I test Invalsi vanno presi sul serio (Aldo Grasso non lo fa)

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Gentile dottor Aldo Grasso,
le scrivo ma non pretendo risposta, non credo nemmeno mi leggerà mai. Mi sembra comunque utile far notare che il suo ultimo, brevissimo intervento sull'Invalsi contiene in meno di duemila battute una densità impressionante di nozioni fuorvianti e/o false. Quel che è peggio, dottor Grasso, è che non credo che lei se ne sia reso conto. A monte ci sarebbe tutta una discussione da fare, sulla dimensione allucinata in cui vivete voi opinionisti dei quotidiani italiani, una specie di grotta in cui le ombre della realtà fattuale compaiono solo distorte in forma di fattoidi: quel tipo di news leggere che i giornali pompavano sulle colonnine delle homepage perché simpatiche e acchiappaclic ancorché irrilevanti. (Parlo al passato perché non vado più sulle homepage – dovrei? Per leggere cosa?)

Per farle un esempio: quando lei scrive "la verità è che la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni: presto sostituirà i voti con le faccine", si riferisce al singolo caso di una scuola primaria di Modena in cui ai genitori, oltre alla pagella – c'è scritto persino nel titolo, oltre alla pagella – è stato consegnato un questionario di autovalutazione con le faccine. Tutto qui. Non è un sistema alternativo alla valutazione in decimi: è uno strumento in più offerto ai genitori e agli alunni. È necessario leggere molto velocemente non dico l'articolo, ma persino il titolo, per giungere alla conclusione che una scuola primaria abbia sostituito i voti alle faccine. È necessario uno sforzo di fantasia ancora più ardito per suggerire che quel che succede in una scuola di Modena stia per diventare la norma in tutte le scuole della Repubblica. Infine, è rivelatore di una prolungata disattenzione nei confronti del sistema educativo nazionale pensare che la valutazione in decimi stia per essere soppiantata, quando chiunque sia cresciuto e abbia avuto figli negli ultimi 50 anni può testimoniare il contrario: i voti in decimi nella scuola dell'obbligo si usano molto più oggi che quando eravamo studenti noi. Io, un signore coi capelli bianchi, ricordo bene di non essere stato valutato in decimi fino al liceo, passando per ben due esami in due scuole di Stato. Oggi invece i voti si danno in decimi persino ai bambini di sei anni. È meglio, è peggio? Se ne potrebbe discutere. Quel che proprio non si può fare, dottor Grasso, senza truffare i propri lettori, è estrapolare da un articolo una notizia falsa (non è vero che una scuola di Modena ha sostituito i voti con le faccine) ed esibirla come evidenza del fatto che "la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni". Due bugie in due righe.

Tra tante cose a cui resiste la scuola italiana (dottor Grasso) c'è anche questa manifesta cattiva fede da parte di chi partecipa al dibattito sulla carta stampata. Qualche giorno fa lei ha appreso che la certificazione delle prove Invalsi era stata tolta da un documento definito come "curriculum degli studenti", una di quelle importantissime cose destinate ad ammuffire in un cassetto, e ne ha dedotto che il governo intendeva "secretarne i risultati". Ovviamente non è così: i risultati Invalsi continueranno a essere pubblicati, come ogni anno. E come ogni anno molti giornalisti non li leggeranno, ma preferiranno fraintenderli in toto come ha fatto lei, ostinando a riproporre la bufala estiva per cui "uno studente su tre in terza media ha problemi di comprensione del testo": non è vero, l'abbiamo detto in tanti che non era vero, ma a quanto pare dire il vero è l'ultima delle priorità dei giornalisti che si occupano della scuola.

"Se una classe va male, a volte, il docente non è esente da demeriti", scrive lei, e sembra fin troppo ragionevole, quando invece sta completamente fraintendendo il senso di una rilevazione statistica come la prova Invalsi, che non è stata mai concepita per dimostrare che "una classe" (o addirittura uno studente) va male: come ogni rilevazione statistica, ha un senso soltanto quando il campione è più esteso, e il campione delle prove Invalsi è il più esteso di tutti. Ci può servire al massimo a capire se una scuola ha risultati inferiori alle altre scuole del suo territorio; se un territorio ha problemi rispetto agli altri, eccetera. Usarla per giudicare il singolo individuo (o addirittura il suo singolo insegnante) non ha senso, perché per quanto possa essere "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà", una singola prova Invalsi non serve a niente. Cento, mille, un milione di prove Invalsi, qualcosa ce lo dicono. Una sola no, dottor Grasso, e guardi che non serve essere esperti di didattica per capirlo. Basta un po' di buon senso, e qualche nozione di statistica.

Gentile dottor Grasso, io capisco benissimo che scrivere millecinquecento battute per un quotidiano significhi semplificare: lei però è andato oltre. Certo, discutere delle prove Invalsi non è facile. Chi le scrive ha avuto l'opportunità di osservarle abbastanza da vicino sin dalla loro introduzione, in qualità di somministratore, correttore, tecnico di laboratorio, eccetera. Col tempo ho cambiato idea su molte cose e anche al momento ho la sensazione di covare due opinioni contraddittorie. Le metto qui sotto anche se probabilmente non le interessano.

– La prima opinione è che, per quanto interessanti, i test Invalsi non valgono la spaventosa quantità di risorse che vi vengono destinate, e che quindi avevano ragione i Cinque Stelle (si renda conto, avevano ragione i Cinque Stelle): sarebbe meglio abolirli. Tanto ci dicono più o meno quello che ci dicono le indagini campione OcsePisa (e quando non lo dicono gli statistici decidono subito che è a causa del "cheating", insomma l'indagine a tappeto deve conformarsi all'indagine a campione, e allora perché continuare a fare l'indagine a tappeto, a parte il motivo comunque degno che c'è bisogno di spenderci dei soldi e c'è chi ci campa da dieci anni?)

