17. Da quando sei andata via non esisto più

Permalink

[Questa è La Gara delle canzoni di Battiato, con una delle sfide più combattute fin qui: non solo tra Sesso e Castità, ma tra Sesso, Castità e Cuccurucucù. Chi vincerà?]

Si vota qui

1978: San Marco (#253) 


San Marco è una delle prime collaborazioni di Battiato con Giusto Pio, il lato B di quel pazzo singolo che i due fecero uscire nel 1978 per la Elektra (che in Italia era un'etichetta della Ricordi e forse aveva bisogno di rimpolpare il catalogo), attribuendolo a un fantomatico violinista aspirante popstar che nella copertina aveva le fattezze del figlio di Giusto Pio. Al tempo Battiato era anche l'allievo di Pio, e in San Marco si ha veramente l'impressione di assistere a una lezione: c'è un violinista competente, un pianista volonteroso ma incerto, e qualcuno tiene il tempo battendo il piede. Il testo è declamato da FB al megafono – lo stratagemma che tornerà in Bandiera bianca e che qui ha anche la funzione di dissimularne l'identità, perché Battiato in quel periodo è un brand di musica d'avanguardia, mentre questa roba è un'altra cosa, anche se a distanza è abbastanza difficile capire cosa sia. 
Come esperimento commerciale può lasciare perplessi ma bisogna sempre ricordare che era il 1978: i dischi si vendevano come il pane, più strani erano e più creavano nuove nicchie di mercato. Non v'immaginate la gente che è riuscita a stravendere dischi nel 1978. Se poi vi state domandando, ok, ma che nicchia di mercato si sarebbe dovuta aprire per un progetto musicale basato su un violino vagamente vivaldiano, una base ritmica più contemporanea e un'immagine associata alla Venezia della dolce decadenza settecentesca? ecco, magari non ci buttereste dieci euro in un progetto del genere e bisogna riconoscere che nemmeno Battiato e Pio ci stavano credendo troppo (tant'è che mandarono il figlio di Pio a suonare in tv in playback perché, per sua ammissione, non avrebbe chiesto un soldo), e però stiamo parlando del periodo in cui uno dei pochi artisti italiani a riempire i palazzetti europei era proprio un violinista, Angelo Branduardi; che pochi mesi dopo sarebbe uscito per esempio un pregevole album delle Orme ispirato proprio al Settecento veneziano, Florian, e prodotto da quel Gian Piero Reverberi che negli anni '60 aveva orchestrato i pezzi più barocchi di De André (quelli che molto più tardi Battiato avrebbe ripreso in Fleurs): il quale poi nel 1979, su insistenza del suo discografico che gli chiedeva di riempire una specifica nicchia di mercato, ("qualcosa che sia di facile ascolto ma di classe, dal sapore internazionale ma con un chiaro tocco italiano") cominciò a comporre musica finto-vivaldiana su ritmiche contemporanee, e a venderla con l'etichetta Rondò veneziano. Il primo singolo si chiamava proprio Rondò veneziano e aveva una linea di basso insistita molto simile ad Adieu, il lato A di San Marco; Berlusconi la scelse come sigla d'apertura delle trasmissioni di Canale 5. È senz'altro una coincidenza, ma il lato B di Rondò veneziano si chiamava San Marco, proprio come il lato B di Adieu. I Rondò esistono tuttora, anche se in Italia non vengono più a fare concerti (ma in Mitteleuropa sono ancora molto apprezzati) e hanno venduto qualcosa come trenta milioni di dischi: insomma a cercarla bene la nicchia c'era. Battiato e Pio la sondano quasi per caso, e poi vanno altrove (ma con l'Era del cinghiale bianco torneranno pericolosamente nei dintorni). 


1981: Cuccurucucù (#4)


Il mondo è grigio, il mondo è blu. Cuccurucucù è una delle canzoni più importanti della mia vita, ma questo non è così importante per Cuccurucucù – in effetti ciò che ha reso così centrale Cuccurucucù è la progressiva scoperta che non era stata scritta per me, che non mi riguardava, che era un patchwork di riferimenti che io non conoscevo. Troppo tardi: Cuccurucucù era scritta per gente che conosceva Le mille bolle blu di Mina e Il mare nel cassetto di Milva, canzoni che io avrei ascoltato solo molti anni più tardi associandole comunque indissolubilmente a Cuccurucucù e persino l'ira funesta del pelide Achille, e i profughi afgani in generale, per Battiato erano frammenti di cronaca e memoria scolastica da graffettare assieme in un collage postmoderno, mentre per me sono diventati il paesaggio semantico dove sono cresciuto, per me è Omero che cita Battiato, così come Paul McCartney e Bob Dylan, tutti saccheggiatori del Battiato primordiale. 
Mentre scriveva Cuccurucucù FB non aveva certo in mente me, ascoltatore di nove anni. Stava portando alle estreme conseguenze una poetica del frammento che era cominciata con i frastuoni di Clic e a partire da Patriots si era insinuata nelle canzoni pop solo a livello testuale. Continuando a comporre collage di versi di canzoni, poesie scolastiche, titoli di giornale, Battiato scopre, senza volerlo, il segreto per ipnotizzare i boomer. Cuccurucucù, è difficile capirlo oggi, è una pietra miliare: il 1981 è l'anno in cui i nati negli anni Quaranta cominciano a guardarsi indietro. Quel che vedono è perlopiù un album di foto slabbrate e oggetti desueti (le penne stilografiche, il rasoio elettrico), vecchie canzoni e una nostalgia assurda, che nessun medium ha ancora istituzionalizzato. Cuccurucucù arriva prima di Techetecheté, prima delle musicassette con Trenta Successi degli Anni Sessanta, prima dei gruppi di FB Noi Che Portavamo I Calzoncini Corti, Che Ne Sanno I Duemila e così via, Cuccurucucù è il preciso momento in cui gli anni Sessanta si impietriscono in un monumento in bianco e nero, ed è anche una canzone struggente anni Ottanta con un gioco di corde basse che riesce ancora ad agitarmi il sistema nervoso finché non entrano i Madrigalisti e sul si minore ho voglia di piangere, ma cosa volete saperne voi Duemila. 

2004: Tra sesso e castità (#125) 

Scorrono gli anni, nascosti dal fatto che c'è sempre molto da fare. Questo è un colpo basso, vero? Tra sesso e castità è uno dei brani più forti di Dieci stratagemmi, il disco probabilmente più interessante del tardo Battiato. Ha un testo che se non dice davvero niente di nuovo – il conflitto tra il desiderio e lo spirito, lo struggimento per un perduto amore e la necessità di astrarsi – lo dice proprio bene, con quell'ardimento lessicale che sulle labbra di chiunque altro suonerebbe ridicolo e invece sulle sue è necessario ("chissà perché avrò abdicato") e poi ha quel rivestimento rock che piace a noi giovani (del futuro). Quale bizzarria del destino, quale buco nell'algoritmo manda a sbattere un brano del genere contro un pezzo inaffondabile come Cuccurucucù? Allora, ecco, vi ricordo che l'algoritmo si basa sul ranking, e che quest'ultimo, in mancanza di altri dati, è basato esclusivamente sul numero di ascolti di Spotify. Capita dunque che mentre Cuccurucucù risulti la quarta canzone di Battiato più ascoltata dagli spotiffari (e non sorprende), Tra sesso e castità, che ai tempi dell'uscita ebbe un discreto airplay, si ritrovi alla... centoventicinquesima posizione. Sì, è abbastanza strano. Ingiusto, anche. Probabilmente Tra sesso si è ritrovata esclusa dalla heavy rotation che Spotify programma quando l'utente medio chiede brani a caso di Battiato. (Che c'entri la parola "sesso"? Gli algoritmi a volte sono bacchettoni). Ma in linea di massima il dato conferma una sensazione, ovvero che il tardo Battiato, per quanto celebrato dai media tradizionali e trattato con una certa deferenza persino dalle radio commerciali, alla fine fosse poco ascoltato. Non poco apprezzato: quando usciva con un disco nuovo eravamo tutti contenti e lo trovavamo sempre generalmente in forma. In particolare ammiravamo il coraggio con cui continuava a circondarsi di giovani (qui i padovani FSC) e a giocare con lo stereotipo che si era ritrovato addosso. Era ormai un rito applaudire fino a spellarsi le mani. E rimettersi quasi subito ad ascoltare la Voce del padrone.


2012: Il serpente (#132) 

Il denaro striscia come il serpente nelle città d'occidente. Così si celebra: ma da qualche parte un uomo nuovo sta nascendo. Apriti sesamo è un disco testamentario e soprattutto verso la fine si avverte quanto sia faticoso per FB doverci lasciare almeno una nota di speranza. Il serpente è uno dei brani più intimi dell'album – uno di quelli che FB potrebbe essersi composto e arrangiato in casa. Con voce tremante – e toccante – Battiato racconta una visione che purtroppo, come succede ai predicatori new age, assume colori e forme un po' naif ("Un raggio di luce attraversò un cielo nero e minaccioso andando a illuminare un albero di ciliegio in fiore").  

