Caro elettore (emiliano) di sinistra

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Ciao, come va? È da un po'.
Esatto, sì, sto per fare quella cosa.
(Sono più imbarazzato di te, credimi).

Domenica come senz'altro sai si vota in Emilia-Romagna, e la coalizione di Bonaccini (PD e altre liste di centrosinistra) potrebbe anche non farcela. Questo non sarebbe necessariamente la fine del mondo in regione: in Emilia-Romagna direi che dopo 50 anni un po' di alternanza potremmo anche permetterla, giusto il tempo di dimostrare l'incapacità del centrodestra locale. La vittoria della Lega salviniana però potrebbe innescare una reazione a livello nazionale, con conseguente crisi del governo e fine della legislatura proprio nel momento in cui finalmente in parlamento si cominciava a parlare di una legge elettorale proporzionale e decente (una legge che potrebbe riportare anche la sinistra in parlamento). E quindi?

E quindi, indovina: sto per chiedere il tuo voto utile. Lo so che Bonaccini non ti piace, e posso anche capire i motivi per cui, da una prospettiva di sinistra, non rappresenta quasi nulla che possa piacerti. Cioè non voglio neanche provare a indorarti la pillola, ok? Anzi, sinceramente considero la sua proposta di autonomia regionale una roba da leghisti, e forse invece di scrivere questo pezzo dovrei scriverne uno per convincere i leghisti a votare Bonaccini. Se avessi il bacino di utenza adatto lo farei. Ma è più facile che mi leggano a sinistra, e quindi caro lettore, eccomi in ginocchio da te: per favore, riflettici. Vale davvero la pena di regalare una chance a Salvini, e qualche anno di amministrazione regionale a chi fa campagna elettorale con le magliette su Bibbiano?

Non potrebbe essere l'occasione per stabilire che no, che questo tipo di campagne elettorali da Cronaca Vera non funzionano – perlomeno da noi? Pensa che precedente sarebbe, caro elettore di sinistra. Un tizio cerca di vincere le elezioni battendo ogni mercato, ogni stand gastronomico della regione con la sua scorta, senza argomenti che non siano recriminazioni e selfie, e malgrado ospiti televisivi e influencer non riescano a parlare di altro... perde. Non sarebbe già un risultato importante?

E se invece vince, non sarebbe un po' la fine della democrazia? Cioè una volta che hai dimostrato che le elezioni le vinci andando a disturbare la gente col citofono, che si fa?

E quindi caro elettore credo che dovresti davvero provarci, stavolta. Anche se.

Anche se sono il primo a trovare la cosa un po' sospetta. Ancora una volta uno scontro finale. Ancora una volta le forze del Male stanno per trionfare e l'unica speranza è spostare una manciata di voti sulle forze del Meno Peggio. È da più di vent'anni che funziona così – ieri era Berlusconi, oggi Salvini, c'è sempre un altro piccolo sforzo da fare, c'è sempre un cattivo da abbattere, c'è sempre un motivo per mettere da parte le proprie ragioni e le proprie necessità. E c'è sempre qualcuno (e a volte sono stato io) che ti chiede di metterti la mano sul cuore e di sacrificare le tue esigenze di elettore, sempre e solo le tue, e perché? Perché è in gioco qualcosa di più importante, il destino dell'Italia, dell'Unione, e del mondo, e vuoi sapere una cosa buffa? Ci credono.

(Io perlomeno sono abbastanza persuaso che l'ascesa di Salvini rappresenti un concreto peggioramento per l'Italia, per l'Unione Europea, e per tutto il quadro internazionale, e sarei veramente molto orgoglioso se la mia regione domani gli desse una spallata fatale – mentre al momento sono abbastanza inorridito dalla prospettiva che gli fornisca la spinta che gli manca).

Quindi mettiamo da parte ancora una volta le obiezioni, anche legittime, al nostro modello di sviluppo. Mettiamo da parte l'ambiente, le politiche per la casa, le rivendicazioni dei lavoratori anche quando sono represse dalla polizia, e quell'oscenità che sono i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Insomma lasciamo da parte tutte le lotte sacrosante di una sinistra che osi ancora definirsi tale sul territorio, e concentriamoci sull'ennesima battaglia decisiva, che anche qualora si rivelasse davvero decisiva, non sarà comunque quella finale, no? Comunque non pensiamoci, c'è la possibilità di mandare Salvini nella polvere (o sugli altari), tutto il resto passa in secondo piano. Caro elettore di sinistra, a questo punto tu giustamente mi domanderai:

E se fosse solo un fantoccio, Salvini?

(Lo ammetto, anche a me il dubbio viene).

Una caricatura di nazista, un Mussolini versione farsa, un Berlusconi in sedicesimo perfino. Uno che in realtà il potere non lo vuole – quando gli è capitato, se n'è proprio liberato alla prima occasione – e che ora serve proprio come spauracchio per tenere uniti tutti quanti contro di lui. In tempi ancora di maggioritario, mentre tutti aspirano al 51%, forse l'obiettivo di Salvini è il 49%: quel che gli serve per essere sempre minaccioso, sempre sulla cresta dell'onda, sempre in tv e sui social, ospitate, libri, la scorta. Guarda, non escludo affatto che alla fine Salvini non sia che questo. Uno messo lì per catalizzare il malcontento e interpretarlo nella forma più trucida e impresentabile. È una possibilità. Ugualmente, preferirei che i suoi candidati non vincessero, domani.

Caro elettore di sinistra, dovrei tagliarla qui. Più scrivo, meno divento convincente. Ti faccio una proposta un po' più pratica: dà un'occhiata al programma di Emilia Coraggiosa, la lista pro Bonaccini di Elly Schlein (già europarlamentare con Possibile). Misura col tuo giudizio quanto sia meno di sinistra rispetto a quella, mettiamo, di Potere al Popolo. Poi vota per chi ti va, davvero. Ma se scegli di votare per una lista collegata a Bonaccini, e Bonaccini si ritrova per altri cinque anni in Regione, ti prometto che almeno da parte mia non saranno altri cinque anni passati a farmi i cazzi miei mentre il territorio si cementifica, l'ossigeno scompare, gli operai vengono processati perché scioperano. Ti sto chiedendo il mio voto? Ti offro il mio tempo e il mio spazio. Ogni volta che Bonaccini ti farà incazzare, potrai scrivermi e io mi preoccuperò, per quel che posso, di dare risonanza alle tue istanze e alle tue incazzature. Non è molto quel che posso offrirti – ma non è neanche molto quel che ti chiedo: una croce su un simbolo e su un candidato. E poi domenica vada come deve andare, una cosa buona è che almeno non ce lo troveremo più in piazza a spararsi selfie davanti a uno stand di salumi. È finita, almeno la campagna è finita. Ci vediamo.

PS: lascia stare il voto disgiunto, è una cabala.
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Lo sai che si dice dei cattolici

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Ci sono ebrei al mondo, e buddisti,
mormoni, islamici e sikh.
Ci son Testimoni e battisti,
ma io... io non sono così.



Son tra i cristiani cattolici,
ci sono da sempre, e lo sai
che c'è di bello a esser cattolici?
Vai bene così come sei.

Non serve essere alto e prestante,
o un nobile o un genio, perché
cattolico sei dall'istante
in cui tuo padre è venuto per te.

Infatti...

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se sprechi lo sperma
Dio si altera alquanto.

Lascia gli infedeli
tristi a sgocciolare:
ogni goccia persa
Dio la sta a contare.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è sacro.
Se sprechi lo sperma,
Dio sa che è un massacro.

Indù, ebrei, taoisti
spruzzano qua e là,
ma Dio salva soltanto
chi si conterrà.

Ogni sperma è santo,
Dio ce l'ha donato.
Ogni sperma è una risorsa
per il vicinato.

Ogni sperma è santo,
ogni sperma è buono.
Ogni sperma è utile,
ogni sperma è un dono.

Lascia che i pagani
innaffin monti e mare:
ogni goccia persa
Dio la fa pagare

Ogni sperma è sacro,
ogni sperma è santo.
Se getti lo sperma,
Dio si arrabbia,
tanto.

Every Sperm Is Sacred, musica di André Jacquemin e David Howman, testo di Michael Palin e Terry Jones (1942-2020).

(Ho sempre pensato che sarebbe stato giusto averne una traduzione cantabile in italiano, non importa quanto inferiore all'originale).
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La passione mancata di Bettino C.

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La sera del 23 aprile del 1993 gli uomini della scorta di Bettino Craxi gli chiesero invano di uscire dal retro dell’Hotel Raphael. Nella piccola piazza antistante, già da un paio d’ore, si era formata una folla sempre più rumorosa che brandiva biglietti da mille lire (91 centesimi del 2020, al netto dell’inflazione). “Vuoi pure queste?", cantavano, "Bettino, vuoi pure queste?”, sull’aria di Guantanamera. Craxi, essendo Craxi, decise che non si sarebbe lasciato intimorire da quella che riteneva una manifestazione organizzata dai suoi avversari politici. Uscì dall’ingresso principale. E... si lasciò intimorire, eccome. “Ho provato per la prima volta sulla mia pelle lo squadrismo”, disse poi. Non c’è motivo di dubitare che si sia trattato di un vero choc per lui, al termine di una giornata particolarmente drammatica. Ma nel filmato il tragitto tra la porta dell’hotel e l’auto blu non dura più di quattro secondi, durante i quali gli agenti di polizia gli fanno da scudo umano. È vero, la piazza era piena (ma è anche abbastanza piccola). È vero, i manifestanti stavano tirando “di tutto! monetine, pezzi di vetro, di tutto!”, come gridò nel microfono l’inviata Rai Valeria Coiante. Ma non fu squadrismo, nel senso che il termine ha sui libri di Storia di cui Craxi era avido lettore: non fu l’azione di una banda armata nei confronti di un avversario politico inerme. Craxi era ben difeso, dalle forze dell’ordine di uno Stato che aveva appena deciso – con un voto del Senato – di non indagare su quattro delle sei accuse che i magistrati gli rivolgevano. La decisione era stata accolta con rabbia da una parte rilevante dell’opinione pubblica, e qualcuno aveva deciso di aspettarlo fuori dal Raphael. Tutto qui, e forse non sarebbe stato questo macigno sulla traiettoria politica di Bettino Craxi, se per una volta avesse deciso di essere un po’ meno Craxi e di uscire dal retro. In fin dei conti era il 1993, Craxi non era il primo leader politico a rimediare fischi e monetine, né sarebbe stato l’ultimo.

