Dubbi dello spettatore occidentale

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Lo spettatore occidentale è perplesso. Le emozioni lo tradiscono, la razionalità non lo aiuta, anche la memoria a volte gli è d'impiccio. È chiaro che questa non è la solita guerra in un teatro lontano: stavolta è diverso, è tutto molto più vicino e su una scala più grande. Questo lo spettatore occidentale lo capisce, ma si ricorda anche di esserselo sentito dire tante altre volte. La guerra fa paura, è uno spettacolo ipnotico e osceno ma soprattutto surreale: un giorno una città esiste, un mese dopo è rasa al suolo, gli abitanti scappati o schiacciati per motivi che tutti cominciano a considerare logici e inevitabili, ma lo spettatore occidentale no. Qualcosa non va, qualcosa dovrebbe essere fatto per evitare tutto questo, qualcuno dovrebbe saperlo, qualcuno dovrebbe dircelo e non lo fa. Lo spettatore odia la guerra, ma soprattutto odia sentirsi fregato: d'altro canto è uno spettatore, che altro può fare a parte sedersi, guardare e lasciarsi fregare. 


Lo spettatore occidentale si domanda se non sia in parte colpa sua (e dell'Occidente in generale). È una reazione tipica, prevedibile: mette insieme quasi tutto quello che l'Occidente ha prodotto: c'è dentro Kant e Marx e Freud, per restare agli strati più superficiali: più sotto una coltre spessa di senso di colpa coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo è colpa nostra) che dovrebbe occultarci il sottostante senso di superiorità coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo l'abbiamo cominciata noi); più in profondo si intravedono ancora Cristo e Aristotele. Scoppia una guerra da qualche parte: possibile che non l'abbiamo causata noi, coi nostri peccati di pensiero, parola, opera, omissione; semplicemente esistendo in un'oggettiva condizione di privilegio? Un dittatore ordina l'invasione di un Paese confinante, certo, sembra tutto abbastanza chiaro, ma guardiamoci dentro: non l'avremo provocato in qualche modo? Dopo averlo magari illuso, coccolato – quanti errori abbiamo fatto nei suoi confronti, e ora non dovremmo far finta di non vederli, dovremmo raccontarci che è perfido per natura?

Nella sua forma più immediata e inconsapevole, questa reazione si chiama razionalizzazione: che bel paradosso. Significa che ogni cosa assurda, guerra compresa, dev'essere rimasticata fino a prendere una forma ragionevole: ma anche che ogni cosa che apparentemente non dipende da Me, per quanto immensa e indescrivibile, dev'essere infilata in un imbuto lunghissimo che prima o poi ne distilli almeno una goccia che il mio individuale senso di colpa possa assorbire. Putin bombarda Kiev, e io gli sto comprando il gas per il mio scaldabagno: sono un mostro. Ma non basta, sto persino vendendo armi all'Ucraina: non abbastanza perché respingano i russi, ma abbastanza perché la guerra si protragga fino alla trasformazione di un popoloso Paese europeo in un altro Afganistan. È la cosa giusta da fare?, si domanda lo spettatore occidentale: come se davvero qualcuno gli avesse chiesto un parere o addirittura un permesso per comprare gas e vendere armi. Razionalizzare è anche un modo per illudersi di non essere uno spettatore: non in mio nome, dice. Se davvero vivo nel mondo libero (grazie alla Nato), perché non dovrei essere libero di criticare le scelte della Nato? Se davvero ho la libertà di dire che due più due fa quattro, perché non posso usarla per dire che un tiranno paranoico in difficoltà, più una valigetta nucleare, nel medio lungo periodo causano una catastrofe? Difendere l'Ucraina è una bella cosa: trasformarla in una steppa di rovine già sembra meno bello; farlo nella speranza che Putin ne venga travolto non sarà l'ennesima fantasia americana di regime change, una di quelle cose che provano a fare da vent'anni e il risultato è sempre peggiore della situazione di partenza?


La risposta potrebbe anche essere "no": ma lo spettatore occidentale queste domande vorrebbe almeno continuare a porsele. È un po' il senso di vivere in occidente piuttosto che altrove: dovrebbe esserci spazio per il dubbio, un minimo di margine per chiamarsi fuori (la libertà implica una coscienza, la coscienza richiede di essere lavata). Ma ecco, pare non ci sia un modo di farlo senza passare per fessi o essere additati come collaborazionisti. Bisognerebbe essere molto bravi ed equilibrati e questo è un altro problema, che a quanto pare nessuno più lo è. Chi prova a mostrarsi dubbioso nei talk si trasforma ovviamente in una macchietta, un Goldstein da esibire a intervalli regolari quando scoccano i due minuti d'odio. Chi si lascia intervistare dai giornali italiani (giornali che anche in tempi più semplici non hanno mai avuto rispetto per i virgolettati) cade nei più vieti trabocchetti retorici. Non aiuta certo il prosperare sui social di putiniani ruspanti, un po' volontari un po' alla giornata, tutti rigorosamente fuori dal coro anche quando dicono tutti in simultanea le stesse cose. 

Intanto, a un clic di distanza, gli atlantisti si scatenano, ormai sono alla caccia all'uomo. Vent'anni di frustrazioni, di armi di distruzione di massa che non si trovavano e democrazie malamente esportate, finalmente possono liberarsi in una scossa di energia che rianimerebbe il cadavere di Joseph McCarthy, anzi forse lo ha rianimato. Una tabella ritagliata da un articolo pubblicato su Limes è sufficiente per denunciare il putinismo della redazione tutta; una bandiera disegnata a rovescio, in prima pagina sul Corriere, è quanto basta per dichiarare l'ANPI intelligente col nemico. Questo è più grottesco del domandarsi se Putin non l'abbiamo provocato noi, ma ormai passa in fanfara, come cosa naturale: dopo due anni di pandemia non siamo più abituati a tollerare opinioni diverse dalle nostre. Bisognerebbe ricordarsi che le opinioni non ci mandano in terapia intensiva – non in questo caso, almeno. E che tutto questo setacciare i feed dei nostri avversari preferiti alla ricerca di affermazioni da ritagliare ed esibire in quanto imbarazzanti, tutta questa corsa al dossieraggio, ecco, non salverà la vita a un solo sfollato ucraino: non è un modo per aiutare a liberarli; al massimo per liberare noi stessi da qualcosa che ormai non sappiamo nemmeno più cos'è. Potrebbe essere il dubbio, appunto: bisogna farlo emergere, lasciare che si incarni in un pagliaccio televisivo, e poi condannarlo in effige. Lo spettatore occidentale ricorda vagamente di un tempo in cui le cose non funzionavano così, in cui manifestare i propri dubbi era una pratica apprezzata, indizio di apertura mentale, disponibilità al dialogo, capacità di riconoscere i propri errori. E tante volte si esagerava, si cercava di dialogare con gente in malafede e si insisteva a cercare i propri errori negli errori evidentemente altrui. Ma a quanto pare da qui in poi succederà sempre meno, anche in occidente. 

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I talk fanno schifo e nessuno li guarda davvero

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1. Con gli anni '90 il dibattito politico in Italia si sposta irreparabilmente dai quotidiani al palinsesto tv. I talk show diventano il luogo primario in cui l'opinione pubblica, in teoria, si esprime. In pratica diventa da subito una grande caciara. Un'apparente varietà di voci nasconde (neanche troppo bene) una semplificazione brutale sia degli oggetti del discorso sia dei soggetti che discutono. La tv del resto è ancora metà Stato e metà Mediaset, due entità che non per coincidenza cominceranno ciclicamente a sovrapporsi. Un fantasma di pluralità veniva nobilmente concesso ai telespettatori mediante quella pratica primorepubblicana conosciuta come "lottizzazione". 

2. I talk sono un'arena in cui vince chi chiacchiera in modo più spigliato. L'approfondimento è un servizio di due o tre minuti; l'esperto deve semplificare e far sua la retorica degli imbonitori. A ogni tesi deve seguire un contraddittorio perché la sintassi del talk lo prevede, e se non si trova nessuno decente in grado di contraddire una tesi, lo si paga. Oppure se ne prende uno gratis, ma indecente.

3. I talk fanno schifo. Quelli fatti bene. Stanno al dibattito politico come il wrestling alla lotta libera. Le eventuali competenze degli invitati non si misurano sul campo, ma si esibiscono proprio come i muscoli dei wrestler. Chi vince e chi perde è già deciso in partenza, così come il premio partita per entrambi. Spesso i più bravi sono proprio i cattivi: farsi odiare è un'arte e non stupisce che gli ingaggi possano essere più alti. 

4. Nessuno li guarda davvero: il sospetto è che chi ne parla si sia visto perlopiù gli highlights ritagliati sui social, i clippini in cui l'Opinionista A "asfalta" l'Opinionista B (è wrestling, appunto). Sostutuendosi all'informazione e al dibattito, i talk hanno alienato milioni di persone nate e cresciute in un Paese in cui la politica era quella cosa lì, quella di cui si discuteva nei talk urlati e/o noiosi. Quando una deputata del M5S, all'indomani della vittoria elettorale del 2013, si ritrova a un tavolo con Pierluigi Bersani, il suo primo pensiero non è: sto discutendo a tu per tu con il rappresentante del primo partito italiano. Quando apre bocca, è per dire: "sembra di stare a Ballarò". In quale altra dimensione potrebbe Bersani discutere con qualcuno? La deputata esprime la sua incredulità, per essere passata come Alice dall'altra parte dello specchio: e insieme il suo rifiuto per tutto ciò che, essendo televisivo, non può essere autentico.  