Si vota qui


Comments

16. E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio

Permalink

[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi col Battiato prog più bombastico, col Battiato avanguardista più minimale, col Battiato erotico più spinto, col Battiato interprete più ridondante].

Si vota qui


1973: Areknames  (#41)

Pianeta Terra: le nuove metamorfosi, frontiere della mente. Ami, se mancherà (il testo di Areknames, cantato al contrario, o perlomeno la parte che qualcuno è riuscito a decifrare). Areknames è il riff più bombastico del Battiato '70, il brano che che lo conduce a un bivio: ora che ha domato quella belva che è il VCS3, ora che è in grado di tirarne fuori riff orecchiabili e maestosi, cosa deve fare: diventare la star del prog italiano, la variante locale dei Pink Floyd, o continuare a spiazzare il pubblico sperimentando altre cose? Battiato prenderà la seconda strada senza esitazioni, e Pollution rimane paradossalmente sia il suo disco '70 più accessibile, sia il più datato: Areknames è veramente un brano che doveva avere un effetto potente ai concerti del periodo, ma che oggi soffre molto più di altri l'obsolescenza degli strumenti elettronici. A meno di non far parte di quel tipo di ascoltatore che, scoprendo Pollution almeno 15 anni più tardi, non lo apprezzava proprio a causa di questa obsolescenza, che conferiva ad Areknames, ristampato con tanto fruscio su una musicassetta Ricordi, il fascino dei reperti archeologici (per molto tempo devo aver pensato che fosse il nome di un faraone, e che Battiato stesse cantando in geroglifico o in caldeo).


1977:   (#216)

 è il primo lato di un disco che secondo alcuni si chiama proprio , e secondo altri Battiato, ed è forse il suo disco più... stavo per scrivere difficile, ma è poi così difficile capire un pezzo come ? Un pianista (Antonio Ballista) suona un accordo a intervalli regolari: lo suona così forte che si può dire stia percuotendo il pianoforte (che è anche questo: uno strumento a percussione). Lo suona in modo così metodico e regolare che ben presto quello che diventa più interessante non è il suono della percussione primaria, ma quello del rilascio, ovvero la vibrazione che rimane sui martelletti nel momento in cui Ballista stacca la mano dai tasti. A volte (di rado) cambia il tempo, a volte (di rado) cambia l'accordo. Battiato nelle note di copertina si spiega così: "Apparentemente povero. Quasi completamente formato da un accordo. Volutamente percussivo (non viene mai usato il pedale di destra), divide e sottrae risonanze, con una tecnica di rilascio. Ha bisogno di un ascolto che definirei meta analitico, a favore di una non spazialità atemporale". Quest'ultima cosa rimane un po' ostica, ma  non è un'opera enigmatica. FB non vuole stupirci, non vuole scioccarci, né prendere in giro le nostre attese di ascoltatori. Vuole soltanto far battere dei martelletti e sentire il suono che fanno quando si rilasciano. , se vuol dire qualcosa, probabilmente vuol dire: fine e inizio. Per molto tempo Battiato è andato in giro con un ritaglio di una rivista nel portafogli, un'intervista a Stockhausen in cui il compositore avanguardista faceva il nome di Battiato come di un giovane da tener d'occhio. Poi finalmente lo ha incontrato e qualcosa non è girato per il verso giusto: il maestro d'elezione ha scoperto che l'allievo non sapeva leggere una partitura. Battiato, che fino a quel momento aveva testardamente perseguito una carriera da autodidatta, decide di studiare solfeggio, armonia e composizione perché (gli aveva detto Stockhausen) non avrebbe potuto continuare a fare del "pop" a quarant'anni. In effetti  è il primo vero brano in cui Battiato non suona nulla: ma se l'esecuzione è demandata a Ballista, evidentemente esiste una partitura, una delle prime scritte da Battiato. Il minimalismo di  va incontro a un certo gusto del tempo – FB ha ascoltato Einstein on the Beach di Wilson e Glass alla Biennale del 1976 – ma è anche una scelta obbligata per un compositore che sta ancora imparando a comporre. La sua prima opera è poco più di una riga ritmata su una pagina bianca. 


2002: Come un sigillo (con Alice, testo di Manlio Sgalambro, #169) 

E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio, poi sfioravi il glande e i sensi celebravano il loro splendore. Ok, questo Battiato senza Sgalambro non l'avrebbe fatto: descrivere una sega nel modo più delicato possibile. E allo stesso tempo Sgalambro non sarebbe mai riuscito a rendere credibile la cosa, se a cantarla non fosse stato Battiato con quel timbro nasale e rapito che depura ogni verso dalle sue morbosità – Battiato è l'anti-macho per eccellenza, solo lui poteva essere protagonista di quel famoso aneddoto in cui Loredana Berté in aeroplano gli mostra le tette e lui: "Loredana, ti dirò la verità, sono bellissime", Battiato è libero di celebrare l'erotismo perché ha vinto in sé la concupiscenza, o almeno è riuscito a darci questa impressione. 

L'erotismo letterario poi molto spesso calca la mano, si dà per scontato che il sesso sia un'impresa muscolare e che la scrittura debba trattenere questo sforzo o mimarlo, laddove a volte sono proprio certe esperienze acerbe, e brevi, e delicate, a restare impresse per tutta la vita. Come un sigillo è l'unico brano inedito di Fleurs 3 e serve come trait d'union tra due brani che non si potrebbero immaginare più diversi: Sigillata con un bacio, da cui si riprende il tema del sigillo che però qui Sgalambro ricollega al Cantico dei Cantici di Re Salomone ("mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio") e Beim Schlafengehen, un Lied di Richard Strauss con testo di Herman Hesse. Il che ci autorizza una volta di più a usare per quest'area della produzione di Battiato col termine midcult: è lo stesso Battiato a porsi a metà tra una canzone per teenager su un amorazzo estivo e un Lied di Strauss. La cosa più interessante del brano è l'impasto delle voci di FB e Alice, che qui si dimostrano realmente complementari: a una voce maschile alta risponde una voce femminile bassa (in certi punti veramente Alice è il basso e Battiato il falsetto). Cantano perlopiù all'unisono, creando davanti all'ascoltatore l'illusione dell'ermafrodito platonico che rimpiange l'era in cui Zeus ancora non l'aveva spezzato. 

2008: Era d'estate (Endrigo-Bardotti, #88) 


Quando si arriva al terzo volume dei Fleurs (Fleurs 2) ci si trova sempre più di frequente a scacciare la sensazione che FB stia raschiando il barile dei ricordi: per carità, succede a tutti, e si continua comunque a pescare frammenti intriganti – in questo caso ecco un singolo del 1963 di Sergio Endrigo, musicalmente imbastito su un giro di do e liricamente centrato indovinate un po' su che dramma amoroso? Esatto, l'amore estivo che in autunno ahinoi finisce, non resta che scriverci una canzone, anche se forse qualcuno potrebbe averla già scritta, no? Vabbe' nel dubbio scriviamola anche noi, si saranno detti Endrigo e Bardotti. Battiato (che al tema dell'amore caduco e transumante è evidentemente legato) nel primo Fleurs aveva rispolverato Aria di neve e Te lo leggo negli occhi con esiti miracolosi: non c'è un vero motivo per cui lo stesso trattamento non renda la sua terza cover di Endrigo altrettanto memorabile. Il difetto sta nel materiale di partenza: Era l'estate è una canzone meno interessante, tutto qui. 

Si vota qui

Comments

15. L'abisso non mi chiama, sto sul ciglio

Permalink

[Benvenuti alla Gara, il più grande torneo di canzoni di Battiato mai disputato e mai disputabile, oggi con Brunelleschi, Rodolfo Graziani, Isidore Ducasse e Paolo Conte. Ma anche con Giusto Pio, Giuni Russo, Manlio Sgalambro e Caterina Caselli].

Si vota qui


1978: Su scale (per voce, coro e due pianoforti) (#233)


Su scale comincia con una cascata di scale pianistiche che ci ricordano due cose: (1) in quel periodo FB stava re-imparando la musica, nel senso che dopo l'incontro con Stockhausen aveva accettato di dover almeno capire come si legge uno spartito, farsi un minimo di cultura convenzionale e (2) Juke-box era nato come una colonna sonora di un film di Brunelleschi, per cui è inevitabile immaginare le "scale" non solo come quelle interminabili impartite agli studenti, ma come quelle delle ciclopiche impalcature di Santa Maria del Fiore, la prima sfida al cielo del Rinascimento. Nella seconda parte entrano le voci, e se quelle in sottofondo tutto sommato sembrano rispettare le convenzioni della musica occidentale, il solista è evidentemente in un altro mondo: si tratta forse del primo tentativo di Battiato di introdurre nella sua musica un tipo di vocalità orientale. 