– La seconda opinione è che, se proprio non si possono abolire (e gli stessi Cinque Stelle non hanno fatto il minimo sforzo in tal senso; se ne sono strafregati, hanno lasciato per due anni il ministero a un leghista, mentre adesso la maggioranza è appesa a un tizio che è capacissimo di fare degli Invalsi un casus belli) insomma se proprio non si possono abolire, bisogna farli seriamente: e quando dico seriamente, dico che non solo vanno motivati gli insegnanti, ma soprattutto vanno motivati gli studenti. Altrimenti il quadro viene completamente falsato. Se tu spieghi allo studente che è una mera formalità che non serve alla sua valutazione, anzi (peggio!) soltanto alla valutazione del suo formatore (e quindi se mette le crocette a casaccio è il suo formatore che si ritrova nei guai!) tu non è che puoi lamentarti del fatto che i risultati siano deludenti. Quindi sì, l'Invalsi, se proprio dev'essere fatto, dovrebbe essere fatto seriamente e si deve trovare un modo di farlo pesare sulla valutazione dello studente, in tutti i passaggi. Volete la valutazione? Ok, ma occorre che tutti sappiano che non sarà un letto di rose: sarà ansiogena alle primarie, ansiogena alle secondarie, ansiogena sempre. Altrimenti questi per quattro ore ti piazzano crocette a caso e poi sulla base di queste crocette messe a caso qualche funzionario al ministero deciderà che la scuola X è meno buona della scuola Y, la provincia Z produce didattica meno qualitatevole della provincia W e altre agghiaccianti puttanate che tra vent'anni ci rideranno in faccia.

Se quindi fosse arrivato fin qui a leggere sarebbe sorpreso di sapere, dottor Grasso, che alla fine io non sarei affatto contrario all'inserimento della singola valutazione Invalsi sul "curriculum dello studente" o su qualsiasi altro foglio di carta destinato a infilarsi in un cassetto e a non dare più fastidio. Ma non perché credo che si tratti di "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà" (mi domando se prima di scrivere questa cosa ne abbia mai simulato uno, giusto per farsi un'idea meno preconcetta). Per me si tratta soltanto di motivare in un qualche modo lo studente a mettere le crocette nel posto giusto, tutto qui. L'Invalsi non serve a valutare lui, questo dovrebbe essere chiaro a tutti, ma a valutare i suoi docenti (e nemmeno i singoli): ma se lui non lo prende seriamente, l'Invalsi non funziona e con quel che ci costa è davvero un peccato.

Certo, su milioni di studenti prima o poi ci sarà senz'altro quello che si suiciderà, probabilmente per problemi suoi che il giornalista di turno preferirà sintetizzare con un bel titolo acchiappaclic, del tipo "si lancia dalla finestra: aveva sbagliato l'Invalsi". E a quel punto lei o il suo successore si ritroverà davanti l'incombenza di scrivere millecinquecento caratteri su quanto sia disumana la scuola moderna, con tutti questi test a crocette che pretendono di descrivere le nostre capacità e non ci perdonano nemmeno una debolezza. E vabbe', la scuola italiana resisterà anche a questa cosa, la scuola italiana resiste a qualsiasi cosa. Coi miei più distinti saluti, e qualche scusa per averla tirata in ballo – i miei pensierini funzionano meglio se ci metto in mezzo una firma famosa e me la prendo con lui. Non me ne voglia, suo eccetera.
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Pietà di Morgan (sonata patetica)

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Morgan ha più o meno la mia età, quindi non c'è mai stato un periodo della mia vita adulta in cui non ne abbia sentito parlare – il più delle volte perché, mi dicevano, si stava autodistruggendo. E vabbe' agli artisti capita, però, davvero: Jim Morrison nel '66 era uno sconosciuto, nel '67 incise Light My Fire, alla fine del '71 era morto. Janis Joplin, John Belushi, Amy Winehouse, ci siamo capiti. Morgan ha iniziato ad autodistruggersi mentre io ero matricola all'università e ora ho i capelli bianchi e non pubblico articoli accademici da boh, un decennio? Non voglio dire che ci seppellirà – immagino sia il compito che spetta a Vasco Rossi – però credo abbia perso meno capelli di me, preso meno chili, insomma la sua strategia di autodistruzione lascia molto a desiderare e produce risultati quasi indistinguibili dal logorio dell'esistenza di un cristiano standard con un lavoro i figli il mutuo. Del resto cosa c'è di più mortale della vita. Vivre, c'est très dangereux pour la santé, diceva un tale.
Fammi entrare per favore
Nel tuo giro giusto
Ho bisogno di socializzare
Di uscire dal mio guscio
Morgan a Sanremo ha fatto il Morgan. È stato incontrollabile, è stato insopportabile, bullistico, eccetera. Nessun dubbio, e però persino Sanremo conosce traiettorie di autodistruzione molto più nette e verticali, vedi Tenco. Morgan poi è esattamente la persona da cui ti puoi aspettare quel che è successo, e chi lo ha scritturato soprattutto non ha margini per stupirsi, né per lagnarsi. Bugo senza Morgan non sarebbe stato selezionato, e senza un Morgan così assolutamente Morgan sarebbe facilmente scomparso verso lo sfondo del festival, dove vanno a languire gli zarrilli. Bugo ha un disco in uscita e ora una ventina di milioni di italiani sanno chi è. Morgan non incide più niente da anni e forse per un po' è meglio che non si faccia vedere in Rai – ok, la Mediaset gli ha già aperto le porte, ma lui per primo sa quanto siano girevoli. Quindi sì, Morgan è un tizio che sopravvive facendo spettacolo di sé stesso, ipotecando lotti di credibilità che non riscatta quasi mai. Il paragone con Sgarbi non funziona, Sgarbi non muore mai, non si consuma, è infestante come la gramigna. Morgan non sembra altrettanto immortale: diamo tutti per scontato che abbia ancora un piccolo patrimonio di visibilità e reputazione che però si sta mangiando, proprio come i rentier del tempo che fu si mangiavano la terra dei genitori.

Morgan ha più o meno la mia età, e come faccio a non capirlo. Si tratta di uscire vivi dagli anni Ottanta in Valpadana, dalla rockstar nell'era della sua riproduzione di massa, quella sensazione diffusa per cui eravamo tutti convinti che una vita da David Bowie o anche solo Simon Le Bon ci spettasse per diritto di nascita: bastava credere ai propri sogni e sperare che i genitori non mandassero in malora la fabbrichetta, il mobilificio. Ne siamo usciti quasi tutti, Morgan no: forse perché aveva appena un briciolo più di talento di altri, o forse perché ne aveva troppo poco per accorgersene, ma insomma gli è capitato questo destino di prigioniero di una dimensione dismessa, una tempolinea che non frequenta più nessuno: invece di invecchiare sbiadisce come le copertine dei Rockstar e dei Ciao2001 chiusi in uno scatolone del solaio. Morgan ci imbarazza come un Dorian Gray distorto, e allo stesso tempo ci riconcilia con la nostra mediocrità, perché lui ha effettivamente vissuto la vita di eccessi e avventure che volevamo vivere a sedici anni, e non sembra poi questa gran vita dopotutto.