5. Il motivo per cui i canali tv hanno insistito sui talk è meramente economico: costano poco. Meno della fiction, meno dei reportage. La maggior parte degli ospiti partecipano gratis, per conquistarsi la famosa visibilità che in molti casi serve ad accreditarsi in talk più importanti, in una spirale di fama e di follia che ha convinto molte persone di essere statisti proprio nel momento in cui venivano esibiti come pupazzi. 

6. È più di un decennio che stiamo selezionando la classe dirigente coi talk: direi che non sta funzionando. Del resto già i Cinque Stelle nel 2013 erano una reazione alla politica-talk: al tempo dovevano solennemente giurare di non andare in tv (in seguito si lamentavano di non essere invitati). La fine politica di Monti comincia proprio con le sue comparsate televisive: Draghi se ne tiene ben lontano, e del resto un altro politico che è sempre andato pochissimo in tv e non si è mai fatto coinvolgere nei talk è Silvio Berlusconi.

7. Prendete due persone ugualmente istruite: uno guarda i talk tutte le sere, uno non li guarda mai. Il primo non risulterà in nessun modo più informato del secondo. Io non ho mai guardato un talk per più di dieci minuti in vita mia. Non capisco come una persona possa arrivare all'undicesimo senza addormentarsi. Il contenuto di un talk di due ore si può sintetizzare in un testo leggibile in cinque minuti. 

8. I talk sono diventati il paesaggio informativo: non li guardiamo ma diamo per scontato che ci siano e che li guardino gli altri. Questo in parte potrebbe spiegare come mai molta gente si consideri oppressa dalla politica e dai dibattiti da talk show benché persino in televisione ci sia un'abbondanza mai vista di contenuti alternativi. Tutte le culture anti-"mainstream" insistono molto sul concetto che occorre spegnere la tv: se chiedi a un adepto di che tv stia parlando, invariabilmente si tratta dei talk show. Ed è sempre un talk show che hanno guardato più di te. Il novax medio dice di non avere la tv in casa ma sa distinguere un virologo televisivo dall'altro, io non ho mai imparato ad abbinare nomi e facce.

9. Non esistono ricerche in merito e non saprei come farle, ma ho il forte sospetto che il pubblico dei talk show sia per lo più composto da spettatori che detestano i personaggi – così come del resto chi guarda i programmi di cronaca nera detesta gli assassini e li vorrebbe catturati e puniti. La maggior parte dei pupazzi è sulla ribalta per farsi detestare, e lo sanno: si comportano odiosamente perché in questo consiste l'ingaggio. 

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Vogliono sapere chi è il Buono (i ragazzi)

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I ragazzi vogliono sapere se ha ragione Putin piuttosto che Zelensky, e se i russi sono i buoni e gli ucraini i cattivi. Le cose sono più complesse ma i ragazzi vogliono sapere questo, e fino a una certa età non hanno torto. Ne sono abbastanza convinto. Per capire le cose complesse devi prima averle studiate semplici. I ragazzi vogliono sapere chi ha cominciato: non puoi ogni volta ripartire da Pietro il Grande o da Ivan il Terribile. Vogliono sapere chi è il nazista, e quando scoprono che ce n'è da entrambe le parti ci restano male. Perché sono ragazzi. Ed è giusto che siano così. 


Ma è giusto anche crescere. E un sacco di gente qui sopra dovrebbe farlo. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Questo è Paolo di Tarso, dalla prima lettera ai Corinzi, che forse ha fondato il Cristianesimo ma era anche un infiltrato del Sinedrio, o più probabilmente dei Romani, per dire quanto siano complicate le cose. E subito soggiunge: adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro. Questo è essere adulti: trovarsi davanti a uno specchio – e quindi, tra le altre cose, ingombrati dalla nostra stessa figura che ci impedisce di capire le cose interessanti sullo sfondo: il nostro cosiddetto punto di vista è anche il nostro limite, l'orizzonte insuperabile. Certo, Paolo un modo per superarlo sosteneva che lo avremmo trovato. E siccome parla di uno specchio, viene da pensare che il suo Regno dei Cieli ci avrebbe colto alle spalle: all'improvviso ci saremmo voltati, e avremmo visto la realtà, simile a come la vedevamo specchiata ma anche completamente diversa – uno straniamento simile a quello che ci dà il nostro volto quando lo vediamo in videocamera invece che allo specchio – e soprattutto senza il nostro Io tra i piedi, finalmente affrancati dalla nostra Soggettività, dai nostri desideri, dalle nostre paure, un giorno noi avremmo visto il mondo com'è davvero, come i ragazzi pretendono di vederlo. 

I ragazzi possono anche accettare che esistano diverse narrazioni: che i russi la raccontino in un modo e gli ucraini in un altro. Però poi vogliono sapere qual è quella vera. Non gli interessa Pirandello, non li appassiona Rashomon, loro pretendono l'Oggettività e se gli chiedi: esiste questa classe quando non ci siete dentro? propongono di accendere la webcam. L'eterogenesi dei fini è molto al di là del programma di terza media – le avessero trovato un nome più sexy chissà, ma io stesso comincio a sbadigliare appena dico eterogenesi.

Parlando di specchi (e di voltarsi all'improvviso) mi è venuto in mente Cartesio. Almeno una volta all'anno mi piace raccontare la storia di Cartesio che a furia di dubitare di tutto, scopre di non avere nessuna prova per sostenere che esista alcunché: tutto potrebbe essere stato creato da un demone un istante fa, ecco, questa cosa fa sempre il suo porco effetto perché anche oggi alla fine i ragazzi stanno crescendo a pane, bufale e antibufale, ogni tanto rivelano una propensione ormai istintiva al debunking, qualsiasi cosa gli racconti potrebbe essere falsa e alla fine il dubbio cartesiano non è che il punto estremo a cui tende ogni complottismo e ogni debunking: tutto quello che sappiamo è falso; il demone ora si chiama Bill Gates o George Soros ma il suo mestiere è più o meno lo stesso. E l'unica via di uscita sembra ancora quella scoperta da Cartesio, che se devo essere onesto mi è sempre parsa un cunicolo fragilissimo, ma tant'è: Io Penso. 

Potrei essere una gelatina in fondo al mare, uno schiavo in una caverna, un servo sciocco dei potenti della terra, ma qualcosa sto pure pensando. Leggo storie, le confronto, alcune mi sembrano più verosimili perché col tempo ho sviluppato un gusto per la verosimiglianza, un senso per i rapporti causa effetto, alcuni trucchi che di solito mi danno soddisfazioni (ad es. se c'è chi parla di sesso e chi parla di economia, di solito ha ragione chi parla di economia: insomma è più facile che questa guerra si faccia per un gasdotto che per il gay pride. Ma potrei sbagliarmi). Tutto questo l'ho sviluppato perché ho studiato storia, sin da bambino. E all'inizio l'ho studiata molto semplice, su libri con tante illustrazioni, perché ero bambino. Ma le illustrazioni erano molto belle, la storia era ben raccontata, e oggi eccomi qui. Vedo gente intorno a me che non riesce a staccarsi dallo specchio: credono di vedere la Russia e l'Ucraina, e perfino la Crisi dell'Occidente – secondo me si stanno guardando i brufoli del naso. Ma come posso dirlo? Forse che non ho anch'io il mio bello specchio davanti? Sì, e infatti i miei brufoli li vedo benissimo: ho imparato a strizzarli e anche che nella maggior parte dei casi è meglio ignorarli, un giorno se ne andranno o forse no, ma comunque non sono interessanti. Come faccio a sapere che quel che vedo io è più oggettivo di quel che vedono tanti altri? Ragazzi, mi dispiace, non posso saperlo. Posso solo leggere, informarmi, ascoltare più campane possibili, e poi.

E poi devo scommettere. 