FB non ha mai smesso di ricordare che Juke-box era da considerarsi una colonna sonora: persino nel suo sito internet, messo on line molti anni dopo, si legge a chiare lettere che l'album era nato per questo motivo. Qualcun altro avrebbe avuto tutto l'interesse a far passare il rifiuto sotto silenzio, ma per Battiato evidentemente l'unico senso dell'album era questo. 


1989: Lettera al governatore della Libia (con Giuni Russo, #105) 

Carico di lussuria si presentò l'autunno di Bengasi. La prima facciata di Giubbe rosse è anche un atlante del mondo battiatesco: al centro la Sicilia (Giubbe Rosse), a nord l'Europa (Alexander Platz), a est la Mesopotamia, al sud l'Africa coloniale che torna in tante canzoni di FB come una Sicilia aumentata, un luogo ambiguo di rimpianti e pulsioni inconfessabili. Sin dai tempi dell'autista dei camion in Abissinia di Aria di rivoluzione, figura evidentemente ispirata al padre, non è mai chiaro cosa voglia fare FB con questo album di ricordi non suoi, ricordi ereditati ai quali forse vorrebbe cambiare il significato. Lettera al governatore sembra il ricordo di una famiglia italiana che si trasferisce in un quartiere coloniale del capoluogo cirenaico aspirando al benessere della classe dominatrice, ma non può impedirsi di vedere la fragilità di tutto l'impianto. La versione di Giuni Russo del 1981 sprizza tuttora la vitalità di quel periodo particolare – la chitarra di Radius, il violino di Giusto Pio – la versione live del 1989 regge il confronto, anche perché la Russo è ancora dietro il microfono e può vocalizzare a piacere. 

1995: L'ombrello e la macchina da cucire (testo di Sgalambro, #152) 

Chiacchiero col vicino, lei non ha finezza: non sa sopportare l'ebbrezza. Sto riascoltando dopo anni L'ombrello e la macchina da cucire e devo dire che è una bella sorpresa, al tempo mi sembrava quasi  inascoltabile e invece le basi elettroniche hanno retto il tempo molto bene: anche l'impasto tipicamente battiatesco coi cori campionati da quell'opera (Il cavaliere dell'intelletto) che non ha mai voluto incidere. La nota dolente sono sempre i testi di Sgalambro, quell'insalata di riferimenti colti di seconda mano che in fondo anche Battiato sapeva fare, salvo che a Battiato riusciva meglio, va' a capire il perché: forse perché era chiaro sin dall'inizio che non faceva sul serio, laddove Sgalambro sembra persuaso che cominciare con una citazione del conte di Lautreamont e finire con Joyce sia una buona idea per realizzare un testo ispirato. E sono quasi tutti riferimenti di seconda mano, ovvero citazioni che sono già state citate da qualcuno e che il lettore midcult sapeva riconoscere anche prima dell'avvento di google: di solito era sufficiente una saltuaria frequentazione degli inserti culturali sui quotidiani. Invece "Che cena infame stasera, che pessimo vino" mi ricorda una frase molto simile che in Boris (il film) veniva usata come esempio di scuola di cattiva scrittura cinematografica – ecco, appunto. Devo capire se Battiato ha registrato anche una versione spagnola del disco perché probabilmente l'ascolterei con meno fastidio (ed è già la seconda volta dopo Piccolo pub che Manlio "filosofo" Sgalambro compare alticcio a un tavolino).


2002: Insieme a te non ci sto più (Conte-Pallavicini, #24) 


Chi se ne va, che male fa? Certe canzoni fanno giri lunghissimi, stancano tutti e non si sentono per anni interi per poi risorgere all'improvviso (e stancare tutti di nuovo). Questo per spiegare come Insieme a te non ci sto più nel 2002 fosse una scelta meno banale di adesso: certo, Nanni Moretti l'aveva già usata per due scene topiche sia in Bianca (dove si sentiva anche Scalo a Grado!) che nella Stanza del figlio, uscito appena un anno prima. Anche Arrivederci amore ciao, il romanzo di Massimo Carlotto, era fresco di stampa; il film omonimo sarebbe uscito solo cinque anni più tardi e solo a quel punto Caterina Caselli avrebbe vinto il David di Donatello per la migliore canzone originale. Quest'ultimo dettaglio non credo potesse impressionare più di tanto Paolo Conte, che però qualche anno dopo confessa a un giornalista che Insieme a te non ci sto più è la canzone di cui va più orgoglioso. Eppure non l'ha mai incisa; qualcuno sostiene di averlo sentito cantarla a un concerto ma non abbiamo prove. In compenso abbiamo una versione di Battiato che nel secondo volume di Fleurs (quello che si chiama Fleurs 3) sembra a volte tentato dall'operare in modo inverso: invece di trasformare ogni canzonaccia in musica da camera, prendere canzoni che sono già considerate classici e snellirle, modernizzarle, immaginarle adatte alla radiofonia contemporanea. È comunque un'operazione condotta con molto garbo e a volte a malapena percettibile (vedi qui le schitarrate di apertura, che ci fanno immaginare una versione molto più rock di quella che poi segue), ma è comunque meno interessante di quello che Battiato aveva tentato col primo volume di Fleurs, anche perché la sua idea di modernità radiofonica non è necessariamente la nostra e l'accenno di Ciao amore ciao ci lascia presagire un mash-up che per fortuna non si realizza. Detto questo, è bello che esista almeno una canzone di Battiato scritta da Paolo Conte (anche l'inverso non sarebbe male, ma è più difficile da immaginare). Dopo di lui l'hanno rifatta un po' tutti ma la sua resta la più ascoltabile – insieme con l'originale, incisa dalla Caselli con quella voce che Conte definiva "da lavandaia", la voce di una che ti lascia con un sorriso a trenta denti e devi anche essere contento che non ti morda. Non ti sto facendo male, vero? No, no, figurati, anzi.     
Comments

14. Io t'ho amato sempre non t'...

Permalink

[Questa è la Gara, ovvero una gara di canzoni di Franco Battiato. Oggi in lizza quattro brani tra cui due di Fabrizio De André, uno degli artisti che ha più amato e interpretato].

Si vota qui


1995: Piccolo pub (testo di Manlio Sgalambro, #201)


"Nel '43, ero malato, vidi tutta la mia vita sudato, scorreva finita". Una cosa che tendo a dimenticare è che tra Sgalambro e Battiato c'erano pur sempre 21 anni di differenza, una generazione. Se la cosa si nota meno di quanto si potrebbe è anche perché dei due è spesso l'anziano a parlare più sboccato. È tipico associare Sgalambro a quel lessico barocco che però era un marchio di fabbrica del prodotto-Battiato molto prima che i due s'incontrassero – davvero, Battiato non aveva avuto bisogno di Sgalambro per cantare "codici di geometrie esistenziali" o "lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco". Né la lirica sgalambriana ha mai raggiunto quei livelli: in compenso dopo averlo incontrato Battiato ha incluso nel suo lessico termini come "puttana", oppure in questa canzone si è concesso una divagazione filosofica sulla pisciata nel bagno di un esercizio pubblico. "Birra e urina si scambiano le parti: la latrina è il tuo caveau. Liquido vitale scorre in entrambe". Sembrano veramente i pensieri sciolti di un filosofo alticcio alla terza pinta, che si congeda dagli amici dicendo "ci vedremo domani se la notte non fa il suo colpo stanotte": un po' ridondante ma espressivo – se FB non scegliesse di ripetere il verso tre volte nella canzone, dando una sensazione come di rincoglionimento (la musica però è buona). 


1999: Amore che vieni, amore che vai (De André, #56)



Il primo Fleurs è, tra le altre cose, un prodotto piazzato con un tempismo pauroso; certo, potrebbe anche essere successo per caso, ma è un fatto che le ceneri di Fabrizio De André erano ancora calde e milioni di italiani stavano giusto scoprendo di averlo sempre amato. Si erano messi a chiamarlo per nome, anzi "Faber", come l'amico-fragile che all'improvviso rimpiangevano. Terminava un processo di canonizzazione che era iniziato una decina d'anni prima, dalle Nuvole: perché fino a quel momento De André era sempre riuscito a eludere il passaggio da solito stronzo a venerato maestro. Pochi mesi dopo Battiato sceglie per il suo primo disco di cover due classici del De André più intimista (e meno controverso): giusto in tempo per prenotarne almeno uno per il concerto-tributo che si tiene a Genova il 12 marzo dell'anno successivo. Quando arriva sul palco Battiato insomma dovrebbe trovarsi in discesa: il brano lo conosce, lo ha appena inciso, e il pubblico lo ha già ascoltato nella sua versione: cosa può andare storto? Accade invece che a Battiato, un professionista con decenni di concerti alle spalle, si mozzi il fiato a metà di un verso, in un moto di commozione così spontaneo che il pubblico lo riconosce immediatamente (e applaude). Ed ecco un'altra ipotesi su Fleurs: invecchiando si diventa sentimentali, basta una vecchia canzone per spremerci una lacrima, la gente penserà che la colleghiamo a questo o quell'amore finito ma non è necessariamente così. A volte è la semplice verità del brano, così lucida che taglia: io ti ho amato sempre, non ti ho amato mai. L'amore è pensare per tutta la vita a una persona di cui non sai più niente da anni, a questo punto potresti persino telefonarle, non sarebbe certo molestia volerla sentire una volta in trent'anni ma ti rendi conto che no, in realtà tutto quello che vorresti dire a lei non lo vuoi dire alla lei di adesso, tutto questo amore che provi ha ormai ben poco a che fare con quella lei che risponderebbe al telefono, l'hai amata sempre, non l'hai amata mai, uno poi pensa che mentre piangiamo siamo buoni ma è il contrario, si è sempre soli con le proprie lacrime, è sempre e solo per noi stessi che piangiamo.   

