8. L'Etica è una vittima incosciente della Storia...

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[Questa, se vi eravate distratti, è La Gara: una competizione senza senso tra (quasi) tutte le canzoni di Franco Battiato. Stavolta c'è un invito pop-rock alla terza guerra mondiale, un brano scritto per Gianni Morandi, un Lied di Wagner, un quartetto di Haydn. Ma se si impegnava sapeva fare anche cose più diverse].

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1980: Venezia-Istanbul (#48)


...Ieri ho visto due [uomini(*)] che si tenevano abbracciati in un cinemino di periferia... e penso a come cambia in fretta la morale: un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani. Ave Maria. Io poi mi sono sempre chiesto: ma non sarà un po' colpa di Battiato se sono poi cresciuto così, il germe del relativismo culturale non me l'avrà installato lui mentre cercava semplicemente di infilare qualche intellettualismo in una canzone pop, ché in quegli anni queste cose funzionavano? Ho trovato questo spezzone di programma tv (discoring?) in cui Battiato in giacca grigia la canta ieratico come il mosaico bizantino da cui sembra essere stato staccato a forza. Merita di essere visto per capire quanto potesse sembrare appena arrivato da un altro pianeta, da un pubblico che applaude il pianista quando partono chitarra e batteria, e soprattutto per quel secondo di completo imbarazzo dopo l'ultimo distico: E perché il sol dell'avvenire splenda ancora sulla terra facciamo un po' di largo con un'altra guerra. Era qui che bisognava applaudire, ma ci mettono un po' ad accettarlo. Venezia-Istanbul è meno famosa di Prospettiva Nevskij o Up Patriots, ma è il vero nucleo di quella pazza cometa che fu Patriots: una musica che combina assieme Lied e rock con disinvoltura, una lirica che è un capolavoro di Taglia e Incolla, uno dei rari casi in cui si avvera la profezia di Tristan Tzara: la lirica dadaista ottenuta estraendo ritagli di parole da un sacchetto "vi rassomiglierà". In questo caso Battiato mescola luoghi comuni del giornalese e del culturese ("D'Annunzio montò a cavallo con fanatismo futurista"), ancora intercettazioni radiofoniche ("una punta attacca verticalizzando l'area di rigore"), e appunti sparsi su Socrate e la Storia. Se è un gioco, è uno dei più sofisticati che FB abbia giocato. 

(*) sullo spartito c'è proprio scritto "uomini" tra parentesi, me lo ricordo benissimo, ce l'aveva mio cugino. 


1988: Mesopotamia (#81)

 

Nella discografia battiatese Mesopotamia rappresenta un unicum per vari motivi: è (credo) l'unica canzone incisa in spagnolo prima che in italiano (compare nella versione spagnola di Fisiognomica), ed è forse il solo caso in cui per capire esattamente che canzone avesse in testa bisogna proprio ascoltarlo cantare in spagnolo: quella incisa in italiano in Giubbe rosse è una buona versione live, ma la chitarra nel ritornello smarmella un po' la complessità ritmica del brano. Ah, e stavo dimenticando: è la canzone di Battiato che Gianni Morandi ha inciso in italiano prima di Battiato, sempre nel 1988 col titolo Cosa resterà di me e senza più i riferimenti ai tre fari della scostanza battiatesca, Majorana Landolfi e Benedetti Michelangeli, perché per quanto l'interpretazione di Morandi sia credibile, davvero quei tre nomi in bocca a lui sarebbero suonati strani. Al loro posto Battiato o chi per lui decide di farcire la canzone con quei due etti di battuto di lardo emiliano, "Mi piacciono le scelte passionali, quella saggezza pratica che si tramanda il popolo... quell'atmosfera che ritrovo ritornando qui in Emilia, figlio di un pensiero rosso e partigiano". Tutto questo succedeva in effetti in un disco veramente patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, quel Dalla Morandi che costituisce quindi il momento di massima vicinanza tra i due grandi innovatori della stagione più creativa della canzone d'autore in Italia: la stagione è il 1978-1984, i due innovatori sono (ovviamente) Battiato e Dalla, e il fatto che nemmeno l'uomo più conciliante dell'universo, Gianni Morandi, sia riuscito a farli lavorare assieme lascia capire quanto una collaborazione del genere fosse una specie di impossibilità fisica: i due si stimavano, addirittura a Milo divennero vicini di casa, ma non hanno mai pensato di incidere niente assieme. Forse l'universo sarebbe collassato. Forse più semplicemente sapevano che il risultato sarebbe stato deludente.  


1991: Schmerzen (Richard Wagner, Mathilde Wesendonck #176)

 

Come allora potrei lamentarmi: come, mio cuore, avvertirti pesante, se il sole stesso deve disperare, se anche a lui tocca tramontare? A cavallo tra Ottanta e Novanta, Battiato ha già più volte annunciato il suo ritiro dalla musica leggera. La sua scelta di completare il disco del 1991 con quattro Lied sembra confermare la decisione di astrarsi dalla contemporaneità musicale. E però guarda come è diabolico lo Zeitgeist: proprio in quello stesso 1991 Luciano Pavarotti collabora per la prima volta con un artista pop, Zucchero Fornaciari, onorando con la sua corpulenta voce il singolo Miserere. Mentre Pavarotti tenta di trovare una credibilità pop per la sua voce lirica (con risultati detestabili), Battiato va nella direzione inversa e decide di incidere dei Lied con la sua voce microfonata. Suppongo che per chi ha una cultura musicale classica si tratti di una mossa ancora più assurda di Pavarotti (che almeno distrugge il pop, non i classici del romanticismo). E però si vede che questa esigenza di mescolare ciò che era (considerato) Alto a ciò che era (considerato) Basso era sentita a entrambi i livelli – si sentiva che il mercato era pronto per un artista che unisse i due mondi e che presto si sarebbe incarnato in quel cantante di servizio che aveva inciso la prova di Miserere per farla sentire a Pavarotti, un tale Andrea Bocelli. E comunque dai, meglio un Lied cantato da Battiato che un intermezzo pavarottiano o bocelliano in un brano pop. Cioè è una bella lotta ma vince FB, dai.



1995: Un vecchio cameriere (testo di Battiato e Sgalambro, #209)


Un giorno amò: ora si fa il bucato, sognando il re che sarebbe stato. Battiato, lo abbiamo visto, per tutta la sua carriera non ha mai disdegnato di attingere al repertorio classico. Per affetto o per dileggio, con citazioni vistose o sotterranee, e in altri casi interpretazioni rigorose: le ha provate tutte ma fino al 1995 non si era mai spinto all'estremo di Un vecchio cameriere, che è copiato di pacca dall'Adagio del Quartetto per archi op. 64 n. 5 di Haydn: al punto che viene il sospetto che il testo di Sgalambro, qua e là perfino comprensibile, non sia che una serie di parole messe assieme con lo scopo di trasformare l'Adagio in una canzone. Il risultato lascia un po' perplessi, ma devo ammettere che è l'unico pezzo di Haydn che mi è rimasto in testa: come se il trucco per farmi capire e ricordare un po' di musica decente fosse registrarci sopra una lirica confusa sull'assurdità dell'esistenza. E chissà quante altre volte Battiato ha fatto lo stesso trucchetto senza avvertirci, chissà quanta musica del passato ha contrabbandato nei suoi dischi senza il minimo sospetto da parte dei critici musicali (vabbe' quella è gente convinta che l'intervallo di quinta sia il momento in cui i bambini dalle aule si riversano in cortile). 