Morgan del resto ha un problema, e lo sappiamo tutti qual è il suo vero problema, vero? Ecco, questa è una cosa che sento dire praticamente da sempre. Non mi è mai capitato di assistere a una conversazione su Morgan, anche solo a uno scambio di battute su un social, senza che non arrivasse qualcuno a ribadire l'ovvio, a rimarcare che insomma, dai, lo sappiamo perché si comporta così. Lui stesso, bisogna ammetterlo, non ha mai fatto molto per smentire la vox populi. E però insomma se parliamo di Sanremo, di uno spettacolo dove ci si aspetta che conduttori e artisti alle soglie dei sessant'anni ballino e cantino arzilli alle due del mattino, vuoi vedere che l'unico a indulgere nell'uso di eccitanti e vasodilatatori debba essere necessariamente Morgan? Inoltre: quand'è che cominciamo a dirci che le dipendenze non sono il movente, ma un sintomo? Sono anche uno straordinario moltiplicatore di casini, nessuno lo nega. Ma nessuno mi leva il sospetto che Morgan sia più che altro vittima del suo personaggio. Le dipendenze ti tirano fuori il peggio, esagerano i tuoi colori naturali, e si dà il caso che Morgan per campare abbia bisogno di dare il peggio di sé.

Morgan ha più o meno la mia età (e il mio sesso) e quindi non avrebbe mai potuto davvero piacermi. L'invidia mi ha sempre impedito di apprezzare i coetanei, o forse semplicemente non suonava musica che m'interessasse. Sotto la maschera da maudit mi sembrava di indovinare un piazzista e devo dire che a un certo punto ho persino iniziato ad ammirarlo proprio perché riusciva a rivendersi come un intellettuale ripetendo due o tre nozioni da ginnasio; gli bastava recitare un verso uno di Omero perché Simona Ventura andasse in brodo di giuggiole, Mara Maionchi ne parla ancora bene e in un certo senso ha ragione lei, oltre a un certo livello la cialtronaggine diventa una forma d'arte e lui quel limite spesso lo superava. Finché non succedeva qualcosa di imbarazzante, al che mi accorgevo che Morgan mi faceva pena, anzi addirittura che cominciavo a preoccuparmi per lui come per un fratello minore: che insomma stavo invecchiando più rapidamente. Ed è una cosa che mi fa rabbia, preoccuparmi per le persone che nemmeno conosco, come se quelle che conosco ed amo non mi bastassero, non mi avanzassero. Poi a un certo punto ho messo a fuoco una cosa, una cosa di cui non mi pare parlino in molti, quando capita di parlare di Morgan. La pena che provavo per lui era una reazione morale al fastidio fisico di sentirlo cantare. Avete presente la voce di Morgan? È una tortura, sia per chi l'ascolta che (suppongo) per chi la sta usando.

È un chiavistello arrugginito che non scatta più e lo stesso deve girare, girare, è straziante. Ogni verso è uno sforzo, uno strappo a una catena. Morgan ha perso la voce a un certo punto, e non gli torna. Per un po' è sembrata una menomazione momentanea, ma sono anni ormai: anni in cui ha praticamente smesso di incidere. Ci sono cantanti che sono riusciti a fare delle loro difficoltà laringali un punto di forza, ma non è il suo caso. Morgan aveva un suo timbro e l'ha perso, e si è ritrovato a trentacinque anni incapace di fare l'unica cosa che sapeva fare per campare. Poi certo, il narcisismo che serviva per non mollare a vent'anni e ti impedisce di capire dove ti trovi a quaranta; le dipendenze che ti tirano il peggio, la tv che ti chiede di fare la ruota finché non cadi e poi ti butta senza complimenti, tutto probabilmente vero. Ma niente mi toglie l'idea che alla fine certe scenate non siano che i pezzi di bravura di un tizio che deve rivendersi come cantante, cantando il meno possibile. Va bene, sì, la maschera è quella di un cialtrone arrogante, d'accordo, ma lo capite che sotto c'è un signore di mezza età con le corde vocali a brandelli? Poi uno dice le dipendenze: vorrei vedere voi cosa v'inventereste al posto suo.

Morgan alla fine ci prova a suonare, a cantare (anche se non dovrebbe più), a farci divertire, Morgan qualcosa combina sempre. Spero di continuare a sentirne parlare finché campo, perché in fondo mi ha sempre fatto ridere e litigare, che è una cosa che mi piace, ma soprattutto mi ha sempre fatto sentire meglio di lui: più colto, maturo, sobrio. I feticci televisivi a questo servono: a concimare il nostro piccolo vasetto d'autostima, a sentirci migliori di gente che alla nostra età si comporta più o meno come i compagni di classe antipatici che avevamo alle medie, e guardate che ci vuol talento anche per comportarsi così a quarant'anni. Quasi cinquanta. Jim Morrison a 27 si era già chiamato fuori, ricordiamo.
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Non dimenticarti di ricordare di non scordarti di rammentare che che che

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Ogni anno il Ministero mi manda un pdf sul Giorno del ricordo; ogni anno un po' più sbiadito, come se tutti i febbrai lo ristampassero, lo scannerizzassero, lo pidieffizzassero per rimandarmelo l'anno dopo.


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Inguardabile, inascoltabile, impresentabile Sanremo

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  • Questo Sanremo è stato inguardabile. Non è un'opinione, non è neanche una valutazione tecnica. Questo Sanremo era proprio impossibile da guardare nella sua integrità. Non è che tutti possano fare le due del mattino per cinque giorni alla settimana, come candidamente proponeva Amadeus in conferenza stampa: eddai, è una festa, dormiremo la prossima settimana. Eh, cosa?
    • Un'ipotesi è che la direzione di Rai1 abbia frainteso le conclusioni di Luca Ricolfi sulla Società-signorile-di-massa e ci abbia preso per un parco buoi di sfaccendati che non hanno la sveglia alle sette del mattino né questa settimana né la prossima.
    • Un'altra ipotesi è che la tv abbia varcato il punto di non ritorno dell'autoreferenzialità: non c'è più una quarta parete oltre lo schermo, per Amadeus Sanremo è uno spettacolo su misura, costruito sulle sue aspettative e sulle sue necessità e il pubblico può anche addormentarsi – l'importante è che la quota concordata lasci accese quelle dannate scatolette auditel. Il giorno dopo poi ti spiegano tutti orgoglioni che all'una del mattino avevano il 60% dello share, beh, è davvero incredibile che a quell'ora qualcuno invece di dormire davanti a una televendita o a un Law and Order sia curioso di cosa combinano Bugo e Morgan.
    • La terza ipotesi – suggerita anche da Rosario Fiorello verso la fine – è che alla fine non freghi più niente a nessuno di quanto dura la diretta: tanto su youtube e raiplay si può recuperare tutto il giorno dopo, con comodo. In questo senso l'importante non era tanto tenere svegli milioni di italiani, quanto infilare nel varietà la maggior quantità di numeri memorabili, di potenziali highlights. Bugo e Morgan sbroccando non ti alzano l'audience nell'immediato, ma il giorno dopo faranno il pieno di condivisioni e quindi conviene mandarli il più tardi possibile (anche perché più tardi è, più è facile che sbrocchino). È la naturale evoluzione del varietà, la sua parcellizzazione, in un mondo in cui ormai Sanremo è l'unico varietà che la gente ritenga ancora necessario guardare, e quindi bisogna infilarci tutto il repertorio che farebbe una mezza stagione: la reunion dei Ricchi e Poveri, la svolta heavy metal di Rita Pavone, Benigni che tenta l'esegesi del Cantico dei Cantici, la resurrezione di Sabrina Salerno, sono tutte cose che ormai ha senso fare soltanto a Sanremo – insieme ad altre decine di cose che cucite tutte assieme rendono Sanremo uno show inguardabile, ma appunto: non è più previsto che nessuno se lo guardi dall'inizio alla fine. (Anche ai tempi di Eschilo, non è che tutti si guardassero tre tragedie in un giorno, fidatevi, molta gente arrivava tardi).