2007: Stati di gioia  (#184)

"Era l'estate del '63, un pomeriggio assolato. Da un juke-box di un bar completamente vuoto: She loves you ye ye ye. Ommmm". È un tratto comune a molti della sua generazione: l'ascolto dei Beatles come uno choc primario, qualcosa che modifica per sempre la percezione. Succede a Bob Dylan (classe 1941) e succede a FB (1945). Il primo era già un folksinger affermato, il secondo un diciottenne che nella vita avrebbe suonato tutt'altro (ma lascia perplessi che i jukebox siciliani fossero già aggiornati alle novità inglesi). Eppure per entrambi – e tanti altri – i Beatles tracciano un solco. Posto che per apprezzare Stati di gioia conviene comunque ascoltare la versione studio del Vuoto, stavolta preferisco mostrare questo video di uno spettatore che è riuscito a inquadrare Battiato da vicino mentre la canta. Non per come la canta – il fiato cominciava a mancargli – ma perché, accidenti, è felice. È una persona che ha scoperto la gioia da ragazzino ed è riuscito a non dimenticarsene, a mettere insieme gli indizi finché non l'ha ritrovata, e quando l'ha ritrovata ha cercato di spiegare a tutti come si fa. Ha a che vedere con la meditazione ma anche con una canzoncina per teen-ager. Io non so nemmeno se mi piaccia, una canzone come Stati di gioia, e in generale sui suoi ultimi dischi sospendo il giudizio, era ancora bravo, ispirato? Era felice, questo importa. Forse a un certo punto non lo ascoltavamo nemmeno più: non importava cosa cantasse, l'importante era vederlo felice, saperlo felice. 


2009: Inverno (#73) 



Ma tu che vai, ma tu rimani. Negli anni Zero FB era diventato, a causa delle sue caratteristiche intrinseche, l'ospite ideale di Fabio Fazio: garantiva con la sua sola presenza uno spessore culturale, un'amabilità pop, e si teneva ancora molto lontano dalle polemiche politiche. A chi se non a lui quindi demandare il decennale della morte del solito Fabrizio De André – assurto nel frattempo all'empireo dei classici della letteratura. Battiato si presta al compito con generosità, confermando che l'unico De André che gli interessa interpretare è quello barocco delle collaborazioni con Gian Piero Reverberi e regalandoci una cover rispettosa ma non banale di un brano quasi dimenticato. Tutti morimmo a stento è un disco dallo strano destino: fu il LP più venduto in Italia nel 1968, probabilmente perché a quel tempo ascoltare pezzi di De André in radio era impossibile; in seguito snobbato anche dal suo autore. Battiato avrebbe potuto portare a casa la serata con la solita Amore che vieni, o La canzone dell'amore perduto: e invece sceglie una canzone che sotto la patina dell'orchestrazione nasconde una natura freddissima e inquietante: dopotutto è una visita a un cimitero, raccontata da un visitatore tentato di restarci. È perfetta per ricordare De André senza concessioni alla retorica, ed è perfetta per la voce ormai tremolante di FB che a quel cimitero si sente sempre più vicino. Una versione studio della sua interpretazione (meno tremolante) viene poi incisa in Inneres Auge

Comments

13. Coatti nella convivenza affrontiamo il progresso

Permalink

[Questa è La Gara, una competizione di canzoni di Battiato, cioè tipo che siete in cima a una torre con quattro canzoni di Battiato e dovete buttarne giù tre. Meno divertente di quel che sembra, in effetti] 

Si vota qui

1967: La torre (#248)


BATTIATO: Siete degli ipocriti.

CASELLI: Ma chi è questo?

GABER: Io l'ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.

CASELLI: Esatto!

GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?

BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!

La storia è ormai nota: quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l'Equipe '84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: Auschwitz, Dio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la "folksong". Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, aveva una sua giovane promessa da presentare: un giovanotto dinoccolato che per l'occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell'altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono un paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica che li acclude al numero in edicola; Gaber l'ha scovato in un'osteria dove cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali. La torre è un brano molto acerbo, che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po' tutte e anche un buco dell'acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l'altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l'altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l'Asociale: "sono un tipo antisociale / non m'importa mai di niente / non m'importa del giudizio della gente... in un'isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare". Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con tanta ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l'anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.  


1982: Radio Varsavia (#9) 

L'ultimo appello è da dimenticare. Nel 1982 Battiato è letteralmente la Voce del padrone. Ha osato tanto, ha vinto il banco, ha venduto più dischi di tutti e ora può fare quel che vuole. Quel che vuole è prendere immediatamente le distanze da quel tipo di successo: gli artisti a volte fanno questo tipo di cose, all'inizio sembra un impulso autodistruttivo ma sulla media-lunga distanza ti impedisce di diventare schiavo di un trend o legato a un singolo momento della storia del costume. Il nuovo disco deve assolutamente suonare diverso dalla Voce del padrone, anche se tutto questo tempo per inventarsi cose nuove non c'è e quelle vecchie continuano a vendere e a farsi sentire in radio. Tutto questo sin dai primi subliminali istanti: La voce cominciava con un rumore di onde, L'arca col fruscio del vento nel deserto su cui incombe per un magico istante un suono di fine del mondo, forse un campionamento orchestrale del Fairlight sovrapposto a un coro dei Madrigalisti di Milano. La voce ti sparava subito un 5/4 disorientante: L'arca inchioda l'ascoltatore a un più tetragono 4/4. La voce cominciava col miraggio di un'estate infinita, l'arca con le istantanee notturne di qualcosa di un colpo di Stato: i volontari laici scendevano in pigiama per le scale per aiutare i disertori. Questa non è la Mesopotamia o Atlantide, questo è il colpo di Stato di Jaruzelski del 1981, è cronaca ancora fresca di stampa: qualcosa che i cantautori di quel periodo avevano imparato a rifuggire come la peste perché allontanava sia i clienti moderati che quelli radicali. E malgrado nella terza strofa FB rimescoli le carte cianciando di commercianti punici e di Abissinia, il senso è molto più chiaro del solito ed è ribadito alla quarta stanza: la Cina era lontana, l'entusiasmo per il movimento operaio non è più sostenibile, il comunismo ha smarrito la sua spinta propulsiva, se non nell'economia almeno nell'immaginario. Questo nel 1982 non era poi così facile da accettare: qualche anno prima Battisti si era guadagnato una nomea di cantante di destra per molto meno. La stessa nomea, puntualmente, piombò su FB, che da un punto di vista ideologico sembrava già compromesso: un lettore di Gurdjieff e Guenon, un frequentatore di Calasso, nel 1982 non poteva che appartenere alla "nuova destra". Forse anche per questo motivo l'Arca incassò molto meno, e se oggi Radio Varsavia sembra una canzone molto meno ambigua, ed è una delle sue più apprezzate (su Spotify è la nona canzone di Battiato più ascoltata in assoluto) è perché abbiamo accettato che il comunismo reale negli anni '80 era davvero una grondaia arrugginita pronta a cadere di schianto, inoltre abbiamo fatto la pace con le ambiguità ideologiche dei cantautori, e soprattutto un certo modo di abbellire le canzoni evocando souvenir delle ideologie del passato dopo Radio Varsavia ha fatto scuola: nello stesso 1982 dell'Arca di Noè compare in qualche negozio di dischi un oggetto strano, non si capisce se il gruppo si chiama CCCP o Fedeli alla linea. 


