costruire. Non è solo un abilissimo spot pubblicitario per i cattolici nella lunga campagna per eliminare la concorrenza della Chiesa ariana; è anche la dimostrazione che il passato si può fare e disfare a piacimento, se Milano non ha ancora i suoi martiri se li può inventare in qualsiasi momento. Ci voleva una notevole faccia di bronzo per organizzare una inventio, un ritrovamento archeologico del genere; per annunciare a tutta la cittadinanza che le ossa antiche continuavano a stillare sangue; per l'occasione Ambrogio probabilmente vestì la stessa faccia serena e tranquilla che mettete fuori voi quando raccontate una bugia ai vostri bambini, sta' buono perché Babbo Natale ti osserva.

Sant'Ambrogio è uno dei miei migliori candidati quando gioco a Trova Il Viaggiatore Nel Tempo (un altro è David Bowie): metti che un tizio mentre sta tornando al XXV secolo ingrani per sbaglio la retromarcia e si ritrovi nel IV, senza la possibilità di tornare indietro, pardon, avanti, che ti fa? Deve raccontare in giro che viene da lontano, ad esempio in una città del nord (ma non un villaggio di barbari, perché si vede che il tizio ha studiato). All'inizio non sa bene né la lingua né la religione, però impara in fretta perché sa leggere, il che non è da tutti. E poi si arrangia come può, diventa funzionario dello Stato ma quando capisce che il mestiere è pericolosissimo cambia casacca in un istante, e nel giro di pochi anni cominciano a fare tutti riferimento a lui.

Cambiamo argomento. Leggevo qualche giorno fa che gli italiani non sanno più leggere, pare che sia colpa di sms e tablet. Ma per la verità la tendenza non è solo italiana, ed è persino più antica degli antichissimi sms. Nel dicembre del 2005 il Ministero dell’Istruzione americano sconvolse l’opinione pubblica dichiarando che il numero dei laureati in grado di interpretare testi complessi era diminuito negli ultimi 14 anni del 10%. Calcolate quanti anni separano gli USA dall'analfabetismo totale - non credo che noi sopravviveremo molto di più. Ogni volta che leggo o ascolto notizie del genere resto in silenzio e mantengo una faccia impassibile, non vorrei che nessuno si accorgesse che da qualche parte nel mio profondo sorrido. E dire che di mestiere insegno italiano ai bambini. E ci credo, credo che saper leggere e scrivere sia fondamentale. Eppure a volte ho nostalgia di quando erano tutti bambini, qui intorno, quando era un enorme asilo, e bastava saper scorrere qualche riga per fare il fenomeno. Magari la macchina del tempo non si era affatto rotta, magari Ambrogio l'ha sistemata da qualche parte sotto la basilica e non ha più voluto toccarla, perché essere l'unico uomo nell'universo che sa leggere è... divertente.

[È un pezzo del 2012].
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Il santo più famoso di tutti (è turco)

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6 dicembre - San Nicola vescovo (270-343), taumaturgo, portatore di doni, icona postmoderna

Chiesa di San Nicola a Myra, Licia, oggi Turchia
Il santo più popolare del calendario non è Pietro. Lui ha solo la basilica più grossa, e in molte vignette fa il portiere, ma diciamo la verità, non lo invocano in tanti San Pietro. Anche Paolo, e sì che tutta la baracca del cristianesimo in fondo l'ha messa in piedi lui, ma i teologi non sono mai veramente popolari. Non è padre Pio, perlomeno non ancora; Wojtyla il suo quarto d'ora l'ha già avuto; il santo più popolare del calendario, a pensarci bene, dovrebbe essere la Madonna: cioè non c'è gara, pensa solo a quante feste e quante apparizioni, e icone, statue, quadri e tondi - ma proprio mentre sto per dichiarare chiuso il televoto, mi assale un dubbio: la Madonna sarà pure la diva di Lourdes e Loreto, ma quante letterine riceve? C'è un santo che ne riceve tutti gli anni da ogni angolo del mondo, un santo venerato persino dove i cattolici non hanno mai veramente preso piede - in Russia, negli USA, in Turchia - un santo che i bambini imparano a pregare e ad aspettare assai prima di frequentare catechismo. Un santo che da solo nel 2006 riceveva il 90% di tutta la posta recapitata in Finlandia, non male per uno che in Finlandia non c'è mai veramente stato. Quel santo è, ovviamente, Babbo Natale. Cioè Santa Klaus, Sinterklaas, San Nicola. Il vescovo di Myra (Licia), nato a Patara (Licia). Ma dov'è la Licia? Oggi è in un angolino della Turchia in basso a sinistra, ma per molto tempo ha fatto parte del mondo greco, poi romano, poi bizantino. Il modo in cui un vescovo dell'epoca costantiniana sia diventato, in seguito a un complicato sovrapporsi di immagini e racconti, il testimonial della Coca-Cola e il portatore di doni più famoso di tutti i tempi, meriterebbe un libro a parte. Che probabilmente è stato già scritto. Facciamo finta di averlo letto e tracciamone un agevole riassunto.