  • Questo Sanremo è stato inascoltabile. Anche questa non è un'opinione: semplicemente è stato impossibile per quattro giorni farsi un'idea delle canzoni guardando lo show. Sembravano la cosa meno importante: sembrava che Amadeus se ne vergognasse e non avrebbe avuto tutti i torti. Vale d'altronde per le canzoni lo stesso discorso fatto sopra per lo show: ormai chi davvero vuole ascoltarsele fa molto prima a cercarle in streaming o in radio. La tv è meno adatta alle canzoni inedite, e questo non lo scopriamo da oggi. È sufficiente guardare come funzionano i talent più rodati, come X Factor, che agli inediti arriva solo dopo un mese di cover e un'attenta costruzione dei personaggi e dell'evento. A Sanremo invece si aspettano tutti di ascoltare e guardare una trentina di esibizioni di canzoni inedite e questo probabilmente è l'incubo di ogni direttore artistico: come faccio a mantenere l'attenzione di un pubblico che non ha mai ascoltato un solo ritornello? Se solo la gente sapesse quel che vuole davvero – ma non lo sa. La gente vuole ascoltare musica, ma la musica che conosce già. Una soluzione adottata da molti, mi sembra da Fazio in poi, è stata alternare gli inediti ai classici, dedicandovi una serata intera, ma anche siparietti di ospiti nelle altre tre. Nei casi in cui poi il presentatore era un cantante (Morandi, Baglioni), lo show diventava una specie di recital, e il pubblico non sembrava sgradire. Quest'anno il direttore artistico era Amadeus che forse è stato l'unico essere umano su quel palco a non cantare. Lui e Toti. Non le ho contate, ma almeno nell'ultima serata l'orchestra deve avere affrontato qualcosa come cinquanta partiture diverse – voglio sperare in un congruo straordinario, perché altrimenti li avrebbero pagati praticamente un euro a partitura. Il paragone con l'anno scorso è inglorioso, ma probabilmente è stata l'edizione dell'anno scorso a essere eccezionale: uno dei rari casi in cui Sanremo ha fotografato davvero la situazione e perfino l'evoluzione della musica italiana. Non succede quasi mai, anche perché quasi mai alla direzione artistica c'è qualcuno che di musica si interessi davvero. Non è la priorità, non lo è tipo dal 1970, ogni tanto per caso passa un Baglioni e ci fa sentire la differenza, ma non c'è da abituarcisi.

  • (So per certo che almeno cinque voti per i Pinguini Tattici Nucleari sono stati rimandati dalla TIM al mittente).

  • Questo Sanremo è stato presentato da Amadeus e in un altro Paese probabilmente quest'ultima cosa sarebbe un dettaglio. Non in Italia, dove il Presentatore non è un semplice inserviente che presenta lo spettacolo e si toglie dai piedi, ma la figura cardine di tutto lo show, l'Impresario del circo (anche nel senso che ci si aspetta che entri nell'arena a fare la spalla ai clown), una specie di parodia sempre meno buffa del Tiranno. Non solo presentatore, quindi, ma anche direttore artistico: si dà per scontato che Sanremo debba assomigliargli. Questa cosa, che lascia perplessi anche quando viene affidata a personalità eccezionali, esplode in tutta la sua assurdità quando a salire sul trono viene eletto un onesto ma opaco professionista come Amadeus. Non credo che nessuno a parte Amadeus stesso sentisse l'esigenza di assistere a uno spettacolo di Amadeus con le canzoni scelte da Amadeus, eppure è questo che la Rai ha iniziato a venderci mesi prima, con gli spot: ci veniva chiesto di tifare per Amadeus perché partecipare a Sanremo era il sogno di tutta la sua vita. Tutto questo è assieme italianissimo e assurdo. Che poi il tizio si sia infilato in una specie di delirio di onnipotenza e abbia deciso che il suo spettacolo poteva protrarsi oltre le due del mattino per cinque giorni , beh, è un risultato di questo stato di cose: lui ne è più vittima che responsabile, nulla è più pericoloso di un umile che la sorte proietta sull'altare. Ora chi ci salverà da un Amedeus II, e da un terzo, se non un'intera dinastia da far impallidire l'età pippobaudesca? I giornali, solo loro forse potrebbero e spero che già si stiano sforzando in tal senso, scavando gallerie di obiezioni sotto la fortezza dell'auditel. Chi se non loro può denunciare questo stato di cose, ed ergersi a difensore di quel buon vecchio Sanremo che potevi guardare coi tuoi amici e a mezzanotte, vah, diciamo l'una si usciva a ballare? Chi se non loro può affermare a gran voce e titoli a tre colonne che un Sanremo di questo tipo è inguardabile, inascoltabile, impresentabile? Solo loro possono, e tuttavia.
Tuttavia non so se lo stanno facendo.
In effetti non li sto più comprando.
Ecco, forse la deriva di Amedeus parte da qui. Non c'è più nessun vero contropotere critico all'orizzonte, non c'è più nessuno che possa dirgli no, senti, adesso hai proprio esagerato. C'è solo l'auditel – e l'auditel gli dà ragione.
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Capire un Caucus

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Poi se volete ci possiamo anche appassionare a una cosa minuscola come il caucus democratico dello Stato dello Iowa. Possiamo anche perderci nei meandri di un regolamento elettorale talmente labirintico da essere affascinante, come le regole del baseball. Possiamo attardarci sugli aneddoti, sui delegati scelti tirando una monetina, sulle app che non funzionano mai in questi casi e che qualsiasi esperto di sicurezza informatica ti scongiurerebbe di non usare: e invece ci intestardiamo a farle usare proprio ai pensionati e ci incazziamo se non ci riescono, la via americana allo Spid.