1983: Gente in progresso  (musica di Battiato e G. Pio, #120) 

Secondo Giulia Cavaliere, Orizzonti perduti è "l’album più profondamente milanese della storia della musica italiana" e io le credo. È senz'altro un disco sospeso tra sede e fuorisede, tra "il nord" e "giù", un presente frenetico e un passato idealizzato. Alla pendolarità geografica corrisponde quella stagionale e non è un caso che Gente in progresso, la canzone più milanese del mazzo, cominci in settembre e finisca in primavera: è il calendario della gente "che lavora per avere un mese all'anno di ferie". Il mantra Hare Krishna che spunta tra un ritornello e la strofa non sconfigge quella sensazione asettica, ambulatoriale, evocata dall'arrangiamento elettronico: più di un canto di liberazione sembra la litania di qualcuno che "nelle fabbriche, nei negozi, dietro a scrivanie" cerca di lenire l'alienazione con la meditazione. In tanti altri momenti della carriera di Battiato, Gente in progresso sarebbe diventato un classico. Ma nell'83/84 non fa nemmeno uscire un singolo, e poi comunque in tv vanno i videoclip della Stagione dell'amore e di Mal d'Africa. Negletta anche dalle scalette dei concerti, Gente in progresso resta uno dei migliori risultati del Battiato elettropop che riesce a insufflarci una sottile nostalgia anche per quei settembri dolceamari in cui proviamo ogni volta a programmare un anno migliore, prima che la pioggia e la routine prendano il sopravvento.   


1988: Zai saman (#137)

"Come una volta andiamo a visitare la famiglia, guarda com'è grande il ragazzo, guarda la gente come raccoglie i fiori" (traduzione del ritornello). In un disco complessivamente tranquillo e delicato come Fisiognomica (a un certo punto stava per chiamarsi L'Oceano di silenzio), Zai Saman è di gran lunga il momento più frastornante, quello in cui FB si alza dal tappeto di preghiera e ordina agli orchestrali: 1,2,3, casino. Gli orchestrali nel frattempo sono tutti cambiati e Zai Saman è forse il brano in cui più rimpiangiamo i vecchi, perché il nuovo casino non ha la brillantezza dei momenti più giocosi di Patriots o dell'Arca, e nemmeno di Mondi lontanissimi. Cambi di tempo, cambi di lingua, cori e chitarre in fiamme (ma i cori non sono più i Madrigalisti e si sente, le chitarre non sono più di Radius e si sente), ogni senso della misura è allegramento abolito e per almeno tre minuti sembriamo di nuovo in presenza del Battiato giocoso e scavezzacollo. Anche il testo non sa bene dove andare: un ricordo del passato, un ricordo dell'amore, o un compianto per la fine dell'occidente? E almeno stavolta lo ammette: sì, l'occidente soffocherà "per ingordigia e assurda sete di potere", ma dall'Oriente non aspettiamoci che "orde di fanatici".

Si vota qui

Comments (2)

12. Non si erano mai viste code tanto grandi, tanto lunghe

Permalink

[Questa è La Gara, questo è un torneo di canzoni di Battiato. Qualcuno ne ha sentito il bisogno. Voi no? Cliccate altrove. Se invece volete votare, si vota qui]. 


1973: Beta (#40) 


Son felice di essere un Beta. Il mio giorno non è duro. Dentro il mare mi posso vestire, dai Gamma e dai Delta farmi ubbidire. Nel Mondo Nuovo Beta sono gli impiegati, il ceto medio che deve convincersi di essere felice (questa cosa che sia in Orwell sia in Huxley lo Stato sia totalitario nella misura in cui mesmerizza il ceto medio meriterebbe un ulteriore approfondimento, ma non è questa la sede). Per questo i Beta vengono condizionati sin dalla culla, anche mediante l'ascolto di nastri registrati che Battiato qui tenta di riprodurre – perché i Beta alla fine sono anche il target della musica leggera anni '70, una massa di sedicenti rivoluzionari che non vedono l'ora di infilarsi nella nicchia di un posto fisso. (Qualche anno più tardi, agli stessi Beta mezzi addormentati Battiato canterà, subdolamente: sei un essere speciale e io avrò cura di te). È interessante che la prima volta che Battiato mette per iscritto un mantra, questo consista in una serie di frasi mistificanti. Poi parte una improvvisazione intorno al tema di Areknames, con basso batteria e pianoforte e Battiato che fa versi inquietanti con l'eco, una cosa che potrebbe veramente stare in Ummagamma e nessuno noterebbe una grande differenza – nessuno è previsto che rimanga sveglio mentre ascolta Ummagamma e forse anche Beta era concepito da Battiato per addormentarci e continuare a ipnotizzarci subliminalmente. Fino al recitativo finale, una domanda che mi tormenta da ancora prima che l'ascoltassi: "Dentro di me vivono la mia identica vita dei microrganismi che non sanno di appartenere al mio corpo... Io a quale corpo appartengo?"


1982: L'esodo (testo di Tommaso Tramonti (Henri Thomasson) #89)

Fine dell'imperialismo degli invasori russi, e del colonialismo inglese e americano. Dalla prima volta che ho ascoltato quella canzone formarsi all'orizzonte del mio udito (attraverso le pareti che mi separavano dal ghettoblaster di mio cugino), spuntare come dalla nebbia di quell'accordo infinito di synth, L'esodo è stata la mia canzone. Di fini del mondo Battiato ne ha scritte tante, ma questa è la più precisa e contingente, questo è come il mondo potrebbe davvero finire: non con un bang ma con una coda immensa (moltitudini, moltitudini) che si perde nella polvere, nella nebbia, nell'accordo dell'armageddon. I madrigalisti di Milano sembrano sospesi sull'arrangiamento come gli angeli dell'apocalisse in un angolo del quadro. Mamma mia che festa. Mantengo la mia posizione: L'arca di Noè è il più grande disco di Franco Battiato. Non che questo avrà importanza, nel giorno della fine.


1996: Serial Killer (#168)

No non voglio farti del male, fratello mio, non credere perché ho un coltello in mano e tu mi vedi quest'arma a tracolla e le bombe che pendono dal mio vestito come bizzarri ornamenti, collane di scomparse tribù. Non avere paura perché porto il coltello tra i denti e agito il fucile come emblema virile. Non avere paura della mia trentotto che porto qui sul petto... Allora, Sgalambro, questo è ridicolo. Cioè lo so dove vuoi andare a parare, lo capisco, posso anche apprezzare l'idea complessiva, il finalino a sorpresa e a morale (Di questo invece devi avere paura: io sono un uomo come te), però questo personaggio di sogno col coltello, e le bombe che pendono, e il coltello tra i denti, e il fucile, se uno ha una fantasia un minimo visiva come se lo deve immaginare, se non come un bozzetto di Andrea Pazienza, ma di quelli disegnati col pennarello grosso per farsi una risata? Io veramente non ci riesco, non riesco a prenderti sul serio, e nemmeno a ridere quando scherzi, e tutti questi tuoi rimandi culturali che servono a far capire che non sei un signor nessuno, che hai studiato, a mettere in soggezione l'ascoltatore, cioè me? Cioè io dovrei nutrire soggezione perché se dici "sogno pomeridiano" soggiungi subito "di un fauno"? Ma per favore: e quel che mi fa più rabbia è che la musica qui c'è, Battiato sembra in forma, si capisce che vuole fare qualcosa di complesso ma popolare, tentare nuove strade ma ascoltabili, aggirare la dittatura contemporanea della dinamica schiacciata, cominciare piano, esplodere e smorzarsi, tutto molto interessante ma non riesco ad ascoltarlo, ti giuro, per vent'anni non sono riuscito ad ascoltare L'imboscata perché le tue poesie sono stuccatissimi specchietti per allodole e io non dico di essere un'aquila, neanche un falco, ma un'allodola no. Quanta musica buona ha buttato via FB cercando di musicare le tue cianfrusaglie, non ti perdonerò mai, non me lo spiegherò mai. Scusate.


2011: Svegliami domani (con Cinzia Fontana #217)

Uno degli episodi meno noti della carriera di Franco Battiato è questo featuring del 2011 con la cantautrice padovana Cinzia Fontana, che per l'occasione sfoggia nelle strofe un timbro rauco che non può ricordare quello di Alice. Più in generale siamo davanti a un caso da scuola di Battiato-exploitation, ovvero di un brano costruito per attirare l'ascoltatore di Battiato, con una serie di stilemi che lo faranno sentire a casa. È uno stratagemma a cui FB si presta con generosità ma la canzone ha comunque qualcosa che non va – un evidente sbilanciamento tra le strofe e il reiteratissimo ritornello. Sono canzoni che vale la pena di osservare, ogni tanto, per capire quant'è difficile ottenere quell'equilibrio che quando ascolti un Battiato sembra sempre così naturale e spontaneo. Dopodiché mi sono già pentito di averla inserita, ho scartato altre canzoni molto più battiatesche (anche se non attribuite ufficialmente a lui: niente Osage Tribe, niente Genco Puro); ho scartato Joe Patti perché pur essendo un esperimento interessante è troppo spesso un doppione di cose che Battiato aveva già fatto; ho scartato cose anche pregevoli che davvero era impossibile considerare canzoni: tutto Gilgamesh, tutta la Genesi, la Messa Arcaica, tutto Cellini, tutto Telesio, e però mi sono tenuto Campi magnetici e Juke Box e l'Egitto dopo le sabbie, perché? Non c'è un vero perché, bisognava arrivare a 256 pezzi, qualcosa è entrato qualcosa no. Svegliami domani non doveva entrare, siamo d'accordo, ma era su Spotify e se l'avessi tolta avrei dovuto ricalcolare le ultime 40 posizioni, rifare tutti i gironi, insomma è andata così. Tanto il turno non lo passa, no?