Odino cavalca Sleipnir, cavallo a otto zampe.
Antefatto. Nelle lunghe, lunghissime notti antecedenti al solstizio d'inverno, i barbari dell'Europa centrosettentrionale intrattengono e blandiscono i bambini raccontando di Odino, il Dio guercio che cavalca nella notte in testa al suo corteo di demoni. Di uscire di casa quindi non se ne parla, ma se si lascia qualche carotina sul davanzale per Sleipnir, il cavallo a otto zampe di Odino (sulla cui origine incestuosa è meglio sorvolare), e poi si va a letto presto senza fare capricci, Egli lascerà qualche leccornia, o un regalino: balocchi di legno intagliato, noccioline, calze di lana, roba del genere. Le farà passare dal camino. Ma bisogna dormire o almeno tenere gli occhi ben chiusi, Odino mai e poi mai vorrebbe essere sorpreso mentre si intrufola nel nostro camino. Tutto chiaro fin qui? Ora cambiamo drasticamente latitudine.

Dà la vertigine pensare che, a differenza di altri santi popolarissimi, Nicola è realmente esistito, in un mondo diversissimo dal nostro, un mondo senza coca-cola e panettone, ma un mondo non immaginario. Eppure è abbastanza probabile che ci sia stato un vescovo, contemporaneo dell'imperatore Costantino, che si distinse per la condotta irreprensibile, lo zelo con cui difendeva i bisognosi, e perché no, i regali. Era probabilmente il rampollo di una locale famiglia facoltosa, e la carica di vescovo se l'era guadagnata a suon di donazioni. L'impero romano era una formidabile macchina militare e burocratica senza nessun welfare state, niente mutua, niente assicurazioni, la pensione solo ai militari. La Chiesa nasce anche per colmare questa lacuna: i cristiani più ricchi donano del loro alla collettività, e ricevono in cambio ruoli e titoli di prestigio.

In uno dei miracoli di più antica circolazione, Nicola salva tre fanciulle bellissime che il padre, ridotto in miseria, aveva ormai destinate al meretricio. Nicola risolve il problema con uno stratagemma che ha qualcosa di familiare: nottetempo getta attraverso le finestre dei sacchetti pieni d'oro, e scompare. Da buon cristiano non cerca ricompensa sulla terra per le buone azioni che commette. Dei tanti aneddoti riferiti a lui, non è solo il primo riportato nella Legenda Aurea (libro un po' noioso, la maggior parte dei lettori si ricorda solo le prime pagine di ogni capitolo), ma è anche il primo in cui a Nicola sono associati dei sacchi. Al terzo lancio il padre delle ragazze, rimasto sveglio per curiosità, riuscirà finalmente a sorprendere lo strano ladro all'incontrario. Il vescovo gli ordinerà di non fare il suo nome, i regali devono restare un segreto (qualcosa non deve essere andata per il verso giusto, visto che 1700 anni dopo siamo ancora qui a parlarne)

La statua del patrono di Bari è stata annerita appositamente.
Il numero tre compare in molti altri episodi associati a Nicola, compreso il più antico, che potrebbe essere ispirato a un fatto reale: tre sono i generali, ingiustamente imprigionati da Costantino, che pregano e implorano l'intercessione di Nicola, salvo che questi è ancora vivo. Eppure anche da vivo Nicola può apparire in sogno all'imperatore e chiedergli conto della sua prepotenza. Al miracolo delle tre fanciulle e a quello dei generali possiamo aggiungere un racconto assai più tardo, già intessuto su uno sfondo nordico medievale, in cui Nicola interviene a salvare tre fanciulli squartati da un efferato macellaio, e chiusi in tre pentole. Come il racconto dei tre generali sia diventato la fiaba di tre fanciulli, non si sa, ma l'ipotesi più semplice è che qualche pittore medievale, molto scarso, abbia dipinto la prima storia disegnando dei generali giovani, quasi imberbi, liberati da celle di prigione piccole, quasi pentole. Poi magari passa un secolo e a un predicatore tocca spiegare chi sono quei tre, e cosa c'entrano le pentole, e l'unica cosa chiara di tutto l'affresco (o la vetrata istoriata) è che il protagonista è Nicola, se ha la barba bianca e il cappello da vescovo è Nicola. In questi casi un predicatore professionista che fa? Inventa, magari si ricorda di qualche vecchia fiaba che le raccontò la nonna, un proto-Hansel-e-Gretel. Rimane da spiegare che ci faccia Nicola in Europa centro-settentrionale, non era un vescovo del basso mediterraneo?