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7. In quest'epoca di bassa fedeltà e altissimo volume

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[Questa è sempre La Cura, un infinito torneo di canzoni di Franco Battiato. Oggi che abbiamo? Una sonata per violino su una nota sola, un brano elettropop che demolisce l'elettropop, un lato B dei Rolling Stones, un lato B di Dalida]. 


1978: Telegrafi (per violino solo) (#240)  
Di cose ostiche all'ascolto Battiato ne ha incise parecchie e per vari motivi, ma qui siamo forse tra le prime dieci. Telegrafi consiste in sei minuti di Giusto Pio che maltratta il suo violino; comincia con una cascata di note che ricorda l'attacco a effetto di Adieu, ma abbastanza presto si fissa su una nota sola, com'è opportuno trattandosi di telegrafi. Il brano faceva parte di quella colonna sonora per il film tv Brunelleschi che fu rifiutata dai produttori Rai, e riascoltando Telegrafi non è difficile capire il perché. Ma non è neanche difficile immaginare un sottofondo così dissonante sulle immagini in bianco e nero di uno di quegli sceneggiati in costume anni Settanta sempre un po' sperimentali e inquietanti.

1983: La musica è stanca (#145) (testo di FB e Tommaso Tramonti)  
E quante cantanti di bella presenza che starebbero meglio a fare compagnia... in quegli ironici '80 bastava grattare appena un po' la patina postmoderna per scoprire in Battiato un arcigno castigatore dei costumi; dopodiché ci precipitavamo a rispalmargli la patina postmoderna che insomma era il vero motivo per cui lo amavamo. Orizzonti perduti disorientò parte dei fan di Battiato a causa degli arrangiamenti completamente elettronici – il che non sarebbe stato nemmeno una novità, se non fossero stati affidati a un sequencer (il Roland MC-4 microcomposer) che già in quegli anni era facile accostare all'europop da classifica più superficiale e danzereccio. Col tempo questo è diventato il segreto del fascino di Orizzoni perduti, un disco in cui la voce di Battiato è l'unico residuo di umanità in un paesaggio sintetico, ma in quel momento la mossa poteva lasciare perplessi: tanto più che nella più ritmata delle otto tracce FB se la prendeva proprio con la stupidità della musica contemporanea. "Brutta produzione, altissimo consumo, la musica è stanca, non ce la fa più". Con tanto di coretti accelerati "disco disco! telegatti!", contro cui si invoca un raga già probabilmente mongolico. È il brano più pazzoide di tutto il disco, una presa di distanze dalla soffusa malinconia degli altri sette, e contiene una sotterranea ammissione: più che la musica, è FB che è stanco di farla in questo modo. La EMI lo ha trasformato in un animale da alta classifica, ma lui non vede l'ora di cambiare pelle, di nuovo.  


1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)  
Dying all the time. La leggenda, raccontata per lo più da Marianne Faithfull, racconta che Keith Richards per comporre Ruby Tuesday non si fece aiutare da Mick Jagger (che pure è accreditato), ma dalla meteora degli Stones, Brian Jones. Che quindi nella sua breve esistenza avrebbe scritto una sola canzone, e che canzone. È solo una leggenda, ma forse serve a spiegare la stranezza di un brano che c'entra poco con tutto quello che gli Stones facevano e avrebbero fatto, e allo stesso tempo cattura molto bene una certa tristezza e un senso di vuoto che sta al centro del loro mito. Ruby Tuesday è quel tipo di brano che si presta molto bene a cover mediocri: comunque vada sarà sempre un'ottima canzone, ma è impossibile battere l'incanto dell'incompiutezza della versione originale, con quel coretto lievemente fuori di chiave. Battiato forse ci riesce, ed è uno dei risultati più notevoli di tutti i suoi Fleurs. In un certo senso la sua Ruby è il manifesto dei Fleurs: prendere una canzoncina di un gruppo di finti teppisti su una groupie poco seria e leggerla come un testo sacro, interpretarla come un Lied, con intensità, serietà, rispetto, trasporto, senza timore che la canzone non riesca a reggere tutta questa intensità religiosa, questo rispetto che è dovuto a una cosa sacra, perché in ogni cosa c'è qualcosa di sacro, forse – sicuramente c'è in Ruby Tuesday e Battiato ce l'ha mostrato. Persino il suo inglese, meno atroce che in passato ma comunque ingessato, stavolta ha un senso, sembra una di quelle lingue liturgiche uguali in tutto il mondo salvo per l'accento del sacerdote officiante. Alfonso Cuarón la scelse per una delle scene più toccanti di Children of Men


2008: Il venait d'avoir 18 ans (#112)
Fleurs è un bel gioco che forse è durato troppo. Il primo disco è un capolavoro, il secondo non lo è, il terzo boh, c'è sempre questo pericoloso effetto karaoke nell'aria. Ha a che vedere anche con la scelta delle canzoni: quelle del primo disco, s'intuiva, narravano un'educazione sentimentale ancor prima che musicale e non oltrepassavano gli anni Sessanta. Quando arriva al terzo volume (che s'intitola Fleurs2), Battiato sta sempre più sconfinando nei Settanta e raccontandoci qualcosa di meno chiaro: eravamo convinti che quegli anni li avesse passati a esplorare le potenzialità dei sintetizzatori e a registrare e montare rumori; ma ora salta fuori che ascoltava pure Dalida? è buffo. Il brano, certo, da un punto di vista musicale è senza tempo: come tutti i migliori fleurs battiateschi esiste indipendentemente dalla storia della musica che gli scorreva intorno. Ma è anche un brano eccezionalmente autobiografico, un parziale coming out per la cantante più famosa di Francia che a 40 anni racconta di avere avuto a 36 anni una relazione sessuale con un ragazzo diciottenne. Probabilmente le date non tornano, magari lei ne aveva un po' di meno e il ragazzo un po' di più, ma insomma l'età dell'innocenza è finita, qui c'è un'artista che fa spettacolo della propria vulnerabilità sessuale sottoponendosi al giudizio del pubblico (che solo in seguito avrebbe scoperto i lati più tragici della vicenda: Dalida era rimasta incinta, aveva abortito, le complicazioni dell'aborto l'avevano resa sterile). Tutto questo rende particolarmente drammatica la versione originale, e... abbastanza dimenticabile la versione battiatesca, che racconta la storia in terza persona. Verso la fine compare una cantante iraniana (Sepideh Raissadat) che riporta quella spezia mediorientale che Battiato sapeva dosare con estrema cura.     

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6. Gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo, simili ai segnali orari delle radio

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[Benvenuti alLa Gara, un effimero torneo di canzoni di Battiato, che Battiato non avrebbe mai autorizzato ma così impara a lasciare questa ruota dolorosa che è l'esistenza sulla terra, tie'! no scusa maestro è che certe volte mi manchi così tanto].