Ovvero, no, non sono obbligato. Posso anche aspettare e vedere come va a finire. Ma non lo trovo sportivo, ecco. La storia che ho studiato è piena di gente che si è guardata intorno, ha fatto un po' di calcoli, e poi si è buttata. Non sempre ci hanno preso, è il senso del gioco. Io non ho le responsabilità di una Giovanna d'Arco o di un Churchill, ma da che pulpito potrei mai giudicarli, se non provo qualche volta a buttarmi anch'io? Vivere nella storia significa buttarsi, ogni giorno è l'otto settembre, le informazioni non sono mai complete, chi ti spara addosso non è necessariamente quello a cui dovresti sparare tu. Senz'altro posso nascondermi in un angolo, continuare a leggere storie su storie e aspettare che arrivino i vincitori a bruciare quelle dei perdenti. Un sacco di gente ha sempre fatto così, e un'altra cosa che la gente fa è eliminare i documenti imbarazzanti. Sarà interessante, tra qualche tempo, verificare come si riposizioneranno i sostenitori di Putin, se Putin perde. Oppure vincerà, e in quel caso sarà interessante vedere come mi riposiziono io. So benissimo che nessuna delle due parti ha il 100% di ragione, lo 0% di torto. So persino che "ragione" e "torto" non sono categorie storiografiche. Io però qualcosa ai ragazzini lo devo dire, e gli dico così: studiate, leggete il più possibile, quando qualcuno vi sembra molto convinto andate a cercare qualcun altro che sembra molto convinto della tesi opposta. Imparate anche a riconoscere in voi stessi un limite, perché se la fuori c'è gente che la racconta esattamente come vi piace, non significa che conoscono meglio la storia; più probabilmente conoscono meglio voi e verificate subito se non vogliono vendervi qualcosa; e a parte questo, per quel che mi riguarda, dopo aver lungamente studiato e ponderato, mi prendo la responsabilità di dirvi che questa è una guerra imperialista e che la Russia non ha alcun diritto di devastare l'Ucraina. Almeno questo è quel che penso io: voi studiate e poi ditemi se ho ragione. Io posso sbagliare e non ho idea di come andrà a finire. 

Ma sono contento di avervi mostrato il dottor Zivago all'inizio dell'anno, perché ho appena letto che i russi stanno scavando trincee intorno a Kiev (chissà se è poi vero) e mi è venuta in mente una delle scene che vale il film intero, il momento in cui ai soldati si rompono gli stivali, si rompono i coglioni e tornano a casa, dove c'è il nemico più serio: ecco, se potessi scegliere un finale, io indicherei questo.

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Adesso sappiamo quanti buchi servono

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Negli ultimi tre mesi non ho scritto molto qui per vari motivi, l'ultimo dei quali è che quando davvero mi veniva voglia di scrivere qualcosa, era sempre sui Beatles e la riversavo nel Magical Mystery Tournament, che è appena finito, nel modo più prevedibile. Accludo l'ultimo comunicato:

Ops, quasi mi dimenticavo. E il vincitore del Magical Mystery Tour 2021/2022 è...

A Day in the Life (Lennon/McCartney), traccia finale di Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967).

Tutto qui, nessuno ha vinto niente. Io però ho avuto un'opportunità per scrivere ancora altre cose sui Beatles – cose che probabilmente avevo già scritto e meglio, ma è uno di quei casi in cui il percorso (the long and winding road) era molto più interessante del punto d'arrivo (tante grazie, ha vinto il brano che era già numero 1 nel ranking). Per me ormai scrivere dei Beatles è come parlare del tempo – cioè no, perché io mi annoio a parlare del tempo, mentre potrei continuare a scrivere inezie inutili sui Beatles probabilmente all'infinito, mentre il mondo brucia e i compiti da correggere si accumulano. 

Credo che il senso sia esattamente questo: il mondo brucia, la scuola è sempre più complicata, ogni tanto ho bisogno di mettermi a scrivere cose assolutamente inutili e soprattutto che non facciano litigare nessuno – quasi nessuno, dai, ma se avete presente com'è messo facebook in questo periodo vi rendete conto che le tensioni lennonisti vs paulisti sono una cosa da nulla. Credo di essere arrivato ai Beatles proprio per esclusione: mi serviva qualcosa che piacesse a tutti e non offendesse nessuno. Ci tengo a dire che di solito mi piace offendere tutti mentre scrivo, e litigare on line è sempre stata una passione che ho coltivato più del sesso, non scherzo, il sesso è più piacevole ma litigare on line mi veniva più spontaneo, ma a questo punto della mia vita è come se avessi bisogno di un'oasi, un'Arcadia in cui mettermi a scrivere all'infinito le stesse storie di pastorelle o scarafeggi. E non di me, un'altra cosa importante è che ero stanco di scrivere di me, ma rileggendo questo paragrafo direi che mi è tornata la voglia. 

Vabbe', tornando ai Beatles ricordo che anche se A Day alla fine ha vinto tutto, non ha mai stravinto: anche prima della discussa semifinale contro Eleanor Rigby, i margini contro le contendenti erano sempre di poche decine di voti. Arriva sempre prima, ma sempre di poco. Credo che a farla preferire sia proprio la sua natura compromissoria: è sperimentale ma è anche una ballata struggente, è di John ma è anche di Paul, c'è l'orchestra ma serve a far rumore, è in Sgt Pepper ma non c'entra niente con il mood di Sgt Pepper, parla di una morte assurda e tragica, ma cerca di buttarla in ridere. Forse se dovessimo scegliere soltanto una canzone per spiegare chi erano i Beatles, sarebbe quella che tiene assieme più sfaccettature del fenomeno. Ma grazie al cielo non lo dobbiamo fare. E grazie a tutti voi per avermi tenuto compagnia (compreso i bot, ciao bot, mi dispiace che non ha vinto Eleanor, però in effetti mi sembra la scelta ovvia per un bot). Spero di avere ancora tantissimo tempo per scrivere inezie su cose inutili, magari non sui Beatles ma ugualmente inutili. 

CLASSIFICA FINALE

1. A Day in the Life 

2. Hey Jude 

3. Eleanor Rigby 

4. Strawberry Fields Forever

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Il tabellone

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Il lacerante dilemma del pacifista occidentale (come se a qualcun altro interessasse)

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Tra le tante opinioni che ho letto disordinatamente in questi giorni, il concetto che mi è rimasto più attaccato alla coscienza è quello di "westplaining" – il solito neologismo americano, sì, ma l'idea mi è abbastanza familiare e risuona sulle stesse corde del mio pacifismo (vedi per esempio qui). La sensazione che la responsabilità della guerra in Ucraina sia da attribuire all'espansionismo Nato e Ue non sarebbe soltanto quella che più piace raccontarci a Putin e al suo ufficio stampa, ma anche "westplaining", ovvero una spiegazione che serve soprattutto a noi occidentali e ci conforta sul fatto che qualsiasi cosa succeda in Europa o altrove sia comunque causata da noi (qui un'invettiva molto più sanguigna). Il mondo, com'è noto, pesa sulle nostre spalle: non solo su quelle dei nostri governanti, che in effetti partecipano ai summit della più grande alleanza militare della storia dell'umanità; il mondo ricade anche sulle spalle di noi pacifisti, che allo scoppiare di ogni guerra ci scopriamo lacerati da dilemmi dolorosi: sostenere l'Ucraina o chiedere la cessazione illimitata delle ostilità? Zelensky eroico difensore del suo popolo o pazzo scriteriato che sta portando l'Ucraina alla rovina? Come se all'atto pratico a Zelensky interessasse la nostra opinione: come se davvero dipendesse da noi se all'Ucraina arriveranno armi o solo belle parole. In questo non siamo poi molto diversi, noi pacifisti occidentali, dai nostri acerrimi nemici sin dai tempi della prima guerra in Iraq: gli interventisti casco-in-testa, i neocon sempre con un po' di democrazia in tasca che vorrebbero esportare da qualche parte dove abbia ancora un valore, gli appassionati di scontro delle civiltà. Per loro non siamo intervenuti abbastanza, non siamo intervenuti in tempo; noi invece magari temiamo di essere intervenuti troppo, ma insomma il dibattito rimane una cosa tra noi. Agli ucraini e ai russi è inutile chiedere, anche perché sappiamo tutti che razza di propaganda c'è laggiù, ogni fazione tira acqua al suo mulino eccetera.  

E però la guerra dura da due settimane ormai (ed è credo la più grande alla quale ho assistito in vita mia, questo va detto: sì, ci sono state molte altre guerre e alcune si combattono tuttora, ma l'invasione di un Paese grande e popoloso come l'Ucraina è un fatto nuovo, non solo per la vicinanza, ma per la mera quantità: milioni di profughi sono qualcosa che non prevedevamo e non sappiamo come gestire). Dicevo: la guerra dura da due settimane ormai, e se mi è concesso trarne una conclusione provvisoria, direi che gli ucraini non vogliono arrendersi. Può darsi che convenga a loro e sicuramente converrebbe a noi: se non sta succedendo, non è per la tigna di un presidente guitto (chi siamo noi, tra l'altro, per giudicare i guitti presidenti). È probabile che la Nato avrebbe dovuto accostarsi col piede più cauto alla frontiera russa, ma indipendentemente da tutto ciò, se c'è una costante nella storia del popolo ucraino dall'indipendenza in poi, è che loro coi russi non ci vogliono più stare. Magari da un punto di vista geopolitico hanno torto – lo aveva anche Mazzini nel 1830, l'Italia della Restaurazione era davvero un'espressione geografica e mancava dei requisiti minimi per diventare una repubblica unitaria. Non sono un fanatico dell'autodeterminazione dei popoli, ma insomma direi che la volontà complessiva del popolo ucraino a questo punto mi risulta abbastanza evidente: se persino molti russofoni preferiscono combattere sotto le insegne gialle e azzurre, questa cosa devo accettarla. Forse anche ammirarla.  