Perché non riusciamo a rivalutare Craxi? Nemmeno dopo vent’anni – vent’anni passati all’ombra di politici quasi sempre inferiori a lui per cultura e strategia – perché non riusciamo a dare allo statista quel che gli spetta? Cosa posso dire, è complicato. Forse per la mia generazione è una questione di imprinting. Nel 1993 io ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da sempre, cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; tra fan dei Duran Duran e fan degli U2 non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine, come tra Montecchi e Capuleti). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti delle fiction imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non significa che non avesse un senso detestarlo, mentre ci vivevi. Rifiutare l’estetica del disimpegno, rifiutare far caso alle crepe nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, e del resto eravamo davvero adolescenti. E Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcelo, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.


Ora, tutto questo è molto puerile, e abbiamo avuto trent’anni per rimetterlo in discussione. Trent’anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran: perché non Craxi? Che davvero, qualche argomento lo aveva.

A volte ho il sospetto che sia anche responsabilità dei craxiani... (continua su TheVision) una tribù ormai minuscola ma irriducibile, che a ogni anniversario si riversa in televisione e sui giornali impossessandosi dell’argomento. Non importa quanto tempo sia passato, e quante impressioni nel frattempo uno abbia accumulato: basta accendere la tv, sentirli parlare e le mani corrono al portafoglio, alla ricerca di altre mille lire che vorresti di nuovo brandire in favore delle telecamere. Un episodio che, capitasse oggi a un politico di rango analogo, sarebbe liquidato da un Salvini o da un Renzi con un #abbraccio o un #ciaone, a distanza di quasi trent’anni è ancora raccontato dagli orfani e dai vedovi di quella stagione con accenti epici.

Ogni tentativo di santificare Craxi si scontra con questo problema: la cosa più tragica che in Italia viene ricordata del declino di Craxi, l’apice della lotta al sistema politico corrotto che aveva contribuito a costruire, è stata una pioggia di monetine. Certo, se Craxi fosse rimasto in Italia avremmo visto scene ben più tragiche, ma lui per primo non se l’è sentita. Va biasimato per questo? Dopotutto era stato lui stesso a costruire il suo personaggio, con molta attenzione per i costumi e l’intonazione della voce.

Craxi in questo modo ha finito per impersonare quel tipo di eroe greco la cui hybris gli Dei non si stancano di punire. E di peccati ne ha commessi ben due: il primo è la la collusione con un sistema corrotto; il secondo è che per un intero decennio ha voluto e creduto di poter diventare il Mitterrand italiano, di mettere sotto scacco la DC e di poter profittare dell’esaurimento ideologico del PCI; ha creduto di poterci riuscire da solo, con una strategia attendista che faceva a pugni con quel “decisionismo” che credeva di impersonare. Per tutto quel tempo il suo partito non ha mai superato il 15% dei suffragi. Malgrado questo, Craxi puntava davvero alla Grande Riforma presidenziale: non molto diversamente da Renzi nel 2016 (che in questi giorni lo ha ricordato con una certa ammirazione) da Berlusconi in passato, riteneva che gli italiani, messi di fronte a una scelta secca tra lui e chiunque altro, avrebbero scelto lui. Si sbagliava, e non di poco: oggi lo sappiamo con certezza, ma non era poi così difficile capirlo anche allora. Gli elettori comunisti non gli avrebbero mai perdonato l’abolizione della Scala Mobile, e su un piano più tribale l’imboscata del Congresso PSI del 1984, quei fischi a Berlinguer da cui non aveva preso le distanze (anzi: “Se sapessi fischiare, fischierei anche io”). Gli elettori della sinistra DC non gli avrebbero mai perdonato il tradimento di De Mita, il patto col camper con Andreotti e Forlani, al punto da applaudire ai propri ministri che si dimettevano dal governo Amato piuttosto di non votare il decreto salvaberlusconi voluto da lui: quel momento che più di tutti preannunciava la fine della DC e della Prima Repubblica, se non già l’inizio dell’Ulivo.

Al di fuori del suo partito – trasformato a metà anni Ottanta in un’estensione del suo ego – Craxi era fortemente impopolare, ma non è mai sembrato preoccupato della cosa e forse non ne era nemmeno consapevole, come capita agli uomini potenti quando la salute declina e i cortigiani cominciano a stringere il cerchio. Fino a quella fatidica pioggia di monetine, che più che un linciaggio fu una doccia fredda. Gli italiani non si sono accontentati della versione dei fatti che ha reso in parlamento, incolpando l'intero sistema per sminuire le responsabilità dei singoli corrotti, per poi fuggire in Tunisia e fare il martire con vista mare.

In seguito abbiamo avuto più di un’occasione per riflettere sulla complessità di un sistema che si dice democratico ma che rende impossibile per i partiti finanziare le loro attività (situazione denunciata con impeto da Craxi sotto la voce ipocrisia, durante il discorso pre-monetine); abbiamo scoperto che i quotidiani funzionano davvero come macchine del fango, condannando gli indagati molto prima che se ne celebrino i processi; abbiamo verificato come i magistrati abusino spesso di intercettazioni e detenzioni preventive. Insomma abbiamo avuto tutto il tempo che ci serviva per ammettere che Bettino Craxi diceva la verità sulle profonde contraddizioni e le aberrazioni diffuse del nostro Paese. Ma abbiamo anche avuto tutto il tempo che serviva per riconoscere che quello che è stato tramandato come un linciaggio non lo è stato affatto: qualche monetina lo mancò di diversi centimetri, qualche manifestante gli sventolò da lontano banconote di mille lire. Craxi, che nel discorso del 29 aprile aveva accettato di rappresentare gli anni Ottanta italiani e ne rivendicava i progressi, rappresentava anche una classe dirigente che assistette impotente al quadruplicarsi del debito pubblico. Quello stesso debito che stiamo ancora pagando tutti, e che forse spiega meglio di tante parole quanto sia difficile riabilitarlo davvero (e quanto fosse facile cavarsi di tasca cento lire e lanciarle a un uomo antipatico, nell’aprile del 1993).
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Lettera aperta a Lucia Borgonzoni, su Bibbiano e sull'aria che c'è

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Senatrice Borgonzoni,
sono un elettore emiliano e fino a poco tempo fa non credevo che l'avrei mai disturbata. Poi ho letto che andava a Bibbiano, ed era molto felice e orgogliosa di andarci, e forse per una coincidenza l'ho letto proprio nel giorno in cui nella mia città il livello di polveri sottili doppiava la soglia massima consentita per legge – la nostra aria è una delle meno respirabili del mondo, come lei ben sa. Io stesso mentre le scrivo sento un po' bruciarmi gli occhi, e i bronchi un po' ruvidi, e all'uscita da scuola vedo un po' troppi bambini tossire – magari è autosuggestione, senatrice, ma insomma in questi giorni mi sembra che mi manchi l'aria e nel frattempo leggo che lei sarà a Bibbiano, non vede l'ora di esserci a Bibbiano, perché è molto preoccupata dei fatti di Bibbiano, e non si darà pace finché non sarà fatta completa luce sui fatti di Bibbiano.

Senatrice Borgonzoni, allora, deve sapere che oltre a essere un elettore sono un papà, e in quanto tale molto turbato da quanto successo a Bibbiano, e anch'io non vedo l'ora che i magistrati facciano completa luce sui fatti. Per cui volevo chiederle, insomma: una volta eletta alla presidenza della Regione Emilia-Romagna, in che modo esattamente potrebbe aiutare i magistrati a fare luce eccetera? Perché è da un po' che ci penso e giuro, non mi viene in mente – sarà la mia mancanza di fantasia. Cioè, non è che un presidente di regione non abbia niente da fare tutto il giorno, eh? Ci sono tutti i problemi del territorio, la viabilità che potrebbe essere molto, molto migliore di così; i rifiuti, l'urbanistica, e l'aria, mi scusi se insisto sull'aria, ma a volte mi sento quasi soffocare, ho pena per i miei figli e i loro compagni, e in mezzo a tutto questo sento che lei è molto preoccupata per Bibbiano. Del resto la prima volta che ho sentito parlare di lei è proprio perché si era infilata una maglietta su Bibbiano in Senato, e le confesso che ho la sensazione che alla fine Bibbiano per lei sia un po' quella cosa lì: una maglietta da infilarsi davanti alle telecamere. E che anche i problemi della regione per lei siano quella cosa che si può risolvere con una maglietta (e una telecamera).

E allora mi corregga se sbaglio, senatrice Borgonzoni, ma la sensazione che mi sono fatto di lei è che dei bambini di Bibbiano, e della loro oggettiva sofferenza, le freghi tanto quanto della salute dei miei bambini, e di quelli di tutta la nostra inquinatissima regione: cioè un bel niente, senatrice. Bibbiano per lei è solo la quinta per una passerella; se qualcuno ha commesso dei reati indagheranno i magistrati, non lei. Se qualcuno è colpevole lo stabiliranno i giudici, non lei. Lei chi è in tutta questa storia tremenda? A occhio mi sembra una a cui hanno dato una maglietta da infilarsi. Una maglietta tra l'altro assai poco improvvisata, una maglietta coordinata, prodotta già in serie in pochi giorni, con uno slogan coniato all'improvviso e propagato immediatamente da lei e da tutti le bocche da fuoco della propaganda salviniana (nonché da qualche fascista).