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1980: Arabian Song (#80)

   

L'uomo è l'animale più domestico e più stupido che c'è. Battiato tra il 1980 e il 1982 è in stato di grazia. Dopo tanto penare in cerca di musiche inascoltabili, all'improvviso ha scoperto una formula che sulla carta non potrebbe mai funzionare, e invece gira che è un piacere – a volte persino a dispetto dello stesso artista, che le prova tutte per renderla meno orecchiabile: ad esempio ci canta un ritornello nella lingua meno pop che si possa nel 1980 immaginare, l'arabo (parole quasi a caso, lo stava appena imparando), mentre le strofe sono un collage di ricordi di un'infanzia in provincia ormai completamente strappati al contesto della nostalgia, ricopiati e assemblati a caso come i frammenti di poesie scolastiche e luoghi comuni che compongono gli altri testi di Patriots. L'insieme dovrebbe risultare freddo e cervellotico, non è escluso che Battiato avesse in testa una musica più astratta e impassibile tra Krautrock Nowave e Stockhausen, ma finché alla chitarra c'è Alberto Radius che si diverte così il risultato è completamente l'opposto: una musica felice, che proietta lampi di luce sia sul grigiore del passato grigio sia sulle inquietudini del futuro. Sarà anche così stupido l'uomo, ma che musica gli scappa, a volte.

1993: Ricerca sul terzo (177)

 

"Mi siedo alla maniera degli antichi Egizi". Parlare di meditazione non è facile. Si dà per scontato che serva molta pratica, e di conseguenza un linguaggio iniziatico. Battiato, che quando vuole sa nascondersi dietro miraggi lessicali, qui sceglie la via inversa e cerca di spiegare come fa lui, a meditare, nel modo più semplice possibile, con le parole più chiare a disposizione. Se è stato un guru, è stato il più simpatico, quello che si è fatto pagare meno e che ha saputo disfarsi di un orpello forse non previsto dai manuali orientali: lo snobismo. Hai veramente la sensazione che potresti sederti vicino a lui e imparare qualcosa. Nel mio caso non può funzionare perché la strumentazione (il sitar, la tabla) che dovrebbe evocare l'India, non può che farmi venire in mente... George Harrison. Ricerca sul terzo sembra veramente un omaggio a Within You Without You.    

1995: Tao (#208)  

250 milioni di spermatozoi! In un solo orgasmo! Un solo uomo può popolare la terra! Questa cosa che per i taoisti è fondamentale eiaculare il meno possibile io la scoprii molto prima che Battiato mi ragguagliasse, su un volume che si chiamava Tao dell'amore che in qualche modo riuscii a rintracciare in casa mia benché i miei genitori lo avessero nascosto ben bene. Non so che dire, mi sembra che la civiltà occidentale abbia preso la direzione opposta: nel dubbio eiaculiamo, e dopo le cose per un attimo ci sembrano più chiare, più distanti (ma dura pochissimo). L'ombrello e la macchina da cucire è un disco difficile da apprezzare. Il ritorno all'elettronica – in relativa sintonia coi trend internazionali del periodo – avviene attraverso un linguaggio così personale e solipsistico che a volte l'ascoltatore può sentirsi di troppo, cioè forse Battiato queste canzoni le ha scritte per essere lasciato solo (solo con Sgalambro?) Sono anche brani che sfiorano pericolosamente l'autoparodia; in effetti c'è molto del Battiato che ci piace canzonare. E il video, se è davvero il video ufficiale, non ha retto l'ingiuria del tempo, mettiamola così.

2019: Torneremo ancora (#49)

Finché non saremo liberi torneremo ancora, e ancora. L'ultima canzone incisa da Franco Battiato (e cantata con una fatica percepibile, e straziante) ha un titolo solo apparentemente di buon augurio – da un punto di vista buddista, "tornare ancora" è una maledizione: occorrerebbe liberarsi, sottrarsi da questo loop infernale che è l'esistenza, ma come si fa? Battiato ci ha provato per buona parte della sua vita, complicata dal fatto che per vivere doveva comunque fare il cantante e l'autore. Anche Torneremo ancora era stata scritta pensando ad Andrea Bocelli (su istigazione di Caterina Caselli), ma non è difficile capire perché la canzone fu respinta – perlomeno è più facile di immaginare il vocione di Bocelli scandire "La luce sta nell'essere luminosi, irraggia il cosmo intero" senza farlo sembrare un recitativo. Scritta con Juri Camisasca, incisa con la Royal Philarmonic Concert Orchestra durante il breve tour che Battiato fece con loro nel giugno 2017 (ma la canzone uscì due anni più tardi), Torneremo ancora chiude la traiettoria artistica di Battiato con l'ambiguità con cui si era aperta, quel dubbio sospeso tra Occidente e Oriente: è meglio vivere o togliere il disturbo? Battiato in teoria preferiva la seconda cosa: ce lo ha scritto tante volte, lo ribadisce anche qui, ma appunto, se era così ansioso di lasciarci perché ci ha messo così tanto? perché ha continuato a fare concerti finché non si è rotto un femore a 71 anni, perché ha continuato a incidere canzoni con l'ultimo filo di voce che gli era rimasto? E quindi ce l'ha fatta a liberarsi da ogni desiderio, a raggiungere il nirvana, o anche lui tornerà ancora?

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5. Vuoto di senso, senso di vuoto

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[Benvenuti alLa Gara, un torneo di canzoni di Battiato. Oggi per puro caso si scontrano tre canzoni di apertura di tre dischi diversi, più un singolo che Battiato non ha nemmeno firmato].

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1973: Sequenze e frequenze (#144) 

Ogni tanto passava una nave. Sequenze e frequenze tra breve compirà cinquant'anni ed è ancora un brano meraviglioso che comincia con una splendida lirica, semplice ed evocativa. Nella storia artistica di Battiato rappresenta una pietra miliare meno visibile di altre ma più profonda: la scoperta del proprio passato. Fin qui il Battiato '70 era un artista completamente proiettato in un futuro di suoni sintetizzati e inquietudini fantascientifiche. Per il suo pubblico deve essere stato un certo choc ascoltare le prime parole, scandite con un timbro insolitamente opaco: "La maestra in estate ci dava ripetizioni nel suo cortile. Io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare". Maestre, ripetizioni, cortili, muretti, tutto un crepuscolarismo di ritorno che si manifesta qui per la prima volta e da cui Battiato non si separerà più. Da un punto di vista strumentale, si sviluppa l'intuizione intravista già in Plancton: sovrapporre agli strumenti moderni (synth e chitarre elettroniche preparate) altri tradizionali se non arcaici: vibrafono, tabla, mandolino, che dialogano assieme in una coda lunghissima (16 minuti, tutto il primo lato di Sulle corde di Aries).


1978: Adieu (#241)

Mon métier, faire le musicien. Di cose strane e non del tutto spiegabili Franco Battiato & Giusto Pio ne hanno fatte tante, ma forse nessuna eguaglia quella volta che si inventarono una popstar a tavolino, "Astra", e siccome nessuno dei due intendeva impersonarla... mandarono in tv a cantare e suonare in playback il figlio di Giusto, Stefano Pio. Come ricorda quest'ultimo, più che di nepotismo fu una questione di massima resa con minima spesa, "non costavo nulla: come figlio infatti, non era contemplato un mio pagamento". Il brano è interessantissimo per vari motivi: è l'anello di congiunzione tra dischi così apparentemente diversi come Juke-box e L'era del cinghiale bianco; è la conferma che Giusto Pio aveva preso nella vita di Battiato lo stesso posto che qualche anno prima aveva il sintetizzatore VCS3, un giocattolo da maltrattare fino alle estreme conseguenze: qui Pio suona 13 note al secondo (per la disperazione di suo figlio che davanti alla telecamera avrebbe dovuto mimare una prestazione del genere). È un tappeto di note a cascata che ricorda proprio i vecchi frequenziometri di Aries e Clic, a cui Battiato fa da contrappeso con un basso ostinatamente mononota e una melodia semplice e accattivante che in seguito si sarebbe pentito di avere sprecato per un progetto tanto estemporaneo: non solo gli capitò di riciclarla due volte per due interpreti diverse, Catherine Spaak (Canterai se canterò) e Milva (Una storia inventata), ma tutto sommato la vera erede di Adieu, quella che riprende anche l'accompagnamento frenetico del violino, è Le aquile, uno dei pezzi più forti di Patriots.