I motivi dello straordinario successo di Nicola a tutte le latitudini sono probabilmente due. Il primo è un olio. Non sappiamo bene di cosa fosse fatto (probabilmente venivano usate piante del luogo) ma sappiamo che per qualche secolo fu il prodotto di erboristeria più richiesto nel bacino del mediterraneo. Guariva qualsiasi cosa, ma in giro non ce n'era molto, per via che si diceva distillato lentamente dal luogo di sepoltura del santo. Il secondo motivo sono i naufragi. Non importa che Nicola abbia vissuto probabilmente gran parte della sua vita nei pochi chilometri di terraferma tra Myra e Patera: la Licia è una regione esposta al mare, separata dal resto dell'Anatolia dagli alti monti del Tauro; ci si arriva per mare, per mare vi si riparte. È una fermata quasi obbligata di quella trafficata autostrada tardoantica che è il mediterraneo, in una zona complicata e burrascosa. I naviganti minacciati dalle tempeste invocano spesso San Nicola: quelli che sopravvivono gli diventano straordinariamente devoti. Via mare la devozione a Nicola arriva in tutti i porti della cristianità (Nicola diventa il patrono di Amsterdam) e lentamente penetra anche le terre dove il mare è lontano: è il santo più amato di tutte le Russie.
L'immagine archetipica di Thomas Nast
per Harper's Magazine

Nel frattempo la sua cattedrale, a Myra, è seriamente minacciata dalle incursioni dei turchi, che ormai trattano la zona come cosa loro, e nel giro di qualche secolo la Storia darà loro ragione. A un certo punto (1100) i veneziani decidono di salvare le ossa del patrono dei marinai, che loro chiamano Niccolò; inviano una spedizione in Licia... giusto per scoprire che è troppo tardi, a rubare le sante spoglie ci hanno già pensato dei mercanti giunti da Bari tredici anni prima. I veneziani però non demordono: impossibile che i baresi ci abbiano pensato prima di noi, impossibile, di sicuro si saranno presi qualche sòla, il vero santo dev'essere ancora qui, si sente l'odore, diteci dov'è. Mettono sotto torchio gli ultimi quattro canonici della chiesa, fanno lunghe ispezioni nei dintorni cercando col naso quel buon profumo che emanano i luoghi santi... finché non ritrovano sepolto nelle vicinanze un cadavere intriso nell'olio: è lui il vero Niccolò, nascosto provvidenzialmente secoli prima onde evitare che i turchi lo trovassero, ma ai veneziani non la si fa. Quello portato a Bari invece è qualcun altro, perlomeno a Venezia decidono di pensarla così.

A Bari (dove la pensano ovviamente al contrario) nasce anche la strana idea che Nicola sia scuro di pelle: l'equivoco nasce dalla resa cromatica delle icone bizantine, molto più scure delle raffigurazioni occidentali. Sdoppiato a Bari e Venezia, Niccolò-Nicola continua ad attirare pellegrini malati o scampati ai naufragi, in due città finalmente al sicuro dalle invasioni turche. Ma anche dove i turchi arrivano (ad esempio a Famagosta, porto di Cipro, capitale di uno degli ultimi baluardi crociati), l'unica immagine sacra a scampare alla trasformazione del duomo gotico in moschea è un'immagine di un vescovo Nicola. A dire il vero non è il Nicola giusto, non ha la barba ed è più probabilmente l'icona di un vescovo locale: ma è un Nicola è tanto basta, gli abitanti di Famagosta possono essere forzati a convertirsi all'Islam, ma non a rinunciare a un'immagine di Nicola.

Haddon Sundblom (sì, è quello
che ha disegnato tutte quelle pinup, sì).
La popolarità del santo gli conquista un posto d'onore nel calendario: tocca a lui aprire il periodo più allegro dell'anno, che è poi, e non è una coincidenza, il più buio e oscuro, quello in cui è necessario rallegrare i bambini con qualche ghiottoneria - ma anche convincerli a restare a letto, gli occhi ben chiusi, e in generale a comportarsi bene. Lentamente, almeno dal XII secolo in poi, prende forma la tradizione di un santo che nella notte si aggira come un ladro, ma è un ladro al contrario: porta confetti e doni a tutti i bimbi buoni. I bambini cattivi invece hanno di che dolersi: Nicola-Niccolò non viaggia solo, ma in compagnia di uno strano personaggio. È un folletto, un orco in miniatura, uno strano essere irsuto e selvatico: una creatura che Nicola ha trovato nei boschi. È cattivo? Diciamo che fa il lavoro sporco: se i bambini si comportano male, sarà lui a punirli.