IlPost

Possiamo notare come anche a questo minuscolo livello può succedere che il candidato X prenda meno voti ma più delegati del candidato Y, come insomma la democrazia uninominale non funzioni nemmeno in vitro. Possiamo ignorare la logica circolare per cui il primo Stato a indire una consultazione primaria è quello che influenza le consultazioni primarie successive, e non chiederci più perché uno stato qualsiasi con appena tre milioni di abitanti (tutti bianchi) si sia preso questo diritto, e perché nessuno glielo contesti – sono americani, a loro va bene così, e più non dimandare. L'altro giorno sul Washington Post notavano che nel senato USA le vacche sono meglio rappresentate degli esseri umani, e anche se fosse? In altre nazioni sono sacre, negli USA determinano la differenza tra un territorio più o meno degno di essere rappresentato, è un criterio come un altro, un candidato lo sa e si regola di conseguenza. Alla fine non importa quanto siano astruse le regole, no? Basta che tutti le sappiano in partenza e il gioco ha un senso. Possiamo infatti decidere che è soltanto un gioco.

Possiamo metterci a scrollare metri di smaglianti infografiche alla ricerca dell'unico dato che direbbe qualcosa a noi poveri proporzionalisti, ovvero: ma su quei tre milioni di abitanti di uno stato rurale, quanti sono davvero andati a votare? Che importa, di solito quelli che ci vanno azzeccano il vincitore, e quindi la profezie deve autorealizzarsi anche stavolta. Possiamo metterci lì a spiegare perché funziona così, perché non è sbagliato che funzioni così in terre lontane dove la democrazia non è una cosa arrivata all'ultimo momento (imposta anche un po' da fuori, riconosciamolo) ma una consuetudine secolare con i suoi vezzi, i suoi miti, i suoi riti di iniziazione. Possiamo fare tutto questo, se vogliamo, e allora facciamolo.

Solo una cosa.

Mai più ironie su Rousseau, è chiaro? Perché in confronto al caucus dell'Iowa, Rousseau è una piattaforma affidabile ed efficiente.
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L'Achillelaurococcinum

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In questi giorni ho voglia di discutere soltanto di cose minuscole per quanto significative, per esempio vorrei parlare di Achille Lauro a tre minuti dalla sua esibizione a Sanremo – esibizione che già riecheggia nella mia bolla sociale, composta per lo più di gente che ha un età che oscilla tra il doppio e altri multipli dell'età dell'Achille suddetto. Vorrei mettere nero su bianco un'intuizione che già mi investì l'anno scorso quando lo vidi praticamente in braccio a Mara Venier, ovvero: Achille Lauro è la trap spiegata a noi adulti. Ne abbiamo bisogno più noi dei ragazzini, ai quali per inciso non ho mai sentito canticchiare un pezzo del Lauro (dici: ma cosa vuoi saperne tu di cosa cantano i ragazzini. Rispondo: ci lavoro in mezzo, appena mi sposto di tre metri mi caricano sulla lavagna digitale un live di coso, Gemitaiz, o un pezzo di Sfera, ma Achille L. non pervenuto; certo, è un campione molto ristretto, non posso pretendere, e tuttavia).

Achille, qualcuno starà già obiettando, non fa trap, e questo se volete è il problema: è un prodotto omeopatico, il suo tatuarsi e conciarsi come un trapper ha lo stesso senso che hanno le compresse di zucchero che imitano la forma delle medicine. Noi ci mandiamo giù la nostra dose sanremese di Achillelaurococco e ci convinciamo di essere stati messi al corrente delle tendenze più giovani, ora sappiamo quel che ascoltano i giovani, quel che provano i giovani, ora siamo di nuovo giovani in mezzo ai giovani e la Morte è tenuta a farsi un altro giro in tondo.

Ovviamente non è vero per un cazzo, di reale cultura giovanile in Achille Lauro ce n'è più o meno la stessa quantità del fegato d'oca nell'oscillococcinum, il tizio (nient'affatto sprovveduto, anzi mi pare piuttosto consapevole) si fa confezionare da cinque autori più o meno una variazione sul pezzo dell'anno scorso che a sua volta è una variazione su un tema di Vasco Rossi, che è esattamente tutto quello che vogliamo ascoltare noi generazione Mara Venier: vogliamo essere rassicurati sul fatto che là fuori è ancora tutto sesso droga rock'n'roll, e il punk non è morto, no macché, ci dovrebbe ancora essere gente che se gli dici "Sid Vicious!" non ti risponde "eeeh?" Cioè è un sesso-droga-rocknroll che ci conforta, ci fa sentire che siamo ancora parte di una lunga storia che comincia con Nilla Pizzi, prosegue con Modugno e Celentano e Anna Oxa ed eccoci qui: il Canone Italiano! Funziona, funziona, non moriremo del tutto, qualcuno dopo di noi racconterà di noi e delle canzoni che cantavamo e delle droghe che assumevamo o più spesso raccontavamo di avere assunto.

Proprio nel momento in cui potrebbe essere già tutto finito, tutto oltre il punto di non ritorno, proprio quando i figli smettono di credere nelle storie dei padri e grazie alla segmentazione feroce dei nuovi social network rinasce di nuovo dopo trent'anni una cultura giovanile davvero incomprensibile agli adulti, proprio come in quel 1977 in cui ci sarebbe piaciuto avere vent'anni... proprio in quel momento invece ne abbiamo quaranta-cinquanta e ci aggrappiamo al primo ragazzino abbastanza furbo da darci esattamente quel che desideriamo. Achille Lauro è la versione middlebrow di Young Signorino: ne imita le sembianze inquietanti ma sostituisce il nonsenso allucinato con quel mescolone di avanzi di cultura pop che compone l'eterno techetecheté che ci arreda l'esistenza. No, per dire quanto è furbo quel ragazzo.
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Anche Salvini, a Gerusalemme?

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[Questo pezzo ci ha messo un po', ma alla fine è uscito su TheVision]. Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz'altro il primo a portare nella politica l'antica arte della provocazione; però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l'attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e lasciarli autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l'arte ma non il senso; e oggi che ha il campo libero, lo vediamo trollare non tanto per imporre un'agenda politica, ma piuttosto imporre un'agenda politica che gli permetta di trollare.

Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l'idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ebbene, Salvini voleva esattamente questo da noi, Salvini si nutre della nostra furia.

Quanto a Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per massima resa. Riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico è un gesto che non gli costa nessuna fatica e sarebbe gravido di conseguenze, se Salvini fosse al governo (si tratterebbe di tradire l'approccio UE al problema). Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a starci: l'anno scorso è resistito fin quasi a Ferragosto perché in effetti un ministro degli interni a torso nudo al Papeete è ancora un po' provocatorio; ma non un minuto di più. E poi, certo, Salvini dimostra anche in questo caso l'allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente, sì: ma davvero a Salvini premevano così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio la settimana scorsa? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma circola ancora qualche fuorisede filopalestinese in kefiah (il tizio ragiona per stereotipi un po' muffiti). Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari in quello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, che colpo sarebbe: che fantastico modo di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega – e invece no, Piazzale VIII Agosto si riempie, ma di placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.

A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori, per così dire, professionisti o appassionati; quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell'abisso: perché ci sono livelli davvero sotto i quali nessuno era sceso, e Salvini li sta perforando in caduta libera. Cioè lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità invitando a un convegno sull'antisemitismo Liliana Segre (che prontamente ha declinato l'invito). Salvini ha davvero spiegato a un giornale israeliano che l'antisemitismo, in Italia, lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l'osservatorio sull'antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti dai nomi e dai cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che spartire con l'antisemitismo di una "destra tradizionalista", e lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Magari ignorando in buona fede che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di cose che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista. Almirante era il segretario di redazione.

Qualcuno ha già rimarcato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare "una patente di rispettabilità politico-religiosa". Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall'altra parte qualcuno si presti, e Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto Duterte, è andato a trovare Orban, perché non dovrebbe accostarsi a Salvini... [continua su TheVision

Per Netanyahu la Storia è subordinata alla politica: ogni nemico di Israele può essere paragonato a Hitler, se necessario (mentre paradossalmente Hitler può essere ridimensionato: non più ideatore della Shoah, ma semplice artefice dei piani genocidi del Gran Muftì). Netanyahu ha un'agenda, che a differenza di Salvini non si esaurisce nel vincere le prossime elezioni; da un punto di vista culturale, il suo obiettivo è includere nella definizione di antisemitismo qualsiasi forma di critica a Israele. Se vuole definirsi amico di Israele, Salvini non solo deve promettere di trasferire l'ambasciata italiana a Gerusalemme, come ha già fatto Trump; deve anche impegnarsi a chiedere "a Bruxelles" di proibire il boicottaggio dei prodotti israeliani. Promessa, quest'ultima, di molto difficile realizzazione: non solo perché Salvini a Bruxelles ci va il meno possibile, disertando in particolare qualsiasi riunione possa ottenere risultati concreti: ma soprattutto perché un boicottaggio è una forma di protesta non violenta e passiva. Certo, il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), può anche essere definito antisemita e messo fuori legge (se ne parla sia negli USA che in Germania), ma nessuna direttiva comunitaria può costringere i consumatori europei a comprare i pompelmi israeliani, se non li vogliono. L'obiettivo di Netanyahu è culturale: si tratta di convincere gli europei che chi non compra i pompelmi israeliani è antisemita, tanto quanto il complottista che ricicla i Protocolli dei Savi di Sion o il nazista che vandalizza i monumenti sulla Shoah.

Quello che a noi europei può sembrare una strumentalizzazione ha comunque un senso storico (e geografico). Netanyahu è il primo ministro di un Paese che vive il ricordo della Shoah in modo sensibilmente diverso da come lo si percepisce in Europa. Per noi europei il 27 gennaio è la ricorrenza annuale del senso di colpa collettivo, il giorno in cui ricordiamo di essere portatori neanche troppo sani di malattie che hanno sconvolto il mondo: nazionalismi, fascismi, xenofobia. Gli israeliani non possono e non devono viverlo con lo stesso senso di colpa: il loro 27 gennaio (che quest'anno celebreranno ospitando delegazioni di 50 Paesi) non può che confortarli nell'idea che se 80 anni fa fosse esistito Israele, la Shoah sarebbe stata impossibile. Questo può spiegare perché per un sionista come Netanyahu la memoria della Shoah combaci totalmente con la difesa a oltranza delle politiche di Israele. Un po' meno spiegabile è che un aspirante leader di una nazione come l'Italia si presti senza un plissé a fargli da megafono: Netanyahu vuole i BDS fuori legge? Salvini andrà a Bruxelles a chiedere i BDS fuorilegge. E tutto questo, badate bene, dopo aver sibilato per anni contro i politici europei servi di una fantomatica lobby ebraica. Un bel paradosso, se solo se ne fosse reso conto. Ma anche se se ne fosse reso conto, non ha molto senso mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni. In fondo, ricordiamolo, non è che un troll.

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Siamo pari

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Vi abbiamo messo al mondo in un mondo che sapevamo essere alle soglie di un'estinzione di massa. Lo sapevamo e vi abbiamo messo al mondo lo stesso, perché ci sentivamo soli e avevamo bisogno di qualcuno che ci pagasse i contributi.

Non siamo riusciti a ridurre le emissioni, non ci siamo rivoltati contro chi ci avvelenava, non abbiamo nemmeno protestato, cioè ci abbiamo provato ma ci siamo ritirati alle prime mazzate. Da chi ci ha preceduto non abbiamo imparato nulla, ma ve l'abbiamo insegnato lo stesso.

Abbiamo esaurito le risorse, esaurito gli antibiotici, esaurito l'ossigeno, il che non significa che non abbiamo smesso di parlare, di solito per farvi la predica. Vi stiamo per lasciare un mondo in macerie e tantissime armi per litigarvele. D'altro canto.

D'altro canto voi ci avete portato a vedere Me Contro Te La Vendetta Del Signor S, quindi direi che adesso siamo pari.


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L'Emilia-Romagna non esiste (ma resiste)

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[Questo pezzo è stato scritto ieri ed è uscito su TheVision]

Oggi non è una brutta giornata. Ovvero: se do un'occhiata dalla finestra, l'Emilia-Romagna continua a sembrarmi la stessa regione inquinata e decadente di ieri. I problemi sono ancora tutti lì esattamente dove erano sabato, e in parte si tratta di problemi che Stefano Bonaccini non risolverà, perché l'Emilia-Romagna alla fine è semplicemente un pezzo d'Italia, d'Europa e di mondo, ritagliato in modo anche abbastanza casuale.