 

2007: Il vuoto (feat. MAB, #113) 

Il Battiato degli ultimi dieci anni di carriera è un commovente paradosso: tanto brontolone e querulo nei contenuti, quanto bonario e disponibile alle collaborazioni più improbabili. In questo caso per incidere l'ennesima variazione sul tema "alienazione urbana" si avvale del quartetto anglo-cagliaritano delle MAB: loro provvedono al rock (che per Battiato è la musica urbana), FB si lagna dei tempi che corrono, e a un certo punto salta anche fuori un tenore ad avvisare l'arrivo di nuovi dei non meglio specificati, insomma un pastrocchio di cose che se funzionano, se sono ascoltabili, è proprio perché a dispetto di tutto il suo orrore per i tempi che corrono Battiato nel 2007 si diverte ancora un mondo a cantare, a suonare e a far cantare e suonare la gente che ha intorno. Anche se in platea fosse rimasto solo il povero Sgalambro, vale sempre la pena di salire su quel palco, vale sempre la pena di abbracciarsi.  


2008: Tutto l'universo obbedisce all'amore (con Carmen Consoli, #16) 


Rara la vita in due, fatta di lievi gesti e affetti di giornata: consistenti o no, bisogna muoversi come ospiti pieni di premure, con delicata attenzione per non disturbare. Tutto l'universo obbedisce all'amore è l'ultimo grande pezzo pop di Franco Battiato. Al tempo passò quasi inosservato (ma potrei sbagliarmi, visto che su Spotify è il sedicesimo brano più ascoltato). Forse perché inaugurava l'ennesimo disco di cover – e in effetti Tutto l'universo dà la sensazione di essere in qualche modo una cover, anche se non è facile capire di cosa (Battiato ha ammesso che c'è qualcosa di Scarlatti). C'è un'aria barocca che è uno degli elementi ricorrenti di tutta la trilogia dei Fleurs: c'è una guest star, Carmen Consoli, che in quanto catanese un brano col Maestro Battiato prima o poi doveva inciderlo. Purtroppo le convenzioni dei featuring contemporanei richiedono un duetto, una situazione in cui la voce ospite sia riconoscibile e dialoghi con quella dell'ospitato: è molto più interessante invece sentirli cantare assieme, sulla stessa nota, un androgino asessuato che ragiona sul mistero e sulla tirannia universale dell'amore. 
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4. Un rumore di swing provenire dal Neolitico

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[Questa è sempre La Gara, un torneo di canzoni di Battiato di cui pochi (ma buoni) sentivano il bisogno. Che poi cos'è una canzone? Non è che Battiato abbia scritto solo canzoni. Per anni interi non ci cantava nemmeno. A un certo punto si era messo a fare collage di rumori ambientali, come fai a chiamarle canzoni? Come fai a metterle in gara contro melodie tradizionali del Medio Oriente? Così:]


1975: Goutez et comparez (#224)  
Goutez è la seconda suite di musica concreta battiatesca, dopo l'exploit di Ethika Fon Ethica dell'anno precedente. In quanto suite occupa tutto il primo lato di Mlle "le Gladiator", il disco del 1975, anche se alla fine non è così lunga – e addormenta meno dei pezzi sul secondo lato. Cos'è la musica concreta per Battiato? Lui a dire il vero questa definizione non l'ha mai usata, ma insomma è un collage di registrazioni per lo più radiofoniche o ambientali; come in Ethika, Battiato per tutto il tempo dà l'impressione di muovere l'enorme rotella argentata delle radio del tempo, catapultando l'ascoltatore senza diaframmi in mondi familiari e lontanissimi. C'è un brano di Marinetti, presentato da una presentatrice come un "operatore culturale, freak perduto". C'è Battiato che recita la spigolatrice di Sapri e ci prova con la presentatrice: dai, qui nessuno ci vede. ("Ma sei impazzito?") C'è musica di ogni età: un pezzo di Sanremo anni '50, la Gazza ladra e il Va' Pensiero, l'Internazionale, un coro alpino; c'è lo stesso Battiato tastierista verso la fine che irrompe improvvisando sull'organo della cattedrale di Monreale; non c'è niente di casuale nel collage, accostamenti e giustapposizioni sono tutte studiate a tavolino. In particolare FB si affida all'effetto spiazzante del silenzio che segue improvviso a un'esplosione di rumore – un silenzio nel quale l'improvviso affiorare di una voce ce la fa sembrare particolarmente vicina. Trucchetti che erano ben noti alle generazioni che giocavano con la rotella del tuner e che adesso si fa anche fatica a spiegare    

1982: La torre (#96)  
Da non confondere, mi raccomando, con La torre del 1967, una delle prime canzoni scritte e incise da Battiato, di cui comunque condivide e accentua quell'atteggiamento brontolone che negli anni della contestazione serviva a creare un personaggio anticonformista. Se è rimasto uno dei brani più noti dell'Arca di Noè (ho in mente ad esempio l'interpretazione dal vivo di Capossela), probabilmente è proprio perché prosegue quel tipo di invettiva che con Bandiera bianca aveva ottenuto uno straordinario successo. Un'altra cosa in comune con i pezzi della Voce del padrone è la sperimentazione ritmica, qualcosa che il Battiato successivo accantonerà, forse perché per inserire quelle maledette battute in più servono percussionisti umani, i sequencer non sono molto adatti. Anche il synth che squilla come trombetta di guerra rievoca le sperimentazioni dei '70. La torre è l'ultima tentazione della popstar Battiato, a cui il successo clamoroso della Voce del Padrone aveva dato la possibilità di ergersi a severo censore dei costumi. FB sembra già abusarne, additando alla pubblica indignazione "i presentatori, specie quelli creativi che giocano ai quiz elettronici", gli attori (a partire da "Nostra Signora dei Turchi"), e così via, ma il margine per non suonare un trombone comincia ad assottigliarsi pericolosamente. Avrebbe potuto continuare a scrivere roba del genere per altri vent'anni e gliel'avremmo comprata: avrebbe finito per scrivere moralismi paraculi alla Gabbani e ce lo saremmo fatto piacere. Invece si è stancato della cosa immediatamente, proprio in mezzo a questo pezzo, quando la strofa cede al ritornello e le percussioni si interrompono all'improvviso. "Si salverà chi non ha voglia di far niente..." Alla fine dalla torre si è gettato lui. 

1993: Fogh in Nakhal (canzone tradizionale irachena; #161)  
Sulle palme, lassù, non so se è la tua guancia che brilla o la luna. Io non voglio, ma la pena mi tormenta. L'insolente mi chiede: "Perché giallastro è il tuo viso?" Non ho nessuna malattia: soffro per quella persona bruna che m'imprigiona con i suoi dolci occhi. Nessuno sa chi ha scritto Fog el Nakhal: Battiato comincia a eseguirla nel suo tour mediorientale del 1992 e la porta anche al concerto di Bagdad. Il grosso vantaggio rispetto ad altre sue cover in lingue straniere è che non abbiamo la possibilità di valutare quanto sia approssimativo il suo accento (e a Bagdad erano troppo ospitali per lamentarsene). Malgrado sia un brano tradizionale, arrangiato con cautela e senza vistosi anacronismi, Fogh è il brano più orecchiabile di Caffè de la Paix, o perlomeno questa è sempre stata la mia sensazione. Se fossi un arabo forse la penserei diversamente. Ci penserò quando rinascerò arabo.  