Questa bizzarra entità che può visitarci nella notte (all'inizio è la notte di San Nicola, quella del sei dicembre, insomma questa), informe e indefinita come è giusto che siano le creature dei sogni, ha un destino notevole. È forse quello che resta dell'antico culto di Odino, il dio guercio che cavalcava nella notte: a un certo punto mentre cavalcava davanti ai suoi demoni deve avere incontrato il nuovo boss, Nicola, che lo ha evangelizzato e ammansito notevolmente. L'ultima parola non è ancora detta, però, perché a partire dal Cinquecento la riforma protestante vibra un duro colpo al culto dei santi. I nostri amici aureolati escono dalle chiese e dai calendari in mezza Europa, e a malincuore devono cedere il passo anche nelle leggende. Il signore barbuto e corpulento che si infila nella cappa del camino, anche se ancora pretende in alcuni paesi di chiamarsi Santa Klaus, è in realtà una contaminazione del vescovo col suo servitore irsuto e diciamolo, un po' demoniaco, che man mano che l'Europa si laicizzava ha preso il sopravvento. Peraltro il vero luogo di nascita di Santa, là dove se ne fissano nel giro di pochi anni i caratteri fondamentali (il pancione, l'abito, il sacco coi regali, ho ho ho! e tutto il resto) è dall'altra parte dell'oceano, a New York. L'immagine elaborata da Thomas Nast per l'Harper's Weekly del 1863 mette definitivamente a fuoco un personaggio che già da quarant'anni popolava la pubblicistica stagionale, e aveva persino fatto un cameo, come "fantasma dei Natali presenti", in un popolarissimo libro del più popolare degli scrittori, Charles Dickens (devo dire quale?)

Nast mette assieme i caratteri di una vecchia allegoria inglese del Natale come personaggio anziano e gaudente, Father Christmas, e qualche lontana reminiscenza di Nicola, l'antico patrono dei primi coloni di New Amsterdam. Nast però secondo me lavorava in bianco e nero: anche se ci viene istintivo immaginare il tizio vestito in rosso, è probabile che all'inizio i lettori potessero pensare piuttosto al verde, il colore del vischio e della foresta da cui la creatura proveniva (prima di essere spostata al Polo, o in Lapponia, o in Finlandia, o a Capo Nord, dipende dalla nazionalità di chi ve la racconta). D'altro canto anche il rosso aveva i suoi argomenti: tanto per cominciare è il colore del manto vescovile di Nicola - che per la verità, essendo un presule del quarto secolo, vestiva in un modo del tutto diverso, ma lasciamo stare. Il rosso però diventerà definitivamente associato a Santa soltanto con le prime campagne invernali della Coca Cola Company. Per fissare un'immagine archetipica non c'è niente come una campagna di affissione di dimensioni continentali. All'inizio degli anni '30 la C-C-C aveva un problema: fatturava soltanto nei mesi caldi. Ci voleva un un'idea per convincere gli americani a bere intrugli frizzanti a base di caramello (i nove milligrammi di cocaina per bicchiere erano già stati eliminati nel 1903). Ci voleva un personaggio giusto, che sprizzasse benessere e autorevolezza. Il Babbo Natale di Haddon Sundblom diventò il  testimonial stagionale della coca, e lo rimase per quasi settant'anni - prima di essere quasi ovunque soppiantato dagli orsi bianchi meno religiosamente connotati. Perché sì, è difficile da immaginare, ma in tanta parte del mondo il Babbo è ancora visto non come un emissario del consumismo, ma ancor peggio, come un vecchio vescovo, un tronfio rappresentante dell'imperialismo cristiano.

HO! HO! HO! BENVENUTI IN TURCHIA!
Myra oggi si chiama Demre, è una città turca di media grandezza, dove d'estate fa un caldo non descrivibile a parole. Il turismo è ancora una voce molto importante: l'antico teatro greco è ben conservato, e da lì è possibile vedere le favolose tombe scolpite nella pietra. Anche la chiesa dove per settecento anni fu sepolto Nicola continua a essere meta di pellegrini, in cerca di grazie, o scampati ai naufragi, o semplicemente bagnanti che nei villaggi sulla costa dopo un po' si annoiano. Qualche anno fa i russi, che a Nicola ci tengono veramente parecchio, donarono alla città una statua in bronzo, da esporre sulla rotonda, in mezzo al traffico. Il municipio di Demre in un primo momento accettò di buon grado, dopotutto i turisti russi sono una risorsa. Però evidentemente quel santo di bronzo, in mezzo alla rotonda, era complicato da mandar giù - insomma, a un certo punto l'hanno spostato. Ora è nel prato davanti alla basilica. Nella rotonda invece c'è un babbo Natale di resina colorata, abbastanza ridicolo - tanto più se ci vai d'estate, con quaranta gradi all'ombra - ma ai turchi piace più così. "Questa statua", dichiarò il sindaco alla stampa "è il modo migliore per introdurre il visitatore a San Nicola, perché il mondo intero conosce questa sua rappresentazione con abito e cappello rosso, col sacco dei regali e la campanella in mano". Se vi fa strano, un sindaco turco che vi spiega com'è fatto San Nicola, pensateci un attimo: il vero conterraneo di Nicola è lui, volete che non lo sappia?