Ok senatrice, siete stati bravi: ma in quanto elettore, e più in generale persona che tende a respirare nell'Emilia Romagna, mi domando se questa abilità con le magliette, con gli slogan, con gli hashtag, con le faccine sempre sorridenti anche mentre spalate merda sugli avversari politici e sui semplici cittadini... sinceramente mi domando se tutta questa vostra capacità di macinare propaganda 24 ore al giorno sia quel tipo di abilità che serve nei palazzi della Regione. Prendiamo un problema base, ad esempio (scusi se insisto), l'aria. Cosa ha intenzione di fare per l'aria, che tra un po' non sarà respirabile? Sono andato a cercare il suo programma, che in mezzo a tutti i volantini e le news e le faccine e le magliette è abbastanza difficile da trovare, e scritto molto in piccolo. E dunque alla voce "Qualità dell'aria", si legge che "le rilevazioni degli ultimi anni non sono certo clementi con il livello di qualità dell'aria nella Pianura Padana" (io qua ci sento un po' l'insofferenza verso queste "rilevazioni", maestri severi che avrebbero anche potuto chiudere un occhio e invece no). Ma si legge anche che "le misure messe in campo fino ad oggi hanno prodotto risultati importanti [??? risultati importanti??? abbiamo le polveri sottili al doppio della soglia massima!] ma spesso sono state altamente impattanti per i nostri concittadini".

C'è scritto così: altamente impattanti. Non è chiaro a cosa si riferisca: le traumatiche domeniche senza auto, i centri chiusi alle Euro4? O al supplizio esistenziale di dover differenziare l'umido? Una rottura senz'altro, ma senatrice, se penso a una cosa un po' impattante sulla mia vita di emiliano, penso alle malattie polmonari a cui mi sto esponendo soltanto perché mi è capitato di nascere e abitare qui. E avere figli qui; figli che respirano un'aria che li condanna a una maggior incidenza di malattie polmonari. Questo è impattante, senatrice. Questo è un problema che vorrei porre in sede regionale e nemmeno mi aspetto risposte facili: so che non ci sono. Però, vede, anche solo provarci a volte aiuterebbe – metta il suo concorrente, Bonaccini: lui che pure ha la sua parte di responsabilità per questo stato di cose, sul programma ha quattro milioni e mezzo di alberi in più, bum. È fattibile? Almeno si pone il problema. Energie rinnovabili al 100% entro il 2035, dice. Si può fare? Non ne ho idea, e neanche lei ce l'ha, non ne parla. Il resto del suo paragrafo sull'ambiente serve a rassicurare i contribuenti sul fatto che non vuole chiedere tasse in più per l'ambiente, ma magari incentivare gli imprenditori che rinnovano il parco macchine. Con vetture elettriche? Ah ah ah – non necessariamente, no. Insomma senatrice a lei dell'aria interessa poco ed è comprensibile, fin qui agli emiliani premevano davvero più le tasse che la qualità dell'aria. Non credo però che si possa andare molto più avanti di così in questa direzione – e inoltre le vere tasse le decidono a Roma, via, non è che possiamo prenderci in giro anche su questo.

Senatrice non ce l'ho con lei, per quanto speculare sulle tragedie famigliari dei bambini di Bibbiano sarebbe in effetti un motivo più che sufficiente. Il suo mentore che in queste ore chiede di essere processato perché secondo lui ha difeso il popolo italiano – bloccando un centinaio di naufraghi su una nave, secondo lui i popoli si difendono così – il suo leader, dicevo, una volta ha osato accennare al fatto che bisognava portare in Emilia-Romagna il modello veneto. Magari non proprio il modello tangentaro con cui il centrodestra ha gestito il Mose, ma effettivamente anche in Emilia si potrebbero incentivare un po' più le aziende, senza troppi lacci e lacciuoli, non c'è dubbio. Proprio in questi giorni abbiamo scoperto che in trenta comuni tra le province di Verona e Vicenza il 60% dei 300 mila abitanti ha il colesterolo sballato, a causa dell'inquinamento industriale – gli acidi perfluoroacrilici immessi nella falda acquifera dalla Miteni di Trissino. Gli esperti ritengono che questi acidi possano favorire lo sviluppo di malattie alla tiroide, nonché compromettere la fertilità che so che è una cosa che anche a voi sta molto a cuore. Inoltre c'è una possibile relazione con l'insorgenza di forme tumorali, e stiamo parlando di un problema per quasi duecentomila cittadini veneti di ogni età, bambini compresi, ma certo capisco che far luce sul problema, e chiedere che i responsabili paghino, non possa essere la priorità per lei o per un partito come il suo, così attento alle esigenze degli industriali anche quando ci ammazzano neanche troppo lentamente. Continui pure a parlarci di Bibbiano, magari voteremo per lei. Magari ci piace davvero essere presi in giro mentre soffochiamo. Non lo escludo, peraltro è noto che l'aria viziata toglie lucidità. Con l'espressione della mia più profonda disistima, suo Leonardo.
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Il mistero del vecchio Pansa

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Nell'accingersi a scrivere un coccodrillo su Giampaolo Pansa, il suo collega giornalista correrà subito con la memoria al primo incontro col venerato maestro; non tarderà a esaltare l'eccellenza di uno stile che negli anni Settanta doveva risultare dirompente e antiretorico (se invece oggi suona stucchevole è appunto perché il maestro ha avuto troppi allievi, e tutti inferiori). Questo avranno scritto i giornalisti, alcuni li ho già letti – altri no, più o meno è la stessa zuppa, scusate.

Autoreferenziarsi
Scrivendo in morte di Giampaolo Pansa, lo studioso di Storia non potrà avere che una priorità: difendere la disciplina (e la categoria). Perché negli ultimi vent'anni Pansa ha fatto peggio che contribuire a diffondere la retorica del "sangue dei vinti", un revisionismo ubriaco che equipara fascisti e antifascisti. Per condurre un'operazione del genere, Pansa doveva rinnegare qualcosa di più prezioso del suo progressismo: era necessario rinunciare alla sua professionalità di cronista e mandare al macero la sua laurea in Storia della Resistenza. Così ha fatto, spacciando libri di fiction per opere di divulgazione storiografica, mettendo in circolo monete false che alla lunga hanno reso impossibile uno scambio civile di opinioni. Fake news, Pansa non ha avuto bisogno di internet per recuperare ingigantire e diffondere fake news: il mercato editoriale si è prestato con entusiasmo. Questo scriveranno gli storici; alcuni li ho già letti, non ho molto di originale da aggiungere.

Quel che nessuno fin qui ha scritto (mi pare), l'unica cosa che veramente mi interesserebbe leggere, è la soluzione al mistero che Giampaolo Pansa impersonava da vent'anni. Magari è una soluzione banale – molte soluzioni lo sono, come i moventi in tanti gialli di Agatha Christie: un mutuo da pagare, una malattia, una ripicca fermentata negli anni. O era già tutto scritto nei suoi geni? È stata la stessa attitudine a chiamarsi 'fuori dal coro' a portarlo con gli anni a steccare sempre di più, a individuare un mercato per chi le stecche le apprezzava, a coltivarlo con determinazione industriale, negli anni in cui avrebbe potuto rilassarsi e pensare con soddisfazione alla sua lunga carriera?

Più in generale: perché in Italia i giornalisti invecchiano così male, e non smettono di scrivere mai? Al punto che i quotidiani nazionali sembrano diventati il bollettino di un gerontocomio: non li compriamo più per sapere che succede tra USA e Iran, anzi non li compriamo proprio; ma se lo facessimo sarebbe piuttosto per informarci sulla salute del tale giornalista, se è ancora spaventato per l'odore dei nigeriani che ha percepito da una panchina del parco, o se invece quell'altra prestigiosa firma ha ancora visto il Papa durante la pennichella. Forse Pansa aveva paura di invecchiare così, e ha deciso che sarebbe diventato un vecchio più interessante, quel tipo di vecchio stronzo. Forse era inevitabile, forse invecchiare equivale davvero a diventare la caricatura di sé stessi: nel suo caso, la caricatura di uno storico del Novecento e di un cronista del medesimo secolo. A volte dava quasi la sensazione di considerarlo un gioco: il vecchio stronzo contro tutti. Magari invecchiare è anche questo, smettere di prendere sul serio le cose; al punto che anche l'eventualità di essere tramandato ai posteri come un rivalutatore del fascismo ti fa ghignare, ah ah, fottetevi posteri. Più che piangere per un Pansa che se ne va, oggi mi sento triste per tutti i Galli della Loggia che ci toccheranno ancora per tanti, tanti anni. Quanti cartonati, quante opinioni già decrepite alla prima stesura che qualche sventurato stagista dovrà pure correggere, e qualche malcapitato possessore di librerie si ritroverà impacchettate sotto l'albero a Natale perché il suocero ha sentito dire che t'interessi di politica. Poi la gente si lamenta che i giovani non leggono. E meno male; anzi speriamo che leggano sempre meno.
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Avviso di modifica unilaterale dell'opportunità di fotterti

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Un giorno una Banca mi manderà una Informativa per spiegarmi che in base a una revisione unilaterale del contratto il mio fegato le appartiene e che me lo strapperanno senza anestesia al primo plenilunio, e io aprirò la busta, farò finta di leggere, appallottolerò, esulterò per il canestro del cestino, un giorno succederà, annotatevi questa cosa.
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Cronache dalla campagna

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(Qui intorno era ancora tutta Emilia-Romagna, nell'anno del Signore 2020)


– Avrete notato che è da un po' che non ci sono terremoti in zona Cavezzo, né inondazioni dalle parti di Cavezzo; in compenso l'altro giorno è caduto un meteorite nella campagna di Cavezzo. Le possibilità di trovarlo erano abbastanza basse: e invece l'hanno trovato. È una pietra superficialmente molto nera, l'istituto astronomico ha detto che la chiamerà Cavezzo. Qualcosa del genere è probabilmente successo alla Mecca migliaia di anni fa.


– Il giorno dopo Matteo Salvini lascia detto che verrà a Modena, una città dove fin qui ha fatto un po' fatica a entrare. Andrà a prendere una birra in via Gallucci; gli scappa anche il nome della birreria ma forse non si era inteso bene con il suo impresario, qualcuno si era dimenticato di avvisare il gestore e forse nel nuovo cerchio magico manca un certo tipo di know how, sono bravissimi a pigolare su twitter ma non sanno come rapportarsi con gli esercenti modenesi, il che d'altronde non sorprende. La prima reazione del gestore in questione è infatti annunciare sui social: noi non facciamo politica, ma se viene Salvini siamo in ferie. Simpatég, eh? Il gestore, come chiunque non viva almeno tre ore al giorno sui social, sottovaluta il clima della campagna elettorale: dopo essere stato investito da commentatori ostili che minacciano il boicottaggio si ravvede, e alla fine Salvini ce la fa: entra nel locale, si fa un selfie con la birra in mano tra gli avventori – pochi, perché nel frattempo via Gallucci è stata blindata dalle forze di polizia, in stile corteo di Forza Nuova. Poi già che c'è entra anche in un altro pub, storicamente caro a me e a tutta la mia cerchia (ma ho smesso di bere il primo gennaio, quindi neanche posso boicottarlo): e anche qui selfie e sorrisoni coi gestori. Anche passando a Carpi del resto aveva fatto in modo di farsi trovare proprio davanti alle bancarelle della fiera del cioccolato.