1996: Strani giorni (#33)

Strani giorni è il singolo che anticipando di qualche giorno l'uscita dell'Imboscata, annunciò al mondo che Battiato aveva cambiato pelle, un'altra volta. L'effetto sorpresa stava soprattutto nelle chitarre di David Rhodes: giunto quasi alla vigilia dei suoi cinquant'anni (come avverte lui, "In 1949 I came to this planet"), il nuovo Franco Battiato si rimette all'improvviso a rockeggiare, cita i Doors, si circonda di giovinastri, commissiona un videoclip a Enrico Ghezzi che è caotico tanto quanto la canzone. I Novanta sono stati anche questo, un incessante rimescolamento di qualsiasi cosa venisse in mente a chiunque, swing e neolitico, Sgalambro e Jim Morrison, la parola d'ordine era contaminare (sì, ai tempi era una bella parola). Battiato, che tra confusione e silenzio ha oscillato durante tutta la sua carriera e che per la prima metà del decennio si era fatto sostanzialmente i fatti suoi, nel 1996 si risveglia e si accorge che sono tempi perfetti per quel che ha voglia di fare, e quel che ha voglia di fare è un po' di frastuono. Nel brano la sua voce e quella di Nicola Walker Smith si disturbano a vicenda, l'ascoltatore non riesce a concentrarsi. Nel singolo di vinile c'erano remix di Madaski e Casino Royale. Strani giorni, davvero. 

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3. Le pareti del cervello non hanno più finestre

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[Benvenuti alLa Gara, un innocuo e facondo torneo di canzoni di Franco Battiato. I quattro titoli di oggi sono in quattro lingue diverse, e non sarà nemmeno l'unica volta]. 

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1981: Chan-son egocentrique (#32) 

Chi sono, dove sono, quando sono assente di me? Nei primi '80 la ditta Battiato/Pio non fa prigionieri. Con Alice sbarca a Sanremo, vede, vince. Se serve un tormentone estivo c'è Un'estate al mare: se bisogna rilanciare un'interprete di vaga allure mitteleuropea, c'è Alexanderplatz. Alcuni di questi brani poi Battiato li ha reincisi, li ha fatti suoi: non tutti però, ad esempio Un'estate no, Per Elisa No, la Chanson egocentrique invece sì. È anche uno dei rari casi in cui l'autocover di Battiato (incisa in Mondi Lontanissimi) sembra superiore all'originale che Alice portava in tv nei pomeriggi estivi di quattro anni prima: più eterea, più elettronica, più egocentrica. Mi sembra di ricordare che nel 1985, quando uscì Mondi, cominciava a suonare anche un po' fuori moda, ma i fan di Battiato sono superiori a queste cose. Invece nel 1981 quell'antifona in inglese parlato colpiva nel segno – il rap cominciava a segnare il nostro immaginario musicale e sin dall'inizio non aveva nessuna importanza cosa dicessero i rappanti, l'anno dopo per dire la classifica italiana fu scalata fino al numero uno da un rap in tedesco, Der Kommissar. Mi immagino Battiato nell'occasione mordersi le labbra perché rappare in tedesco non era venuto in mente nemmeno a lui. In Chanson aveva semplicemente messo quell'idioletto inglese che in quegli anni usava nelle canzoni per creare un'aura di sintomatico mistero e consisteva in talmente poche parole (perlopiù versi di altre canzoni), che in questo caso gli capita di riciclare Prehistoric Sound, la versione inglese di Un falco nel cielo che anni prima aveva inciso con gli Osage Tribe. Tutto questo, stavo dicendo, nel 1985 cominciava già a suonare un po' fuori di moda, dopodiché l'anno seguente i Cameo sbancarono con Word Up e non voglio dire che somigli a Chanson Egocéntrique, ma... un po' sì, dai.  


1982: New Frontiers (#97) 

Ciao, mi chiamo Leonardo e sto facendo questa cosa assurda e inutile che è un torneo delle canzoni di Battiato; per questo motivo cercherò finché posso di essere imparziale ma devo confessarlo: L'arca di Noè (1982) è il primo suo disco che ho ascoltato e dopo tanti anni non riesco a levarmi dalla testa l'idea che sia il migliore. C'è un meraviglioso equilibrio tra tante anime di Battiato e qualcosa di geniale in ogni pezzo, anche in quelli secondari, ma ora che mi accorgo che New Frontiers ha un video, forse non era considerato un brano secondario. Sia come sia, per me è fantastico sentirlo inneggiare alla liberazione dell'immaginazione sensoriale in cinque quarti coi madrigalisti che gli fanno coro ma gli fanno anche un po' il verso. Non ci posso fare niente, se Radius suona la chitarra così e se i synth partono così, le pareti del mio cervello si spalancano. 

2001: Öde (#225)

Da cosa puoi accorgerti che un album non è riuscito? Ad esempio, quando la ghost track finale è il pezzo migliore. Öde è il maestoso finale di Ferro Battuto; sette minuti di deriva elettronica che meriterebbero di terminare un disco migliore e che sembrano appartenere piuttosto al balletto per il Maggio fiorentino che Battiato aveva composto pochi mesi prima, Campi magnetici. Stavolta non c'è Sgalambro a infamare "i numeri", ma Fleur Jaeggy a declamare qualcosa in tedesco, vabbe', ma l'effetto d'insieme è potente, e ci conferma la sensazione che nei primi Duemila Battiato si sentisse a suo agio in queste composizioni astratte ed elettroniche che nelle canzonette che incideva negli album. Vero è che le composizioni astratte ed elettroniche non gliele avrebbe ascoltate (quasi) nessuno, e che già da anni FB aveva deciso che suonava soprattutto per farsi ascoltare dal prossimo. Vero ma fino a un certo punto, perché se FB non avesse sfondato negli Ottanta come un cantautore postmoderno, magari negli anni Novanta avrebbe potuto salire sul treno dell'Intelligent Dance Music e diventare una specie di Papa italiano dell'elettronica, un Moroder più credibile; e oggi magari se lo filerebbero più a Londra che in Ispagna... vabbe' ma probabilmente è stato molto meglio per lui sfondare negli 80 come cantautore postmoderno. 