Questa è la mia opinione provvisoria che non intendo imporre a nessuno. Non è la prima volta che una guerra mi crea problemi di coscienza, anzi mi sembra di ricordare che questo succeda in tutte le guerre: solo quella in Iraq mi sembrò assurda sin dall'inizio, magari ci ho azzeccato per caso. Il modo in cui di solito reagisco alla mia personale confusione è rimarcare che intorno a me c'è gente che opinioni persino più confuse: potrei farlo anche stavolta, si legge roba talmente assurda in giro. Ma è un trucchetto, in realtà la maggior parte delle opinioni che vedo sono ragionevoli e ragionate: il dilemma ognuno cerca di risolverlo come può. Mi manca, questo sì, un dibattito che forse non c'è mai stato, ma una volta almeno si fingeva che fosse possibile: ora è tutto molto più polarizzato. Una cosa che forse si è un po' persa, dal 2020 in poi, è che chi ha opinioni diverse dalle nostre non è necessariamente un nemico del popolo – cioè dipende: diciamo che se continui a sostenere che il covid non esiste, che le bare di Bergamo sono una montatura, che la mascherina fa male al naso e che i vaccini sono un complotto di Bill Gates a un certo punto varchi un confine oltre il quale sei pericoloso per la mia salute. Anche in questo caso in un Paese relativamente libero non sarai perseguitato per le tue idee: al massimo allontanato per qualche tempo dai luoghi in cui metti a rischio la salute tua e degli altri, attraverso una serie di provvedimenti che lasciano perplesse anche molte persone che il covid sanno cos'è e il vaccino lo hanno fatto. Perché siamo relativamente liberi, appunto, perché crediamo che si possano coltivare idee anche molto diverse, perlomeno finché non mandano chi hai vicino a te in terapia intensiva. Dal 2020 ci siamo abituati a questa cosa.

Ora invece di covid si parla di Ucraina, e siccome siamo in un Paese relativamente libero, c'è chi non la pensa come noi: ebbene, non succede niente. Le idee altrui, anche se ci sembrano demenziali, non ci passeranno nessuna malattia. Un pacifista tout court che chiede il disarmo mentre un dittatore rade al suolo città intere ci può sembrare un utopista fuori dal mondo: glielo diremo, sei un utopista fuori dal mondo, ma possiamo stare calmi: non ci contagerà con la sua utopia. (Magari le utopie fossero contagiose).

Invece un tizio serenamente convinto che la Nato possa esportare armi a un Paese non Nato e che questo non verrà interpretato dalla Russia come un atto di belligeranza, per cui avremo una guerra mondiale o perlomeno europea senza neanche avere portato truppe nostre in prossimità del confine, solo tonnellate di armi messe in mano a ragazzini irregimentati in un esercito che tecnicamente non è nostro alleato (e se passa alla Russia?), un tizio del genere potrà sembrarci un atlantista della domenica: ebbene glielo diremo, sei un atlantista della domenica, ma è tutto qui, non ci contagerà col suo atlantismo domenicale.

Un tizio, infine, convinto di essere fuori dal coro perché sta mangiando pane e Sputnik News da dieci anni: uno che esercita il suo fuoricorismo scrivendo esattamente quello che Putin desidera che egli scriva, ebbene un tizio così lo spernacchieremo; gli affibbieremo nomignoli come bimba di Putin che turberanno la sua orgogliosa e rivendicata eterosessualità, e questo è quanto: lo debunkeremo per quanto possibile. Ma non è un infetto, non ci passa la putinite: è solo un tizio che ha opinioni russofile mentre la Russia schiaccia una nazione indipendente. Questo è fastidioso ma siamo in un Paese relativamente libero, si può relativamente fare. Quando non si potrà più, io sarò preoccupato, non relativamente.

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La blatta

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Dicono che l'intestino sia un po' il nuovo cervello e devo ammettere che a volte è proprio quando mi viene in mente di scrivere qualcosa, nel cuore della notte, che l'intestino mi avverte di avere altri progetti, più urgenti. Così invece di mettere giù qualche pensierino fondamentale sulla questione ucraina eccomi in bagno: ho appena acceso la luce, mi sono appena seduto, quando la mia visione periferica mi manda un allarme, ha intercettato una macchia in movimento, qualcosa di nero si muove nel bianco delle piastrelle – ah, è un coleottero. Non proprio uno scarafaggio, no, diciamo una blatta, ma in confidenza, c'è qualcosa di più orrendo di un enorme insetto marrone scuro che spunta all'improvviso dall'ombra sotto al tuo gabinetto? Una presenza aliena in casa tua, nello spazio più intimo e segreto – lì dove ogni uomo siede indifeso – ma da dove arrivano? capissi finalmente da dove arrivano. È la prima della stagione – c'è chi dice che salgono dagli scarichi ma credo sia una superstizione, dovrebbero essere impermeabili per passare. E però la razionalità è una patina sottile, per il mio intestino ad esempio quello è un orribile mostro che sorge dalla fogna per portarmi l'orrore in casa. 

Si è immobilizzato contro il battiscopa, è una cosa che fanno. Non so quanto ci vedano, ma di sicuro percepiscono la luce e benché non abbiano un volto, nulla di ciò a cui di solito noi umani ci affidiamo per cercare di decifrare le emozioni delle altre creature viventi, ho sempre trovato qualcosa di molto espressivo nel modo in cui all'improvviso si immobilizzano: è come se dicessimo, ops, tu non mi hai visto vero? Diciamo che non mi hai visto. Non sono qui in effetti, se anche credevi di avermi visto ti sei sbagliato, sono una macchia qualsiasi. Non hai nessun interesse a schiacciarmi. Lo sai quanto schifo faccio, se mi schiacci, sì?


E un'altra idea che mi sono messo in testa è che la forma che hanno preso da millenni a questa parte serva principalmente a questo, perché in nessun modo quella specie di corazza bombata che hanno li risparmia dallo schiacciamento: anzi li rende più appariscenti e schifosi ma forse hanno deciso di investire proprio in questo, ogni specie si specializza in qualcosa e loro si sono perfezionati nell'arte di fare più schifo possibile quando li schiacci. Le cimici, bisogna ammetterlo hanno avuto un'idea migliore: se schiacciate puzzano. Le blatte fanno semplicemente schifo. Un po' funziona: io per esempio odio calpestarle, e inoltre sono venuto a sedermi qui per un altro motivo. 

E però finché quella macchia continuerà a fissarmi il mio intestino non riuscirà a riflettere come dovrebbe. Non c'è solo lo schifo, l'alieno è lì in un angolo e mi guarda, il mio schifo è sopportabile, la sua paura un po' meno. Quella blatta è davanti al suo destino – quanto mi costa accelerarlo? Strapperò un cospicuo lembo di carta igienica e glielo poserò sopra: non vedrò la sua corazza flettersi e sprizzare fuori la polpa schifosa. 

Non faccio in tempo a pensarlo che la blatta è partita, è come se ci capissimo al volo. Cammina rasente al battiscopa con quelle sei zampine orribili, non ci può essere solidarietà tra mammiferi e mostri invertebrati a sei zampe, siamo venuti al mondo per farci la guerra. A una zampina posteriore rimane intrappolato un batuffolo di polvere. Dove credi di scappare mostro delle fogne?, ecco, ora ti cancello col bianco della carta. Non è vero, la intravedo ancora, e noto che appena ha sentito la carta addosso si è calmata, forse crede di avere trovato un rifugio quando ormai disperava, ed è bello che questo sia il suo ultimo pensiero: un po' di speranza, di sollievo, e poi più niente, non avrà il tempo per accorgersi che è morta: imprimo sulla carta igienica un rapido colpo di ciabatta. 

Forse troppo rapido, perché voglio la blatta morta ma nemmeno una piccola striscia sul pavimento. Dovrei esserci riuscito ma non controllerò. L'intestino reclama le sue ragioni, ora può liberarsi senza più sentirsi osservato e temuto. Nessun senso di colpa: tra uomini e blatte nessuna pace è possibile, nessun negoziato è in corso. La nostra vita è la loro morte. Non ho fatto che difendere la mia proprietà e la mia famiglia. È tempo di azionare lo sciacquone, ma prima devo raccogliere il cadavere: ho infatti intenzione di liberarmene con lo stesso strumento. 

È ancora viva. 

La parte posteriore ha preso una botta mortale, ma tre zampine funzionano ancora e trascinano la carcassa il più lontano possibile da me. Ora succede questa cosa orribile, per cui un insetto senza volto, dalla forma repellente, che finché passeggiava sano sulle mie piastrelle mi risultava un alieno, adesso che si trascina moribondo mi appare così familiare. C'è qualcosa di universale nel modo in cui si comporta, qualcosa che mi sembra di aver visto in centinaia di film: un ferito senza speranza che continua a strisciare, sa di non avere scampo ma non ce la fa a morire fermo. Nella sua condizione la morte dovrebbe essere un sollievo ma gli esseri viventi sono fatti così, siamo tutti fatti così, fratello, ne abbiamo orrore, è l'istinto che ci tiene in vita e che ci allena alle sofferenze più indicibili che io senza goderne ti ho inflitto, e ora devo ucciderti, scusami, io non volevo – cioè, certo che volevo ucciderti, ma nel modo più pulito e indolore possibile, la tua sofferenza io non l'ho cercata, puoi credermi? Non potevo lasciarti andare via ma non volevo che tu patissi e guarda che casino ho fatto, e tu non puoi nemmeno perdonarmi. E con che faccia chiederò io al mio carnefice, quando sarà il momento, un po' di pietà e di pulizia, un velo bianco sugli occhi, un colpo secco spietato e pietoso.