Eppure, disperso nella nebbia dei secoli, sepolto tra bibite al caramello e orchi e altre leggende, un Nicola, un vero Nicola è vissuto davvero. Immaginate di resuscitarlo - non è escluso che qualche suo osso sia ancora lì sotto, e poi chi l'ha detto che non abbiano preso una sòla sia i baresi che i veneziani - e di spiegargli che il tizio rosso col barbone è lui una sua immagine venerata in tutto il mondo, appena millesettecento anni dopo.

"Ma perché la barba? Io ero una persona importante e un uomo di Dio, ovviamente mi tenevo il volto in ordine".
"Monsignore, sì, ma di lì a poco in ambito orientale si è diffusa questa idea per cui gli uomini di Dio non dovevano curare troppo l'aspetto esteriore, e quindi..."
"E quindi si andava in giro come dei selvaggi?"
"...la barba bianca è diventata l'elemento con cui Lei, monsignore, veniva identificato nelle icone".
"Misericordia. E il sacco?"
"Il sacco contiene dei regali per... per tutti i bambini buoni".
"E a quelli cattivi?"
"Tendenzialmente, carbone. Comunque ci pensa un'altra entità".
"Divertente. Ma perché tutto quel rosso?"
"Quella fu un'idea pubblicitaria, sono i colori dell'etichetta di... di una bibita frizzante".
"Cos'è un'etichetta?"
"Ahem, meglio mettersi comodi".

un pezzo del 2012].
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Il gesuita nella jungla

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3 dicembre – San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

…apud campum babylonicum ducem impiorum in cathedra ignea et fumosa sedere, horribilem figura vultuque terribilem (Ignazio di Loyola, Exercitia Spiritualia, 140)

Suppongo che vi ricordiate quando sono diventato, per un po’, marinaio di acqua dolce.

"Uomo condannato al rogo
dall'Inquisizione di Goa".
Ma cominciamo con ordine. In quel tempo ero tornato a Goa, al collegio. Ufficialmente ero in ritiro spirituale. Stavo cercando di smettere con l’oppio, anche. Non ridete. Me lo aveva prescritto un dottore indiano contro l’ulcera. Senza accorgermene avevo iniziato ad aumentare le dosi. È difficile spiegare a chi non l’ha provato. Ti sembra di entrare in un mondo diverso, che al risveglio non sai raccontare nemmeno a te stesso. Potrebbe essere il paradiso, ma più probabilmente è un altro luogo.

In ogni caso, avevo visto uomini migliori di me partire e non tornare, ed ero determinato a non seguirli. Così mi ero chiuso in una cella col mio Eymerich tascabile e il flagello. Quando i miei nervi cominciavano a tendersi e a chiedere il frutto del papavero, io cercavo di strapparmeli a nerbate. Poi il dolore mi teneva sveglio tutta notte e un po’ d’oppio dovevo prenderlo comunque, per non impazzire. Vedevo le pareti della cella stringersi intorno a me, e pensavo alla giungla. Sentivo di diventare sempre più debole, e vedevo gli idoli diventare sempre più forti – stavo sbagliando metodo, evidentemente.

Goa, fottuto posto. Ma ognuno ottiene quello che vuole, alla fine. Io volevo una missione; e per scontare i miei peccati me ne assegnarono una davvero speciale; una volta conclusa, non ne avrei volute altre.

Non posso raccontarvi tutto, naturalmente. Ricevetti un invito a pranzo che non si poteva rifiutare. Mi buttai sotto un getto d’acqua gelida per togliermi la giungla dalle palpebre, e nel giro di un paio d’ore ero di nuovo un domenicano nel suo saio pulito e bianconero, al cospetto dell’Inquisitore Generale.

Si era fatto arredare un bell’ambientino, nel palazzo di un Khan locale. Il disprezzo per gli idoli, le vacche sacre in particolare, lo manifestava facendone arrostire generose porzioni per gli ospiti.
“Buongiorno padre”.

“Buongiorno fra Marcelo. Ha già conosciuto il Generale?”

“No padre, non di persona”.

“Lei ha lavorato molto in autonomia, è vero?”

“Sì padre, è così”.

“Nel suo dossier si parla di un paio di autodafè nei distretti a nord di Goa”.

“Al momento mi dichiaro non disponibile a parlarne, padre”.

“Lei non ha già lavorato per l’Inquisizione?”

“No padre”.


“Non ha bruciato tre idolatri e due musulmani in un villaggio a venti leghe da qui?”

“Non… non mi risultano le attività da lei menzionate. Né sarei propenso a parlarne qualora tali attività…”

“Cos’è quel brutto taglio sul collo?”

“Un incidente di pesca durante le attività ricreative, Padre”.