2002. Sigillata con un bacio (Sealed with a Kiss, Udell/Geld, 1960; #160)

Alzi la mano chi la prima volta che si è accinto ad ascoltare Sigillata con un bacio non ha pensato, allo scoccare del primo secondo: mio dio, ma è The Sound of Silence! Ok, grazie, spero che l'abbiate alzato in tanti. Sealed with a Kiss in realtà è un brano di due autori industriali di successi americani degli anni '50, inciso da una pletora di interpreti, nessuno dei quali veramente memorabile. Persino in Italia lo incise più di un artista, ad esempio i Quelli (che poi sarebbero diventati la PFM) e Luigi Fiumicelli, la cui versione Battiato ha voluto includere nella colonna sonora del film sui suoi anni Sessanta, Perdutoamor. Nella colonna sonora però c'è una versione rimixata che trasforma Fiumicelli in un alter-ego di Battiato (tra l'altro è rimasta l'unica attribuita a Fiumicelli che si riesce a recepire su Youtube, per cui magari tra vent'anni la gente considererà Fiumicelli un geniale precursore degli arrangiamenti elettronici). Sigillata con un bacio è un esempio di scuola di come funzionavano i testi delle canzoni per adolescenti, basate sull'unica tragedia esistenziale che era lecito presumere vivibile in quegli anni: (A) oddio devo lasciarti per andare in vacanza, e (B) oddio devo lasciarti perché è finita la vacanza. Se Vento caldo rientrava perfettamente nel tipo B, Sigillata è una canzone di tipo A e possiamo immaginare il giovane Francesco destreggiarsi con le sue conquiste alternando un brano all'altro. Sì, ma è vero che assomiglia un po' a The Sound of Silence? È possibile che Paul Simon, nel 1963, mentre arpeggiava nel bagno di casa sua, abbia sviluppato The Sound partendo dalla melodia dell'attacco di Sealed with a Kiss? Sì, è possibile. Ed è anche possibile che Battiato avrebbe inciso The Sound of Silence, fosse vissuto un po' di più. Era il suo tipo di canzone, secondo me (molto più di Bridge Over Troubled Water).

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2. Carine le piramidi d'Egitto

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[Benvenuti alLa Gara, un effimero torneo di canzoni di Battiato. Quest'ultimo in quasi 50 anni di carriera ha esplorato tantissimi universi musicali ma per quanto riguarda i contenuti a un certo punto si è fissato su alcuni temi, ad esempio il Lamento per la Crisi della Civiltà e l'Elegia. Oggi per esempio abbiamo due Lamenti contro due Elegie, vinca il migliore].

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1979: Magic Shop (#64)

C'è chi parte con un raga della sera e finisce per cantare la Paloma: che straordinaria autoprofezia. Franco Battiato è, tra le altre cose, un autodidatta che è riuscito a costruirsi un suo percorso verso la serenità interiore avventurandosi nei sentieri del misticismo battuti, in quegli stessi anni, da cialtroni incredibili e pericolosi. Come sia riuscito a saltarne fuori pulito, anzi completo, sia da un punto di vista artistico che da un punto di vista esistenziale, ha del miracoloso (tanti altri non ce l'hanno fatta, non è questo il luogo per confronti impietosi). Lui stesso ne era consapevole e in Magic Shop sta veramente camminando sul filo, additando impietosamente le degenerazioni di un mondo che conosce fin troppo bene ("i mantra e gli hare hare a mille lire"). È il battesimo di quell'approccio ambiguo che tempererà il suo moralismo negli anni Ottanta, anche se qui l'ironia non è ancora ben calibrata e lascia trapelare l'invettiva ("rubriche aperte sui peli del Papa!") Umberto Eco registra nel Pendolo di Foucault come in quel periodo le librerie milanesi stessero sostituendo l'angolo della sinistra extraparlamentare con quello del misticismo: è tutto un mercato e FB lo sa benissimo. Ma ha anche lui ha il suo disco da vendere... 

 

2006: The Game Is Over (#193) 

The Game Is Over è un brano del Vuoto in cui Battiato mette assieme, tra le altre cose, un motivo tradizionale mongolo campionato da Sounds of Mongolia (Egschiglen, 2001) e il contributo vocale e strumentistico delle MAB, un gruppo prog-grunge cagliaritano basato a Londra, il tutto sapientemente mixato da Pinaxa che in un qualche modo riesce a evitare che questi mescoloni di musiche diverse, un po' etniche un po' melodiche un po' dance non somiglino ai Deep Forest. Il brano parla, come quasi tutti i brani di Battiato dal 2000 in poi, della necessità di accostarsi alla Fine, un lungo addio che a riascoltarlo tutto in una volta in pochi giorni mette sgomento: laddove alla fine lui era abbastanza tranquillo, secondo me. 


2009: 'U cuntu (#192) 

'U sennu, stamu piddennu 'u sennu! Ti ni stai accuggennu, unni stamu jennu (a finiri)? 'U cuntu è il secondo dei due brani inediti di Inneres Auge, un disco che per la Universal avrebbe potuto essere l'ennesimo live ma Battiato a questo punto non ne poteva più, ci aveva anche ragione. È la solita meditazione sul declino della civiltà, eseguita senza tanti orpelli, metà in siciliano metà in latino: FB parte da solo con poco più di un organo e poi consegna la melodia al coro Junia Voces. Niente di straordinario ma sempre meglio del solito live.


2012. Testamento (#65) 

Si parlava appunto del genere elegiaco, così frequentato dal tardo FB che quando nel 2012 su Apriti Sesamo incide un Testamento, vien proprio voglia di commentare: un altro? In un certo senso è la Magic Shop degli anni Dieci, notarelle sparse di un mistico che ha fatto il possibile per non diventare un guru e ci è riuscito: Cristo nei vangeli parla di reincarnazione, l'odore che gli asparagi danno all'urina, vi lascio i miei esercizi di respirazione, noi non siamo mai nati e non siamo mai morti, e così via. Nell'ultimo Battiato si sentono echi di tutti i precedenti: in questo caso io ci sento un profumo di Patriots, ma forse sono io. Non ho mangiato asparagi.  

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1. Tra noi si scherzava a raccogliere ortiche

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[A un anno dall'apparente scomparsa del compositore e interprete Franco Battiato, sono felice di invitarvi alLa Gara, un inutile ed estenuante torneo in cui si sottoporranno al vostro giudizio le canzoni più diverse incise da Battiato nei suoi quasi 50 anni di carriera. Si vota su Facebook, qui, ma si può litigare anche qua sotto nei commenti. Oggi occorre scegliere tra queste quattro concorrenti:]


1968: Vento caldo (#256)


Tra 1965 e 1968 l'aspirante cantautore Francesco "Franco" Battiato le prova un po' tutte, accodandosi dietro più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum tentando di imitarne la formula: l'inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procul si erano limitati a ispirarsi a Bach, l'anno dopo gli Aphrodite's Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l'hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent'anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l'ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l'estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma per ora la situazione è molto più semplice: l'estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l'artista era ormai assorbito da altre avventure musicali. 


1972: Fenomenologia (#128)

Un brano dal primo album del Battiato Sperimentale Anni '70, Fetus. Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n'è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un'opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c'è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c'è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all'inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all'inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero "x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)".