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Siamo sempre stati in guerra con l'Estasia

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Non dovreste essere qui, nei paraggi è pieno di gente che s'intende di Russia e geopolitica, sul serio, sanno tutto. Tre giorni fa sapevano perché Putin non avrebbe mai invaso l'Ucraina e adesso sanno esattamente perché l'ha invasa, chiedete a loro. Quanto a me, è vero, mi è capitato anche di scrivere di geopolitica per 40 euro a cartella o anche gratis ma non è che ne vada fiero, metà delle cose che so le ho imparate su wikipedia. L'altra metà l'ho imparata prima che wikipedia esistesse, in modi abbastanza rocamboleschi, tutta un'avventura di libri abbandonati negli scaffali delle classi che frequentavo oppure ad esempio una volta stavo mettendo a posto una biblioteca in un ashram di Spilamberto, giuro, mi è capitata anche questa, stavo facendo servizio civile che ai miei tempi era l'unica alternativa al servizio militare. Però dovevi crederci, dovevi scrivere una lettera al distretto militare spiegando che in coscienza la guerra ti ripugnava, e guardate che non ero più un adolescente, capivo benissimo che la vita è tutto un compromesso e che il fine giustifica molti mezzi, secondo i miei calcoli sarei riuscito a laurearmi prima della cartolina ma non valeva la pena di rischiare e questo era il vero motivo per cui non volevo andare a militare, però non potevo scriverlo al distretto, al distretto dovevo scrivere che la guerra mi ripugnava e lo scrissi, lo scrissi anche bene (meglio di come sto scrivendo stasera), però non ci credevo davvero – cioè capiamoci, la guerra mi ripugna, a chi non ripugna? Ma in certi casi suppongo che persino io la combatterei. Magari non un mese prima di laurearmi con la bibliografia della tesi ancora da correggere, però ecco, metti che proprio in quel momento ti invade un Hitler – ma anche solo un Putin – io non credo che mi rifugerei in un pacifismo integrale, cioè, dipende. Dovrebbe essere una guerra, ehm, giusta, l'unica che tuttora mi venga in mente è la resistenza a un invasore. O l'insurrezione contro un dittatore, ecco, anche quella. E mentre riflettevo su queste cose stavo riordinando la biblioteca pacifista dell'ashram di Spilamberto, quando m'imbattei in un atlante di geopolitica che mi misi a sfogliare perché aveva tante cartine colorate, ecco dove ho imparato l'altra metà delle cose che so: sugli atlanti a colori. 

Non mi ricordo più che titolo avesse, ho passato due ore l'altra notte a cercarlo o almeno a cercare di capire a che concezione geopolitica appartenesse, perché mi sono reso conto che tutte le mie credenze in materia derivano da quell'atlante – nonché da una inclinazione personale, perché se le didascalie di quell'atlante non avessero detto esattamente quello che volevo sentirmi dire me le sarei dimenticate sulla strada di casa. Ma insomma questo atlante spiegava che la guerra fredda era un conflitto tra una superpotenza oceanica, gli Usa con i satelliti della Nato e della Seato, e una superpotenza continentale: l'Urss coi satelliti del patto di Varsavia. La cosa che più colpì la mia immaginazione fu il dettaglio che l'Urss controllava la zona più centrale del continente più grande, e quello la rendeva inespugnabile a qualsiasi conquista con armi convenzionali. L'atlante poi mostrava la situazione dal punto di vista della superpotenza oceanica, con una proiezione geografica in cui si trovava circondata da tutti i lati dal Gigante Rosso, e dal punto di vista della superpotenza continentale, anch'essa circondata da tutti i lati dal Gigante Blu. Dal mio punto di vista di appassionato di cartine geografiche, si trattava dello stallo finale, non si poteva non dar retta a Fukuyama, la Storia non poteva andare più avanti di così – in realtà non credo c'entrasse in nessun modo il povero Fukuyama, ma guardando le figure sembrava tutto così logico, così determinato. 

Non credo di essere diventato un determinista geografico quel pomeriggio; probabilmente sono sempre stato un determinista geografico: sin da quando ho visto l'impero romano in una mappa del Mediterraneo mi è venuto spontaneo pensare che l'impero poteva esistere solo grazie al Mediterraneo; non era nemmeno un pensiero, era un'evidenza, dovunque arrivava il Mediterraneo erano arrivati anche i Romani; non fossero stati loro sarebbero stati gli abitanti di qualsiasi altra città ma a un certo punto della Storia il Mediterraneo doveva conoscere una fase di unione politica ed economica, lo imponeva il modo in cui è fatto il Mediterraneo. Allo stesso tempo, il modo in cui sono fatti i continenti prima o poi avrebbe portato a uno stallo tra una potenza oceanica e una ben ancorata nello scudo del continente più grande e impenetrabile. Lo aveva capito persino Napoleone, che si trattava di sparigliare tra Russia e Impero britannico – ma gli andò male. Lo aveva capito il kaiser Guglielmo, lo aveva capito Hitler. Capire insomma è abbastanza facile, quel che è difficile è ammazzare tutti quei russi, penetrare lo scudo continentale, su cui si sono infrante le velleità di tutti gli imperi. 

Erano però già gli anni Novanta, quell'atlante sembrava roba vecchia, come del resto tutti i nostri incubi nucleari e la roba che ho studiato io, a quei tempi se frequentavi le biblioteche e spulciavi solo i libri usati la contemporaneità ti scivolava intorno. La guerra fredda era finita, il mondo non era più bipolare, i russi non erano più nostri nemici o se lo erano non ci bastavano, avevamo bisogno di nemici più interessanti, l'anno dopo la Nato bombardò Belgrado e fu imbarazzante, come se all'improvviso gli americani avessero scoperto i massacri della Bosnia di qualche anno prima e avessero detto hey, che storia, possiamo rifarla più o meno nello stesso posto aggiungendo un lieto fine in cui bombardiamo i cattivi e salviamo i buoni? Poi ci fu l'11 settembre e il Nemico divenne l'Islam, una minaccia lievemente più credibile del panslavismo di Milosevic, ma solo lievemente, insomma Bin Laden sembrava davvero anche lui un personaggio magari ispirato a un vero mujaheddin, ma perfezionato a Hollywood. Nel frattempo ci guardavamo intorno, il mondo era diventato più complicato, la Cina era una dittatura ma anche il baluardo del comunismo mondiale ma anche la nazione che si poneva con più senso di responsabilità il problema del controllo delle nascite, anche se proprio la drastica politica del figlio unico dimostrava inequivocabilmente che si trattava di una dittatura, e così via. L'Unione Europea era la patria delle democrazie ma anche l'organizzazione burocratica che minacciava la democrazia interna dei paesi membri. La globalizzazione era una buona cosa perché ci rendeva tutti interconnessi – rendendo più disagevoli i conflitti – ma anche una cosa sbagliava perché, beh, per un sacco di motivi ma soprattutto perché il dumping salariale delle nazioni in via di sviluppo rischiava di abbassare sensibilmente la qualità della vita della classe media europea, cioè il nostro. 

Insomma ogni cosa era un dilemma, e magari per qualcuno è ancora così. Per cui ogni tanto capitava davvero di provare un po' di nostalgia per gli schematismi della guerra fredda, il tempo in cui tutto non era affatto migliore, ma ecco, un po' più semplice. Non pretendevamo che fosse Buoni contro Cattivi, noi saremmo stati senz'altro né con Reagan né con Breznev, ma almeno avremmo avuto soltanto due partiti tra cui non-scegliere. Invece eravamo contro la globalizzazione dei mercati ma contro la segregazione dei popoli, contro la Nato ma anche contro qualsiasi nemico della Nato, contro l'integralismo islamico ma anche contro Israele, ed è questo il grande paradosso del pacifista integrale, che non potendo fare paci separate con nessuno alla fine si ritrova contro tutti. 

Perché parlo al passato? È ancora così: ora tocca stare né con la Nato che non avrebbe dovuto stuzzicare i russi e illudere gli ucraini, né con la Russia che è una dittatura oligarchica e imperialista. Si potrebbe stare coi poveri ucraini che si stanno difendendo da soli, e davvero dal loro sacrificio dipende anche il nostro futuro, ma c'è questo particolare che tra loro esistono anche bande neonazi. A parte questo cosa succederà? 