– Il fatto che Salvini si faccia molto spesso inquadrare mentre mangia e beve ha fin qui generato più parodie che riflessioni (come qualsiasi altro fenomeno al mondo, sospetto, e questo malgrado sia più facile riflettere che scrivere battute divertenti). È un'intuizione che parte da lontano (anche Renzi veniva talvolta descritto come in preda a un'infantile bulimia) e si affina negli anni passati a fare campagna elettorale e poco altro. Senz'altro è un espediente efficace per ridurre la sua distanza col cittadino medio, ma è anche una conseguenza diretta del fatto che molto spesso la gente è già lì per bere e per mangiare, sennò Matteo Salvini neanche si scomoda. Poi certo, ogni tanto fa pure dei comizi, però in molti casi l'approccio di Salvini alla folla è parassitario: non è lui a radunarli, lui si fa trovare in un posto dove ci sono già, e siccome di solito sono lì per mangiare, Salvini deve mangiare. Nella maggior parte dei casi va tutto bene, al limite c'è da gestire qualche contestatore ma la maggior parte della folla è comunque contenta di trovarsi vicino a una celebrità, proprio come quando passa un calciatore o il tale che ha fatto un reality. A volte qualcosa va storto (a Modena, tipicamente) e allora o si molla l'osso, come a novembre, in cui si riparò fuori dal centro sardinizzato. Oppure si militarizza l'area, perché quel selfie col boccale in mano evidentemente è importante, chissà quanti voti pesa.

– Salvini le elezioni in Emilia-Romagna potrebbe anche vincerle. Lo dico, ovviamente, per dimostrarmi attento alla situazione e consapevole della distanza tra desideri e realtà: è il senso di ogni rituale scaramantico. Ma lo dico anche perché alla fine la possibilità c'è, e non ha a che vedere più di tanto con la fine del cosiddetto modello emiliano, che è in crisi già da anni, per motivi strutturali che sono gli stessi per cui è in crisi il modello padano, e l'Italia, e l'Europa il genere umano l'ecosistema. Salvini le elezioni in E-R potrebbe vincerle banalmente, perché ci tiene davvero, e non ha niente da fare tutto il giorno tranne battere la campagna, e soprattutto ci tengono i suoi fan, polarizzati e nervosi come non mai. Non è che siano la maggioranza (non in E-R, di certo), ma hanno una voglia di andare a votare che schizza da tutti i pori, mentre cinque anni fa il Pd di Bonaccini vinse con un'astensione altissima. Una tornata elettorale sui generis, in una stagione diversa dal solito, senza copertura sui media nazionali rischierebbe di premiare più le minoranze polarizzate che il famoso centro moderato. I salviniani hanno voglia di votare e sanno anche per chi voteranno; i grillini potrebbero davvero, quella domenica, svegliarsi depressi e restare in pigiama; le sardine sono state importanti da un punto di vista mediatico (sono state loro a comunicare al mondo che c'era un'elezione importante in arrivo), ma se da riempitori spontanei di piazze diventano testimonial di un partito preciso, rischiano di bruciarsi. Quanto agli elettori del PD, stanno semplicemente invecchiando. Salvini le elezioni in E-R potrebbe vincerle perché c'è gente che le perde da cinquant'anni e scalpita, e si venderebbe al diavolo purché fosse la volta buona. Dove "vendersi al diavolo" è una simpatica iperbole che temo non renda l'idea. Mettiamola così: è gente che pur di vincere voterebbe per Matteo Salvini.

– Il quale Salvini ormai non ha neanche nulla da promettere – nessuna promessa che non abbia già bruciato nei mesi di governo – toglierà le accise? uscirà dall'euro? chiuderà frontiere che peraltro non erano molto aperte neanche prima e non si sono aperte dopo? Nulla, non ha più nulla da promettere che non sia un altro anno fighissimo che passerà a spararsi selfie e streetfood. Berlusconi almeno era una figura aspirazionale, il milionario fatto da sé; Salvini è una figura tribale, un feticcio, nessuno spera di diventare come lui, è lui che si sforza di diventare come tutti noi. Mette le felpe, guarda i cantieri, mangia i panini, è un Checco Zalone senza ironia, il vicino di casa un po' scemo che mette allegria e anche quando la spara grossa sai che non lo fa per cattiveria, è il suo modo di reagire alle difficoltà, di tenersi a galla. Tutto questo non lo rende veramente un leader credibile, ma se per questo neanche Trump: evidentemente c'è gente disposta a credere a qualsiasi cosa, succede quando le prospettive sono molto brutte. Salvini a livello nazionale in realtà starebbe anche declinando: l'unico evento che potrebbe rimetterlo rapidamente in sella è una storica vittoria in Emilia-Romagna, e questo rende particolarmente surreali queste elezioni invernali – da una parte le forze del Caos, dall'altra Stefano Bonaccini. Che senso ha.

– Non ha nessun senso, io abolirei le regioni. Non si riesce a parlare di politica locale, non si riesce a valutare un'amministrazione, ci si riduce sempre a una specie di Risiko in cui l'importante è conservare o perdere un territorio. Come quella volta di Emilio Fede con le bandierine (quanto sono vecchio dio mio), o Renzi che diceva: dobbiamo vincere otto a due! e non era nemmeno più importante quali fossero le otto e quali le due, il Molise valeva quanto la Puglia, l'importante è il punteggio, la fatica che si fa a interpretare la realtà quando sei abituato per cultura e inclinazione a osservarla come un gioco, le cui regole arbitrarie diventano leggi fondamentali della natura e il Molise da bizzarria statistica si trasforma in ente reale, dotato di volontà politica e diritto a esprimere tot senatori. Salvini potrebbe vincere proprio perché se si tratta di giocare, non c'è avversario più temibile di un ragazzino con tanto tempo libero. Motivi per votare il centrosinistra: dal dopoguerra in poi ha espresso una classe dirigente che ha saputo amministrare il territorio, con alti e bassi, e inevitabili opacità e collusioni che è quello che succede quando per cinquant'anni nessuno ti scalza dalle posizioni di potere. Motivi per votare Salvini: stiamo arrivando! rrrrruspa! vi mandiamo a casa!

– Alcuni ne sono convinti. Ci sono intere categorie che si stanno radicalizzando, non credono nella fine dei tempi o nell'avvento del Califfato, ma nel secondo avvento di Matteo Salvini, con lui la piccola media impresa rifiorirà (pur restando piccola e media) e le partite Iva troveranno nel regno dei cieli un senso al loro lungo patire sulla terra. Non fosse un'elezione decisiva – l'ennesima elezione decisiva, l'ennesima ultima battaglia contro le forze del Caos – verrebbe voglia, davvero, di aprire la diga e amen, volete la bandierina? Tenete la bandierina. Giusto per offrirvi un'occasione in più per scoprire che non succede niente, nessuna diabolica coop rossa viene espulsa dal territorio, le strade rimangono storte e i fiumi non smettono di andare in piena. Che è successo a Parma quando ha vinto il centrodestra? Dopo un po' hanno dovuto commissariare il comune per banali questioni di tangenti, tutto qui. Che è successo a Bologna, a Ferrara? Le partite Iva stanno meglio? La camorra ha smesso di infiltrarsi? I nomadi hanno spostato il campo nomadi dall'altra parte di un canale di confine, il che qui da noi è molto spesso il modo in cui si risolve la terribile emergenza nomadi? Davvero, mi verrebbe da dire, mettiamoli alla prova, vediamo il loro bluff, dopo cinquant'anni sarebbe anche ora. Poi mi ricordo che se vincono stavolta casca il governo, l'Europa è a un bivio, il mondo fronteggia l'estinzione di massa. Nel frattempo mi arriva una notifica, a Cavezzo è caduto un meteorite. E quindi niente, andiamo avanti così. I salviniani d'Emilia e Romagna saranno pure ridicoli nella loro attesa messianica, ma prima o poi chi chiama l'apocalisse ci azzeccherà. Preferirei non essere io, ma
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Le canzoni dei Beatles (#155-146)

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Puntate precedenti: Le 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235)(#234-225)(#224-215)(#214-201)(#200-181)(#180-166) (#165-156)
La playlist su Spotify.

(Cinquant'anni fa i Beatles erano già abbastanza convinti di essere sciolti, anche se il pubblico non lo sapeva (ma sospettava). Cinquant'anni dopo continua la nostra carrellata con dieci pezzi di metà classifica abbastanza brevi che non potrebbero essere più diversi tra loro. C'è il manifesto del rock'n'roll e il canto del cigno del foxtrot; la prima traccia fantasma della storia della musica, e quello che poteva essere il primo vagito del funky (sommerso in una canzone sull'amore dei macachi). C'è la canzone che John Lennon odiava di più, tra quelle che aveva scritto John Lennon, ma anche una delle sue canzoni preferite (l'aveva scritta Smokey Robinson). C'è un passaggio dal maggiore al minore che avrebbe intrigato Sigmund Freud, e tante altre illuminazioni improvvise.