1981: Centro di gravità permanente (#1)

Per organizzare questa cosa futile e assurda che è un torneo di canzoni di Franco Battiato, avrei bisogno di un ranking, ovvero una classifica che ci consenta di identificare le teste di serie e gli sparring partner, distinguere insomma le canzoni favorite da quelle che non hanno nessuna speranza ed evitare che due pezzi importanti si scontrino subito. Siccome una classifica del genere non esiste, siccome nessun critico musicale ha concepito l'idea insana di mettere in fila le canzoni incise da Battiato in mezzo secolo in cui ha suonato veramente di tutto, dal mandolino al sintetizzatore al tuner della radio alle polifonie mongole... ho deciso di usare come parametro il numero di ascolti su Spotify, dove di Battiato c'è quasi tutto. È una metrica abbastanza discutibile (molti ascoltatori di FB non lo ascoltano su Spotify) ma è l'unica che avevo. E il brano più ascoltato in assoluto di Battiato su Spotify è, a sorpresa, Centro di gravità permanente. Perché a sorpresa? Perché ero arciconvinto che fosse La cura. Forse speravo che fosse La cura, perché il primo brano del ranking è il brano da battere, la Juventus, il Real Madrid, e io in effetti La cura non lo sopporto: se perdesse nelle eliminatorie contro una serie di rumori random ne godrei. Invece Centro di gravità permanente è un gran pezzo, come faccio a tifare contro? Si trova nella stessa situazione di A Day in the Life nel torneo dei Beatles, e proprio come A Day è un brano che riesce a tenere assieme identità diverse e apparentemente contraddittorie: sperimentazione e giro di do, postmoderno e pop da classifica. Ha anche uno dei suoi testi più riusciti, con una serie di formule icastiche che ci sono rimaste in testa da allora: in particolare continua a colpirmi quel "tra noi si scherzava a raccogliere ortiche" che nel 1981 doveva suonare un bilancio su tutte le ortiche avanguardistiche raccolte e coltivate da FB nel decennio precedente. Ma i tempi stavano cambiando, era il momento di incassare. Centro di gravità permanente è veramente il centro di gravità della produzione battiatesca: tutto quello che ha fatto prima o dopo vi ruota intorno. 


1998: È stato molto bello (#129)

Un'altra estate sta finendo, ma stavolta è decisamente una stagione della vita. A un certo punto (è difficile capire quando) la tematica elegiaca è diventata per Battiato un appuntamento fisso, obbligato, anche un po' ridondante. Succede agli artisti che hanno la fortuna di invecchiare – prendi, che ne so, Bob Dylan: l'anno prima aveva inciso Not Dark Yet e chissà se si immaginava di avere ancora vent'anni e più di carriera davanti. Lo stesso Battiato, avesse saputo quante elegie avrebbe scritto in seguito, forse ne avrebbe scritte meno, ma come faceva a saperlo? E invecchiando di che altro doveva scrivere, di antichi amori? (lo ha fatto) Di decadenza dei costumi (Hai voglia). È stato molto bello è un brano quasi perfettamente aggiornato alle sonorità degli anni in cui è uscito; qualcosa di lento e ipnotico che si poteva mixare ai Massive Attack di Mezzanine senza perdere troppa faccia, con Battiato e Sgalambro che davanti al Mistero torcono le rispettive eloquenze, accontentandosi di parole semplici e assai pesanti: "io non invecchio, niente più mi imprigiona". "Non domandarmi dove porta la strada" (del resto dove volete che porti?) È notevole che un autore così spesso tentato di usare la lingua tedesca per suggerire un'aura di cultura, qui richiami il Faust di Goethe senza vantarsene, forse senza nemmeno accorgersene, con la nonchalance di chi non si sa se sta accennando al transito della sua vita terrena o a una cena con gli amici: è stato molto bello.  


– Votate il brano di oggi

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Morire per il Donbass sì ma quanto

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Può darsi che per più di trent'anni in Europa ci siamo assopiti. Ci siamo convinti che uno dei più grandi (ancorché effimeri) imperi sulla terra si fosse dissolto all'improvviso, in pace, senza nemmeno un sanguinoso colpo di coda. Si è trattato certo di un errore ma mi domando se oltre Atlantico non abbiano covato un'illusione peggiore. Hanno visto un regime avverso crollare, se ne sono attribuiti il merito (in fin dei conti sono protestanti: qualsiasi accadimento è una prova che Dio è dalla loro). E soprattutto hanno iniziato a pensare che fosse facile, che fosse riproducibile. Il che, per carità, sarebbe bellissimo; davvero io non ho obiezioni di natura ideologica a questa pratica del regime change. Mi sembra una alternativa interessante alla guerra guerreggiata (anche se non è un'alternativa del tutto incruenta). Voglio dire che se bastassero le sanzioni, a fare le rivoluzioni, io non solo mi abbasserei riscaldamento e condizionamento, ma regalerei pure l'oro alla pat... alla Nato. A fregarmi, ancora e sempre, è quell'antica abitudine a valutare, di ogni azione, il risultato e non l'intenzione: e io risultati dopo il 1992 non ne ho visti.



Dopo questa cosa immensa e improvvisa che fu la caduta dell'Unione Sovietica, la fine di buona parte del comunismo reale, io a episodi di regime change eterodiretti dalla Nato non credo di avere assistito, e ho grossi dubbi che la caduta dell'URSS rientri comunque nella casistica di questi regime change. Ma insomma vogliamo parlare di Cuba, che è sotto sanzioni da 60 anni ormai? Dell'Iran? Non sono un esperto, ma non mi sembra che questa cosa abbia funzionato mai. Non solo non è mai cambiato (in meglio) un regime, ma in molti casi non si sono evitate nemmeno le guerre, e a tal proposito ricordo che l'espressione regime change nasce proprio per giustificarne una in Iraq, dove magari il regime è persino cambiato un po'. Forse. In realtà dopo l'invasione non è più interessato molto a nessuno, di che regime si trattasse.  

Anche in Ucraina la guerra c'è, e dopo un paio di mesi bisogna anche accettare che è una guerra alla quale stiamo partecipando: non con truppe di terra e di cielo, ma è sempre più un dettaglio. La simpatia che è inevitabile provare per una nazione giovane che tiene testa a un invasore non può impedirci di vedere che a questo punto di questa giovane nazione non resterebbe molto, senza i cospicui aiuti occidentali (che gli americani versano molto più volentieri, poniamo, dei tedeschi). È una proxy war ormai, non credo che accettarlo ci renda più o meno antiamericani o putiniani: l'Ucraina è stata per secoli la frontiera sudoccidentale della Russia, ora è per buona parte la frontiera orientale della Nato, al di là del fatto che le sia consentito di entrare ufficialmente nel club o no. Anche quando i combattimenti cesseranno – non ne vedo l'ora – la frontiera resterà e continueremo ad armarla, ormai l'impegno lo abbiamo preso nei fatti prima ancora che nelle parole. A meno che, appunto, lo scacco militare non produca un regime change: e in effetti qualche precedente c'è. In fondo questa somiglia (su una scala più grande) a quelle guerre in cui vanno a sbattere i dittatori quando sentono di avere i mesi contati: i colonnelli greci che s'impelagano a Cipro, la giunta argentina alle Falkland, patetici tentativi di ribaltare il tavolo della Storia. Putin potrebbe avere commesso un errore simile, soltanto moltiplicato per mille. Può darsi ma a questo punto la questione diventa spinosa e quantitativa, ovvero: fino a che punto siamo disposti a sborsare per vedere se è un bluff? Posto che l'Ucraina non si difende con le nostre belle parole (altrimenti sarebbe ormai invincibile), né con le nostre bandierine al corteo del 25 aprile e tutte le altre risse televisive e social che continuiamo a organizzare per dare l'impressione di fare qualcosa. Abbiamo convenuto che vale la pena soffrire per il Donbass; ora la domanda è: soffrire quanto? E per quanto tempo? Sempre tenendo conto che dall'altra parte c'è un tiranno in fase senile, con i bottoni necessari a far saltare in aria il mondo: il che significa che il tempo non gioca necessariamente dalla nostra parte. Quanti mesi possiamo aspettare ancora per verificare se il regime cambia o se il tizio sbrocca? Quante città rase al suolo, quanti eccidi di civili ci possiamo permettere – e in generale quanto siamo disposti a spendere? Sinceramente mi sembra l'unica domanda interessante. 