Come faccio a saperlo? Ho imparato la geopolitica dai libri con le figure colorate. Ma sarebbe veramente notevole se dopo questi trent'anni d'interregno si ritornasse a una guerra fredda tra una superpotenza oceanica postcoloniale (la Nato) e una superpotenza imperialista asiatica: quest'ultima non può più essere la Russia, i piedi d'argilla glieli abbiamo visti tutti, ma la vera novità che sta uscendo dalla macerie di questi mesi forse è l'asse Mosca-Pechino. Quello che Nixon, sì, il perfido Nixon riuscì a smontare, e che i suoi successori hanno lasciato serenamente che si ricostruisse, per insipienza o perché forse conviene persino agli Usa: se la Cina si prende la Russia, alla UE non resta che saldarsi sempre più forte al nordamerica, e il multipolarismo finisce così. Può persino darsi che fosse inevitabile, che nel mondo globalizzato e interconnesso ogni fase di relativo caos tenda a un equilibrio tra due superpotenze mondiali, e che una debba sempre controllare gli oceani e l'altra l'Asia, perché il mondo è fatto così: in un altro le cose andrebbero diversamente, ma abbiamo solo questo. 

Magari nelle prossime settimane qualcuno ritirerà fuori lo Scontro delle Civiltà, ecco, io l'ho sempre trovata una concezione del mondo molto stupida, ma il libro no, non l'ho letto. Però ho guardato le cartine. Mi sembravano molto stupide, disegnate da nerd americani in fissa coi giochi da tavolo. Il multipolarismo alla fine è un po' questa idea che le guerre mondiali funzionino come il Risiko, se giochiamo in cinque ognuno cercherà di colpire l'altro. Nelle guerre vere storicamente non succede così: anche se le parti sono più di due, alla fine il conflitto si cristallizza in una fondamentale opposizione, dopodiché qualcuno perde e i vincitori si spartiscono le spoglie, magari litigando subito dopo. Ma poi cos'è questa cosa che chiamate civiltà – temo che anche questa sia geograficamente determinata, Oceania si è innervata sui percorsi dei mercanti europei ed è una società ipermercantile fondata sulla connessione e sullo scambio, ha inventato il capitalismo e lo considera una specie di stato di natura, a dispetto che sia ancora più distruttivo della natura. L'Estasia è una burocrazia centralizzata, in certi punti lo è da migliaia di anni in cui governare significava pretendere da tot contadini tot imposte; in un momento molto recente è incocciata nel marxismo e ne ha fatto un'ideologia, a tratti una religione, ma è stato quasi un evento accidentale, qualsiasi dottrina politica avessero abbracciato tra 1930 e 1950, probabilmente oggi non sarebbero molto diverse da quello che sono: la Russia un'oligarchia capitalista, la Cina una teocrazia totalitaria. O forse sono già diventate qualcos'altro che non so, cosa volete che sappia io. Sono il nostro nuovo nemico ma a dividerci, più che le idee o altre cose ancora più superficiali come la lingua o il colore della pelle, è semplicemente il fatto che la loro civiltà è sorta nella sezione centrale di di un grande continente, mentre noi ci siamo trovati a fiorire ai bordi. Tutto qui, niente di personale, ora passeremo magari un altro mezzo secolo a temerci l'un l'altro, a sponsorizzare guerricciole cretine nei Paesi sventurati che si ritrovano nella terra di nessuno, ad accumulare armi che non abbiamo la minima intenzione di usare, a pregare che nessun pazzo da entrambe le parti decida a un certo punto di usarle. Ho il sospetto che per quelli della mia età sia quasi un sollievo. Siamo in guerra con l'Estasia: siamo sempre stati in guerra con l'Estasia, a guardar bene.

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Continuerò a nominare le donne con l'articolo determinativo, anche se oggi è sbagliato

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Buongiorno a tutte e tutti. Non è che abbia nulla di importante da aggiungere sull'argomento, ma siccome vedo si continua a parlare di schwa, e se ne parla soprattutto grazie ai detrattori dello schwa (perché è così che funziona, sempre, ma tanto non mi ascoltate), ora mi metterò sulla scia. Ne approfitto per dare una spiegazione a chiunque si ostini a venire a leggere qualcosa qui. Nessuno me l'ha chiesta, nessuno forse la leggerà fino in fondo, ma insomma prima o poi sento di dover spiegare perché mi ostino a scrivere certe parole in un certo modo. La fondamentale questione che affronterò qui sotto è l'articolo determinativo davanti al cognome femminile, che per una questione di linguaggio inclusivo molti tendono a eliminare. Io no. 

A meno che qualcuno non riesca a farmi cambiare idea – ma lo sapete quant'è difficile – io continuerò a usare l'articolo determinativo davanti al cognome femminile. Questo in pratica significa che laddove mi capitasse di scrivere un pezzo in cui compare, per fare un esempio, l'attrice Isabella Rossellini, io cercherei per quanto possibile di scrivere sempre nome e cognome per esteso; ma se per brevità dovessi eliminare il nome, la chiamerei "la Rossellini", mentre se scrivessi soltanto "Rossellini" probabilmente starei alludendo al padre regista. Ora, non c'è dubbio che questa abitudine – che quando ho imparato a scrivere era considerata una buona abitudine – possa essere intesa in senso discriminatorio: io però ci ho ragionato molto e ho deciso che non la sto usando in questo senso e che quindi continuerò a usarla. Perché?

Non lo faccio perché io creda, come si credeva fino a qualche decennio fa, che le donne siano in qualche modo meno 'proprietarie' del loro cognome: per me la Rossellini ha gli stessi diritti di suo padre di chiamarsi così. Si tratta di una questione pratica, perché è la pratica che mi orienta sempre in queste situazioni: così come lo schwa mi sembra poco pratico, allo stesso modo abolire l'articolo mi toglie un sistema molto semplice per distinguere, in un testo scritto, una persona di sesso maschile da una persona di sesso femminile. E veniamo al nucleo del discorso: distinguere non è (necessariamente) discriminare. A chi mi chiedesse: perché ci tieni tanto a far capire sempre e comunque che la persona di cui tu parli ha un determinato sesso?, risponderei: non è che ci tengo tanto, ma se la lingua che sto usando mi dà la possibilità di veicolare con lo stesso numero di parole un'informazione in più, perché me ne devo privare? non vedete quanto sono già lunghi i pipponi che scrivo? Se ho la possibilità di mostrare a tutti i lettori, con due lettere, che una persona di cui sto parlando è una donna (o un uomo), perché devo rinunciarvi, col rischio di dover poi precisare nel paragrafo successivo che appunto, si tratta di una donna (o di un uomo)? Per me è una questione di praticità e basta.

Non lo faccio perché io voglia discriminare le donne, né in modo negativo né in modo positivo: voglio solo un modo pratico per riconoscerle (e per riconoscere gli uomini). Se da domani si decidesse di togliere l'articolo alle donne e metterlo agli uomini per me andrebbe ugualmente bene (salvo che no, non funziona così: la scrittura è un'abitudine, e rompere le abitudini è complicato per me che scrivo e per voi che leggete). Purtroppo in italiano non si è omologato come in altre lingue l'uso di anteporre sempre l'appellativo al cognome: se scrivessi, per dire, in francese, "Mme" e "M" mi toglierebbero d'impiccio. Così in inglese Mr e Ms. In italiano "signore" e "signora" non sono altrettanto elastici: una situazione più equa sarebbe introdurre l'articolo anche davanti ai cognomi maschili, alla milanese; se qualcun altro lo propone posso anche provarci, ma alla fine la soluzione che abbiamo è più economica. 

Non lo faccio per litigare – sul serio, in realtà a me piace litigare, ma spero di trovare sempre argomenti più interessanti, e a tal proposito devo dire che in questi giorni, tra una pandemia e una probabile guerra in Ucraina, questa idea che qualcuno possa preoccuparsi tanto per l'uso di uno schwa in un documento, che qualcuno stia veramente in ambasce per via del linguaggio inclusivo mi suona quasi divertente: qui siamo oltre all'orchestrina del Titanic, siamo a quelli che ascoltavano l'orchestrina e avevano da ridire sull'acconciatura del batterista. Allo stesso modo, mi è già capitato di notare che qualcuno si risentisse perché scrivevo un cognome femminile con "la" davanti, ma in tutti i casi era gente già arrabbiata con me per motivi più seri. 

Non lo faccio per oppormi a un movimento che lotti per la maggiore inclusività e pariteticità nella lingua italiana, non avendo io nessun reale motivo per oppormi. La lingua cambia ed è molto probabile che questa mia abitudine (che ripeto, quando cominciai a scrivere era una regola) molto presto venga interpretata come un vezzo, e magari un vezzo che riveli il sessismo inconsapevole della mia generazione. Posso capirlo e mi sta bene: sono cose che succedono continuamente, ci basta aprire qualsiasi libro o giornale di trent'anni fa per trovare già espressioni che oggi suonano strane e a volte fastidiose. E allo stesso tempo quelle espressioni sono vere, sono il motivo per cui studiare testi del passato è straniante e affascinante, e modificarle equivarrebbe ad alterare subdolamente il passato.