155. Rock and Roll Music (Chuck Berry; incisa in Beatles For Sale, 1964).



Dev'essere rock and roll, se vuoi ballarlo con me. Se Little Richard è il dio del r'n'r, Chuck Berry è il profeta; e come spesso capita ai profeti, ha più parole del necessario. Non ho veramente voglia di controllare, ma sospetto che il testo di una canzone media di Chuck Berry contenga quattro volte il numero di parole di una canzone media di Lennon e McCartney. Questo spiegherebbe in parte come mai i Beatles in tre dischi non avessero ancora inciso un suo pezzo: chi vuoi che si ricordasse tutto il testo a memoria? (Però Johnny B. Goode dal vivo la suonavano, e anche Memphis Carol). Per di più sono testi complicati, perché l'ex barbiere di Memphis aveva una passione per gli incastri di parole ricercate e per esempio in Rock and Roll fa rimare "jamboree" con "jubilee" (ma anche "modern jazz" con "too darn fast"). Più in generale: i Beatles cercano nel rock'n'roll l'energia pura, l'urlo primordiale, qualcosa che è molto più facile ritrovare in Little Richard o persino in Larry Williams. Chuck Berry è tutta un'altra idea di rock and roll, meno lirica e più narrativa. Dopodiché è pur sempre r'n'r, il meglio che puoi registrare in mancanza di meglio, e così il 18 ottobre del 1964, durante una sessione fiume di dieci ore, dedicarono una manciata di minuti a Rock and Roll Music. Lennon la canta alla Lennon, cioè senza risparmio di corde vocali: ed è l'unica sostanziale differenza tra la versione beatle e quella originale. Al piano c'è un personaggio misterioso: nelle note del disco Derek Taylor sosteneva che fosse suonato a sei mani da John, Paul e George Martin, un'idea divertente che nella realtà avrebbe portato a un risultato mostruoso (se non è un modo garbato per suggerire che Martin abbia sovrainciso la traccia). Secondo Geoff Emerick era Paul McCartney, mentre George suonava il basso. È triste dover diffidare di Emerick, ma è anche difficile pensare che Paul nel 1964 si trovasse già tanto a suo agio con un pianoforte.



154. Honey Pie (Lennon/McCartney, The Beatles, 1968).

"I like this hot kind of music..." I Beatles sono il Titanic, il Disco Bianco è l'iceberg, Paul è il cantante dell'orchestrina. È come se alla fine di una festa non riuscita, nello scazzo generale, me lo vedessi arrivare bello lucido nella sua paglietta anni Dieci tirata fuori dall'armadio dei travestimenti e pronto a intrattenere un pubblico che non gli ha chiesto niente. O di sicuro non gli ha chiesto Honey Pie. Non vien voglia di afferrare con due mani quella paglietta e sfondargliela sulla testa, non vedi che stiamo per affogare, ti sembra il momento? Sei un Beatle, non un pagliaccio. O credevi che le due cose potessero stare assieme? maledizione, no.
Vedi come almeno per me è impossibile ascoltare le canzoni dei Beatles come se fossero semplicemente canzoni e non sequenze di una storia che procede verso la tragedia. Honey Pie in sé alla fine non ha nulla che non vada. Può anche darsi che Paul scrivendola stesse intercettando un certo spirito dei tempi, quel gusto per il vintage che era nato un paio d'anni prima tra Portobello e Carnaby Street. Riflettendoci, tutto il concetto di Sgt Pepper, l'idea carnevalesca di travestirsi da genitori di sé stessi (in un mondo parallelo e colorato in cui non è mai scoppiata la guerra) era venuta a Paul nel 1967: lo stesso anno in cui la Nuova Hollywood faceva le prove generali, e le faceva tuffandosi nel vintage con Bonnie and Clyde. Insomma se calata in un contesto preciso, l'ossessione rétro di McCartney ha anche un senso commerciale: non era soltanto lui a guardare indietro, c'era c'era una nuova sensibilità per questo tipo di cose. C'era mercato per un'idea del passato ormai depurata dalla nostalgia, ridotta uno sfondo fantastico, depurata dal rimosso conflitto mondiale. Honey Pie potrebbe davvero quel tipo di canzone che negli anni Settanta sbucava da un film in costume con Paul Newman o Robert Redford, e se fosse così probabilmente l'ascolterei con piacere, ah ah, vecchio Paul, sei così avanti anche quando guardi indietro. Persino se l'avessero incisa gli stessi Beatles, ma magari in Sgt Pepper's, al posto di When I'm 64 – non avrei nulla da eccepire, davvero, mi sta simpatica When I'm 64.

Ma il contesto è tutto. Quando provava When I'm 64 con la banda Paul stava ancora sperimentando, cercando di capire fino a che punto si poteva spingere. Con Honey Pie non sperimenta più, sta controllando il territorio. È come se stesse piantando una bandierina, una cosa puerile anche quando la fanno i generali: John fa la musica concreta? Io faccio foxtrot, toh. È l'annuncio della fine dei Beatles, che anche quando suonavano male suonavano come i Beatles, mentre in Honey Pie suonano... professionali. È il momento in cui la maschera diventa più importante del personaggio, il che forse consente a John di rilassarsi e incidere il suo migliore assolo di chitarra – per poi magari chiedersi: ma io voglio davvero diventare un turnista di Paul? Finché non ne troverà uno migliore? E senz'altro prima o poi lo avrebbe trovato.



153. Tell Me Why (Lennon/McCartney, A Hard Day's Night, 1964).



"C'era bisogno di un'altra canzone, così l'ho scritta". Perché piangi? Perché mi dici le bugie? A Hard Day's Night è un giorno vissuto talmente di corsa che è diventato notte in un istante. La Beatlemania gira così veloce che non c'è letteralmente tempo di capire cosa si sta scrivendo – tanto alla fine funziona tutto. Tanta è la fretta che in Tell Me Why i Beatles a momenti si dimenticano del bridge, che arriva in coda dopo due strofe quando ormai non lo aspettava nessuno, come l'ultimo a salire su un treno in corsa. È una canzone arrabbiata? È una canzone frustrata ? Probabilmente sì, nelle intenzioni, ma Lennon non ha ancora capito come si comunichino rabbia e frustrazione: la progressione è una cavalcata persino più rapida del solito, John si mette in bocca frasi come "Tutto quello che posso fare è tenermi la testa e mugugnare" ma le canta sbarazzino come se stesse invitando una ragazza a ballare. È chiaro che non vuole essere né allegro né lamentoso – non stavolta almeno – è chiaro che sta cercando da qualche parte un colore che sulla sua tavolozza ancora non c'è: il colore della rabbia. Ma è anche abbastanza chiaro che stavolta non lo trova, e finisce per consegnare ai solchi l'ennesimo numero yeah-yeah, in cui i tormenti del fidanzato offeso (è qualcosa che ho fatto o che ho detto? dimmi cos'è e mi scuso subito!) hanno le stesse movenze ipercinetiche delle cerimonie del corteggiamento. Un brano che poteva benissimo finire sul disco più festaiolo dei Beach Boys senza che nessuno facesse caso alla sostanza rancorosa del testo – del resto chi li ascoltava i testi nel 1964? persino John non aveva ancora iniziato ad ascoltare sé stesso.



152. You Really Got a Hold On Me (Smokey Robinson, incisa in With the Beatles, 1964).



Tu hai veramente presa su di me. Quando la intona Lennon, a inizio 1969, durante una delle session filmate del progetto Get Back!, sono passati appena cinque anni – a noi che guardiamo sembrano venti. I Beatles hanno smesso da così tanto tempo di essere la boy-band che setaccia i dischi di Smokey Robinson alla ricerca di pezzi da copiare, che sembra incredibile che Harrison e McCartney si ricordino ancora di questa vecchia canzone, che seguano Lennon al volo. Purtroppo la Apple Corps ha appena bloccato il video su Youtube, ma è un momento commovente – si vede dalle espressioni dei volti che You Really Got a Hold era stata importante per loro, forse in qualche misterioso modo che non sappiamo e a questo punto non sapremo mai. Da quel tumultuoso 1964 i Beatles si sono reinventati più e più volte, hanno cambiato faccia e strumenti e attraversato vittoriosi la psichedelia e il vaudeville. Ora sono veri musicisti, e anche compositori, e profeti: ma la gioia di cantare Smokey Robinson – senza copiarlo, per una volta, ma di riprenderlo e riuscire a farlo suonare più fresco dell'originale – quella l'hanno dovuta perdere per strada, quella non torna più. (Molti anni dopo George Harrison citerà di nuovo il titolo in Fab).

(Questo mi è riuscito un po' corto? No, sono gli altri che stanno diventando troppo lunghi, finirò lo spazio così. Si può finire lo spazio sul Post? Non vorrei essere il primo che lo scopre. Finirà che i primi venti pezzi me li sbrigo in tre righe, vi immaginate? Questa è Yesterday, bella melodia, un tizio sostiene che è copiata da una romanza napoletana, lo stesso McCartney la notte si strugge ancora chiedendosi dov'era quando l'ha ascoltata, e se c'è un modo di tornarci. Ecc.).



(Seguono 4000 battute su un pezzo di 50 secondi):

151. Her Majesty (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).



Sua Maesta è una davvero una bella ragazza, ma non ha poi molto da dire. Qualche mese fa, in occasione del Cinquantesimo Anniversario, è uscita la tanto attesa versione deluxe di Abbey Road (dove "deluxe" ormai è un modo di dire: dopo qualche giorno era già accessibile anche ai poveri mortali su Spotify). Finalmente abbiamo potuto ascoltare Her Majesty dov'era previsto che fosse fino a pochi minuti dal taglio finale, ovvero nel bel mezzo del Famoso Medley del Secondo Lato, tra i due numeri in assoluto più lennoniani del carosello: Mean Mr Mustard e Polythene Pam. Finalmente abbiamo potuto verificare un'antica intuizione, vale a dire che il vero merito acquisito da Paul McCartney con Her Majesty non era stato tanto nel comporla (probabilmente non ci aveva messo più di cinque minuti), ma nel tagliarla via di netto, zac! ottenendo con un'opera di pura sottrazione una delle svolte più intense di tutto il disco. Non ci si può impedire di pensare: ah, se soltanto Paul avesse imparato a censurarsi un po' prima. Certo, eliminando l'unico scarso minuto mcartneyano nel blocco lennoniano si sacrificava una delle ultime illusioni di coesione, ma a quel punto, davvero, chi aveva più bisogno di illusioni?