“È profondo. Sembra un gatto a nove code. Lei fa uso del gatto a nove code nella sua cella?”

“No padre”.

“Lo sa che è proibito?”

“Certo padre”.

“Va bene, si sieda. Ha l’aria di uno che digiuna da un mese. Vediamo quello che abbiamo qui. C’è dell’arrosto, di solito è buono. Ma se vuole provare i crostacei, non dovrà fornirci ulteriori prove di coraggio”.

“Grazie, padre”.

“Mi serve nel pieno delle forze. Ha mai sentito parlare di Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier?”

“Nato in Navarra nel 1506, al collegio fu compagno di cella del fondatore dell’ordine noto come Compagnia del Gesù, Íñigo López Loiola. Inviato da questi a Goa nel 1541 su richiesta di sua maestà il re del Portogallo, estese l’opera di evangelizzazione delle Indie fino a Malacca, alle Molucche e a Cipango, battezzando milioni di indigeni e compiendo centinaia di prodigi…”

“…Non tutti risultanti al nostro Sacro Ufficio. Vada avanti”.


Convertili tutti, Dio riconoscerà i suoi
“Nel 1552, desideroso di portare il messaggio di Nostro Signore Gesù Cristo nell’impero della Cina, parte su una giunca diretta all’estuario del fiume delle Perle, ma muore di febbre nell’isola detta di Sanclan. Dio dà, Dio toglie, Dio sia benedetto”.

“Amen. Tutto qui, figliolo?”

“Più o meno sì”.

“È sicuro di non aver sentito altre voci?”

“Niente di rilevante, padre”.

“A proposito di un padre gesuita che addentrandosi nel fiume delle Perle con un carico di fucili, avrebbe portato la coltivazione del papavero nel cuore del Guangdong?”

“Lo apprendo da voi, padre”.

“Francisco Javier è stato uno dei migliori pastori che la Chiesa abbia mai inviato nelle Indie. Un cavaliere e un santo. Spiritoso, intelligente. Ma in un qualche modo non riusciva ad accontentarsi. Lo avremmo voluto più spesso presso di noi, a Goa. Come sa, c’è tantissimo lavoro da fare per le anime dei sudditi indiani del Re, senza andare in capo al mondo. Sappiamo che lo stesso Loyola gli aveva chiesto di fermarsi. E invece… le Molucche, e poi il Giappone, e poi… la giungla. Lei conosce la giungla, fra Marcelo?”

“Ci sono stato”.

“Poi però ha dovuto andarsene… ha conosciuto i tormenti dell’ulcera, mi hanno detto”.

“Cibi troppo speziati”.

“Che altro ha conosciuto?”

L’orrore.

“Si sta ancora curando?”

“No, padre, sono guarito”.

“Me ne rallegro. Stavo dicendo… quando Francisco si addentrò nel Fiume delle Perle, le sue lettere cominciarono ad apparirci… insane. Abbiamo pertanto stabilito di non divulgarle. Eccole qui”.
Con le stesse mani con cui aveva affettato il manzo, mi porse un pacchetto. Se non si stava prendendo gioco di me, dentro c’erano missive inedite di Francisco Javier, l’uomo che aveva in pochi mesi procurato alla chiesa cattolica più anime di quante gliene avesse perse l’immondo Lutero in trent’anni. A Roma si parlava già di beatificarlo.

“A quel che ci risulta, ha rilevato un latifondo nell’entroterra. Dirige una vera e propria impresa commerciale, che rifornisce di oppio i mercati di tutta la Cina meridionale. Gli affari vanno così bene che i prezzi sono crollati persino qui a Goa, ne avrà sentito parlare”.

L’orrore.

“Devo darle un’altra informazione inquietante: pare che i suoi contadini lo temano e lo venerino. Eseguono ogni suo ordine, anche il più assurdo. Nella giungla, come sa, il bene e il male si intrecciano in modi che ancora non capiamo. In mezzo a quegli idolatri persino il più santo degli uomini può essere tentato di credersi… Dio”.

“Dio?”

“In ogni uomo c’è un punto di non ritorno. Francisco Javier è andato oltre, ed è ormai evidente che sia del tutto impazzito”.

Che cosa volevano da me?

“La sua missione consiste nel risalire il Fiume delle Perle a bordo di una giunca. Ottenere un permesso per entrare nel territorio dell’Impero è molto difficile, e in ogni caso non intendiamo dare nell’occhio. Pertanto indosserà gli abiti di un bonzo. Lungo il tragitto raccoglierà informazioni. Una volta trovato padre Francisco deve infiltrarsi nella sua impresa e… porre fine al suo comando”.

“Porre fine a… padre Javier?”

“Quell’uomo è ormai completamente fuori controllo. Porre fine con estrema determinazione. Ha capito, sì?”

“Sì, padre”.