In alcune zone di questo pezzo d'Italia, la propaganda salviniana funziona, ed è facile notare che sono le zone periferiche di un tessuto che progressivamente si sta trasformando in una grande periferia. I centri resistono, ma sono sotto assedio: oppongono un modello ma non riescono più a irradiare un messaggi alternativi a quelli declinati dalla Mediaset e dalle sua varianti; già prima di arrivare alle tangenziali i discorsi nei bar cominciano ad assomigliare agli stessi discorsi che puoi sentire a Varese, Viterbo, Vibo Valentia. Bibbiano perde i contorni di placido comune in provincia di Reggio nell'Emilia e diventa un campo d'internamento dove bambini rasati venivano sottoposti a elettroshock da assistenti sociali satanisti.

Ma non si tratta soltanto di una gara a spararla grossa (che Salvini comunque era determinato a vincere). Nelle zone montane, in certa Bassa, nelle new town fungate sulle strade statali, Salvini vince come vince il Capo Indiano che chiama a raccolta i nativi messi ai margini dall'avanzata del progresso. Nelle zone industriali dove un capannone su due è una carcassa di cemento, nella riviera che non è soltanto Rimini e Riccione ma migliaia di pensioncine a trazione famigliare che la Croazia spazzerà via, Salvini non vince soltanto perché racconta cazzate. In un certo senso, non è il solo che le dice. In un tessuto sociale che ha smesso da un pezzo di essere competitivo, e mese per mese assiste al suo stesso smembramento, anche chi continua a raccontarci che siamo la terra delle Ferrari, di Farinetti, di Fellini, a volte non ha percezione di quanto ci stia ammorbando di chiacchiere. Modena era una realtà industriale quando c'erano le fonderie, e la Ferrari era poco più di una fabbrichetta – famosa in tutto il mondo ma abbastanza marginale. Ora al posto delle fonderie c'è il museo Enzo Ferrari ma non creerà mai la stessa ricchezza, non è che puoi davvero pensare di sostituire lo storytelling all'acciaio. C'è un limite oltre il quale anche la narrazione delle eccellenze diventa un tormentone non molto meno tossico dell'elettrochoc di Bibbiano, e oltre quel limite perché Matteo Salvini non dovrebbe vincere? Perché non dovrebbe raccontare che l'euro ci sta strangolando, che negli anni Ottanta si stava meglio, che l'immigrazione abbassa il costo del lavoro? È una visione superficiale, ma non più superficiale di quella che propone di risolvere tutto con l'auto di lusso, l'abbigliamento di lusso, la ristorazione di lusso.

(Mesi fa il sindaco di un piccolo centro sull'appennino parmense scrisse una circolare ai genitori degli studenti, chiedendo per favore di non ordinare lo zaino scolastico su Amazon ma di comprarlo nell'unica librocartoleria superstite. Dalla stampa nazionale insorse un editorialista progressista: ma come! Ai ragazzi bisogna insegnare a eccellere, a studiare, a diventare Bezos, non a combatterlo. Sì, in pratica bisogna insegnare ad andarsene dall'appennino, un luogo dove tenere aperta una libreria è ormai un eroismo inutile). (L'editorialista in questione non è cresciuto in appennino ma in una redazione; è figlio di un altro editorialista, perché raccontare i pregi della meritocrazia è un'arte che in Italia non s'impara in una generazione).

Però alla fine oggi non è una brutta giornata, dai. Si è alzata anche la foschia, ora splende il sole, l'aria continua a essere tra le più carbonate sul pianeta, ma non si può pretendere. Di tutto aveva bisogno questo pezzo d'Italia tranne che di un'altra gang di amministratori incompetenti e parolai. La maggior parte degli elettori del vecchio bacino emiliano 5Stelle ha deciso, di fronte a un bivio, che la direzione indicata da Salvini non era praticabile: non era affatto scontato. E soprattutto abbiamo dimostrato che un certo tipo di campagna elettorale non funziona ovunque, e quindi alla lunga non funziona. Da questo punto di vista bisogna ringraziare Salvini, proprio perché in quest'occasione ha dato il peggio di sé e ci ha dato un'occasione gloriosa per dimostrare che Salvini, anche nella sua versione peggiore, non è sostenibile. Non vince neanche se fa il Gabibbo, non vince neanche se fa Cronaca Vera (il martellamento ossessivo su Bibbiano), non vince a imbucarsi in qualsiasi sagra, ad afferrare un prodotto gastronomico e a spararsi un altro selfie con quei poveri sostenitori che ormai in memoria hanno più faccioni di Salvini che foto dei figli. Dopo Craxi, dopo Renzi, Salvini è l'ennesimo avventuriero che due o tre battaglie hanno illuso di poter conquistare almeno mezza Italia: è senz'altro bello pensare che si sia dovuto fermare sul Taro. Significa che l'Emilia rossa resiste? Anche l'Emilia rossa è storytelling. Comunista in senso stretto non lo è mai stata: forse le è capitata in sorte una classe dirigente un po' più pratica, un po' più onesta, ma quello che vedo io dalla finestra è un pezzo d'Italia individualista e frustrato che un candidato di centrodestra decente lo voterebbe. È da almeno vent'anni che lo implora: un candidato liberale, pragmatico, amico delle piccole medie imprese o di quel che ne resta. Ecco, questo candidato la destra italiana non ha mai voluto proporlo. Sia Berlusconi ieri, sia Salvini oggi, si sono sempre lasciati incantare dal mito della fortezza rossa da espugnare con gli slogan e le recriminazioni identitarie: non hanno mai pensato di proporre una vera alternativa a livello di amministrazione, forse semplicemente perché non era disponibile o credibile. Il giorno che lo sarà, qualcosa mi dice che l'Emilia smetterà di essere rossa nel giro di poche ore. Ma è una prospettiva lontana, lontana. Il centrodestra che tira è il centrodestra che la spara più lunga, tant'è che al declino della stella di Salvini sta iniziando a sorgere quella di Giorgia Meloni. Le chiacchiere che producono funzionano in tv, funzionano sui social, funzionano in tante edicole e bar, ma non ti fanno vincere le elezioni, perlomeno tra Taro e Rubicone. È una bella giornata oggi, dai.
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Caro elettore (emiliano) di sinistra

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Ciao, come va? È da un po'.
Esatto, sì, sto per fare quella cosa.
(Sono più imbarazzato di te, credimi).