Col taglio si sacrificava anche quell'abbozzo di un minuto scarso che Paul non aveva mai realmente desiderato trasformare in una canzone. È dal Disco Bianco che Paul sta esplorando l'estetica del non-finito: certe idee ha smesso di svilupparle, preferisce lasciarle a un livello embrionale, e magari al limite montarle assieme in composizioni patchwork: un trucco che quando funziona può contribuire al miracolo di A Day in the Life, ma quando non funziona (e Paul è il primo ad ammettere che non sempre funziona) può portare all'incisione di strani scarti, oggetti enigmatici come Wild Honey Pie Why Don't We Do It in the Road. Canzoni bonsai, le chiama Alan W. Pollack: minuscole, autosufficienti e (aggiungo io) abbastanza inspiegabili: a cosa serve una canzone che dura meno di un minuto? (È buffo perché io faccio parte dell'unica generazione che avrebbe in effetti saputo dare una risposta a questa abbastanza assurda domanda: l'unica a trovare un senso pratico e circoscritto alle canzoni minuscole: erano quelle che si mettevano alla fine di un nastro per non sprecare nemmeno un minuto di vuoto. Esistevano dei veri e propri repertori, alcuni sono finiti anche on line). Ma bisogna ammettere che rispetto agli antecedenti del Disco Bianco, Her Majesty è davvero autocompiuta: probabilmente se avesse deciso di lavorarci Paul avrebbe potuto trasformarlo in un altro bozzetto in costume, ma la verità è che siamo abbastanza felici che non ne abbia avuto voglia, anzi, viene il sospetto che avrebbe fatto meglio a lasciare allo stadio larvale anche cose come Obladì o Silver Hammer. Come una foto rubata a una ragazza, uno sguardo che per puro caso funziona meglio di centinaia pose provate prima o dopo.

Dopo aver risalito ormai un centinaio di canzoni del repertorio beatle, credo che si tratti della prima volta in cui ci capita di parlare del Famoso Medley di Abbey Road, che è del resto il trionfo di questa tecnica compositiva "per incastro" che McCartney avrebbe conservato anche dopo la fine del suo sodalizio con Lennon. Ne parliamo per la prima volta incontrando l'unico pezzo che Paul decise di scartare – non abbastanza da eliminarlo dal disco, anzi: sappiamo che un tecnico del suono non sapendo dove buttarlo lo appiccicò al termine della bobina. Sappiamo che riascoltandola Paul rimase stupito dall'effetto straniante di questa sua canzoncina in solitario, che riemergeva all'improvviso dal silenzio ancora echeggiante dell'ultimo accordo di The End, e decise che avrebbe condiviso questa sorpresa con tutti noi, lasciando lo scarto alla fine del vinile e facendo di Her Majesty la prima ghost track della Storia. In un momento in cui lo scioglimento era ormai una prospettiva concreta, qualcosa che The End poteva in qualche modo rendere ufficiale, mentre Her Majesty sembra voler avere una funzione sdrammatizzante: niente paura, nulla finisce mai davvero, e io sono qui ancora con la mia chitarra e le mie canzoncine (dice Paul) (sì, ma è da solo mentre lo dice) (e poi all'improvviso anche lui scompare, un istante prima che la canzone finisca davvero, un silenzio ora davvero completo e spaventoso come quello che subentrava al fruscio, al termine di una cassetta).



150. I'll Be Back (Lennon-McCartney, A Hard Day's Night, 1964)
Try to realize it's all within yourself,
no-one else can make you change
 

"[Il bambino,] tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante,
anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto..." (S. FREUD, Al di là del principio di piacere, 1920.

A proposito di finali inattesi: I'll Be Back non doveva essere l'ultimo solco di A Hard Day's Night. Lo spazio per un brano in più (il quattordicesimo) c'era, e considerati i dischi precedenti sappiamo più o meno che brano avrebbe dovuto essere: il classico finale col botto, quel tipo di cover breve ma travolgente che era anche il modo con cui i Quattro si congedavano nei set dal vivo. Nel primo disco era Twist and Shout, nel secondo Money: nel terzo il più probabile candidato sarebbe stato Long Tall Sally – sennonché a un certo punto si decise di farne a meno e non è neanche così importante capire chi davvero fece la proposta e chi l'accettò, insomma chi stava dirigendo i lavori nel 1964 (George Martin? Brian Epstein? John e Paul?): quel che importa è che si trattò di una ragione più estetica che commerciale. A Hard Day's Night avrebbe contenuto solo materiale originale, 100% Lennon-McCartney: una prova di forza che però richiedeva un prezzo. Long Tall Sally fu destinata a un Extended Play, insieme ad altre pregevoli cover, e l'album più compatto e travolgente dei Beatles fino a quel momento uscì senza il botto finale, perché malgrado la loro provata versatilità, brani del genere non avevano ancora provato a scriverli (succederà pochi mesi dopo con I'm Down). Al termine di una cavalcata gloriosa, con poche e memorabili soste, i Quattro si congedano all'improvviso con un brano vagamente sinistro, dalla costruzione coraggiosa, per non dire già sperimentale (cinque strofe e tre bridge, di cui uno diverso dagli altri due, in posizione centrale: un riff ancora semplicissimo e persino più ipnotico di And I Love Her.

Da un punto di vista musicale I'll Be Back è una riflessione ingenua e potente su uno dei misteri più universali della musica: la differenza tra accordo in minore e accordo in maggiore. Il modo in cui basta spostare un dito di pochi millimetri sulla tastiera, o sul manico di uno strumento a corda, per cambiare un intervallo di terza e portare la tristezza dove c'era l'allegria, o viceversa. Quel miracolo che succede tutti i giorni miliardi di volte senza che nessuno abbia più tempo o coraggio per esplorarlo, se non i bambini nella primissima fase di apprendistato, o i Beatles che anche dopo qualche milione di dischi venduti continuavano a giocare con gli strumenti come i bambini con l'interruttore: accendi la luce (accordo in maggiore): serenità, spegni la luce (accordo in minore), tristezza. A questo punto Freud comincerebbe a sospettare qualcosa (il bambino sta mettendo in scena una scomparsa? ha paura che un genitore non torni più? a proposito, ha ancora entrambi i genitori?) Neanche a farlo apposta, il brano comincia proprio mettendo in scena una sparizione e una ricomparsa, come il nipotino del Dottore: "if you break my heart I'll go", minore – "but I'll be back again", maggiore. Il seguito ovviamente annacqua la suggestione iniziale: non è più il bambino orfano a parlare, ma un giovane adulto restio a usare l'unica arma deterrente che gli è rimasta in quella schermaglia che è il rapporto di coppia: l'allontanamento volontario. Se continui a spezzarmi il cuore me ne vado (accordo in minore); sì vabbe' tanto poi torno (accordo in maggiore). Non si fatica a immaginare la perplessità dell'interlocutrice: questo ragazzo non ha neanche bisogno di me per litigare, sta facendo tutto da solo. I want to go, but I hate to leave you...



149. Please Mister Postman (Dobbin/Garrett/Gorman/Holland/Bateman, incisa in With the Beatles, 1963).



Per favore signor postino, controlli meglio, se c'è una lettera nel suo sacco per me. Certe canzoni hanno un picco, non saprei come definirlo meglio, un singolo momento che vale la pena di aspettare per tutta la canzone: in questo caso il momento in cui John non riesce più a tenersi e strattona il povero postino con una richiesta ridicola e struggente: "Deliver the letter! The sooner the better!" I Beatles del '63 stanno alla posta cartacea come gli artisti trap del '19 stanno a Instagram. È semplicemente il loro mondo, l'universo che si è creato spontaneamente tra loro e i fan, quelle ragazzine che sulle buste lasciavano messaggi anche ai postini, inviti a sbrigarsi a consegnare i loro messaggi ai Beatles (che ricambiavano scrivendo canzoni in forma epistolare). Magari basta questo a spiegare il perché una canzone allegra e tutto sommato abbastanza sciocchina della filiera Motown (Please Mr Postman ha quattro accordi e cinque autori ufficiali), ripresa dall'altra parte dell'oceano sembra diventata non dico una canzone seria, ma in un qualche modo credibile. Malgrado quel martellante e garrulo giro di Do che nessuno tranne Lennon avrebbe mai cercato di usare per comunicare un genuino senso di ansia, malgrado i coristi sembrano più divertiti che preoccupati – ma comunque simpatetici (la vera svolta di queste cover è la minore distanza tra voce solista e coro, quel nuovo senso di complicità che può trasformare un brano commerciale in un inno generazionale). Malgrado tutto perdere una lettera, all'inizio degli anni Sessanta, tra Liverpool e Amburgo, non è affatto uno scherzo: non c'è poi così tanto da riderci sopra. E insomma fermati postino, guardaci meglio, posso sembrarti un teenager piagnone ma ho diritto all'espressione delle mie emozioni – nonché a un servizio puntuale.



148. Flying (Lennon-McCartney-Harrison-Starkey, Magical Mystery Tour, 1967)

"Se ora guardate a sinistra, signori e signora, il panorama non è molto suggestivo. Ma se guardate a destra..."



Magical Mistery Tour è l'oggetto più sfuggente di tutta la discografia dei Quattro. Del resto dipende tutto da cosa vuoi e non vuoi vedere: da che parte ti volti. Se decidi di considerarlo un album (di solito la versione LP uscita negli USA per la Capital), non fatichi a considerarlo un capolavoro, non di molto inferiore al tanto decantato Sgt Pepper uscito pochi mesi prima. Se invece lo consideri un film, o almeno un prodotto audiovisivo, hai davanti l'unico vero fallimento artistico della loro carriera. Già. Ma d'altro canto i Beatles erano soprattutto musicisti, no? E anzi da questo punto di vista Magical Mystery Tour rappresenta il definitivo rigetto della cultura cinematografica, il loro modo (abbastanza involuto) di dire al pubblico e all'industria: grazie tante, ma questa cosa tutto sommato non ci interessa. La sbrighiamo per obbligo contrattuale, non ci perdiamo più tempo di tanto, se il risultato sembra il super8 di una gita aziendale tanto peggio, ci scusiamo coi telespettatori e andiamo avanti (McCartney davvero si scusò, evento rarissimo ai tempi). L'importante è la musica, e la musica non è buona? Sì, in molti casi è eccezionale, ma non è esattamente il caso di Flying, che è poco più di una jam session e ha il grosso torto di ricordare all'ascoltatore proprio l'origine cinematografica dell'operazione – davvero: puoi ascoltare The Fool On the Hill o persino Blue Jay Way senza mai farti venire in mente quel brutto tentativo di film, ma Flying ti riporta a terra (che ironia): cioè davvero questi credevano di poter improvvisare una cosa come una colonna sonora? Davvero pensavano che fosse il momento giusto per pubblicare una jam session e di attribuirla a tutti e quattro i componenti del quartetto? Più che un gesto generoso, sembra uno scarico di responsabilità. Un sintomo della stessa incoscienza che li aveva portati in giro per la campagna in pullman a girare un film senza una riga di sceneggiatura.