Da un po’ stava armeggiando con un attrezzo di cui avevo sentito già parlare, senza averlo mai visto. Una cannuccia di legno con un minuscolo fornellino all’estremità. Ora che finalmente all’interno aveva preso fuoco qualcosa – spargendo nella stanza un odore non sgradevole – si mise in bocca l’altra estremità. Sembrava che succhiasse.

“Lei non fuma, vero figliolo?”

“Mi perdoni?”

“Un po’ la invidio. È un vizio nuovo, che ci arriva dalle indie occidentali. Un’alternativa assai più sana al masticare oppio. Vuole provare?”

“Grazie, no”.

“Le sarà chiaro, fra Marcelo, che questa missione non esiste. Francisco Javier è morto nel 1552 di febbre sull’isola di Shangchuan, dopo aver convertito milioni di fedeli. Nelle Indie tutti parlano dei suoi prodigi. Dio l’assista”.

“Sempre sia lodato”.

Quando accettai la missione non ero certo un educando. Quante persone avevo già ucciso? Cinque, sei? Avevo ancora addosso l’odore di bruciato delle loro carni sul rogo. Stavolta però si trattava di uccidere un santo. Accettai la missione: che altro potevo fare? Ma non sapevo ancora come mi sarei comportato al suo cospetto.

(Continua…)
[Pezzo pubblicato la prima volta li 2/12/2015].
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Nel cognome del padre

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Si è ormai capito che uno degli aspetti 'barbarici' del M5S, che più sgomenta i giornalisti e i commentatori, è che a volte sbagliano i nomi di battesimo: denunciano il Calabresi sbagliato, invitano lo Zingaretti sbagliato. E tu dici, vabbe', divertente, ma fossero tutti qui i problemi e invece no, e invece no, e invece sbagliare i nomi di battesimo in Italia è imperdonabile. 

Proprio perché il giornalista-figlio ci tiene a dimostrare di non essere proprio il giornalista-padre o zio o fratello, l'idea di una forza politica che di queste finezze proprio se ne frega, e googla il primo che capita, è insostenibile.

(Da https://www.facebook.com/leonardo.blogspot/posts/10215780334479596).
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L'autocritica maoista di D e G

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Pallidi, smorti, due stracci grigi messi ad asciugare su uno sfondo rosso drago, i due imperatori della moda non vi sono mai sembrati così nudi, così ridicoli: e adesso infatti li irridete. Adesso.

Il problema non è avere un cannolo grande.
Adesso Crozza li può prendere in giro; adesso Gianni Riotta può ammettere che la crisi con la Cina è stata una débâcle“Agire in un mondo unico e social come se vivessimo ancora nell’Italia chiusa anni Cinquanta, porta a disastri”; adesso Vittorio Zucconi su La Repubblica può persino mettere in dubbio la versione ufficiale dell’azienda, quella secondo cui i tweet violentemente anticinesi partiti dall’account di uno stilista sarebbero stati scritti da un malvagio hacker. Come se fosse la prima volta che da quell’account partono tweet disastrosi e autolesivi, come se lo stesso responsabile dell’account non avesse mai definito “brutta” Selena Gomez, o “fascista” Elton John. Fino a venerdì però non c’era quotidiano italiano che osasse mettere in discussione la bizzarra teoria degli hacker. Fino alla settimana scorsa non c'era quotidiano che potesse permettersi a cuor leggero di mettere in discussione Dolce e Gabbana. E così, mentre i siti di e-commerce ritiravano i prodotti griffati, il Ministero cinese annullava la sfilata-evento e su Instagram si postavano video di falò alimentati con i vestiti della coppia di stilisti, per i giornalisti italiani Dolce e Gabbana al massimo avevano sbagliato uno spot, urtato qualche indigeno troppo suscettibile.

Poi però è arrivato il loro grottesco video di scuse, e qualcosa è cambiato. Come se i predatori del circo mediatico avessero sentito l’odore del sangue: Dolce e Gabbana improvvisamente non erano più intoccabili. Non più i capricciosi tiranni del lusso, quelli che qualche anno fa per una recensione negativa avevano ritirato le inserzioni pubblicitarie a un quotidiano. Dolce e Gabbana erano stati colpiti. Non sono immortali, dunque. E quindi addosso – comodo, adesso.

Così comodo che forse vale la pena di chiamarsi fuori. Tanto la frittata è fatta, no? Dolce e Gabbana lavorano sugli stereotipi: lo hanno sempre fatto e per molto tempo ha funzionato. La caricatura di Italia che spacciavano al mondo era davvero ferma agli anni Cinquanta, e potrebbe persino essere stata controproducente per l’immagine della nostra nazione all’estero: ma funzionava, vendeva, e quindi perché lagnarsene. I problemi sono nati quando il metodo Dolce e Gabbana è stato esteso al resto del mondo globalizzato, in aree forse più sensibili ai problemi che gli stereotipi portano con sé.