Si vota qui

Comments (4)

11. Passano gli anni, i treni, i topi per le fogne, i pezzi in radio

Permalink

[Questa è sempre La Gara, una competizione di canzoni di Franco Battiato. Oggi abbiamo un jazz sperimentale per chitarra e violino, un rock postmoderno con Eraclito in sottofondo, una canzone d'amore barocca e un tappeto di suoni elettronici per un balletto. Poi è vero che certe volte Battiato dava la sensazione di ripetersi un po', però insomma, ecco, dai]. 

Si vota qui

1972: Cariocinesi (#153)

Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con un violino in evidenza, e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.

1996: Di passaggio (con Manlio Sgalambro, #104)

Passa la gioventù, non te ne fare un vanto. Devo confessare di avere ingiustamente detestato Di passaggio quando uscì, per un motivo abbastanza sciocco, ovvero quella citazione di Eraclito piazzata lì da Sgalambro con la mano leggera di un liceale che cerca un frontespizio ad effetto per la sua tesina di quinta. Quant'ero geloso, no? Battiato aveva sempre ficcato riferimenti culturali di seconda mano nelle sue canzoni, e non ci avevo mai trovato niente di male, avevo sempre pensato che fosse un procedimento ironico. Ma appena compare il vocione di Sgalambro, l'alibi dell'ironia sembra crollare. A riascoltarla Di passaggio è una canzone trascinante, soprattutto grazie all'epica chitarra di David Rhodes, che conferisce una credibilità rock a un riff che grida: ouverture! (davvero, immaginatelo orchestrato per violini). Il ritornello spostato di un semitono ("Siamo solo di passaggio") ci ricorda che sotto a tutto questo rock'n'roll c'è sempre il tappeto di preghiera di un guru: Di passaggio è una delle sue prime meditazioni sulla caducità dell'esistenza (ne seguiranno molte altre negli anni a venire).  

1999: La canzone dell'amore perduto (Fabrizio De André, Georg Philipp Telemann, #25) 

Ricordi? Sbocciavano le viole. La canzone dell'amore perduto sembra fatta apposta per Fleurs – e questo magari è un suo limite, in una raccolta che funziona in parte anche grazie all'effetto sorpresa. In ognuno di queste canzoni, Battiato cerca qualcosa di fuori del tempo, la classicità: ma è più curioso vederlo mentre le trova in brani del repertorio pop o rock piuttosto che in una canzone che alla musica classica si rifaceva già in partenza. E in effetti qui la cura di Battiato sta nell'attenuare per quanto possibile il riferimento barocco dell'originale (l'originale era arrangiato da Gian Piero Reverberi, che più tardi avrebbe inventato il Rondò Veneziano, ovvero un altro esempio di commistione tra musica classica e pop che partì proprio nello stesso periodo in cui Battiato portava il violino di Giusto Pio in classifica, e che non poteva non avere presente, se non altro per scansarlo come la peste).   

2000: La corrente delle stelle (#232)

Campi Magnetici è un'uscita di Battiato che potreste esservi persi. Secondo Onda Rock è il suo "lavoro più inascoltabile", giudizio apparentemente ingeneroso se si pensa a quante cose davvero poco ascoltabili aveva realizzato nel suo periodo più oltranzista. Non solo Campi Magnetici non è una tortura per l'orecchio come Oriental Effects o Juke-box, ma in queste sere afose lo sto ascoltando più volentieri dei suoi dischi cantautorali dello stesso periodo: non dico sia migliore di Gommalacca o Ferro battuto, ma mi imbarazza meno tenerlo acceso mentre faccio altre cose. Il che ci pone più di un problema: è ancora musica d'avanguardia se la fruisco come muzak di sottofondo? E cosa è successo alle mie orecchie, quale bomba sonora li ha devastati nella jungla triphoppara degli anni Novanta perché esse possano trovare rassicurante un collage di suoni e rumori inquietanti? 

Si vota qui

Comments (1)

10. E cominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti

Permalink
[Non vorrei che pensaste che questo non è l'ennesimo episodio della Gara, un torneo di canzoni di Battiato, oggi tutte comprese in 12 intensi anni in cui Battiato ha cantato qualsiasi cosa, da Fleur Jaggey a Salvatore Di Giacomo al rai]. 



1993: Atlantide (testo di Carlotta Wieck, #72)

 
"Il suo re Atlante conosceva la dottrina della sfera gli astri la geometria, la cabala e l'alchimia". Cos'è questa roba? Di solito Fleur Jaeggy non si vergognava a prestare le sue liriche a Battiato, firmandole col suo vero nome (sì, Fleur Calasso Jaeggy è il suo vero nome). Il fatto che stavolta preferisca nascondersi dietro uno pseudonimo non promette molto bene, e in effetti il testo di Atlantide è poco più di una finta leggenda – se mi ricorda la caduta di Numenor è perché ho più dimestichezza con Tolkien che con altri pompierismi di area Adelphi. Però insomma questi Dei che si dividono il mondo, queste kitschissime cabale e alchimie mi ricordano inevitabilmente quel pezzo di Labranca su Calasso e il suo mondo: "Vede, vuole fare il raffinato e poi cade nella trappola del peggior Barocco brianzolo. Angeli, sindoni, mercuri alati… bleah. Prima o poi rischierà di scegliere qualche pagliaccio triste o qualche marina di Camogli all’alba". Anche a Battiato alla fine è capitato qualcosa del genere, che di raffinatezza in raffinatezza si è ritrovato a cantare canzonette da pianobar (ed è comunque un motivo per cui lo amiamo, avercene di pianobaristi come lui). Musicalmente Atlantide è meno banale ma non così memorabile: per sua ammissione c'è un po' di Stockhausen, un coro armeno, un soprano bulgaro "tutto mischiato insieme".   


 1999: Era de maggio (#57)



Battiato nella sua vita da performer non è che si sia tirato indietro. Ha suonato ai festival di Re Nudo, tenendo una nota sola per minuti e minuti in mezzo ai freak, ha suonato in Iraq e all'Eurovision ma se dovessi dire la cosa più coraggiosa che gli è capitato di fare, secondo me ha duettato in tv con Massimo Ranieri. E non una canzone qualsiasi, ma un classico della canzone napoletana, Era de maggio, già incisa in Fleurs. Il duetto in sé va come era prevedibile che andasse: Battiato non era nemmeno troppo in forma e Ranieri appena entra lo distrugge, che altro può fare Massimo Ranieri? Ma il contrasto può servire per farci capire cosa stava cercando di fare in Fleurs: essiccare le canzoni, strapparle al loro contesto specifico e metterle sotto vetro; nel caso di Era de maggio denapoletanizzarle, eliminando quell'enfasi teatrale che ha senso quando una canzone deve difendersi nei vichi, ma che rischia di distrarci dalla pura bellezza di un testo e una musica, che io in effetti senza Battiato probabilmente non avrei ascoltato. È in effetti lo stesso procedimento che porta Battiato a cantare Lied con la sua voce educata ma non impostata: i puristi non ci troveranno niente di interessante; chi non si era mai interessato scopre un mondo. 

2001: Personalità empirica (#185)

 

Quando non coincide più l'immagine che hai dite con quello che realmente sei. Prendiamo, non lo so, Personalità empirica: parte la drum machine e poi in una botta un Ciaikovskij da pianobar, i vocalizzi moreschi di Natacha Atlas e Sgalambro che sgalambra pensoso in sottofondo e in francese. E tutto questo in qualche modo suona credibile, suona Battiato, ma forse questo è proprio il problema: ormai possiamo aspettarci di tutto, se la seconda strofa la cantasse il Gatto Silvestro o Jim Kerr per noi sarebbe uguale, sarebbe comunque tipico Battiato. Se a partire da Clic il giovane B. aveva iniziato a constatare l'impossibilità di fare musica, a tagliarsi tutti i ponti alle spalle e a ritrovarsi davanti solo il Silenzio del rumore, un quarto di secolo dopo il problema è l'inverso: pezzo dopo pezzo, esperimento dopo esperimento, Battiato ormai si è creato un mondo in cui può fare letteralmente tutto quello che gli passa per la testa, un universo di possibilità: e paradossalmente è proprio questa possibilità infinita a non consentirgli più di evadere da sé stesso, perché tutto quello che tocca diventa comunque Battiato, un brand inconfondibile, una gabbia di ferro battuto. Sgalambro dice che vorrebbe abbandonare la propria personalità e lo capiamo, succede a tutti di non sopportare più le persone con cui si vive, succede anche a chi vive da solo e forse più spesso. Gli anni Zero sono stati disorientanti per tutti: tutto era diventato immediatamente disponibile, la musica del passato parcellizzata in mp3 suonava più smagliante che mai e anche campionarla non richiedeva più nessuna particolare abilità o gusto. Battiato può fare quello che vuole e quindi non sa più cosa fare: il rischio di farsi il verso da solo è fortissimo e lui lo vede pure, ma non può farci niente. 