Anche nell'economia del film Flying rappresenta uno dei momenti più critici: nell'idea iniziale doveva rappresentare l'irruzione del sogno, del meraviglioso, sul "fianco destro" del pullman. Poteva essere il momento cruciale, il passaggio dall'estetica crepuscolare della campagna inglese a quella psichedelica che avrebbe cambiato il mondo in quell'ormai imminente anno 1968. Dai Kinks di Village Green ai Pink Floyd di The Piper at the Gates of Dawn in un battito di ciglia: chi se non i Beatles avrebbero potuto riuscirci? E invece i Beatles, che fino a quel momento si erano accreditati come artigiani del meraviglioso, decidono in questo caso di sprecarsi il meno possibile e usare per l'occasione un po' di materiale di scarto di 2001 Odissea nello Spazio. Oddio: chi, avendone l'occasione, non impreziosirebbe i propri filmini delle vacanze con un po' di fotogrammi inediti di Stanley Kubrick, peraltro coloratissimi? Il film però andò in onda sul primo canale della BBC, che in quel 26 dicembre 1967 trasmetteva in bianco e nero. Quello che videro davvero i telespettatori erano poco più che riprese fosche e inquietanti di una piana desertica. Nulla di così "inspiring", e anche la musica non sembrava quella delle grandi occasioni. Flying dovrebbe esprimere la gioia del volo, ma per un altro caso di ironia involontaria, sceglie di affidarsi a una scala discendente, suonata sì sullo strumento più sofisticato in circolazione (il maledetto mellotron) ma montata sulla struttura meno fantasiosa a disposizione dei Quattro: il blues in dodici battute. Questo non rende Flying un brano così orribile dopotutto: alla fine nel suo piccolo fa davvero tutto quel che dovrebbe fare un breve brano all'interno di una colonna sonora: accarezza l'orecchio senza farsi troppo sentire, senza rubare l'attenzione all'occhio. Andrebbe tutto bene se il film in questione non fosse Magical Mystery Tour, e se l'occhio non stesse implorando pietà.



147. Why Don't We Do It In the Road? (Lennon-McCartney, The Beatles, 1967).

"Perché non lo facciamo per strada? Nessuno ci starebbe a guardare". Ok, Paul, che stai dicendo, aspetta. È chiaro che tutti si metterebbero a guardare, se lo facessimo per strada. Si fermerebbero a guardare anche se tu non fossi il grande McCartney, garantisco, dalle nostre parti in effetti per una serie di questioni sociologiche la gente a volte lo fa davvero per strada, blindandosi comunque dentro compatte autovetture, scegliendo non a caso le provinciali meno asfaltate e malgrado questo, malgrado questo, una volta su tre incappando in ciclisti guardoni: è più forte di loro. Ok Paul, sei stato in India, e un giorno sul tetto di un ashram hai visto due macachi copulare, rapidi e spudorati, chissà che epifania, bisogna dire che scene come in tv ai tempi il National Geographic non le trasmetteva. Va bene, ma ci sarà anche un motivo se i macachi sono rimasti sugli alberi mentre gli homo sapiens sapiens hanno inventato la fotografia e più tardi il cinema e ancora più tardi internet – sembra proprio che gli piaccia guardare. Ancor più che copulare, che ammettiamolo: dopo una certa età è uno sbattimento imbarazzante.

oi in realtà ci stiamo spulciando, cioè non dovete necessariamente pensare subito a quella cosa. D'altronde, siete umani.

Vabbe', divago perché sono indietro con la scaletta, ma quello che all'inizio volevo dire è che Why Don't We Do It In the Road è il brano più hippy che i Beatles abbiano mai scritto – posto che abbia ancora senso la parola "scrivere" per un un riff che è il grado zero del blues, e per un testo che consiste nell'invito a farlo per strada "tanto nessuno ci guarda": due righe, una sciocchezza che poteva suonare meno ridicola giusto fino a quella metà del 1968, il tempo di tornare dall'India ancora un po' intontiti, buttarsi nell'imprenditoria e arrivare a un passo dal fallimento. Quel senso di utopia a buon mercato che è la cosa che è invecchiata più in fretta degli anni Sessanta – cominciava a puzzare di muffa e ridicolo già verso dicembre, e si è tramandata ai giorni nostri soltanto attraverso le caricature che circolavano sin da allora (Frank Zappa aveva iniziato a prendere in giro Why Don't We Do It prima ancora di ascoltarla). Per capire Why Don't We Do It dobbiamo invece accettare che non è una caricatura: che Paul in quel minuto ci sta credendo davvero. Viviamo nell'attesa degli ultimi tempi, tra un po' si farà sesso per strada senza che nessuno si fermi a guardare, e anche le canzoni non ci sarà più bisogno di arrangiarle così tanto, diventeranno raga semplicissimi e universali: da questo punto di vista Why Don't We Do It è un altra di quelle canzoni che parlano di sé stesse, è una session breve di due musicisti (Paul e Ringo) che sanno cosa devono fare e lo fanno grezzo e rapido, senza vergogna, un coito tra macachi mentre George e John finivano di registrare qualcos'altro. Questo forse ci consente di capire la reazione di Lennon quando li scoprì, e invece di scrollare le spalle rimase offeso: ma come, combinate una sveltina del genere e non mi chiamate?

Tra tante promesse dei Beatles che il mondo ha deluso Why Don't We Do It è una delle più involute e difficili da comprendere oggi – viviamo davvero in tempi diversi, oggi l'idea che nessuno si fermi a guardarti se decidi di fare sesso per strada è praticamente offensiva, ma come? neanche un like, una condivisione, un cuoricino? noi qui a sbatterci e voi neanche vi voltate? L'unico motivo per cui si ascolta ancora volentieri non ha niente a che vedere con la liberazione sessuale, ma con un tema assai più fondamentale per il destino dell'umanità: il funky. Ovvero, proprio quel giorno, mentre jammava a tempo perso con Paul sul fondamentale argomento del sesso dei macachi, Ringo se ne salta fuori con due o tre rullate che sono francamente funky (ascoltatele ad esempio da 1:25). Sicuramente più funky di quanto avesse mai suonato fino a quel momento. E va be', direte voi, in fondo il funky col sesso ci sta abbastanza bene, no? Indubbiamente, ma il punto è che nella primavera del '68 le rullate funky, quelle classiche che avete sentito campionate ovunque, ancora non esistevano. L'Amen break, per dirne una, è del 1969 (cos'è l'Amen break? È il ritmo che aveva il vostro cuore se andavate a ballare negli anni '90). Quanto a Funky Drummer, e direi che siamo tutti d'accordo che il calendario astrale dell'Hip Hop si calcola a partire dal quinto minuto di Funky Drummer, addirittura è del 1970! Insomma, l'Hip Hop stava quasi per cominciare nel 1968, (anno 2 avanti James Brown) agli Abbey Road Studios, se solo qualcuno avesse fatto un po' più di attenzione alle rullate di Ringo. Davvero, se per un attimo Paul avesse smesso di calpestare il pianoforte e urlare eufemismi sconci, i Beatles avrebbero potuto produrre il primo break campionabile al mondo. Ma non era, come dire, la priorità. La priorità era inneggiare al libero amore dei primati. Buon 1968.





146. It's Only Love (Lennon-McCartney, Help!, 1965)

È vero che io e te dobbiamo combattere? Ogni notte? It's Only Love ha il curioso primato di essere la canzone di John Lennon più detestata dallo stesso John Lennon. O meglio: diciamo che John Lennon – che nelle interviste degli anni '70 amava sparare a zero sulle canzoni di Paul, sulle sue, sui Beatles in generale, e su chiunque si azzardasse a parlare male dei Beatles tranne lui – ha espresso più volte il suo odio per It's Only Love che per qualsiasi altra canzone. Perché? Cos'ha di davvero odioso questo pezzo riempitivo ma tutt'altro che fastidioso, ricamato con una certa eleganza su una progressione armonica anche abbastanza originale (che tra l'altro è una specie di esperimento preparatorio di Being For the Benefit of Mr Kite)?

Sono il premio Nobel Eugenio Montale e non ho la minima idea del motivo per cui illustro questo pezzo, a me i Beatles probabilmente non piacevano

Gli esegeti hanno notato che di solito l'odio di John si concentrava sui contenuti: un altro brano del 1965 che non sopportava è Run For Your Life, uno schizzo di maschilismo che comprensibilmente doveva imbarazzarlo. Anche le parole di It's Only Love accennano vagamente a una crisi di coppia, ma quello che le rende più facilmente fastidiose è la loro banalità. Sono sempre le solite parole che stavano bene in ogni testo e che ormai a furia di rimontare hanno perso anche quel poco del loro significato originale. Insomma la mia ipotesi è che l'insofferenza di Lennon per It's Only Love non scaturisca, per una volta, da una questione esistenziale, ma sia il segno di un'insoddisfazione estetica: John non ce la fa più a scrivere i soliti riempitivi dei dischi dei Beatles, i costumi di scena cominciano a stargli stretti. Non riesce più a prendersi sul serio mentre canta le solite rime: è un passo dall'autoparodia quando infila negli stessi versi tutte le vocali più aperte che riesce a trovare (I get HIGH when I see you go BY, MY oh MY! When you SIGH MY-MY inSIDE just FLIES, butterFLIES), quando pronunciando un "bright" si lascia scappare una R squillante, quasi italiana.