Siccome nel mio passato ho scritto molte cose imbarazzanti ma (grazie al cielo) nulla di davvero incriminante, non modificherò nulla: e non modificherò nemmeno il modo in cui scrivo adesso, ormai è una questione di coerenza. Lo so, è la coerenza dei testoni, del resto quando cominci a fare una cazzata, più passano gli anni più costa fatica ammettere che hai fatto una cazzata. Verso i 45 anni si arriva a un punto di rottura, molta gente si converte in quel momento perché dopo è praticamente impossibile, l'energia necessaria ad ammettere la cazzata diventa così grande che ti distrugge. Quel punto di rottura, credo proprio di averlo sorpassato: l'idea di aggiornarmi per far piacere agli inclusivisti di oggi mi ripugna un poco, temo che sia persino fatica sprecata in un momento storico in cui ti basta dare un calcio a un sasso e ci trovi sotto un tizio che ti spiega come scrivere correttamente per non offendere qualcunə. Mi conviene restare dall'altra parte, un museo vivente degli usi e costumi linguistici del secolo scorso. Magari con questa scusa qualcuno mi verrà a trovare più spesso. 

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Un pezzo su Sanremo non me lo paga nessuno, comunque ecco gli appunti

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2/2
Cioè hanno fatto la versione techno da autoscontro di Amandoti dei CCCP e l'hanno fatta cantare a una spagnola al festival di Sanremo, è un siparietto comico?



3/2
La metto giù da cretino. Checco Zalone fa un numero di repertorio (a naso è fine anni '90) in cui recita la parte del viados. Probabilmente tra tante cose sue è stata scelta perché c'era l'orchestra, e far suonare all'orchestra la sigla delle fiabe su disco "A Mille ce n'è..." è un richiamo irresistibile per il pubblico di una certa età. Gli altri hanno anche il diritto di restare freddi.
Il bersaglio satirico primario, diciamo il livello 1, è il cittadino benestante (il re della fiaba) che esecra pubblicamente i viados ma poi approfitta dei loro servizi. È una satira contro l'ipocrisia.
Checco-Zalone, ricordo, è un personaggio, un cozzalone, anzi "Che cozzalone!": incarna lui per primo uno stereotipo: non è come Fiorello che te lo immagini in casa esattamente come in studio e ti viene l'ansia. La sua satira è sempre almeno su due livelli, e al livello 0 c'è lui che fa il viados con l'accento brasiliano: una cosa che fa ridere perché gli stereotipi fanno ridere (anche se non sono corretti), e perché l'uomo-donna fa ridere, la confusione sessuale, fa ridere (anche se secondo me è spesso un riso d'imbarazzo, ma forse proietto).
Dunque se ho ben capito la maggior parte di chi critica il numero di Checco Zalone al livello 1 non c'è neanche arrivato. Non ha capito che il vero zimbello della storia è il re che fa finta di trovare scandaloso il viados ma in realtà è un suo cliente. Non si può dire nemmeno che non abbiano capito un sottotesto, perché non è un sottotesto: è il testo, è quello che Zalone canta nella canzone. Non l'hanno ascoltata, si sono fermati all'intonazione brasileira. C'è questo problema, che l'indignazione facile ti risparmia la fatica di ascoltare letteralmente quel che ha da dire un attore, anche un attore popolare e popolaresco come Zalone.
La maggior parte di chi critica il numero di Checco Zalone gli rimprovera di usare uno stereotipo, e qui io temo di dover sostenere che non si dà comicità senza stereotipi, e mi dispiace molto perché a questo punto qualcuno proporrà di abolire la comicità e qualcuno sospirerà: ok, se per ogni numero comico dobbiamo sorbirci critiche del genere, chiudiamola qui e riapriamo tra una generazione quando tutto sembrerà completamente nuovo e un peto con le ascelle farà il tutto esaurito (a quel tempo noi saremo i vecchi noiosi che trovano tutto scandaloso).
Qualcuno sosterrà, e potrei anche dargli ragione, che tra tanti stereotipi che CZ poteva tirar fuori il viados non era né il più fresco (la frecciata a Lapo è un indizio della deperibilità del materiale), né il più adatto a un festival che come ogni festival canoro è sempre molto più genderfluido del pubblico che intrattiene. Giusto. Io magari potrei obiettare che tutti gli spettacoli in cui uomini si travestono da donna e viceversa sfruttano questo tipo di stereotipi e questo tipo di comicità, compreso cose che hanno il loro bel sigillo di approvazione Lgbtq. A questo punto dovreste spiegare al cretino perché una drag queen può lavorare su questi stereotipi e CZ no, e cercare di convincerlo che non è una banale battaglia di posizione: CZ no perché è cisgender. Poi è vero, il contesto è tutto, la stessa parola può essere becera se la dice un etero e autoironica se lo dice un non-etero. Ma questa è la fregatura: il pubblico etero continuerà a trovarla becera, continuerà a ridere di una drag perché è buffa, non perché è liberatrice. Oppure (come il re ipocrita) ne approfitterà per solleticare in sé istinti che non ha intenzione di socializzare.


4/2 
Lo so che è tanto liberatorio, ma ho paura che se non la smettiamo tutti di bullizzare Achille Lauro perché è rimasto incastrato nel suo ruolo di trasgrescio-per-famiglie – e quando dico "tutti" intendo soprattutto te, Osservatore Romano – se non la smettiamo di fare spallucce e sì vabbe' queste cose le ha già fatte David Bowie / Jim Morrison / Panariello nei panni di Renato Zero, poi finisce che un giorno lui sbrocca davvero e chi se ne potrebbe accorgere?, un attimo prima è lì che si prende le coccole da Mara Venier e il momento dopo estrae un blackandecker a batteria e comincia a sventrare gli orchestrali impedendo loro di completare il pensiero "queste cose le faceva meglio mio cugino che nel 1997 suonava in una cover band di Marilyn Man –

(Nel frattempo Grignani fa perdere al regista dieci mesi di vita).


5/2
C'è questo giornalista mi pare del Messaggero che ogni giorno in conferenza stampa a Sanremo fa delle domande e nessuno riesce a rispondergli: Amadeus, il direttore della Rai, quegli altri, nessuno, in compenso lo odiano e lo chiamano Mattia come se fosse il ragazzino che gli porta le bibite. Dopo due giorni che stressava per capire quanto avrebbe contato il voto della sala stampa in percentuale – due giorni in cui hanno continuato ad arrampicarsi sugli specchi declinando supercazzole e dimostrando di non avere la minima idea, probabilmente in monte a tutto c'è uno stronzo con un foglio excel blindato e non lo fa vedere a nessuno (c'è sempre uno stronzo così e senza di lui crolla tutto) – oggi ha fatto notare semplice semplice che Morandi, invitando Jovanotti oltre il termine prefissato dal regolamento (24 gennaio), ha perlappunto violato il regolamento. Non ha completato il ragionamento, ma posso provarci io: ieri Morandi ha vinto la serata, se putacaso oggi batte Mahmood e Blanco scoppia un casino. Di fronte a questa evidenza conclamata, la reazione di Amadeus è da antologia, anche se dubito la rivedremo mai nelle Teche Rai: gli casca completamente la maschera da amicone e dice: io sono una persona corretta, e se tu pensi che io non sia una persona corretta, beh ieri ho fatto il 60% "e me lo voglio godere", quindi la correttezza c'est lui. Il direttore di rete (credo sia lui) ha aggiunto che anche lui è una persona molto corretta e tranquilla, e ha fatto bene a dirlo perché in quel momento allo spettatore occasionale poteva sembrare una persona arrabbiata che aveva consentito ad Amadeus di falsare il concorso e di ammetterlo in conferenza stampa, più che teche rai potremmo vedere il filmato tra qualche ora nella sezione pornhub degli avvocati. A questo punto, considerato che la gara è falsata, che anche quel 60% viene estratto da cadaveri di gente morta addosso all'auditel dopo tre ore di cover, che Mahmood Sanremo l'ha già vinto e l'eurofestival non lo vince neanche stavolta, io propongo come vincitore morale di Sanremo duemila-duemilaventi Mattia del Messaggero, scusa Mattia ma a furia di sentirti chiamare Mattia del Messaggero anch'io mi sono scordato il cognome. (Scherzo, si chiama Marzi).


6/2
Scusate ma mi sto innerdando con l'età: era mai successo che sul podio ci fosse solo gente che aveva già vinto? E inoltre Mahmood ha già vinto il doppio di volte di Albano Carrisi (e di Gianni Morandi).