Il problema è avere un grande cannolo
Un primo segnale d’allarme arrivò durante la sfilata primavera-estate 2013, quando alcune modelle si presentarono in passerella con un ingombrante orecchino che lasciò perplessi i giornalisti anglosassoni (“Are they racist?“): rappresentava la testa di una donna nera; somigliava non troppo vagamente ai quelle raffigurazioni stilizzate e grottesche degli individui afroamericani stigmatizzate da Spike Lee in Bamboozled . In quell’occasione l’azienda si limitò a precisare che avevano voluto citare le “teste di moro”, un simbolo del folklore siciliano. Uno choc culturale interessante, su cui la stampa italiana non trovò molto da dire.

Così come si allarmò particolarmente l’anno dopo, quando le foto dell'”Hallowood Disco Africa” con gli stilisti truccati da africani fecero il giro del mondo e arrivarono in America, dove la “blackface” è ancora vista come un oltraggio dalla comunità afroamericana: un ricordo di quei minstrels show in cui attori bianchi truccati da neri ne irridevano i costumi mentre si appropriavano della loro musica. Gabbana non portava una blackface, ma delle foto sembrava divertirsi, sinceramente inconsapevole dei problemi che avrebbe potuto crearsi con i clienti di oltreoceano. Tanto chi si indigna di queste cose non compra Dolce e Gabbana, no?

I giornalisti italiani si fecero invece sentire nel 2015, quando lo stesso Gabbana definì “sintetico” il figlio di Elton John e quest’ultimo reagì annunciando che non avrebbe mai più comprato prodotti della griffe; al che Gabbana reagì definendolo fascist. Forse fu un hacker anche in quell’occasione, non si può escludere, ma non è questo il punto. Il punto è che allora i giornalisti italiani intervennero, sì: ma per difendere Gabbana; per cercare di spiegare e Elton John che quella di Gabbana su suo figlio era un’opinione, e le opinioni vanno rispettate. Certo, non credo che Elton John si sia scosso più di tanto per i rilievi di Beppe Severgnini, ma il problema resta: quello di una stampa nazionale che sembra spalleggiare Gabbana (o il suo hacker) per partito preso, anche a costo di scadere nel ridicolo... (continua su TheVision).



In un mondo globale sempre più insofferente nei confronti degli stereotipi culturali e di genere, se Dolce e Gabbana hanno potuto remare per anni in direzione contraria è anche colpa di chi, per tutto questo tempo, si è sforzato di trovarli geniali, fingendo di non vedere anche gli esempi più eclatanti, come la pubblicità che alludeva a una violenza sessuale di gruppo. Tutto questo finché un giorno non sono andati a sbattere contro la Repubblica Popolare Cinese. Adesso è tutta colpa loro: gli imperatori sono nudi, gli ex ciambellani di corte si accaniscono su coloro che fino a un momento fa veneravano. Trovano brutto il comunicato di scuse, poco credibile. Chissà se qualche autoeletto guru della comunicazione ha già fatto notare quello che per un qualsiasi studente della Storia del Novecento rasenta l’ovvio: quel video apparentemente imbarazzante è ancora una volta una rielaborazione di stereotipi orientali (l’autocritica maoista) e occidentali (Dolce e Gabbana sembrano due ostaggi davanti alla videocamera fissa).

Costretti a recitare con voce atona formule grottesche come “Chiediamo scusa ai cinesi perché ce ne sono tanti”, Dolce e Gabbana insistono sulla redenzione, ma in realtà stanno dicendo un’altra cosa: umiliazione. È vero che mancano i cappelli di carta con cui le Guardie Rosse di Mao cingevano le teste dei nemici del popolo, ma chi è nato e cresciuto dopo la Rivoluzione Culturale non dovrebbe faticare a cogliere un riferimento, anche inconscio: Dolce e Gabbana si comportano come due capitalisti rieducati, proletarizzati, pronti per indossare la tutina e inforcare la bicicletta.

Nel frattempo l’osservatore occidentale ridacchia, ma percepisce un altro messaggio preciso: Aiuto, siamo prigionieri. Ovviamente non crediamo in quello che stiamo dicendo, siamo ostaggi di questo nuovo mondo globale. Venite a salvarci, o almeno abbiate pietà di noi. Un video così goffo riesce a muovere le corde giuste di due pubblici opposti e complementari. Non male, per essere la mossa disperata di due stilisti a cui adesso, e solo adesso, gli Esperti rimproverano l’incapacità di comunicare. Lavorare sugli stereotipi è pericoloso, e prima o poi ci si brucia. Ma se Dolce e Gabbana ci hanno insistito fin qui, è perché fin qui tutto sommato funzionava. E funziona ancora, a dispetto di ogni critica. Anche coi cinesi, anche con noi.

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