Le rime, spiegava il vecchio Montale, "sono più noiose delle Dame di San Vincenzo: battono alla porta e insistono. Respingerle è impossibile". Il "poeta decente" ci prova a tenerle fuori, ma niente da fare: "le pinzochere ardono di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde) bussano ancora: e sono sempre quelle". Dopo tre anni di dischi, Lennon una canzone come It's Only Love poteva scriverla ad occhi chiusi e forse a questo punto la cosa cominciava a diventare un problema: non riuscire a chiudere gli occhi senza essere disturbato dal bussare di una vecchia rima, un vecchio riff, un vecchio giro di accordi. Poi dice che uno si droga. Bob Dylan, quando ascoltò il primo verso "I get high when I see you go by", ritenne di aver captato un verso in codice: "I get high", finalmente i Beatles avevano cominciato a farsi seriamente. Ma probabilmente It's Only Love parla di droga così come parla di rapporti di coppia, come di qualsiasi altra cosa: è solo un mucchio di frasi e Lennon cominciava a essere stanco di stare alla catena a montarle in base al suono. Non è che fosse in crisi di ispirazione, o meglio: era in quel tipo di crisi che ti porta a scrivere Ticket to Ride o Norwegian Wood. C'era ancora della musica fantastica da scoprire e riportare alla luce – ma quella vecchia non se ne andava: continuava a farsi viva coi suoi ritornelli chiocci, con le sue frasi fatte.
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Entrando nel suo terzo decennio (questo blog)

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[A volte di notte mi viene l'angoscia che forse non esisto, e allora vado a controllare certi vecchi pezzi che ho scritto e MADO' SCRIVEVO VERAMENTE DI MERDA.

Per fortuna, mi dico, che poi sono migliorato, e allora vado a vedere gli ultimi pezzi che ho scritto e NO NO GUARDA STO CONTINUANDO A SCRIVERE DI MERDA.

Ma magari non esisto davvero, dai; e su questa nota di speranza mi addormento].
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La vocazione (maggioritaria) all'autodistruzione

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Sarà una coincidenza? Proprio nella settimana in cui abbiamo salutato la nascita di un nuovo movimento di opinione (le “sardine”), i dirigenti del PD hanno deciso di aprire un dialogo con la Lega sulla prossima legge elettorale. I leghisti la vorrebbero più maggioritaria e anche Zingaretti sembra d’accordo, in vista di un auspicato ritorno al bipolarismo. Del resto il M5S continua a scendere nei sondaggi, Forza Italia sembra in fase terminale, Renzi e Calenda dovrebbero contendersi un bacino di elettori abbastanza ininfluente, per cui, insomma, il futuro dovrebbe essere una sfida a due, ed è chiaro che i due vorrebbero essere PD e Lega. Non è scritto nel destino, ma potrebbe diventarlo con la legge giusta: il maggioritario. E proprio nei giorni in cui Zingaretti decide di pronunciarsi sull’argomento, le piazze emiliane suonano un colpo e cominciano a riempirsi di gente che nessuno aveva previsto o calcolato.

Si chiamano sardine, vabbe’, e da dove vengono? Un po’ da ovunque. Alcune affiorano per la prima volta nello specchio della politica, altre hanno perso la voglia di votare tanti anni fa, altre ancora si sono appena disamorati del movimento che fu di Beppe Grillo (e non hanno nessuna intenzione di ammetterlo). Che cosa vogliono? Tante cose vagamente “di sinistra”: ecologia, solidarietà, antirazzismo, tanti temi difficili da sintetizzare in uno slogan o un programma. Anzi no, non è così difficile: non ne possono più di Salvini e del suo sovranismo razzista e cialtrone. Visto: alla fine serve poco per mettersi d’accordo. Basta individuare un nemico, e Salvini sembra non chiedere di meglio.

Va bene, ma per chi voteranno? Ecco. Senz’altro non Salvini, e molto difficilmente le altre formazioni di centrodestra ormai satellitari alla Lega. Ma da qui a mettere tutti una croce sullo stemma del PD ce ne passa: soprattutto in Emilia-Romagna, dove il PD è considerato il partito dello status quo, e in alcune città governa senza soluzioni di continuità dalla fine della seconda guerra mondiale (pur con nomi diversi, e una classe dirigente ormai completamente diversa per mentalità e cultura). No, non è possibile pretendere che tutte le sardine votino per il PD di Bonaccini – finché c’è ancora un sistema ragionevolmente proporzionale...


...Ma con un buon maggioritario, ecco, alle sardine e agli altri pesci non resterebbe altra scelta: o padella o brace.

La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno brutti e cattivi di Salvini: non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come Salvini, pur di far piazza pulita dei nemici ‘interni’ del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il PD resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo forse non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati, e proprio in un momento in cui l’emergenza climatica richiederebbe misure sempre più drastiche e impopolari.

Ma anche in caso di completa catastrofe politica e ambientale dirigenti del PD potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, ecc.: di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza.

Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema che è antico quanto il PD (2007), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del PD, al punto che viene da domandarsi se non sia il destino del PD: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.




È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo finalmente alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”... (continua su TheVision), il tratto che nel 2007 doveva distinguere il nuovo partito dai vecchi che lo avevano tenuto a battesimo, DS e Margherita. L’insofferenza nei confronti dei piccoli partiti nasceva dalla situazione contingente: nel 2006 l’Unione di Prodi aveva ottenuto una risicatissima vittoria elettorale contro il centrodestra di Berlusconi. Ne era nato un governo, il Prodi II, che navigava a vista, sostenuto da una litigiosa coalizione che includeva dieci partiti, alcuni molto pittoreschi e in perenne competizione tra loro (memorabili le risse tra Di Pietro e Mastella, entrambi segretari di mini-partiti personali). Nel fondare il nuovo partito, Veltroni spiegò chiaramente che avrebbe messo fine a quel caos. Il suo obiettivo era conquistare la maggioranza degli italiani: e dal momento che la maggioranza degli italiani non sembrava già allora così ansiosa di lasciarsi conquistare da una proposta di centrosinistra (seppure molto annacquata), Veltroni prevedeva già al tempo qualche correzione della legge elettorale “in senso maggioritario”.

Nel frattempo la nascita del nuovo soggetto politico perturbava i fragilissimi equilibri del governo Prodi II, causando una crisi di governo e un’elezione anticipata a cui il PD veltroniano decise di presentarsi senza alleati a sinistra. Il risultato non fu una semplice sconfitta, ma un doppio disastro: il centrodestra di Berlusconi vinse con una larghissima maggioranza, malgrado i tredici milioni di voti raccolti dal PD (un record mai più eguagliato: ma l’Unione di Prodi nel 2006 ne aveva raccolti ben diciannove). I dirigenti del PD potevano però festeggiare di aver fatto scomparire dal parlamento i piccoli partiti d’ispirazione comunista e ambientalista. Una consolazione che già allora appariva piuttosto magra, ma il peggio doveva ancora venire.

Di lì a poco ci saremmo accorti che non bastava eliminare la sinistra antagonista dal parlamento per convincere tutti i suoi elettori a convergere sul PD. Nel 2007 Beppe Grillo aveva già dimostrato di poter riempire le piazze con un programma politico che per il momento si riassumeva in Vaffanculo (anche in quel caso, come per Sardine di 12 anni dopo, Bologna fu l’incubatrice). Il 2008 fu invece lanno dellOnda, forse il movimento studentesco più partecipato degli ultimi vent’anni. Mentre nel 2009 ad autoradunarsi nelle piazze fu il Popolo Viola, oggi dimenticato ma concettualmente non troppo distante dai toni e dalle posizioni delle Sardine di oggi, benché al tempo il nemico pubblico numero uno fosse Silvio Berlusconi. In questi e in altri casi, le piazze reali e virtuali hanno reagito a quello che percepivano come un vuoto di rappresentanza politica. Senz’altro il Pd non era il partito adatto a colmare quel vuoto, preso com’era dallinseguimento di un fantomatico elettorato moderato. Ma era proprio così necessario lottare pervicacemente affinché quel vuoto non venisse riempito da nessun altro?

La parabola del PD tra Veltroni e Bersani dovrebbe essere un esempio di scuola: una volta cacciata Rifondazione Comunista dal parlamento (una Rifondazione peraltro nella sua fase più ragionevole, disposta a votare persino il rifinanziamento delle missioni militari) il PD vi ritrovò un ben più agguerrito Movimento Cinque Stelle che di dialogo non ne voleva sapere. Oggi che il M5S è in crisi, Zingaretti sembra convinto che sia stato soltanto un incidente di percorso, un inciampo lungo il percorso che dovrebbe fatalmente portare la politica italiana verso il suo destino bipolare e bipartitico. E questo malgrado in tutta l’Europa il bipolarismo novecentesco appaia in crisi: persino nel Regno Unito, dove la Brexit ha sparigliato le carte creando un fronte trasversale che divide i partiti principali (il Labour più che i Tories).

Ma è proprio guardando all’Europa che ci accorgiamo quanto sia simile il Pd ai vecchi partiti socialdemocratici che in Spagna, Francia e Germania cercano di contrastare un declino che appare inevitabile (la cosiddetta “pasokizzazione”, da Pasok, il nome del vecchio partito socialista greco divenuto capro espiatorio della crisi ellenica). Alla fine la diffidenza dei democratici nei confronti del movimentismo odierno è più comprensibile dell’ossessione di Veltroni e soci per i “cespugli”. Non si tratta più di ripristinare una governabilità messa in pericolo da partitini litigiosi: i movimenti di oggi sono meno radicati ma possono espandersi all’improvviso come funghi, e altrettanto all’improvviso implodere: poco inclini al compromesso, non si accontentano di qualche fettina di potere ma si fanno portatori di istanze contraddittorie e spesso impraticabili. Tutto questo almeno vale per il Movimento Cinque Stelle, ma anche per chi presto o tardi ne prenderà il posto: probabilmente non saranno le Sardine, ma qualcuno comunque quel posto lo prenderà. Visto che lo spazio c’è, che il PD non lo reclama e la Lega più di tanto non riesce a penetrarlo. Succederà alla faccia di qualsiasi legge elettorale nel frattempo Lega e PD avranno congegnato per impedirlo: succederà perché semplicemente c’è gente che a una logica bipolare non si rassegna. E la storia del M5S si ripeterà di nuovo – non necessariamente in farsa. Anche perché sembra improbabile, più farsesca di così.
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