2004: 23 coppie di cromosomi (#200)



L'inflazione che caccia nelle mani dell'individuo, in un gesto solo, miliardi di marchi, lasciandolo più
miserabile di prima, dimostra punto per punto che il denaro è un'allucinazione collettiva. Trent'anni e più dopo Sirena, Battiato e Maurizio Arcieri si ritrovano per Dieci stratagemmi: sono entrambi molto cambiati. Le loro collaborazioni in questo disco del 2004 non riescono a scrollarsi di dosso una sensazione di déja vu, come se per entrambi la priorità fosse mantenere una propria riconoscibilità: per esempio 23 coppie di cromosomi è un brano perlopiù elettronico che suonerebbe per qualche motivo un po' più Chrisma che Battiato (forse saranno i quattro quarti ben scanditi), non fosse per gli sgalambrismi declamati dallo stesso Battiato al microfono, che richiamano immediatamente Campi magnetici, o purtroppo ci fanno sentire quanto poco sia necessario riproporre tutto questo dopo l'exploit di Campi magnetici.

Comments

9. Ne abbiamo avute di occasioni, perdendole

Permalink
[Benvenute e benvenuti alla Gara, questa interminabile competizione di canzoni di Battiato, con quattro tioli da quattro decenni diversi]

Si vota qui  

1967: Le reazioni (#249)


Il lato B del singolo La torre, con cui il giovane Battiato si getta nella mischia del mercato musicale, forte di un contratto con la Jolly e di un amico in paradiso come Giorgio Gaber. È una delle prime canzoni di cui Battiato scrive testi e musiche (anche se alla Siae non risulta perché non era ancora iscritto), ma la sensazione è che più dei testi e delle musiche – non troppo memorabili – gli interessi costruire un personaggio, un ragazzo tormentato e scostante che vive l'amore come un'esperienza destabilizzante e forse preferirebbe farne a meno. Tutto questo non è soltanto autobiografico e anticipatore di tanta poetica battiatesca nei decenni a venire, ma nei secondi anni Sessanta si sposa a un'estetica esistenzialista che forse non era la più apprezzata dai giovani acquirenti di dischi, ma un suo mercato lo aveva: il campione di questo mood era Luigi Tenco, che proprio nel 1967 aveva deciso di chiamarsi fuori nel modo più assurdo possibile. Battiato ripartirebbe da lì, con arrangiamenti più aggiornati alle novità del rock inglese (non ho capito se c'è già Logiri alla chitarra, ma qualcuno comunque deve aver ascoltato se non Jimi Hendrix almeno gli Yardbirds). Il tutto ovviamente solo nel caso che al pubblico questo Giovane Arrabbiato piacesse, il che non accadde, anche se è difficile capire il motivo: quel che è sicuro è che persino Battiato accettò di ripiegare su tematiche più amorose e meno arrabbiate. 

1974: No U Turn (#136)


“Uomini di una certa età che la sera vanno in cerca di affetto nei parchi. Soffrono ansie e paure per false morali e ai loro figli le insegnano uguali. Egregio signor ministro, sei sicuro che i tuoi problemi sono uguali ai miei? Io so che la vita come nasce muore. A che ti serve l’abuso del potere?” Queste parole nascoste canta Battiato nella prima parte di No U Turn: un embrione di canzone che nel 1974 suonava ai concerti e che in Clic è incisa a rovescio: contiene, come si vede, due immagini che torneranno più volte nella sua produzione successiva: gli uomini che cercano l'amore nei parchi e gli "abusi di potere". Nella seconda parte, la prima seria introspezione della sua carriera, la confessione di una crisi esistenziale: "Per conoscere me e le mie verità io ho combattuto fantasmi di angosce con perdite di io. Per distruggere vecchie realtà ho galleggiato su mari di irrazionalità. Ho dormito per non morire buttando i miei miti di carta su cieli di schizofrenia". No U Turn è l'unica vera "canzone" di quel difficile lavoro che è il disco del 1974, Clic, e sarà l'ultima cantata da Battiato prima dell'Era del cinghiale bianco, cinque anni dopo. Di tutti i cavalli di battaglia del periodo Bla-Bla, è quella che si fa più fatica a catalogare: manca il riff orecchiabile di Areknames, manca l'incanto sospeso di Sequenze e frequenze, ma in generale tutte le concessioni all'orecchiabilità strappate con Aries sono qui rinnegate. Del resto non si torna indietro, No U Turn vuol dire questo (oppure vuol dire: non rovesciate il nastro, ahi, troppo tardi).

1983: La stagione dell'amore (#8)
 
I desideri non invecchiano quasi mai con l'età (quel "quasi" l'ho sempre trovato tremendo). Cosa ci si aspetta da un cantante pop, cosa deve fare se non soffrire con noi, farci capire che ha perso le stesse occasioni che abbiamo perduto noi, e ricordarci che comunque ci sarà sempre un altro entusiasmo che ci farà pulsare il cuore? Sulla carta, La stagione dell'amore è la canzone pop perfetta, non c'è una parola di troppo (forse quel "quasi"). Lo è anche dal vivo: è una di quelle manciate di canzoni che da subito il pubblico cominciò a cantare all'unisono, l'Albachiara di FB. Quanto alla versione da studio, riascoltarla è sempre un lieve choc, dato che tutta la distanza ironica che Battiato nel 1983 voleva mettere tra sé e la popstar che il pubblico vedeva in lui sta nell'arrangiamento elettronico, volutamente minimale e asettico, che già al tempo lasciava perplessi e oggi suona proprio pacchiano. Lo si capisce meglio dal video, dove FB ci delizia con una delle sue danze goffe che chiariscono che almeno per i discografici lui era il David Byrne italiano e ci si aspettava che facesse il matto più o meno nello stesso modo. Quei due sciocchi accordi in levare del Roland che ci perseguitano per tutta la canzone sono il messaggio di un artista sequestrato: aiutatemi, lo capite che io non voglio veramente cantare questa roba, che è tutta una farsa, sì? La EMI mi tiene prigioniero, fate qualcosa, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso. Dieci anni dopo, nel live Unprotected, l'arrangiamento originale è completamente sconfessato: La stagione è diventato un Lied per orchestra. Altri dieci anni dopo, in Last Summer Dance (2003) finalmente ascoltiamo il pubblico cantare con Battiato dal primo all'ultimo verso. È sparita l'ironia, è sparito il postmoderno, è abbastanza sparita anche la necessità di nobilitare il brano con un'orchestrazione da camera. Quel che è rimasto è il capolavoro pop di un grande maestro e cantautore. Quindi è successo: qualcuno è riuscito a uscire vivo dagli anni Ottanta. Buon per lui.  

2002: Se mai (musica di Charlie Chaplin! testo in italiano di Calabrese, Gramitto Ricci, #121)

Quando approda nel canzoniere battiatesco, Se mai ha già avuto diverse vite. La musica è tra quelle che il regista Charlie Chaplin nella sua vasca da bagno canticchia al giovane collaboratore David Raksin, incaricato di trasformarla in uno score per il finale del suo film del 1936. Siccome il film è Tempi moderni, potrebbe anche averci messo il becco l'arrangiatore Alfred Newman, col quale però in quel periodo Chaplin stava litigando e alla fine nei titoli l'unico autore delle musiche risulta lui. Chaplin non è che avesse molte velleità da compositore, il che è ben strano, perché se sei il tipo di persona che si inventa un motivetto come Smile nella vasca forse a una carriera musicale ci dovresti pensare, d'accordo che sei già un grande regista e attore ma insomma da quel momento non abbiamo più smesso di canticchiare lo stesso motivetto, che vent'anni più tardi diventa una canzone confidenziale per Nat King Cole, con un testo in inglese che si ispira proprio allo struggente finale di Tempi Moderni: sei rimasta senza casa e previdenza sociale? Non hai prospettive e l'unico a darti una mano è un vagabondo matto? Vabbe', sorridi, stringi i denti e guarda l'avvenire. Ok. In Italia il brano non è ben chiaro quando sbarchi (forse già all'altezza di Bruno Martino, ma non ho prove), in realtà lo conosciamo già perché oltre ad aver visto e rivisto Tempi moderni in qualsiasi cinema parrocchiale, il tema era diventato ubiquo in radio e più tardi in tv. La versione che si fa notare è molto tarda, addirittura del 1967 e interpretata da Nicola Di Bari con quel furore soul che avevano certi interpreti italiani del periodo, in un tentativo interessante di svecchiare il brano che però fa un po' a pugni col ritmo del brano stesso. Il testo non c'entra quasi più nulla con l'originale (che poi originale non era), perché un paroliere, dovendo tradurre "Smile", ha deciso che quello che gli interessava davvero era il suono di quella S impura e ha optato per un "Se mai" che peraltro era anche già il titolo di un brano di Adamo (cantante che Battiato coverizza nello stesso disco), mettendo il dito su una delle più insanabili piaghe del parolismo italiano, ovvero l'inflazione di rime in -ai, comode ma come dire, tutti questi sai e dai e casomai oramai erano già un po' banali prima che Mogol li rendesse obbligatori. Trentacinque anni dopo, cosa vuole fare Battiato con questa canzone? Un omaggio a Chaplin o a Nat King Cole, o vuole emendare la foga fuori luogo di Nicola Di Bari? Quest'ultima in effetti è completamente cancellata, ma se state attenti credo che potreste sentire che Battiato attacca come attacca lui, in anticipo – salmodiando invece che vocalizzando, ma è la sua versione che ha in mente, non quella americana. E siccome aveva ragione quello scrittore che diceva che la vita è più simile alle canzonette che alla musica seria, il goffo testo italiano di Se mai mette a fuoco come pochi una certa poetica della distanza sentimentale che è quella che a Battiato interessa: anche se / c'è da troppo tempo ormai / il silenzio tra di noi / io ti penso ancora (sai).