[Postilla del 20/2] 
Il successo del cantante Achille Lauro nella prestigiosa gara canora della Repubblica di San Marino mi dà l'occasione di mettere per iscritto tutta una mia ipotesi abbastanza complottista ma ormai sono fatto così, non riesco più a tenermele, fb è diventato il mio pannolino.
1. Chi ha seguito Sanremo negli ultimi anni (e non ha nessuna scusa) credo che abbia potuto notare che fino all'anno scorso molti cantanti avevano puntato sulla coreografia un po' a sorpresa: cioè durante l'esibizione il cantante faceva anche qualcos'altro che attirava l'attenzione, magari coadiuvato da un ballerino. È una cosa che nasce tanti anni fa, il più antico che mi viene in mente è il balletto di Salirò di Silvestri (beh prima ancora i travestimenti di Elio e le Storie Tese), poi ci fu lo scimmione di Gabbani che secondo alcuni fu proprio la marcia in più che fece vincere la canzone, cioè la gente diceva ahahah lo scimmione e votava per Gabbani, perché no? Peraltro era una canzone sull'essere tutti quanti scemi, un vero atto performativo.
2. Nelle ultime edizioni questa cosa però aveva un po' trasceso, cioè sempre più artisti cercavano di fare sempre più scenette e questo appesantiva lo spettacolo, poi immagino che il regista cominciasse a rompere i coglioni anche perché in molti casi erano davvero coreografie estemporanee, non si sapeva cosa inquadrare, un casino.
3. Quest'anno all'improvviso niente. Mi pare eh, non è che avessi sempre gli occhi sul video, anzi, però la sensazione è che tutti arrivassero, ringraziassero, magari un po' di manfrina per via del totosanremo, poi cantassero la loro canzone e si levassero dai coglioni. Da cui il sospetto: probabilmente c'è stata una stretta in questo senso, magari la produzione ha detto chiaro e tondo che se cominciate con le scenette vi sgonfiamo le gomme.
4. Però a pensarci bene almeno una scenetta c'è stata ed è successo la prima serata, quando Achille si è autobattezzato. Come ha notato nell'occasione persino l'Osservatore Romano, non è stato un gesto così dissacratorio, anzi: tra le tante ritualità cattoliche, quella del battesimo non ha le caratteristiche adatte a essere dissacrata, non si presta molto, è un po' d'acqua sulla testa, con tutte le cose che si potrebbero fare. Ma forse (ecco l'ipotesi complottara), Achille aveva intenzione di fare molte altre cose.
5. La canzone del resto si chiama Domenica, Achille la canta con un coro gospel, la prima serata ha messo in scena il primo sacramento, capite dove voglio arrivare? Aveva tre sere per esibirsi, probabilmente il battesimo era solo l'antipasto stuzzicante.
6. Non lo sapremo mai perché magari gli hanno sgonfiato le gomme nella notte e da lì in poi la canzone è rimasta lì un po' inutile, del resto sono sempre quei due benedetti accordi. La butto lì: la seconda sera poteva essere la volta dell'Eucarestia, ecco, quella avrebbe fatto molto più discutere. E la terza sera wham! matrimonio! chissà con chi, magari col chitarrista o con tutto il coro, insomma la cosa più trasgrescio possibile.
7. Oppure la confessione (ma è meno spettacolare, certo, portare un confessionale sul palco avrebbe fatto discutere) e la terza sera l'Ordine sacerdotale, v'immaginate Achille che indossa i paramenti e dice la sua prima messa ecco, questo sarebbe stato anche visivamente interessante e forse l'Osservatore Romano avrebbe avuto un sussulto.
8. Ovviamente il mio sogno proibito è Achille Lauro che si impartisce da solo l'estrema unzione, ma non lo ritengo veramente probabile.


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Viva la repubblica parlamentare, viva le elezioni indirette

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 1. Viva la repubblica parlamentare, viva la Costituzione del 1946, anche nei suoi aspetti più anacronistici: viva il conclave, viva le schede bianche e i franchi tiratori, viva le lunghe chiame mentre proseguono le trattative, viva tutte le manfrine mi-candido non-mi-candido. Date semplicemente un'occhiata ai risultati dal 1946 in poi: guardate quanti gentiluomini abbiamo mandato al Quirinale, assai migliori della media dei parlamentari che li eleggevano (e dei cittadini che eleggevano i parlamentari). Non sarà il miglior metodo possibile per eleggere un presidente, ma trovatemene uno meno peggiore. 


2. Però alla mediosfera non piace; giornalisti e opinionisti non capiscono perché non possa essere tutto più rapido e smart, come quelle misteriose elezioni americane in cui si capiva la notte stessa chi aveva vinto (anche se prendeva meno voti dell'altro candidato, eh vabbe' dettagli). A tal proposito avrei un suggerimento: facciamo a meno della mediosfera. Sul serio, io della Maratona-Mentana non ho visto un mezzo minuto e ieri ne sapevo già esattamente quanto Enrico Mentana. È tutta roba per un pubblico di mezza età maschile che non ha ancora scoperto Netflix – ma bisogna ammettere che Netflix non si impegna abbastanza per quel segmento, bisognerebbe inventarsi qualcosa, una serie ambientata in un talk show italiano di sessantenni maschi che cercano di impressionare la stagista con retroscena inventati in camerino, secondo me c'è mercato per questa cosa e forse avremmo anche trovato un mestiere per gente che davanti al video ormai ci sa stare, ma in parlamento non ha molto futuro.

3. Quando gente come Renzi o Salvini o la Meloni (che in parlamento ahinoi ci resteranno) manifestano la loro insofferenza per le ritualità parlamentari, ci credono davvero o stanno semplicemente cantando la canzone che piace ai giornalisti, che dopo un po' che la senti non puoi levartela dalla testa? O non è tutta una manfrina, e hanno capito benissimo che è solo il parlamentarismo a coprirli, a mantenerli nelle loro posizioni di tribuni del dissenso o aghi della bilancia o spostatori di assi di governo, senza mai vedere i loro bluff: le vinceresti, Salvini, le tue elezioni presidenziali? Non credo proprio: e tu, Matteo Renzi? In ballottaggio con Stalin, forse, purché Stalin risulti 100% morto. E allora perché insistono? Ricordano la determinazione suicida dei radicali, che raccoglievano l'1% dei voti e intanto chiedevano l'uninominale, il bipartitismo all'americana. D'accordo che un buon politico non dovrebbe pensare solo ai propri interessi, ma uno che passa tempo a tirarsi mazzate sulle mani risulta più credibile?

4. Prendi Matteo Renzi, che in questi giorni comprensibilmente si sbraccerà per ricordare a tutti che Mattarella al Quirinale ce l'ha portato lui. Ammesso che sia vero: in che modo Mattarella al Quirinale è mai stato un affare per Matteo Renzi? Quest'anno ricorre il settimo anniversario di quando litigò con Berlusconi per portarlo lì la prima volta. Senza dubbio in quel momento dimostrò al parlamento e agli italiani che lui contava più di Berlusconi, e poi cosa successe? Successe che Berlusconi ritirò il suo appoggio alla riforma costituzionale, rese necessario il referendum confermativo e mandò i suoi elettori a votare no, determinando la fine del governo Renzi e più in generale della popolarità del personaggio. Matteo Renzi è così: tra il vincere una battaglia e il vincere la guerra ha sempre preferito la prima cosa. 

5. Mattarella è un ottimo presidente: il suo ritorno al Quirinale non è un'ottima notizia. C'è un precedente e non è di buon augurio: la proroga di Napolitano era considerata sin dall'inizio un mandato a tempo. Napolitano II aveva una specie di missione da portare a termine (e non ci riuscì). Il contratto che oggi Mattarella firma è molto più vago: per quel che sappiamo potrebbe anche restare per un intero settennato. Oppure dimettersi appena Draghi avrà finito la sua incombenza a Palazzo Chigi: si tratterebbe di uno strappo istituzionale notevole, ma da Napolitano in poi la cosa sembra non dare più fastidio a nessuno. A giudicare da qui, non c'è un problema che il prolungamento di Mattarella risolva, non c'è una questione che non rimandi a un momento più propizio che a questo punto soltanto Mattarella, rassegnando le dimissioni, avrà la facoltà di scegliere. 

6. Le analisi del giorno dopo seguono invariabilmente lo schema "chi vince", "chi perde", il che involontariamente dimostra l'esatto contrario, ovvero che la politica non è uno sport, che solo con un'enorme semplificazione si possono estrarre vincitori e sconfitti, dopodiché l'anno prossimo si vota e nessun elettore di Salvini si porrà il problema dei disastri combinati da Salvini in questi giorni – probabilmente avranno più rilevanza i festini di Morisi. Il centrodestra appare favorito – ma perché insistiamo a dire "centro"? Cosa c'è di "centro" nella proposta politica di Salvini e Meloni? E cosa c'è in generale nella loro proposta, a parte la retorica del povero italiano assediato dai poteri forti e dai deboli del mondo intero? E quando il tuo mestiere consiste in questa retorica, ti conviene davvero governare a livello nazionale, mettere le tue facce con relativa mascherina tricolore su tutti i compromessi con la realtà e i guai che ne deriveranno, sperare di rimanere alti nei sondaggi speronando appena qualche barcone in più? 

7. Un solido governo di centrodestra, che abbia il placet degli industriali e che metta gli interessi della piccola-media impresa davanti al diritto alla salute, in Italia c'è già, c'è adesso: sta funzionando persino grazie ai voti dei principali concorrenti, non c'è nemmeno bisogno di sponsorizzarlo, addirittura la Meloni può concedersi il lusso di contrastarlo in parlamento. È chiaro che al governo prima o poi ci devono andare: ma chi glielo fa fare? Succederà, ma forse a questo punto ho più fretta che accada io che lei. Come è già successo al suo collega: prima sale, prima ridiscende. Questo ovviamente non significherà nulla di buono: toccherà a qualche altra grande promessa della politica, qualche altro brillante stratega col sole in tasca, eccetera eccetera. Io sto qui in riva a vederli passare ma ultimamente trovo la pesca più coinvolgente – solo ogni tanto mi ricordo di intonare un inno di ringraziamento: viva la repubblica parlamentare, viva la Costituzione del 1946. 

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