Anche se non ho risposte. Del resto non me ne intendo. Dipendesse da me, senz'altro fino al nove maggio aspetterei. E la settimana dopo verificherei, per quanto possibile, se a Mosca non si stiano aprendo crepe intellegibili. Più oltre non andrei, vista la posta in gioco. Ma non me ne intendo. 
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Dubbi dello spettatore occidentale

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Lo spettatore occidentale è perplesso. Le emozioni lo tradiscono, la razionalità non lo aiuta, anche la memoria a volte gli è d'impiccio. È chiaro che questa non è la solita guerra in un teatro lontano: stavolta è diverso, è tutto molto più vicino e su una scala più grande. Questo lo spettatore occidentale lo capisce, ma si ricorda anche di esserselo sentito dire tante altre volte. La guerra fa paura, è uno spettacolo ipnotico e osceno ma soprattutto surreale: un giorno una città esiste, un mese dopo è rasa al suolo, gli abitanti scappati o schiacciati per motivi che tutti cominciano a considerare logici e inevitabili, ma lo spettatore occidentale no. Qualcosa non va, qualcosa dovrebbe essere fatto per evitare tutto questo, qualcuno dovrebbe saperlo, qualcuno dovrebbe dircelo e non lo fa. Lo spettatore odia la guerra, ma soprattutto odia sentirsi fregato: d'altro canto è uno spettatore, che altro può fare a parte sedersi, guardare e lasciarsi fregare. 


Lo spettatore occidentale si domanda se non sia in parte colpa sua (e dell'Occidente in generale). È una reazione tipica, prevedibile: mette insieme quasi tutto quello che l'Occidente ha prodotto: c'è dentro Kant e Marx e Freud, per restare agli strati più superficiali: più sotto una coltre spessa di senso di colpa coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo è colpa nostra) che dovrebbe occultarci il sottostante senso di superiorità coloniale (qualsiasi cosa succeda nel mondo l'abbiamo cominciata noi); più in profondo si intravedono ancora Cristo e Aristotele. Scoppia una guerra da qualche parte: possibile che non l'abbiamo causata noi, coi nostri peccati di pensiero, parola, opera, omissione; semplicemente esistendo in un'oggettiva condizione di privilegio? Un dittatore ordina l'invasione di un Paese confinante, certo, sembra tutto abbastanza chiaro, ma guardiamoci dentro: non l'avremo provocato in qualche modo? Dopo averlo magari illuso, coccolato – quanti errori abbiamo fatto nei suoi confronti, e ora non dovremmo far finta di non vederli, dovremmo raccontarci che è perfido per natura?

Nella sua forma più immediata e inconsapevole, questa reazione si chiama razionalizzazione: che bel paradosso. Significa che ogni cosa assurda, guerra compresa, dev'essere rimasticata fino a prendere una forma ragionevole: ma anche che ogni cosa che apparentemente non dipende da Me, per quanto immensa e indescrivibile, dev'essere infilata in un imbuto lunghissimo che prima o poi ne distilli almeno una goccia che il mio individuale senso di colpa possa assorbire. Putin bombarda Kiev, e io gli sto comprando il gas per il mio scaldabagno: sono un mostro. Ma non basta, sto persino vendendo armi all'Ucraina: non abbastanza perché respingano i russi, ma abbastanza perché la guerra si protragga fino alla trasformazione di un popoloso Paese europeo in un altro Afganistan. È la cosa giusta da fare?, si domanda lo spettatore occidentale: come se davvero qualcuno gli avesse chiesto un parere o addirittura un permesso per comprare gas e vendere armi. Razionalizzare è anche un modo per illudersi di non essere uno spettatore: non in mio nome, dice. Se davvero vivo nel mondo libero (grazie alla Nato), perché non dovrei essere libero di criticare le scelte della Nato? Se davvero ho la libertà di dire che due più due fa quattro, perché non posso usarla per dire che un tiranno paranoico in difficoltà, più una valigetta nucleare, nel medio lungo periodo causano una catastrofe? Difendere l'Ucraina è una bella cosa: trasformarla in una steppa di rovine già sembra meno bello; farlo nella speranza che Putin ne venga travolto non sarà l'ennesima fantasia americana di regime change, una di quelle cose che provano a fare da vent'anni e il risultato è sempre peggiore della situazione di partenza?


La risposta potrebbe anche essere "no": ma lo spettatore occidentale queste domande vorrebbe almeno continuare a porsele. È un po' il senso di vivere in occidente piuttosto che altrove: dovrebbe esserci spazio per il dubbio, un minimo di margine per chiamarsi fuori (la libertà implica una coscienza, la coscienza richiede di essere lavata). Ma ecco, pare non ci sia un modo di farlo senza passare per fessi o essere additati come collaborazionisti. Bisognerebbe essere molto bravi ed equilibrati e questo è un altro problema, che a quanto pare nessuno più lo è. Chi prova a mostrarsi dubbioso nei talk si trasforma ovviamente in una macchietta, un Goldstein da esibire a intervalli regolari quando scoccano i due minuti d'odio. Chi si lascia intervistare dai giornali italiani (giornali che anche in tempi più semplici non hanno mai avuto rispetto per i virgolettati) cade nei più vieti trabocchetti retorici. Non aiuta certo il prosperare sui social di putiniani ruspanti, un po' volontari un po' alla giornata, tutti rigorosamente fuori dal coro anche quando dicono tutti in simultanea le stesse cose. 

Intanto, a un clic di distanza, gli atlantisti si scatenano, ormai sono alla caccia all'uomo. Vent'anni di frustrazioni, di armi di distruzione di massa che non si trovavano e democrazie malamente esportate, finalmente possono liberarsi in una scossa di energia che rianimerebbe il cadavere di Joseph McCarthy, anzi forse lo ha rianimato. Una tabella ritagliata da un articolo pubblicato su Limes è sufficiente per denunciare il putinismo della redazione tutta; una bandiera disegnata a rovescio, in prima pagina sul Corriere, è quanto basta per dichiarare l'ANPI intelligente col nemico. Questo è più grottesco del domandarsi se Putin non l'abbiamo provocato noi, ma ormai passa in fanfara, come cosa naturale: dopo due anni di pandemia non siamo più abituati a tollerare opinioni diverse dalle nostre. Bisognerebbe ricordarsi che le opinioni non ci mandano in terapia intensiva – non in questo caso, almeno. E che tutto questo setacciare i feed dei nostri avversari preferiti alla ricerca di affermazioni da ritagliare ed esibire in quanto imbarazzanti, tutta questa corsa al dossieraggio, ecco, non salverà la vita a un solo sfollato ucraino: non è un modo per aiutare a liberarli; al massimo per liberare noi stessi da qualcosa che ormai non sappiamo nemmeno più cos'è. Potrebbe essere il dubbio, appunto: bisogna farlo emergere, lasciare che si incarni in un pagliaccio televisivo, e poi condannarlo in effige. Lo spettatore occidentale ricorda vagamente di un tempo in cui le cose non funzionavano così, in cui manifestare i propri dubbi era una pratica apprezzata, indizio di apertura mentale, disponibilità al dialogo, capacità di riconoscere i propri errori. E tante volte si esagerava, si cercava di dialogare con gente in malafede e si insisteva a cercare i propri errori negli errori evidentemente altrui. Ma a quanto pare da qui in poi succederà sempre meno, anche in occidente. 

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