Domenica come senz'altro sai si vota in Emilia-Romagna, e la coalizione di Bonaccini (PD e altre liste di centrosinistra) potrebbe anche non farcela. Questo non sarebbe necessariamente la fine del mondo in regione: in Emilia-Romagna direi che dopo 50 anni un po' di alternanza potremmo anche permetterla, giusto il tempo di dimostrare l'incapacità del centrodestra locale. La vittoria della Lega salviniana però potrebbe innescare una reazione a livello nazionale, con conseguente crisi del governo e fine della legislatura proprio nel momento in cui finalmente in parlamento si cominciava a parlare di una legge elettorale proporzionale e decente (una legge che potrebbe riportare anche la sinistra in parlamento). E quindi?

E quindi, indovina: sto per chiedere il tuo voto utile. Lo so che Bonaccini non ti piace, e posso anche capire i motivi per cui, da una prospettiva di sinistra, non rappresenta quasi nulla che possa piacerti. Cioè non voglio neanche provare a indorarti la pillola, ok? Anzi, sinceramente considero la sua proposta di autonomia regionale una roba da leghisti, e forse invece di scrivere questo pezzo dovrei scriverne uno per convincere i leghisti a votare Bonaccini. Se avessi il bacino di utenza adatto lo farei. Ma è più facile che mi leggano a sinistra, e quindi caro lettore, eccomi in ginocchio da te: per favore, riflettici. Vale davvero la pena di regalare una chance a Salvini, e qualche anno di amministrazione regionale a chi fa campagna elettorale con le magliette su Bibbiano?

Non potrebbe essere l'occasione per stabilire che no, che questo tipo di campagne elettorali da Cronaca Vera non funzionano – perlomeno da noi? Pensa che precedente sarebbe, caro elettore di sinistra. Un tizio cerca di vincere le elezioni battendo ogni mercato, ogni stand gastronomico della regione con la sua scorta, senza argomenti che non siano recriminazioni e selfie, e malgrado ospiti televisivi e influencer non riescano a parlare di altro... perde. Non sarebbe già un risultato importante?

E se invece vince, non sarebbe un po' la fine della democrazia? Cioè una volta che hai dimostrato che le elezioni le vinci andando a disturbare la gente col citofono, che si fa?

E quindi caro elettore credo che dovresti davvero provarci, stavolta. Anche se.

Anche se sono il primo a trovare la cosa un po' sospetta. Ancora una volta uno scontro finale. Ancora una volta le forze del Male stanno per trionfare e l'unica speranza è spostare una manciata di voti sulle forze del Meno Peggio. È da più di vent'anni che funziona così – ieri era Berlusconi, oggi Salvini, c'è sempre un altro piccolo sforzo da fare, c'è sempre un cattivo da abbattere, c'è sempre un motivo per mettere da parte le proprie ragioni e le proprie necessità. E c'è sempre qualcuno (e a volte sono stato io) che ti chiede di metterti la mano sul cuore e di sacrificare le tue esigenze di elettore, sempre e solo le tue, e perché? Perché è in gioco qualcosa di più importante, il destino dell'Italia, dell'Unione, e del mondo, e vuoi sapere una cosa buffa? Ci credono.

(Io perlomeno sono abbastanza persuaso che l'ascesa di Salvini rappresenti un concreto peggioramento per l'Italia, per l'Unione Europea, e per tutto il quadro internazionale, e sarei veramente molto orgoglioso se la mia regione domani gli desse una spallata fatale – mentre al momento sono abbastanza inorridito dalla prospettiva che gli fornisca la spinta che gli manca).

Quindi mettiamo da parte ancora una volta le obiezioni, anche legittime, al nostro modello di sviluppo. Mettiamo da parte l'ambiente, le politiche per la casa, le rivendicazioni dei lavoratori anche quando sono represse dalla polizia, e quell'oscenità che sono i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Insomma lasciamo da parte tutte le lotte sacrosante di una sinistra che osi ancora definirsi tale sul territorio, e concentriamoci sull'ennesima battaglia decisiva, che anche qualora si rivelasse davvero decisiva, non sarà comunque quella finale, no? Comunque non pensiamoci, c'è la possibilità di mandare Salvini nella polvere (o sugli altari), tutto il resto passa in secondo piano. Caro elettore di sinistra, a questo punto tu giustamente mi domanderai:

E se fosse solo un fantoccio, Salvini?

(Lo ammetto, anche a me il dubbio viene).

Una caricatura di nazista, un Mussolini versione farsa, un Berlusconi in sedicesimo perfino. Uno che in realtà il potere non lo vuole – quando gli è capitato, se n'è proprio liberato alla prima occasione – e che ora serve proprio come spauracchio per tenere uniti tutti quanti contro di lui. In tempi ancora di maggioritario, mentre tutti aspirano al 51%, forse l'obiettivo di Salvini è il 49%: quel che gli serve per essere sempre minaccioso, sempre sulla cresta dell'onda, sempre in tv e sui social, ospitate, libri, la scorta. Guarda, non escludo affatto che alla fine Salvini non sia che questo. Uno messo lì per catalizzare il malcontento e interpretarlo nella forma più trucida e impresentabile. È una possibilità. Ugualmente, preferirei che i suoi candidati non vincessero, domani.

Caro elettore di sinistra, dovrei tagliarla qui. Più scrivo, meno divento convincente. Ti faccio una proposta un po' più pratica: dà un'occhiata al programma di Emilia Coraggiosa, la lista pro Bonaccini di Elly Schlein (già europarlamentare con Possibile). Misura col tuo giudizio quanto sia meno di sinistra rispetto a quella, mettiamo, di Potere al Popolo. Poi vota per chi ti va, davvero. Ma se scegli di votare per una lista collegata a Bonaccini, e Bonaccini si ritrova per altri cinque anni in Regione, ti prometto che almeno da parte mia non saranno altri cinque anni passati a farmi i cazzi miei mentre il territorio si cementifica, l'ossigeno scompare, gli operai vengono processati perché scioperano. Ti sto chiedendo il mio voto? Ti offro il mio tempo e il mio spazio. Ogni volta che Bonaccini ti farà incazzare, potrai scrivermi e io mi preoccuperò, per quel che posso, di dare risonanza alle tue istanze e alle tue incazzature. Non è molto quel che posso offrirti – ma non è neanche molto quel che ti chiedo: una croce su un simbolo e su un candidato. E poi domenica vada come deve andare, una cosa buona è che almeno non ce lo troveremo più in piazza a spararsi selfie davanti a uno stand di salumi. È finita, almeno la campagna è finita. Ci vediamo.

PS: lascia stare il voto disgiunto, è una cabala.
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