Comments (1)

8. L'Etica è una vittima incosciente della Storia...

Permalink
[Questa, se vi eravate distratti, è La Gara: una competizione senza senso tra (quasi) tutte le canzoni di Franco Battiato. Stavolta c'è un invito pop-rock alla terza guerra mondiale, un brano scritto per Gianni Morandi, un Lied di Wagner, un quartetto di Haydn. Ma se si impegnava sapeva fare anche cose più diverse].

Si vota qui

1980: Venezia-Istanbul (#48)


...Ieri ho visto due [uomini(*)] che si tenevano abbracciati in un cinemino di periferia... e penso a come cambia in fretta la morale: un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani. Ave Maria. Io poi mi sono sempre chiesto: ma non sarà un po' colpa di Battiato se sono poi cresciuto così, il germe del relativismo culturale non me l'avrà installato lui mentre cercava semplicemente di infilare qualche intellettualismo in una canzone pop, ché in quegli anni queste cose funzionavano? Ho trovato questo spezzone di programma tv (discoring?) in cui Battiato in giacca grigia la canta ieratico come il mosaico bizantino da cui sembra essere stato staccato a forza. Merita di essere visto per capire quanto potesse sembrare appena arrivato da un altro pianeta, da un pubblico che applaude il pianista quando partono chitarra e batteria, e soprattutto per quel secondo di completo imbarazzo dopo l'ultimo distico: E perché il sol dell'avvenire splenda ancora sulla terra facciamo un po' di largo con un'altra guerra. Era qui che bisognava applaudire, ma ci mettono un po' ad accettarlo. Venezia-Istanbul è meno famosa di Prospettiva Nevskij o Up Patriots, ma è il vero nucleo di quella pazza cometa che fu Patriots: una musica che combina assieme Lied e rock con disinvoltura, una lirica che è un capolavoro di Taglia e Incolla, uno dei rari casi in cui si avvera la profezia di Tristan Tzara: la lirica dadaista ottenuta estraendo ritagli di parole da un sacchetto "vi rassomiglierà". In questo caso Battiato mescola luoghi comuni del giornalese e del culturese ("D'Annunzio montò a cavallo con fanatismo futurista"), ancora intercettazioni radiofoniche ("una punta attacca verticalizzando l'area di rigore"), e appunti sparsi su Socrate e la Storia. Se è un gioco, è uno dei più sofisticati che FB abbia giocato. 

(*) sullo spartito c'è proprio scritto "uomini" tra parentesi, me lo ricordo benissimo, ce l'aveva mio cugino. 


1988: Mesopotamia (#81)

 

Nella discografia battiatese Mesopotamia rappresenta un unicum per vari motivi: è (credo) l'unica canzone incisa in spagnolo prima che in italiano (compare nella versione spagnola di Fisiognomica), ed è forse il solo caso in cui per capire esattamente che canzone avesse in testa bisogna proprio ascoltarlo cantare in spagnolo: quella incisa in italiano in Giubbe rosse è una buona versione live, ma la chitarra nel ritornello smarmella un po' la complessità ritmica del brano. Ah, e stavo dimenticando: è la canzone di Battiato che Gianni Morandi ha inciso in italiano prima di Battiato, sempre nel 1988 col titolo Cosa resterà di me e senza più i riferimenti ai tre fari della scostanza battiatesca, Majorana Landolfi e Benedetti Michelangeli, perché per quanto l'interpretazione di Morandi sia credibile, davvero quei tre nomi in bocca a lui sarebbero suonati strani. Al loro posto Battiato o chi per lui decide di farcire la canzone con quei due etti di battuto di lardo emiliano, "Mi piacciono le scelte passionali, quella saggezza pratica che si tramanda il popolo... quell'atmosfera che ritrovo ritornando qui in Emilia, figlio di un pensiero rosso e partigiano". Tutto questo succedeva in effetti in un disco veramente patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, quel Dalla Morandi che costituisce quindi il momento di massima vicinanza tra i due grandi innovatori della stagione più creativa della canzone d'autore in Italia: la stagione è il 1978-1984, i due innovatori sono (ovviamente) Battiato e Dalla, e il fatto che nemmeno l'uomo più conciliante dell'universo, Gianni Morandi, sia riuscito a farli lavorare assieme lascia capire quanto una collaborazione del genere fosse una specie di impossibilità fisica: i due si stimavano, addirittura a Milo divennero vicini di casa, ma non hanno mai pensato di incidere niente assieme. Forse l'universo sarebbe collassato. Forse più semplicemente sapevano che il risultato sarebbe stato deludente.  


1991: Schmerzen (Richard Wagner, Mathilde Wesendonck #176)

 

Come allora potrei lamentarmi: come, mio cuore, avvertirti pesante, se il sole stesso deve disperare, se anche a lui tocca tramontare? A cavallo tra Ottanta e Novanta, Battiato ha già più volte annunciato il suo ritiro dalla musica leggera. La sua scelta di completare il disco del 1991 con quattro Lied sembra confermare la decisione di astrarsi dalla contemporaneità musicale. E però guarda come è diabolico lo Zeitgeist: proprio in quello stesso 1991 Luciano Pavarotti collabora per la prima volta con un artista pop, Zucchero Fornaciari, onorando con la sua corpulenta voce il singolo Miserere. Mentre Pavarotti tenta di trovare una credibilità pop per la sua voce lirica (con risultati detestabili), Battiato va nella direzione inversa e decide di incidere dei Lied con la sua voce microfonata. Suppongo che per chi ha una cultura musicale classica si tratti di una mossa ancora più assurda di Pavarotti (che almeno distrugge il pop, non i classici del romanticismo). E però si vede che questa esigenza di mescolare ciò che era (considerato) Alto a ciò che era (considerato) Basso era sentita a entrambi i livelli – si sentiva che il mercato era pronto per un artista che unisse i due mondi e che presto si sarebbe incarnato in quel cantante di servizio che aveva inciso la prova di Miserere per farla sentire a Pavarotti, un tale Andrea Bocelli. E comunque dai, meglio un Lied cantato da Battiato che un intermezzo pavarottiano o bocelliano in un brano pop. Cioè è una bella lotta ma vince FB, dai.



1995: Un vecchio cameriere (testo di Battiato e Sgalambro, #209)


Un giorno amò: ora si fa il bucato, sognando il re che sarebbe stato. Battiato, lo abbiamo visto, per tutta la sua carriera non ha mai disdegnato di attingere al repertorio classico. Per affetto o per dileggio, con citazioni vistose o sotterranee, e in altri casi interpretazioni rigorose: le ha provate tutte ma fino al 1995 non si era mai spinto all'estremo di Un vecchio cameriere, che è copiato di pacca dall'Adagio del Quartetto per archi op. 64 n. 5 di Haydn: al punto che viene il sospetto che il testo di Sgalambro, qua e là perfino comprensibile, non sia che una serie di parole messe assieme con lo scopo di trasformare l'Adagio in una canzone. Il risultato lascia un po' perplessi, ma devo ammettere che è l'unico pezzo di Haydn che mi è rimasto in testa: come se il trucco per farmi capire e ricordare un po' di musica decente fosse registrarci sopra una lirica confusa sull'assurdità dell'esistenza. E chissà quante altre volte Battiato ha fatto lo stesso trucchetto senza avvertirci, chissà quanta musica del passato ha contrabbandato nei suoi dischi senza il minimo sospetto da parte dei critici musicali (vabbe' quella è gente convinta che l'intervallo di quinta sia il momento in cui i bambini dalle aule si riversano in cortile). 

Comments (2)
See Older Posts ...